DOLFIN, Daniele
Nato a Venezia, il 5 ott. 1653, da Daniele (II) detto Andrea (1631-1707) di Nicolò (del ramo di S. Pantalon) e da Elisabetta di Daniele Gradenigo e chiamato comunemente - se non altro ad evitare confusione coi fratelli omonimi - Marco, il D., inserendosi nel solco d'una già collaudata e redditizia tradizione familiare (la quale, avviata dal cardinale Giovanni, zio paterno di suo nonno paterno, proseguita da due suoi zii sempre paterni, si rafforza, appunto, tramite lui e suo fratello Dionigi), abbraccia la carriera ecclesiastica.
Dottore in utroque oltre che prete, nonché abate commendatario delle abbazie friulane di Rosazzo e Moggio e di quella polesana della Vangadizza, nel 1691 il D. si porta a Roma a seguito dello zio cardinale Giovanni, patriarca d'Aquileia, e l'assiste nel prolungato ed estenuante conclave - durante il quale il patriarca d'Aquileia, ad un certo punto, quasi s'illude d'essere il prescelto - per eleggere il successore d'Alessandro VIII. Ed il neopontefice Innocenzo XII, certo in segno di riguardo per lo zio e, forse, anche per addolcirgli la delusione per la mancata elezione, vuole che il D. indossi "l'habito di prelato domestico". Ulteriore favore per il D., divenuto il 31luglio referendario utriusque Signaturae, la di poco successiva nomina a vicelegato d'Avignone, "carica - s'affretta ad informare il Senato l'ambasciatore veneto Domenico Contarini il 25 agosto - molto stimata e desiderata da forti pretendenti" come monsignor Giovanbattista Anguissola e Alessandro Sforza ed "altri prelati" e al D. conferita per "la virtù sua et il proprio merito".
Si tratta, precisa Contarini, d'un "posto" secondo solo alle "nunciature reggie" e, quindi, prestigioso, "di grand'auttorità e decoro". Doveroso perciò, da parte del rappresentante veneziano, il ringraziamento ad Innocenzo XII per "l'honor fatto" alla stessa "nobiltà veneta nella persona di esso", vale a dire il D., "dignissimo prelato".
Nel frattempo il D. - che per tutta la sua esistenza risulta appassionato bibliofilo, amante delle frequentazioni dotte e protettore di letterati e covante altresì qualche ambizione d'espressione in proprio, come dimostrano e i tentativi d'epigrammi latini e gli abbozzi d'epigrafi, sempre in latino, encomiastiche (mentre non si sa quale fondamento abbia la notizia dell'esistenza di due volumi manoscritti di sue Poesie varie, ché manca ogni indizio per la localizzazione; ne si capisce, dalla troppo ellittica notizia, se questi suoi versi siano in italiano o in veneziano) - approfitta del soggiorno romano per accostarsi alle adunanze dell'Arcadia, nella quale entra ufficialmente, il 28 settembre, col nome di Sidonio Acontimacario.
Trasferitosi - assieme col segretario Pietro Silio (che è anche un po' letterato e che si diletta verseggiando in latino) e al maestro di camera Giacomo Coronella - ad Avignone, riscontrandovi gli inconvenienti derivanti dall'uso prevalente - riducendosi quelle "pontificie" ad "una sola moneta, chiamata patacche", che circola per lo più falsificata - di "monete regie" dalla capacità d'acquisto ora in "diminutione" ora in "augmentatione", propone quale "rimedio più conferente a questo male" l'apertura d'una "zecca" per "far battere nuove monete", specie "minute". Soluzione approvata da Roma. Donde, previo appalto della zecca e suo affidamento "al maggiore e più sicuro oblatore", l'emissione d'una "nuova moneta da cinque soldi" i cui "favorevoli effetti" - riconosciuti il 10 genn. 1693 dal segretario di Stato cardinale Fabrizio Spada - sono successivamente contestati dalla voce, peraltro alimentata da interessati a subentrare nell'appalto, "gli arrendatori di cotesta zecha faccino battere quantità di monete di lega molto bassa e con pochissimo profitto della reverenda camera". Quanto allo spinoso "affare di Barberas", il D., oltre ad insistere sulla pertinenza pontificia della località, cerca di tener fermo il principio che i "sudditi" della Santa Sede non sono, comunque, tenuti a "pagar gabelle quando passino nel regio territorio", che, in ogni caso, di contro alle pretese dei "regii gabellieri", libera e "franca" dovrebbe sussistere la "communicatione" tra "basso" ed "alto contado". Quanto infine alla pendente questione della "restitutione dell'armi e denaro d'Avignone" prelevati all'epoca degli esosi acquartieramenti francesi, il D. s'affanna a fornire al nunzio documentate informazioni per suffragare la richiesta di risarcimento, sicché Giovanni Giacomo Cavallerini sappia anche la "qualità" del "denaro levato dai regii ministri". Ma, per quanto, grazie al D., dettagliate, le reiterate istanze del nunzio non trovano ascolto, sicché lo stesso D. scrive, il 3 ag. 1693, a Cavallerini che gli "rincresce infinitamente di udire" come "le tante diligenze ... praticate per far seguire l'esborso del denaro siano sinora riuscite infruttuose". Anche se, nel frattempo, la carica ricoperta dal D. cresce d'importanza (il vicelegato diventa autentico governatore ché, sempre nel 1693, a Roma si decide l'estinzione della figura, ormai superflua, del legato, sostituendola colla congregazione, appunto, d'Avignone dalla quale, d'ora in poi, il vicelegato dipende), egli già può avvertire tutta la debolezza della Santa Sede di fronte alla protervia di Versailles.
Nominato, il 2 genn. 1696, vescovo di Damasco e il 10 vescovo assistente al soglio pontificio, è con la designazione, del 7 dello stesso mese, a nunzio papale in Francia che il D. - al di là dell'indubbio prestigio delle sue funzioni, al di là delle occasioni d'autocompiacimento offerte con abbondanza dalla carica (durante la quale, come attesta il rappresentante veneto Alvise Pisani, lungi dal dimenticare Venezia, se ne dimostra "degno, figliolo", sempre attento, oltre che a quelli romani, agli "interessi veneti" colla "costante fermezza di un cittadino benemerito in tutto" ciò che "riguarda li vantaggi della sua amatissima patria") - sperimenta appieno quella sensazione d'impotenza che già l'ha colto ad Avignone.
Proprio ciò che impressiona il facilmente impressionabile Niccolò Madrisio, il quale assicura d'averlo "veduto regnar veramente negli affetti del re, che confidava nelle sue mani non pochi de' primi affari d'Europa" garantendo, altresì, d'aver udito "quel gran monarca" onorare il D. "di quel singolarissimo elogio je suis tres-satisfait de vous, et c'est tout ce que je pouvois jamais vous dire", è in realtà eloquente testimonianza dell'ininfluenza del Dolfin. Il quale, non a caso, il 9 dic. 1697, scrive al cardinale Spada che "assai raramente la politica del mondo si concilia con gli interessi della religione", essendo quella guidata dall'"egoismo" che tutto stravolge "a proprio vantaggio", senza alcuno scrupolo in fatto di "giustizia", senza alcuna remora nel procedere "a spese della religione", omaggiata "con le labbra", ma, di fatto, posposta all'"orgoglio", alle "passioni", al tornaconto.
Intollerante d'impacci la grandeur di Luigi XIV e condiscendente col D. finché e purché assecondante. Ma quando questi, preposto, il 15 sett. 1698, alla diocesi di Brescia e decorato, inoltre, il 14 nov. 1699, della porpora cardinalizia, s'accinge a congedarsi dal sovrano con lui tanto benevolo, la nunziatura, già iniziata con reciproca solenne complimentosità (nella prima udienza il D. s'era portato "alla presenza augustissima" di Luigi XIV forte del ("carattere di nuntio d'un vicedio" attestante, appunto, da parte del pontefice, alla "maestà" cristianissima la "predilettione distinta" a lei dovuta perché "sempre ... gloriosa nel fulminare l'infedeltà, nel prostrar l'heresia"), s'impantana in un prolungato finale di sterile puntiglio, lungo il quale il D. è vittima d'un logorante braccio di ferro tra Roma e il re Sole.
Da un lato la reggenza cardinalizia, in funzione durante la malattia d'Innocenzo XII, impone al D. l'omissione della visita ai "principi del sangue" ed ai "figli naturali di sua maestà con quegli honori che sono dovuti alla sublime loro nascita", come si premura d'avvisare, il 30 genn. 1700, l'ambasciatore veneto a Roma Niccolò Erizzo. Dall'altro (così sempre nell'informata puntualizzazione dello stesso), per quanto il D. adoperi tutta la sua "destrezza" per smorzare la reazione del re offeso, lo sdegno di questo divampa egualmente sicché, pur non vietandogli di "partire", a dimostrazione di "quanto sia disgustato" con la Santa Sede, rifiuta "d'admetterlo all'udienza di congedo", pretendendo inoltre - così ancora Erizzo il 20 febbraio - che il suo uditore rimanga a "sostener le veci" del suo "ministerio". Così il D. - come ragguaglia il rappresentante lagunare alla corte Alvise Pisani il 12 febbraio - è costretto a partire in sordina, in tono dimesso; "li fu negata" l'udienza, ripete Pisani, come "pure le risposte alle credentiali"; né gli fu "concesso" l'usuale "generoso regalo" (ai nunzi in partenza promossi al cardinalato, aveva precisato Pisani in un suo precedente dispaccio del 6 febbraio, il re era solito donare ben 18.000 franchi), né gli "fu soministrato il solito passaporto". Un'umiliazione colla quale Luigi XIV vuol colpire la Santa Sede e non tanto il D. e nella quale, comunque, la sua ira si decanta, trattenendosi da forme di più esasperato "risentimento". Dignitoso, d'altronde, il comportamento del neocardinale: "non è di poca gloria alla patria", così elogiante Pisani, "ch'un suo cittadino, con distinta virtù, habbia saputo impedir li disordini più avanzati tra queste due corti e che, separando la qualità della persona degli accidenti del ministero, habbia attirato a se stesso" il non revocato "aggradimento" regio assieme all'"approbatione e l'applauso di tutta questa ... corte". Sicché, se si mette in viaggio senza pubblici omaggi e senza il consistente donativo (ed è soprattutto questo che, par di capire, spiace al D.), lo accompagnano, per lo meno, la stima generale e la non disdetta simpatia del re Sole, mentre a Roma (lo si apprende da una lettera del 6 marzo d'Erizzo), spaventati, il papa e il cardinale Spada tendono a scaricare ogni responsabilità su di lui (avrebbe frainteso, si sarebbero "supposti quegli ordini ch'egli con tanto dolore fu sforzato obbedire"). Una manovra senza esito ché - informerà Erizzo il 24 aprile - il re è "convinto" della sua scrupolosa "pontualità" e rimane, pertanto, "sodisfatto della sua condotta".
Sbarcato a Levico e di lì portatosi a Viterbo, il D. è a Roma verso la fine di marzo, ottenendovi, il 30, il titolo cardinalizio di S. Susanna e adoperandosi efficacemente, nel maggio, assieme al cardinale Pietro Ottoboni, per far pervenire all'"aggiustamento" l'aspro contrasto tra Erizzo e il cardinale César d'Estrées, pel "temperamento" del quale si preme sia da Versailles sia da Venezia. Grato Erizzo all'abilità mediatoria del D., tanto più che ha sempre "mirato" a salvaguardare la dignità della "rappresentanza" veneta. Ma il D. non può trattenersi oltre. Urge a Brescia - ove, giunta, il 20 nov. 1699, la notizia della sua nomina a cardinale, s'è esultato con tre giorni di luminarie, con festoso scampanio e con un solenne Te Deum - la sua, sino allora surrogata, presenza fisica.
Dopo l'insediamento per procura, tramite l'arciprete della cattedrale monsignor Fenaroli, del 16 nov. 1698, dopo la cresima in città e nel territorio impartita, il 30 genn. 1699, per suo conto da suo fratello Dionigi, allora "patriarca elletto d'Aquileia", è opportuno che il D. assuma direttamente il governo della diocesi, in merito al quale già s'era premurato - nelle istruzioni, inviate da Parigi, il 19 dic. 1698, al canonico Antonio Soncini suo vicario generale, relativamente alle "vacanze" dei benefici, al matrimonio clandestino, alle "pretese" dell'arciprete di Asola su delle "terre", a detta del D., vescovili nello "Stato di Mantova", agli "inconfessi" (circa 508: una "piaga" da "sanare"), al seminario "numeroso" di 110 "alunni", al Monte di pietà, alle "compagnie delle vergini", ai conventi - di tracciare delle direttive di fondo.
Fugace però, dapprima, la sua comparsa - coll'ingresso del 24 sett. 1700 - in sede, ché, a metà ottobre, il D. è di nuovo a Roma per il già iniziato conclave e, rimanendovi ben oltre la conclusione di questo, ne parte - dopo aver insistito, nel febbraio del 1701, perché il marchese Domenico Serlupi sconfessi per iscritto la paternità d'uno scritto ingiurioso per l'ambasciatore Erizzo - alla volta di Brescia, solo il 1º marzo, per restarvi, in compenso, definitivamente.
Obbediente alla Serenissima, il 12 dicembre, il D. ordina - quasi ciò basti ad esorcizzare l'incubo della "passata campagna" colla "sfrenata licenza delle truppe straniere" - ai parroci della diocesi di fornire "nota distinta" di tutti gli uomini atti alle armi tra i diciotto e i trentasei anni. Fatta propria l'esigenza dell'improrogabile erezione del "nuovo duomo", vuole sia una "reggia".
Perciò rivolge un vibrante appello ai fedeli, da un lato prospettando loro gioie paradisiache direttamente proporzionali al lusso dell'"abitazione" donata a Dio in terra, dall'altro vellicandone l'orgoglio municipale: la cattedrale dovrà essere degna di Brescia, città grande, ricca, nobile. Occorre il concorso di tutti: i "ricchi", incita il D., rinunciando a "un lachè", facendo a meno di un "cavallo", diano alla "fabrica del duomo", a proprie spese, ciascuno "un operaio ... di più"; quelli di "mediocri fortune", se non possono contribuire quanto dovrebbero desiderare, versino "almeno" quanto possono; i "poveri", infine, dato che non versano "denari", portino "almeno delle pietre".
Un concorde impegno costruttivo che il D. forse caldeggia anche per trasformarlo in fattore unificante in un ambiente percorso, invece, da lacerazioni e contrasti. Tant'è che, il 7 giugno 1701 la processione del Corpus Domini è sconvolta da una sanguinosa rissa (c'è un morto; ci sono parecchi feriti) tra nobili e soldati, sicché il corteo si disperde, il baldacchino cade a terra, mentre il D. a stento ripara nel duomo col Santissimo. Ma di divisione, d'altronde, è cagione lo stesso D. non esitando a suscitare un puntiglioso attrito col capitolo per minute questioni di cerimoniale, come quella per cui, nelle messe pontificali, egli vuole che i canonici seggano "in sedie senz'appoggio", mentre questi, abituati a sedere "sopra sedie" di cuoio "con postergale", non intendono rinunciare ad una consuetudine ormai, stando alle testimonianze, radicata.
Troppo brusca, altresì, da parte del D. la destituzione del vicario Soncini, poco avveduta la sua sostituzione, del 5 apr. 1701, con uno dei suoi "corteggiani", il dotto trevisano Vittorio Giera, ché, di lì a poco, deve sostituire, il 24 maggio, anche questo con un altro canonico, monsignor Tommaso Sarotti. Motivo dell'allontanamento del Soncini - che turba profondamente il clero diocesano e che contrappone il D. a parte di questo - la larvale propensione del D. per il prete Giuseppe Beccarelli, avversatissimo invece, perché sospetto di quietismo, dal Soncini e fondatore, contrastato dai gesuiti, d'un discusso e, peraltro, frequentato collegio per nobili a "Palazzo Vecchio".
Dissapori anche gravi, dunque, con strascico di rancori e polemiche che, tuttavia, non scalfiscono la ferma determinazione del D. di procedere alla sistematica visita della diocesi, sia in città sia nel territorio.
Pungolata da uno spettegolio anonimo raccomandante, avvertente, denunciante - c'è la "christianissima sudita" che protesta perché talune monache trascurano la preghiera per confezionare graziosi ricamini da donare al confessore; c'è la suora inviperita perché, durante la messa, delle consorelle chiacchierano e ridono; c'è la monaca sdegnata per la relazione d'una "certa sorella" con un "sacerdote", mentre una "parente" di quella, a sua volta, s'intrattiene con un "secolare"; c'è la suora che brontola perché un "certo chierico" scherza sovente con le suore più giovani; c'è quella che depreca i "discorsi mondani e liberi" nel chiostro - la visita, nel caso dei monasteri femminili, è costantemente tallonata più che dall'esigenza d'un severo ripristino del rispetto delle regole da una gretta ridda di suggerimenti, sempre coperti dall'anonimato, quali quello "che le monache si contentino d'una sola cella, essendo diverse che ne godono due", quello "che siano otturati i buchi", quello che sia "chiuso il canavino arente alla sacrestia per molti disordini".
Ben altro il tono e lo spessore derivante dalle risposte dei parroci alla richiesta di "relazione" individuale contenuta nella Instruzione a stampa fatta distribuire dal D. nell'atto d'iniziare la visita. Estremamente allargata la "formula" cui la "relazione" deve attenersi, quasi una sorta di avvertito questionario sì che ne risultano dati non solo attinenti alla realtà ecclesiale ma anche illustranti quella sociale. Ad esempio il D. chiede d'essere informato se nella parrocchia "vi sono maestri de figliuoli" e "maestre delle figliole" e se sono in regola colla "professione della fede". E il D. vuol pure sapere se ci sono "ostetrici o commari" e se sono "bene instrutte nella forma del battesimo in caso di necessità". Una curiosità che è anche sintomo di una qualche diffidenza, quasi i maestri e le levatrici possano essere potenzialmente soggetti pericolosi. Fatto sta che, grazie al sollecito adeguarsi dei parroci al ventaglio di domande contenuto nello schema di "relazione" proposto da D., la visita, portata avanti accuratamente dal D. nel 1701-1704, diventa un analitico quadro non solo della situazione religiosa, ma anche economica e sociale del Bresciano, che ne emerge nella sua consistenza parrocchiale, con le sue confraternite (del Rosario, del Ss. Sacramento) attive, con le sue sopravviventi discipline, con l'istruzione impartita sovente da sacerdoti, con rada presenza di donne avvianti le bambine a leggere e a scrivere, con diffusa presenza d'ostetriche, con i Monti di pietà in diminuzione rispetto al passato, spesso in crisi, spesso male amministrati, spesso insidiati da intacchi.
A visita ultimata, il D. indice il sinodo, ma "sorpreso" (così il nunzio a Venezia Agostino Cusani ragguagliando Roma) il 29 luglio 1704, da una febbriciattola, presa dapprima per "terzana semplice", in breve le sue condizioni di salute precipitano sino a morire, "di gravissima indispostione" - così al Senato i rettori di Brescia - il 4 ag. 1704, a Brescia.
Solenni, il 6, seguono le esequie: il corpo viene deposto su di "un gran cattafalco" circondato da "torsoni", mentre il clero secolare e regolare partecipa numeroso e compatto. Un omaggio al defunto che non significa proseguimento dei suoi criteri di governo. Proprio il da lui destituito Soncini regge, come vicario capitolare, la diocesi vacante, per due anni, ed il nuovo vescovo, G. A. Badoer, esigerà a tutti i costi la condanna del Beccarelli, provvedendo, per parte sua, a scomunicarlo assieme ai suoi seguaci.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Avogaria di Comun, 60, c. 124v.; Ibid., Senato. Dispacci Francia, filze 189, cc. 240r-242r, 277r e 193, passim; Ibid., Senato. Dispacci Roma, filze 205, lett. n. 17, 63 e 210, lett. nn. 34 e 213, lett. nn. 202, 203 e 214, lett. nn. 71, 79 e 215, lett. nn. 83, 86, 89, 97, 101, 106, 109; Ibid., Senato. Lett. rettori Bressa e Bressan, f. 108, lett. del 6 ag. 1704; Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Mss. Correr, 1375/50; Ibid., Mss. P. D., C 2003/19; Ritratti Gherro/643; Arch. segr. Vaticano, Nunziatura Venezia, 147, cc. 495r, 741, 781 e 152, cc. 519r-520v; Ibid., Segreteria di Stato. Francia, 190-199, passim; Brescia, Archivio vescovile, Visite pastorali, 67-74; Udine, Archivio Caimo, 89; Ibid., Biblioteca civica, Mss., 2153; P. Silio, Purpura Vaticana..., Parisiis 1699 (rist. inId., Carminum libri..., Venetiis 1726, pp. 18-26); al D. l'Oratio pro eius reditu ad propriam sedem (alla Queriniana di Bresciacolla segnatura 3.H.XI, 5 in esemplare mutilo del frontespizio e privo di colophon, donde l'impossibilità di specificare i dati tipografici); G. M. Crescimbeni, L'Arcadia..., Roma 1708, p. 233 (e a p. 338 della rist., ibid. 1711); N. Madrisio, Poesie…, Padova 1713, p. 305; Id., Orazione all'ill. Dionigi Delfino…, Venezia 1718, p. 25; Id., Viaggi..., I, Venezia 1728, pp. 166, 349-350; Le cronache bresciane…, a cura di P. Guerrini, III, Brescia 1929, p. 176; V., ibid. 1932, pp. 55 s., 59, 63; Rel. di amb. sabaudi, genov. e veneti..., a cura di C. Morandi, Bologna 1935, p. 217; Rel. di amb. ven., a cura di L. Firpo, VII, Torino 1975, p. 595; Marco d'Aviano, Corrispondenza..., I, a cura di Arturo M. da Carmignano di Brenta, Abano Terme 1986, p. 285; Notizie ... degli arcadi morti, III, Roma 1721, pp. 184-186; Tiara et purpura Veneta..., Brixiae 1761, pp. 288-289, 415; G. De Renaldis, Mem. ... del patriarcato d'Aquileia..., Udine 1888, pp. 443, 463, 487; G. Valentinelli, Bibl. del Friuli…, Venezia 1861, nn. 362, 370; F. Di Manzano, Annali del Friuli, VII, Udine 1879, p. 210; Nuova enciclopedia ital., a cura di G. Boccardo, VII, Torino 1879, 236 (qui si danno per certi i due tomi di Poesie varie del D.); G. Tassini, Curiosità veneziane, Venezia 1933, p. 218; L. Dolfin, Una famiglia ... i Dolfin, Genova 1904, pp. 43 s.; M. Giudici, Idispacci di Germania dell'amb. D. Dolfin..., II, Venezia 1910, p. 100; L. Karttunen, Les nonciatures..., Helsinki 1912, p. 242; Bibl. apost. Vaticana, Codd. Urb. lat., III, a cura di C. Stornaiolo, Romae 1912, p. 545; Id., Codd. Vat. lat. … 10701-10875, a cura di G. B. Borino, e Civitate Vaticana 1947, pp. 57, 62, 69; B. G. Dolfin, IDolfin..., Milano 1924, pp. 170-171, 312, 376; L. von Pastor, Storia dei papi..., XIV, 2, Roma 1932, pp. 474, 496, 500; XV, ibid. 1933, p. 5 (errato, nell'indice dei nomi a p. 859, il rinvio a Giovanni, suo zio); Rep. der dipl. Vertreter..., I, Berlin 1936, p. 383; R. Putelli, Vita ... bresciana…, III, Breno 1937, pp. 94-97, 112; F. Nicolini, L'Europa durante la guerra di succ. di Spagna..., Napoli 1937-38, I, pp. 139, 392, e II, pp. 19, 100; B. Chiurlo, Imss. ... del patriarca G. Dolfin, in NuovoArch. ven., s. 5, XXIV (1939), p. 141; Miscellanea queriniana, Brescia 1961, p. 225 n. 7; Storia di Brescia, III, Brescia 1964, pp. 177, 178, 184 n. 2; G. Biasutti, Echi del quietismo in Friuli, Udine 1971, p. 65 n. 50; Gli Arcadi ... Onomasticon, a cura di A. M. Giorgetti Vichi, Roma 1977, p. 231; C. Scalon, La Bibl. arcivescovile di Udine, Padova 1979, pp. 9, 135, 178, 179; Lettere e carte Magliabechi ... Regesto, a cura di M. Doni Garfagnini, I, Roma 1981, pp. 86-87 (ma il D., nel 1692, non e apcora vescovo di Brescia; forse, allora, non è lui uno dei persecutori di R. Acciaiuoli); La musica a Brescia nel Settecento…, Brescia 1981, p. 44 nn. 58, 59, 63; L. Cairo-P. Quilici, Bibl. teatr., Roma 1981, n. 2909; A. Fapanni-F. Trovati, Ivescovi di Brescia, Brescia 1982, p. 181; M. Zorzi, Daniel Dolfin..., in Ateneo veneto, n. s., XX (1982), pp. 268, 280 n. 33; Venezia Vienna, a cura di G. Romanelli, Milano 1983, p. 38; Storia d'Italia Annali, IX, a cura di G. Chittolini-G. Miccoli: Torino 1986, p. 579 n. 23 (ma errate le iniziali del nome G. P. appioppate al D. nell'indice dei nomi a p. 1025); M. Zorzi, La libreria di S. Marco..., Milano 1987, p. 336; G. Benzoni, A proposito di cultura nobiliare, in La società bresciana e l'opera di S. Ceruti..., a c. di M. Pegrari, Brescia 1988, p. 197; R. Ritzler-P. Sefrin, Hierarchia catholica..., Patavii 1952, pp. 21, 127, 180; G. Mazzatinti, Inv. dei mss. della Bibl. d'Italia, III, p. 219; XLIX, pp. 121 s.; LXXVII, p. 90.