danaro (denaro; nel Fiore, al singolare, danaio, con l'unica eccezione di CLX 3 che tu per suo danar non ti consenti)
Parola di scarsa frequenza, tranne che nel Fiore, ove ricorre nove volte.
Nella Commedia il vocabolo appare in due unici casi, ambedue nell'Inferno e ambedue nel contesto della bolgia dei barattieri. Il d. è sempre qualcosa di vile (secondo la tradizione evangelica e medievale) e corrompe tutti coloro che ne sono avidi: prima di tutti i mercanti, come a Lucca ove del no, per li denar... si fa ita (If XXI 42); poi i letterati, i quali, se aspirano ad esso, non possono essere propriamente detti letterati, però che non acquistano la lettera per lo suo uso, ma in quanto per quella guadagnano denari [danari, nella '21] o dignitate (Cv I IX 3); poi ancora i nobili, che divengono prepotenti e rapaci, commettono ingiustizie, e spendono malamente ciò che hanno malamente acquistato: disertate vedove e pupilli ... rapite a li men possenti... furate e occupate l'altrui ragioni; e di quelle corredate conviti, donate cavalli e arme, robe e denari, portate le mirabili vestimenta... e credetevi larghezza fare (Cv IV XXVII 13). Corrompe infine gli ecclesiastici, come frate Gomita, il quale danar si tolse e lasciolli [i nemici del suo signore] di piano (If XXII 85). Per quanto riguarda la Chiesa e la corruzione che regna sotto il pontificato di Bonifacio VIII, cfr. Pd XXVII 40 ss., dove tuttavia a s. Pietro vien fatta pronunciare la parola oro, forse più adatta di d. al contesto solenne dell'invettiva.
Nel Fiore appare assente il senso profondamente dispregiativo delle opere canoniche di Dante. Essa infatti è nel poemetto usata come puro e semplice sinonimo di " moneta ", " soldo " e addirittura, in senso più o meno positivo, di " risparmio " (CLIX 1 Buon accontar fa uom ch'abbia danari, cioè " è bene stringere amicizia con un uomo che abbia molti risparmi ", se non è avaro; cfr. Petronio). Altre occorrenze del Fiore: CVIII 3 e 5, CXVIII 1,CLX 3, CLXXVII 13, CLXXVIII 7, CXCII 3, CXCV 7.