CATTANEO, Danese
Figlio di Michele, mercante, e di Gentile degli Alberti, originari di Colonnata nelle Alpi Apuane, il luogo di nascita è incerto: il Vasari lo dice nato a Carrara, mentre secondo il Campori (1873) nacque a Colonnata. Incerta e anche la data della sua nascita: stando però alle notizie biografiche accluse al codice Chigiano I, VI, 239 (Biblioteca Apostolica Vaticana) e molto probabilmente scritte dal nipote Nicolò, il C. (che tra l'altro vi è detto "da Venezia") sarebbe morto (nel 1572) "di anni 60" e sarebbe perciò nato nel 1512.
Secondo il Vasari "anco piccol fanciullo... stette" con il Sansovino a Venezia, ma, dato che il Sansovino si stabilì a Venezia nel 1527, e che il C. era a Roma durante il Sacco (fu pure imprigionato), si deve ritenere, come del resto aveva già stabilito il Temanza, che il suo apprendistato presso il Sansovino fosse già avvenuto a Roma. Va notato tuttavia che il codice Chigiano, mentre parla di rapporti di amicizia con il Sansovino e altri personaggi, ricorda come maestri del C. "M.o Guglielmo Fiammengo, ... M.o Francesco Coccio, ... M.0 Paulo Manuzio, ... Robertello, ... e Ligorio".
A Venezia il C. entrò nuovamente nella cerchia del Sansovino. La sua prima prova nell'anno 1530 è un S. Girolamo per la base dell'organo di S. Salvatore, figura che per la dinamica chiaroscurale anticipa le soluzioni pittoriche degli scultori del pieno Cinquecento veneto, differenziandosi decisamente dal forbito S. Lorenzo scolpito a riscontro da Iacopo Fantoni.
Nel 1533 il C. risulta per la prima volta a Padova impegnato con Tiziano Minio, Ottaviano e Provolo Falconetto e un "Silvio fiorentino",identificato con il Cosini, nella decorazione a stucco della volta interna della cappella di S. Antonio nella basilica del Santo (Gonzati, I, doc. LXXXIX). Vi rimase a lungo e successivamente passò a Venezia, dove ebbe larga parte nelle maggiori opere architettoniche del Sansovino.
Dapprima collaborò con Tiziano Minio e Girolamo Lombardo alla decorazione della loggetta del campanile di S. Marco. Per la fronte del piccolo edificio scolpì(1539-1545)il rilievo di destra raffigurante Venere Ciprica, composizione manieristicamente ricercata e ricca di reminiscenze del soggiorno romano. Allo scorcio del quinto decennio è da assegnare la statua di Apollo come simbolo dell'oro, situata originariamente sulla vera del pozzo al centro del cortile sansoviniano della Zecca, e passata in seguito (1914) a Ca' Pesaro. La statua è la sola eseguita della triplice allegoria ideata dal C. e nella quale dovevano figurare anche i simboli dell'argento e del rame (Vasari, VII, p. 523). In seguito, con Pietro da Salò, Bartolomeo Ammannati e altri, il C. lavorò alle sculture decorative della Libreria Marciana. Nel 1554 i lavori, giunti al sedicesimo arco del prospetto sotto la direzione del Sansovino, si interrompevano per non essere ripresi che nel nono decennio. La collaborazione del C., puntualizzata dal Selvatico (1847) in "molte teste che servono di serraglia agli archi e parecchie fra le figure sdraiate sugli archivolti di quelli",è perciò localizzabile fra lo scorcio del quinto e l'inizio del sesto decennio.
Non trovano invece una precisa collocazione cronologica alcune opere perdute, o a tutt'oggi non individuate, che il Vasari (VII, pp. 522 s.) cita all'inizio dell'attività dello scultore come artista indipendente.
Durante gli anni veneti, probabilmente agevolato in questo senso dalla posizione raggiunta dal Sansovino, divenuto nel 1529 proto della Procuratia de Supra, il C. si dedica largamente alla ritrattistica ufficiale, genere nel quale gli va riconosciuta un profonda incidenza sull'analoga produzione di Alessandro Vittoria e di Francesco Segala. Il primo ritratto a tutt'oggi noto - essendo perduto quello del Duca Alessandro de' Medici ricordato dal Vasari nella vita di A. Lombardi - sarebbe il busto di Prelato del museo di Kiev datato 1544, riconosciuto al C. dal Fiocco (non concordiamo invece con l'attribuzione di un altro ritratto nello stesso museo). Nel 1546 scolpisce - la fonte è una lettera da Venezia del conte di San Secondo a Cosimo I de' Medici (Campori, 1873) - un ritratto (perduto) di Giovanni dalle Bande Nere (sono da ritenere contemporanee tre medaglie ricordate dal Clausse, III, raffiguranti sul recto il condottiero e recanti sul verso un fulmine col motto "Folgore di guerra"; se ne conservano due esemplari nel Victoria and Albert Museum di Londra e nella National Gallery di Washington). Seguono, nel settore della ritrattistica, due fra le più note opere dello scultore: i busti di Pietro Bembo (morto nel 1547) e di Alessandro Contarini (morto nel 1553) nella basilica del Santo a Padova.
Il secondo periodo di attività del C. per la basilica era iniziato nel 1543 con la commissione all'artista toscano (4 aprile) di uno dei cancelli di chiusura delle arcate della cappella del Santo. Il 15 dicembre dello stesso anno egli s'impegnava, con Tiziano Minio, a eseguire i cancelli delle altre quattro arcate, e con un atto del 14 genn. 1544 entrambi garantivano l'esecuzione di tutti i serragli alle condizioni fissate per l'arcata di mezzo (Rigoni). In realtà di cancelli ne fu eseguito uno, e l'opera, che alla morte del Minio (1552) non era ancora compiuta, e non fu mai collocata in situ, è andata perduta (Gonzati, I, doc. LXII). Il Temanza riferisce che nel novembre del 1550 il pretore M. Stefano Tiepolo chiese al riguardo il parere del Sanmicheli e che esso, salvo alcuni suggerimenti, fu favorevole. Del resto quasi negli stessi anni l'architetto veronese e lo scultore toscano collaboravano nel cenotafio del Bembo: nel quale al luminoso nitore classico dell'intelaiatura architettonica corrisponde la sottile e misurata resa chiaroscurale del busto del cardinale, segno dell'adesione di entrambi gli artisti alla cultura dell'umanesimo veneto.
Che il C., già sullo scorcio del quinto decennio, fosse acclimatato nell'ambiente artistico e letterario veneto, è provato, oltre che dalla commissione del ritratto del Bembo, con cui era stato in rapporti di amicizia, da una lettera dell'aprile 1548 con la quale l'Aretino gli chiede di poter vedere l'opera, già ammirata da Tiziano e dal Sansovino, e di poter udire dalla sua viva voce alcune delle sue composizioni poetiche nello stile del Petrarca e di Dante.
Il Rizzoli ha posto la scultura in relazione con una medaglia, raffigurante sul recto il celebre letterato e sul verso Pegaso, simbolo dell'ispirazione poetica (se ne conservano ancora due esemplari al Victoria and Albert Museum di Londra, con la vecchia attribuzione al Cerini). Il busto di Alessandro Contarini, procuratore di S. Marco e comandante della flotta veneziana nella battaglia del golfo d'Arta (1538), è inserito nel suo monumento sepolcrale su disegno del Sanmicheli. In questo caso però l'intelaiatura architettonica, simile a quella di un grande camino, è resa farraginosa dai massicci inserti plastici dovuti ad Alessandro Vittoria, a Pietro da Salò e al padovano Agostino Zotto, sicché il ritratto del defunto, databile tra il 1553, anno della morte del Contarini, e il 1558 (pagamenti al Vittoria e agli altri collaboratori: Gonzati, II, p. 186 n. 2), risalta per la castigatezza del taglio e la pacata luminosità delle superfici. Recentemente l'attribuzione al C., risalente al Vasari e condivisa dalla critica successiva, è stata posta in dubbio da L. Grassi (in G. Vasari, Le Vite...,VI, Milano 1964, pp. 250 n. 3, 251 n. 1) che ha riferito l'opera a Pietro da Salò.
Il sesto decennio è, per lo scultore, un periodo di intensa attività nei maggiori centri del Veneto: a Padova, per la chiesa di S. Giovanni in Verdara, esegue, dppo il 1552, anno della morte del filosofo bassanese Lazzaro Bonamico, il suo busto (Bassano del Grappa, Museo); a Venezia esegue una delle Cariatidi e uno dei Telamoni che ornano i camini della stanza dei tre capi del Consiglio dei dieci e della sala della Bussola in palazzo ducale (1553-54); a Verona, infine, il Consiglio del Comune gli commissiona (21 novembre del 1555) la statua di Girolamo Fracastoro che doveva essere collocata sull'arco della piazza dei Signori sovrastante vicolo delle Fogge (Campori, 1871). Il Planiscig (1921) ha riferito all'artista anche un busto bronzeo, che egli, in via ipotetica, ritiene raffiguri il Fracastoro (Vienna, Kunsthistorisches Museum).
Sono tutte opere che puntualizzano la fisionomia dello scultore nell'ambito della cerchia sansoviniana: così, se il busto del Bonamico scopre al massimo grado, anche per la duttilità della materia - il bronzo - la capacità di un'acuta individuazione ritrattistica sapientemente calibrata tra rigore compositivo toscano e pittoricismo veneto, la cariatide e il telamone per i camini di palazzo ducale rivelano, rispetto alle corrispondenti sculture di Pietro da Salò, una più agile struttura plastica e un modellato più fluido, nei quali è individuabile la matrice sansoviniana - al Sansovino spetta il disegno dei due camini - di un culto dell'antico inteso sostanzialmente come repertorio di soluzioni visive e di motivi formali. Il discorso vale anche per la statua del Fracastoro, reinvenzione della tipologia classica della statua togata. A riferirla al C. fu il Temanza, e successivamente il Campori (D. Cataneo, in Il Buonarroti, VI, giugno 1871, pp. 149 ss.) ne precisò la data, sulla base del documento di allogazione,agli anni 1555-59. Con il busto del Bonamico il Vasari ricorda anche, in S. Giovanni in Verdara, quello del giureconsulto Girolamo Gigante, ma l'attribuzione non ha trovato seguito da parte della critica e oggi non è più verificabile per la perdita dell'opera (Paoletti).
Del 1560 o di poco posteriore è da ritenere, sulla traccia di un sonetto di Celio Magno, una statua di Venero (Campori, 1873), della quale ci sono giunte versioni diverse in alcuni bronzetti custoditi al Museum of Art di Cleveland (Wixom, n. 115), al Kunstgewerbemuseum di Reichenberg (Planiscig, 1921, n. 453), al Kunsthistorisches Museum di Vienna e all'Art Institute di Chicago (Weihrauch, nn. 162, 164: in questa versione alla figura di Venero è aggiunta quella di un Amorino). Il Planiscig (1921, nn. 434 s., 438-40) ha segnalato inoltre la presenza di due modelli, l'uno nella collezione von Prybram a Monaco, l'altro già nella collez. Lanna presso Vienna. In queste versioni le sinuosità della struttura compositiva rivelano una scoperta adesione alla poetica dei manieristi, segno della presenza, più o meno evidente, nella produzione dello scultore, di squisite raffinatezze di ritmo toscane. Non dimentichiamo che i rapporti del C. con la cultura toscana erano rimasti vivi tramite l'amicizia col Vasari per il quale egli fu una delle fonti di informazione più puntuali per la seconda edizione delle Vite. Non a caso nel 1566 il C. fu nominato membro dell'Accademia del disegno (Campori, 1873).
Nel1958 il Fiocco rivendicava al C. il busto del cardinale Gaspare Contarini nella chiesa della Madonna dell'Orto a Venezia. Databile al 1563 circa, anno in cui le spoglie del Contarini furono traslate a Venezia, l'opera, per la contenutezza plastica dell'immagine, concorda con la concisa misura dei ritratti dello scultore toscano, quello del Bembo, ad esempio, più che con il ductus esplicitamente pittorico e con la puntuale individuazione fisionomica dei ritratti di Alessandro Vittoria, al quale era stato attribuito dal Venturi.
L'espressione vasariana "una cappella di marmi ricca e con figure grandi" definisce i caratteri precipui del maestoso complesso plastico-architettonico del monumento a Giano II Fregoso, già doge di Genova e poi capitano generale dell'armata da terra veneziana, in S. Anastasia a Verona.
Esso sintetizza, secondo un uso tipicamente veneto, gli schemi della tomba parietale e dell'altare: "un misto di altare e di deposito", lo definisce non senza acredine il Milizia (1781), "che non è né l'uno né l'altro". La tipologia sanmicheliana del cenotafio del Bembo, al quale il monumento si richiama nella triplice spartizione, appare modificata, in questa versione, sia dal punto di vista dimensionale sia coloristico. Sono queste varianti a far scartare la proposta del Planiscig (1921), che ipotizzava un intervento del Sanmicheli nella progettazione, tanto più che la iscrizione sulla base dice chiaramente che l'opera fu terminata nel 1565 dal C. "sculptore et architecto" (Hiesinger).
Alla serie dei monumenti funerari e commemorativi dell'artista sono da aggiungere altre tre opere veneziane: la tomba del senatore Giovanni Andrea Badoer, morto nel 1566, in S. Giovanni Evangelista, il busto del commendatore e luogotenente del gran maestro della religione di Malta Giustiniano Giustiniani, morto nel 1562, nella chiesa di S. Croce alla Giudecca, già perduto al tempo del Temanza (1778) e la tomba del doge Leonardo Loredan, quasi ultimata nel 1572,in S. Zanipolo.
Della tomba Badoer il Temanza loda l'intelaiatura architettonica e l'urna, ma il giudizio sul busto che la sovrasta, in contrasto con l'epigrafe che lo definisce "mirabiliter ducta effigies",è limitativo. Dal Vasari (VII, p. 523) apprendiamo che il busto del Giustiniani, terminato prima del 1568, non era ancora stato messo in opera (erroneamente indica la chiesa di S. Antonio alla Giudecca per la quale segnala anche, per quanto non ancora posto in loco, il "ritratto" del Tiepolo "tre volte generale" (probabilmente si tratta di Stefano Tiepolo morto nel 1557,difensore di Corfù contro i Turchi). Nel maggio 1572 il C. si avviava ad ultimare, con la collaborazione dell'allievo Girolamo Campagna, la sua ultima opera veneziana: la tomba del doge Leonardo Loredan in S. Zanipolo.
La massiccia intelaiatura architettonica, dovuta a Girolamo Grapiglia, segna lo sviluppo estremo sia in senso plastico sia coloristico della tipologia della tomba parietale veneta. L'intercolunnio centrale, tripartito da lastre di pietra di paragone, accoglie al centro la statua del doge, firmata dal Campagna, e ai lati due figure allegoriche, siglate "D. K.F.",raffiguranti il Potere delle armi della Repubblica e la Lega di Cambrai. Negli intercolunni laterali sono inserite altre due sculture: a sinistra, in corrispondenza del Potere delle armi, l'Abbondanza; a destra, in corrispondenza della Lega di Cambrai, la Pace: solo la prima è firmata per esteso "Danesius Kateneus". Al di sopra e al di sotto sono incastonati quattro rilievi bronzei, autografi del Cattaneo. Se la complessa iconografia del monumento è collegata all'Allegoriadella Lega di Cambrai dipinta da Palma il Giovane a palazzo ducale (Pope-Henessy, 1963), stilisticamente, invece, il grandioso complesso plastico riecheggia, soprattutto nelle sculture laterali e nei rilievi ad esse sottostanti, soluzioni della loggetta sansoviniana.
Pressocché ultimate nel maggio 1572 le sculture del monumento Loredan, il C., in quell'anno ancora residente a Venezia nella parrocchia di S. Pantaleone (Tassini), si recava a Padova, per attendere all'esecuzione dell'ultimo dei bassorilievi della serie dei Miracoli di S. Antonio nella cappella del Santo (S. Antonio richiama in vita un giovane), commissionatogli il 27 dic. 1571(Rigoni). Rimasta allo stato di abbozzo a causa della morte dell'artista, l'opera fu condotta. a termine dal Campagna (Gonzati, I, docc. XCIII, XCIV, XCV; Sartori, pp. 71 s.).
Il C. morì a Padova in una data anteriore al 27 novembre del 1572,secondo quanto attestato dal Rigoni.
Nel testamento del 28 sett. 1572 (Rigoni), il C. fa riferimento ad alcune sue sculture: tra esse una Venere nascente di marmo con un delfino, lasciata alla moglie Maria e tre delle sue statue per il monumento Loredan, del cui valore istituisce erede, con gli altri beni, l'unico figlio. I suoi gessi e i disegni furono lasciati "in segno di amorevolezza" all'allievo Girolamo Campagna.
Il figlio Perseo, nato a Venezia il 30 dic. 1537,ebbe a sua volta un figlio, Nicolò, che fu il raccoglitore dell'opera letteraria del Cattaneo.
Un bilancio della produzione scultorea del C., se da un lato pone in rilievo il sottile accordo da lui operato tra ricercatezze di ritmo di ascendenza toscana e soluzioni pittoriche di estrazione veneta (non a caso egli è il tramite più diretto tra lo stile del Sansovino e quello del trentino Alessandro Vittoria e del padovano Francesco Segala), dall'altro scopre il peso che ebbero in essa i generi del ritratto e del piccolo bronzo.
Per questa produzione comunque esistono ancora molte incertezze attributive. Tra i piccoli bronzi autografi del C. o della sua stretta cerchia, oltre alle opere citate, sono da annoverare la Fortuna, della quale esiste una redazione al Museo nazionale di Firenze assai simile, salvo alcuni attributi, alla Venere del Kunsthistorisches Museum di Vienna; la cosiddetta Venere negra, della quale si conservano esemplari al Louvre, al Metropolitan Museum di New York e altrove, e la Luna, anche essa al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Quest'ultima è stata giustamente posta in relazione dal Pope-Hennessy (1963) con l'omonima scultura ideata dal C. per il pozzo del cortile della Zecca, a Venezia.
Ricordato dal Cicognara, con Alessandro Vittoria, come diffusore della "molta istruzione" portata dal Sansovino a Venezia, il C. fu, in effetti, l'erede più diretto e consapevole dello stile composito dello scultore toscano, che egli sviluppò verso esiti più scopertamente veneti. Che il suo rapporto con il Tatti non fosse semplicemente di discepolato e di collaborazione, ma anche di amicizia, è palese dal suo intervento in difesa del maestro dopo il crollo del soffitto della Libreria Marciana (1545) e dalla menzione del suo nome nel testamento di Francesco Sansovino, figlio dell'artista (29 marzo 1572), che lo nomina esecutore testamentario ed esprime la volontà che il proprio figlio Jacometto lo abbia, durante il periodo degli studi, come guida (Bode-Gronau-Hadeln).
Una delle testimonianze più puntuali dell'affinità del suo stile con quello del Sansovino, e nel contempo del suo distacco da quella matrice, è nel giudizio del Selvatico (1847), che nelle sculture della Libreria rilevava "una maniera di scolpire" quasi "schizzata ed a larghi tocchi". Un giudizio riferito a un particolare tipo di scultura, quella decorativa, ma valido anche per la restante produzione del C., improntata ad una più palese articolazione dinamica e chiaroscurale di quella del Sansovino.
Nella Venezia degli anni Quaranta, con un posto di primo piano nella bottega sansoviniana, il C. entrò a far parte dei circoli culturali della vivacissima città, nei quali strinse amicizia con i personaggi più ragguardevoli, fino ai massimi protagonisti di quella splendida stagione: Tiziano Vecellio e Pietro Aretino. Nell'epistolario aretiniano è uno dei destinatari più frequenti: a lui vengono indirizzati - in una trentina di lettere tra il 1542 e il '54 - elogi, consigli e talora semplici sfoghi. Proprio la prima di queste lettere (3 luglio 1542) costituisce la più antica testimonianza dell'attività letteraria del C., mentre il brano di un'altra (marzo 1545) allude a un poema che l'Aretino esorta a proseguire, e che va identificato, con l'inedita Teseide.
Al 1555 risalirebbe, stando alle dichiarazioni dello stesso C., l'inizio della stesura in ottave dell'Amor di Marfisa, il cui argomento egli aveva già affrontato con il metro dei quaternari: il poema - l'opera letteraria di maggior impegno del C. -, progettato in quaranta canti e intrapreso con l'intento di celebrare Carlo V, venne interrotto alla morte dell'imperatore (1558) e fu ripreso dietro le insistenze di Alberico Cybo Malaspina che il C. si era recato a visitare a Carrara l'anno successivo. Dal maggio del 1559 fino alla fine del '60, e poi ancora nell'estate del '61, il C., che era amico di Bernardo Tasso, ospitò frequentemente il giovanissimo Torquato che aveva raggiunto il padre a Venezia; in tale periodo fu composto il frammento del Gierusalemme (embrione della futura Liberata) e fu concepito e iniziato il precoce Rinaldo, componimenti che recano molte e visibili tracce dell'influsso del Cattaneo. Nel 1562 (a Venezia, presso Francesco de Franceschi) vennero pubblicati i primi tredici canti dell'Amordi Marfisa dedicati al marchese Cybo Malaspina: quale saggio "della fatica... che tuttavia vo facendo" è detto nella dedica, ma il poema resterà incompiuto. Del 10 dicembre dello stesso anno è una lettera con la quale il C. accompagnava l'invio d'una copia dell'opera in dono al duca di Ferrara.
Oltre al citato frammento del poema, delle opere letterarie del C. vennero pubblicati soltanto due sonetti (uno di risposta a Diomede Borghesi, l'altro in lode di Geronima Colonna d'Aragona); una lettera di condoglianza a Luigi Cornaro - datata Venezia 18 luglio 1564 -,inserita in una raccolta epistolare miscellanea, venne stampata nel Settecento. Tre codici Chigiani (oggi alla Biblioteca Vaticana) conservano la produzione manoscritta superstite del C. ordinata dal nipote Nicolò, figlio di Perseo, nelsec. XVII; all'impresa si era dedicato già lo stesso Perseo, come risulta da uno scambio di lettere che egli ebbe con Alberico Cybo Malaspina, il quale gli scriveva desideroso di veder pubblicato nella sua integrità (e cioè in quaranta canti) l'Amordi Marfisa e ribadiva tale voto il 14 giugno 1604, rallegrandosi per il ritrovamento di altre opere ritenute perdute. L'unica stampa del poema risulta essere tuttavia quella dei tredici canti del '62, nonostante le diverse e contrastanti segnalazioni di eruditi quali Crescimbeni, Quadrio e Tosi. Va subito detto comunque che anche nei codici Chigiani il poema appare incompiuto: in uno (L. V. 139) si trovano i tredici canti pubblicati ed è verosimile che si tratti dell'originale approntato per la stampa; un altro (I. VI. 239) contiene gli argomenti in prosa di tutti i quaranta canti seguiti dal testo dei primi ventiquattro e dall'avvertimento che gli altri sedici sono andati perduti, presenta una grafia seicentesca e include fogli di mano anteriore ed anche fogli stampati dell'edizione del '62: la differente successione degli episodi rispetto a quest'ultima e un certo disordine nell'intreccio suggeriscono però il sospetto che ci si trovi di fronte a una semplice diluizione dei tredici canti editi, operata dallo stesso autore o - più probabilmente - dalfiglio o dal nipote.
Il terzo codice (I. VI. 238) contiene le "varie poesie" del C., cioè le altre opere letterarie tutte purtroppo allo stato frammentario: due canti della Teseide, poema eroico in quarta rima di argomento classico (l'Aretino ne loda un episodio - un consiglio di guerra - nella lettera ricordata del marzo '45); tre libri della prima stesura in quarta rima dell'Amordi Marfisa; un frammento di una decina di fogli del Peregrinaggio di Rinaldo, tentativo di poema ancora in quarta rima; sette ottave della Germania domata, poema sulle guerre tedesche di Carlo V; frammenti in esametri volgari (uno sul medesimo argomento della Germania domata, un altro descrivente una scena mitologica, un terzo intitolato In lode di Cosmo primode' Medici); un insieme di frammenti della Vittoria navale, poema sulla vittoria di Lepanto in ottave; la traduzione in endecasillabi sciolti del primo libro del De partu Virginis del Sannazzaro; un frammento in quarta rima intitolato Quaternari in lode di Carlo Quinto;quindici sonetti amorosi e d'encomio; il primo atto e parte del secondo di una commedia senza titolo "in verso prosa",cioè in endecasillabi e settenari prevalentemente sdruccioli e tronchi che danno andamento prosastico alla versificazione; infine due atti e parte del terzo della Lucretia, tragedia in endecasillabi e settenari, incompiuta per la morte dell'autore.
Notevole fu la fama del C. come poeta presso i contemporanei: alle reiterate lodi dell'Aretino e del Vasari vanno aggiunte quelle tributategli da Vincenzo Brusantini nell'Angelica innamorata (1550), da Bernardo Tasso nell'Amadigi (1560), da Erasmo di Valvasone nella Traduzione della Tebaide di Stazio (1570), da Diomede Borghesi e da Celio Magno; un elogio sentito gli dedicò il Betussi all'indomani della sua scomparsa nel Ragionamento sopra il Cathaio (1573). Ma chi più d'ogni altro testimoniò ammirazione e stima nei confronti dell'opera e delle teorie letterarie del C., fu proprio Torquato Tasso che, celebratane l'arte con iperboliche lodi nel Rinaldo (1562), lo considerò come un maestro non solo indicandone, nella prefazione al medesimo poema giovanile, il ruolo di stimolo e di modello poetico, ma ancor più riprendendone col Gierusalemme (e quindi poi con la Liberata) il suggerimento, di un poema eroico sulla prima crociata (e anche se non ci fosse in tal senso una precisa testimonianza epistolare di G. M. Verdizzotti - pittore e letterato che frequentava come Torquato la casa del C. - basterebbe leggere l'ottava 44 del X canto dell'Amordi Marfisa in cui quell'impresa viene rievocata e si passano in rassegna i principali condottieri cristiani); inoltre, come segnalava già l'Ingegneri (1581), Tasso utilizzò per alcuni dei personaggi della Liberata un elenco di nomi steso dal C. (occupa con altri frammenti quattro fogli ripiegati inseriti nel codice Chigiano L. V. 139) e, fatto ancor più notevole, la descrizione di Gerusalemme presente sia nel Gierusalemme che nella Liberata (III, 55-57) si trova pressoché identica fra i manoscritti del C. ed è forse autografa (Chigiano I.VI.239, f. 13r). Ma in tutta la produzione epica del Tasso è implicita e diffusa - come giustamente è stato osservato - la presenza dell'esempio del C.: dalla marziale festosità del Gierusalemme a tante invenzioni narrative della Liberata (la partecipazione all'azione bellica di forze infernali e celesti, le tempeste invocate, il ruolo del rituale cattolico). Un ultimo e postumo omaggio al vecchio maestro Torquato offriva, infine, intitolando col suo nome uno dei dialoghi: Il Cataneo overo de le conclusioni (1590).
Parallela nel tempo all'attività plastica, la produzione letteraria del C. sembra occupare una zona secondaria nella sua creatività fino alla pubblicazione dell'Amordi Marfisa (1562), dopo la quale peraltro ritorna in secondo piano; eppure i tentativi epici conservati nei codici Chigiani testimonianodi una generale sicurezza compositiva e di una indubbia capacità nell'impiego dell'endecasillabo. I tredici canti dell'Amordi Marfisa rivelano una scelta del modello epico tipica della produzione del pieno Cinquecento delimitata nel tempo dei capolavori del Furioso e della Liberata. Il C. si muove tra l'austero indirizzo trissiniano, volto a conferire solidità storica all'epos, e la più festevole musa romanzesca, meglio atta a suscitare il diletto del grande pubblico con avventure e amori: anche il ricorso a toni e modi di matrice classica (esplicito nell'inedita Teseide, mapresente anche nell'Amordi Marfisa, con il suo apparato di similitudini e moduli descrittivi specialmente di argomento bellico: duelli, mischie, battaglie) trova un riscontro nella contemporanea produzione di un Dolce (Achille ed Enea) o di un Erasmo di Valvasone (nella Traduzione della Tebaide di Stazio).
Evidente è la dipendenza dal poema dell'Ariosto - con un'interessante attenzione verso i frammenti da esso esclusi - che si fa precedente necessario dell'azione. Il tema centrale è la guerra fra Desiderio e Carlo Magno - come nei Cinque Canti - e tutta la prima parte, imperniata sulle sofferenze amorose di Marfisa per Guidon Selvaggio, mostra evidenti riprese ariostesche: l'arrivo al campo franco di Ullania (canto II) e la descrizione dello scudo della regina d'Islanda (canto IV); la prosecuzione dell'episodio delle "femine omicide" (canto V). L'eleganza sicura dell'ottava sostiene sempre i tredici canti che, d'altra parte, sul piano della struttura complessiva, rischiano di soffrire della giustapposizione di spunti romanzesco-amorosi ed epici, perseguita anche per fornire alla programmatica unità d'azione occasione di variazioni narrative, nonché delle lunghe digressioni profetico-encomiastiche e di contenuto storico, condotte in ossequio a un canone diffusissimo del genere cavalleresco eroico e articolate con studiata intenzione di virtuosismo. Via via che il racconto si sposta dai patimenti - un po' manierati - di Marfisa e dalle connesse divagazioni (canti I-VI) alla situazione bellica che le trame di Gano fanno precipitare, il C. va determinando una precisa e più congeniale vena che coincide col nucleo epico dell'azione; è questa la più sentita e notevole componente del poema, caratterizzata da una compostezza espressiva raggiunta entro un tono elevato e partecipe: spiccano per felicità di esiti la battaglia fra Orlando e Albino, conte di Milano, alla confluenza fra Lambro e Po (canto IX) e lo scontro fra i Franchi di Marfisa e Dudone e le truppe astigiane (canti XI, XII e inizio del XIII). Nei tredici canti, accanto ad elementi che trovano una sicura matrice nelle più diffuse tematiche rinascimentali, dal dissidio ragione-senso nell'amore di Marfisa all'esaltazione incondizionata di Carlo V (il poema, come risulta dai manoscritti argomenti in prosa, avrebbe dovuto concludersi con la visione dell'apoteosi dello scomparso imperatore, cui Carlo Magno assiste assunto nel cielo di Marte) col connesso vagheggiamento della crociata antiturca, risaltano per singolarità e perché notevoli al fine di una caratterizzazione della posizione ideologica del C. - coerentemente e pienamente inserita entro il clima culturale post-tridentino - la figurazione dell'eresia e la feroce condanna degli ugonotti (canto IV).
Della vasta produzione manoscritta del C. occorrerà ricordare il bel frammento della Teseide, ricco di spunti poi utilizzati nell'Amor di Marfisa, e quel che resta della commedia, soprattutto per il singolare tentativo del "verso prosa", indizio di un'attenzione attiva alla problematica, allora affrontata da trattatisti e teorici, intorno al linguaggio teatrale e di una propensione verso la ricerca metrica che nelle opere inedite è largamente documentata.
Opere: Dell'Amor di Marfisa tredici canti, Del Danese Cataneo da Carrara, in Venetia, appresso Francesco de Franceschi Senese, MDLXII; sonetto, in Delle rime di M. Diomede Borghesi...,VI, Padova 1566, c. 13r; sonetto, in Il tempio della divina signoradonna Geronima Colonna d'Aragona, Padova 1568, c. 86r; lettera, in Miscell. di varie operette. Al Reverendiss. Padre... C. M. Palombella, VII, Venezia 1743, pp. 171 s.
Fonti e Bibl.: Per la vita e l'attività di scultore e architetto: Lettere sull'arte di Pietro Aretino, a cura di F. Pertile-E. Camesasca, Milano 1957-1960, ad Indicem; G. Vasari, Le Vite…, a cura di G. Milanesi, Firenze 1880-81, V, pp. 91, 296; VI, p. 357; VII, pp. 456, 522 ss.; F. Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare descritta [1581], con le aggiunte di Giustiniano Martinioni, Venezia 1663(ed. anast., Venezia 1968, pp. 68, 121,195 bis. 310, 315); F. Baldinucci, Not. de' profess. del dis., a c. di G. Piacenza, IV, Torino 1814,pp. 34,36, 41, 48, 57, 60;T. Temanza, Vite dei più cel. archit. e scult. venez. [1778], a cura di L. Grassi, Milano 1966, pp. 181 s.; F. Milizia, Mem. degli architetti antichi e moderni, II, Parma 1781, pp. 33 s.; Id., Diz. delle belle arti del disegno, Bassano 1797, p. 170; G. Moschini, Guida per la città di Venezia, I, Venezia 1815, pp. 147 ss.; Id., Guida per la città di Padova, Venezia 1817, pp. 24 s., 32, 40, 119; G. 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Lorenzetti, D. C., in Enciclop. italiana, IX, Milano 1931, pp. 471 s.; F. Schottmüller, Die italien. und spanischen Bildwerke der Renaissance und des Barok, II, Berlin-Leipzig 1933, p. 185; R. Pallucchini, Un busto in terracotta di D. C., in L'Arte, XXXVII (1934), pp. 66 ss. (si tratta del busto di M. Forzadura in coll. priv. a Padova; più convincente l'attribuzione del Venturi, 1937,a F. Segala); E. Maclagan-M. H. Longburst, Catalogue of Ital. Sculpture in the Victoria and Albert Museum..., London 1934, ad Indicem (rec. di U. Middeldorf, in The Burlington Magazine, XV [1934], p. 43: riferisce al C. un busto in bronzo raffigurante un ignoto, più cautamente invece il Pope-Hennessy, 1964, pp. 535 s., lo attribuisce a scultore veneto della seconda metà del Cinquecento); L. Planiscig, D. C. Gast des Neptun, in Jahrb. der kunsthist.SammlinWien, n.s., X (1936), pp. 131 ss. (una placchetta bronzea - il tema: un banchetto di dei sul mare - di cui esistono varianti nel Metropolitan Museum di New York, nel Museum of Art di Cleveland e nel Victoria and Albert Museum di Londra. Per tutta la questione iconografica e attribuzionistica si veda bibl. in Pope-Henessy, 1964, pp. 529-531che peraltro riferisce l'opera ad A. Vittoria; l'attribuzione al C. era già stata confutata in occasione delle mostre dei bronzetti: Amsterdam 1961, Firenze 1962); A. Venturi, Storia dell'arte italiana, X, 3, Milano 1937, pp. 1 ss.; E. Rigoni, Testamenti di tre scultori del Cinquecento, in Archivio, veneto, LXVIII (1938), pp. 89 ss.; J. Goldsmith Phillips, Two Renaissance bronzes: a relief and a statuette, in Bulletin of the Metropolitan Museum ofArt, XXXIV (1939), pp. 192 ss.; P. B. Cott, Rernaissance Bronzes… from the Kress coll., Washington 1951, ad Indicem; G. Fiocco, Segnalazioni venete nel Museo di Kieff: due busti di D. C., in Arte veneta, XII (1958), pp. 35-37; Italian bronze statuettes (catal.), The Victoria and Albert Museum, London 1961, scheda 139; Meesters van het brons der Italiaanse Renaissance (catal.), Amsterdam 1961, schede 138, 141, 155; Bronzetti italiani del Rinascimento (catal.), Firenze 1962, schede 136-139 (rec. di J. Pope-Hennessy, in The Burlington Magazine, CV[1963], p. 58); G. Marchini, Il tesoro del duomo di Prato, Milano 1963, p. 27; J. Pope-Hennessy, Catalogue of Ital. sculpture in the Victoria and Albert Museum, II, London 1964, pp. 529-531, 535 s.; Id., La scultura ital. Il Cinquecento e il Barocco, I-II, Milano 1966, ad Indicem; A. Radcliffe, European bronze statuettes, London 1966, ad Indicem; H. R. Weihrauch, Europäische Bronzestatuetten, Berlin 1967, ad Indicem; W. D.Wixom, Renaissance bronzes from Ohio coll.s, Cleveland 1975, n. 115; K. B. 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Per il C. letterato: V. Brusantini, Angelica innamorata, Venetia 1550, c. 215r (XXXIII, 77, 5-6); B. Tasso, L'Amadigi, Vinegia 1560, p. 605 (QC, 50,7-8); Delle rime di M. D. Borghesi, Padova 1566, c. 12v; E. di Valvasone, La Thebaide di Statio ridotta... in ottava rima..., Venetia 1570, c. 22r (II, 184); G. Betussi, Ragionam. soprail Cathaio..., Padova 1573, c. 118rv; A. Ingegneri, Agli intendenti lettori, in T. Tasso, Gerusalemme liberata, Casalmaggiore 1581; C. Magno, Rime di C. M. et Orsato Giustiniani, Venetia 1600, p. 17; T. Tasso, Rinaldo, a cura di L. Bonfigli, Bari 1936, pp. 3-6 (Ai lettori), 61 (III, 58); Id., Il Cataneo overo de le conclusioni amorose, in Prose, a cura di E. Mazzali, Milano-Napoli 1959, pp. 257-302; G. M. Crescimbeni, Comentari… intorno alla... storia della volgar poesia, IV, Roma 1711, pp. 82 s.; F. S. Quadrio, Della storia e della ragione di ogni poesia..., VI, Milano 1749, p. 575; G. Tiraboschi, Biblioteca modenese..., II, Modena 1782, pp. 1-4; G. Ferrario, Storia e analisi degli antichi romanzi di cavalleria..., IV, Milano 1828, pp. 192 s., 358 s.; E. Gerini, Mem. stor. d'illustri scrittori e di uomini insigni dell'antica e moderna Lunigiana, I, Massa 1829, pp. 159-163; G. Melzi-P. A. Tosi, Bibliogr. dei romanzi di cavalleria..., Milano 1865, p. 117; G. Campori, T. Tasso e gli Estensi, in Atti e mem. delle RR. Deputaz. di storia patria per le prov. modenesi e parmensi, s. 3, I (1883), pp. 195-243; G. Mazzoni, Tra libri e carte. Studii letterarii, Roma 1887, pp. 91-113; A. Solerti, Vita di T. Tasso, I, Torino-Roma 1895, pp. 47-52; A. Belloni, Il Poema epico e mitologico, Milano s.a., p. 279; F. Fossano, Il poema cavalleresco, Milano s.a., pp. 189-90, 251; A. Frediani, D. C., Carrara s. a.; G. Sforza, Alberico Cybo Malaspina principe di Massa e il suo carteggio letterario, in Scritti vari di erudiz. e di critica in onore di R. Renier, Torino 1912, pp. 1071-1102 (specie pp. 1086 s.); E. de Rénoche, Intorno all'"Amor di Marfisa" di D. C.,in Giorn. stor. della Lunigiana, IV(1912), pp. 142-54; L. Caretti, Sul "Gierusalemme", in Studi tassiani, III (1953), pp. 3-23 (specie pp. 18 s., 23), poi in Filologia e critica, Milano-Napoli 1955; G. C. Argan, Il Tasso e le arti figurative, in Torquato Tasso, Milano 1957, pp. 209-26 (specie p. 212); E. Camesasca, I ritratti dell'Aretino, in Lett. sull'arte di P. A.,cit., II, pp. 211-219; F. Pertile, D. C., ibid., 316-319; E. Raimondi, Un episodio del "Gierusalemme", in Lettere italiane, XIV (1962), pp. 59-70; R. Agnes, La "Gerusalemme liberata" e il poema del secondo Cinquecento, ibid., XVI (1964), pp. 117-43 (specie pp. 117-23).