DANIELE da Capodistria
Nacque probabilmente a Capodistria nellaprima metà del sec. XIV.
In mancanza di altre notizie relative a D., non resta che fare riferimento al suo unico scritto pervenutoci, una canzone, in volgare italiano, sulla pietra filosofale (Rithmus de lapide phisico), nel cui congedo l'autore si presenta come Daniele da Capodistria, maestro di grammatica ("de Justinopoli ... / grammatice professor Daniele": XVIII, 13-14), dopo aver messo in luce il lungo periodo della sua esistenza dedicato allo studio ed al lavoro alchimistico ("per spacio et ultra de XXV anni": XVI, 8; 2-4).
Il componimento citato - che si segnala nella scarsissima produzione contemporanea, in volgare italiano, sull'argomento - consente alcune precisazioni cronologiche: la sua fonte è stata individuata in un'opera datata del 1330, un trattato alchimistico (Pretiosa margarita novella de... philosophorum lapide) composto dal ferrarese Pietro Bono (Buoni) a Pola, dove esercitava la professione di medico, a titolo pubblico (Zenatti, Una canzone…, pp.103 ss., n. 1). Da esso sono passati nel componimento di D. non solo temi generici, ma addirittura singole frasi; abbiamo così un terminus post quem per la stesura della canzone, da collocare intorno alla metà del Trecento. L'indizio acquista maggior rilievo a tener conto sia degli aspetti linguistici e stilistici, in accordo con la prassi dell'epoca, sia delle relazioni intercorrenti fra Pola e Capodistria in quel periodo. Una ulteriore conferma è costituita dall'influsso esercitato dalla canzone di D. su un'altra, dello stesso soggetto, composta sullo scorcio del Trecento da un anonimo alchimista veneto, se non veneziano (Zenatti, Nuove rime…, pp. 402, 413 s.).
Servono appena a definire genericamente il personaggio ed a collocarlo nel suo ambito cronologico le linee che si ricavano dai dati forniti da D. stesso (nome, patria, professione, attività libera) come da quelli deducibili dalle sue relazioni con l'opera utilizzata come fonte e con quella derivata dalla sua. Non sussistono dubbi sul nome, presentato senza accompagnamento di cognome o di patronimico, mentre l'indicazione della patria, "de Justinopoli", si presta a una duplice interpretazione, potendo trattarsi indifferentemente della città d'origine o di quella di residenza. Alla professione di maestro di grammatica D. non fa che un unico accenno, mentre si attarda a descrivere il suo impegno in quella che doveva essere un'attività di libera scelta, lo studio e la pratica dell'alchimia.
Non è difficile farsi un'idea delle caratteristiche dell'insegnamento di D., che non si doveva differenziare da quello dei suoi colleghi, che lo esercitavano anche in ambienti decentrati, come l'Istria, ma dominati dall'influsso veneziano e padovano: lo studio delle norme era integrato con esercizi di composizione e con la lettura d'autori variamente assortiti. Allo stesso ambito culturale, già dominato, nel settore scientifico, da Pietro d'Abano, si riallaccia in qualche modo l'altro campo di studio di D., l'alchimia, vista nel suo aspetto migliore, esente da sospetti di falsificazioni e mistificazioni a causa della buona fede di quanti vi s'impegnavano. Con tali intenti vi s'accostò D., incurante d'incomprensioni, fatiche, delusioni, disposto ad accettare la compenetrazione dell'attività teorica con quella pratica, caratteristica - insieme con la segretezza - di quella complessa ed ambigua scienza. Ad essa nel sec. XIII si erano interessati - allo stesso modo che all'astrologia, nella cui problematica s'inseriva la stessa questione del passaggio degli elementi da uno stato "vile" ad uno "nobile" - alcuni degli uomini più cospicui per la validità dell'indagine filosofica e scientifica, fra cui Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, Ruggero Bacone e Raimondo Lullo, Michele Scoto e Arnaldo da Villanova. La dicotomia del giudizio da loro espresso circa l'alchimia - valida se ispirata a criteri di serietà, riprovevole se basata su contraffazioni e truffe - ritorna in Dante, che tuttavia, appare più incline alla valutazione negativa, dal momento che ricorda due soli alchimisti, Guidolino e Capocchio, condannati tra i falsificatori di metalli (Inf. XXIX, 119, 137). Ma a partire dagl'inizi del Trecento gli studi alchimistici ebbero un più ampio sviluppo a causa del vivace impulso determinato dal riapparire degli scritti del cosidetto Geber (Giābir ibn Hāyyan, sec. VIII d. C.) alle cui dottrine si riferisce ripetutamente il Bono, la fonte di Daniele. Questi si colloca in tal modo in una posizione di rilievo per la tempestività con cui assimila le nozioni ed i precetti ricuperati nell'aspetto originario, dandone una sintesi abbastanza chiara, nella costante preoccupazione, propria della sua esperienza didattica, di farsi comprendere senza equivoci.
La sua canzone, che rientra nel genere delle rime dottrinali, consta di diciotto stanze di quattordici versi ciascuna (endecasillabi e settenari, con rime in genere regolari); è scritta in volgare italiano (in latino la stanza XVII e solo in parte le stanze XIII e XVI). Consiste essenzialmente in una "ricetta", dedicata com'è all'esposizione dei procedimenti da seguire per "far la bona pasta" (I,12), la "diva / e santa medicina" (IV, 12-13) necessaria per convertire altri elementi naturali in oro: essa infatti "reduce / ogni corpo imperfetto a vera luce" (IV, 13-14). L'idea fondamentale è quella di seguire la natura, senza derogare alle leggi divine, adoperando piccole quantità d'oro, argento, mercurio, le quali, manipolate secondo un laborioso processo, dovrebbero produrre la "medicina" operatrice della trasformazione delle sostanze comuni in oro. D. non afferma d'esservi riuscito; accenna vagamente ad una sua scoperta, intervenuta dopo venticinque anni di fatiche, relativa alla determinazione dei pesi e delle misure degli elementi da trattare. In complesso, D. ritiene che l'alchimia sia in sé positiva ed esorta chi vi si dedica a perseverare, senza abbandonare la speranza, per quanto tenue, di giungere a risultati concreti e moralmente ineccepibili, nell'utopistica convinzione che l'accrescimento, limitato soltanto dalla libera determinazione dell'uomo, delle quantità d'oro disponibili sulla terra ne avrebbe diminuito la rarità e quindi il valore, eliminando le spietate lotte e le losche manovre messe ininterrottamente in atto per assicurarsene il possesso.
Fonti e Bibl.: Il testo dell'unica fonte, la canzone dello stesso D., è stato criticamente costituito, sulla base del codice più antico e pregevole (Venezia, Bibl. naz. Marc., cod. Lat. Z. 326 (= 1580), s. XIV ex., ff. 44-47: cfr. A. M. Zanetti, Latina et Italica D. Marci Bibl.,Venetiis 1741, p. 139; G. Valentinelli, Bibl. Manuscripta ad S. Marci Venetiarum, V, Venetiis 1872, p. 149) da O. Zenatti, Una canzone capodistriana sulla pietra filosofale, in Arch. stor. per Trieste, l'Istria e il Trentino, IV (1889), pp. 106-17: il titolo, mancante, è stato dedotto dal cod. Riccardino 3247, f. 24. Per il resto, la tradiz. è toscana: Firenze, Bibl. Riccard., cod. 3247, s. XV ex., ff. 24-25, con note; Ibid., cod. 3674, s. XV ex.-XVI in., ff. 34-36; Firenze, Biblioteca nazionale, cod. Landau 171, s. XVII, ff. 75-76: testo mutilo (non 173: cfr. Catal. des livres manuscrits... de M. Horace de Landau, II, Florence 1890, p. 84; A. Mondolfo, La bibl. Landau-Finaly, in Studi... in mem. di L. De Gregori, Roma 1949, pp. 265-85); Siena, Bibl. com., cod. L.X.29, s. XV-XVI, f. 142: ST. 8, 15-18; ff. 142-147 testo mutilo. Il testo, compreso nella Summa perfectionis magisterii di Geber, è stato stampato per la prima volta a Venezia nel 1475: cfr. L. Hain, Repert. bibliographicum, I, *7505; W. A. Copinger, Supplementum…,I,Berlin 1926, p. 226. Discussione della nuova problematica in O. Zenatti, Una canzone..., pp. 81-117; Id., Nuove rime d'alchimisti, in Il Propugnatore, n. s., IV (1891), pp. 387-414; G. Casati, Diz. degli scrittori d'Italia, III, Milano 1926, p. 205; F. Zambrini, Le opere volgari…, supplemento di S. Morpurgo, Bologna 1929, nn. 423 s. Più in generale: E. Crivelli, Dante e gli alchimisti, in Giorn. dantesco, XXXVIII (1935), pp. 31-35, 57; L. Gargan, Un maestro di grammatica a Padova e a Feltre nel secondo Trecento, in Quaderni per la storia dell'università di Padova, II (1979), pp. 75 ss.; F. Alessio, Filosofia e scienza. Pietro da Abano, in Storia della cultura veneta, II, Vicenza 1976, pp. 172, 206; Id., Il Trecento, in Storia della filosofia, VI, Milano 1976, p. 305; G. Billanovich, La cultura veneta nel Medioevo, in Italia medioevale e umanistica, XX (1977), pp. 1, 4, 7, 17; Id., Petrarca, Pietro da Moglio e Pietro da Parma, ibid., XXII (1979), p. 370; R. Halleux, Les textes alchimiques, Turnhout 1979, pp. 74-83; P. Kibre, Albertus Magnus on Alchemy, in Albertus Magnus and the sciences…, a cura di J. A. Weisheipl, Toronto 1980, pp. 187-202; F. Jesi, Alchimia, in Enciclopedia Garzanti di filosofia...,Milano 1981, p. 13; Id., Astrologia, ibid., pp. 57s.