BARTOLI, Daniello
Nacque a Ferrara il 12 febbr. 1608, ultimo fra tre figliuoli di Tiburzio. Alle scuole del collegio della Compagnia di Gesù studiò grammatica, lettere umane e retorica. Non ancora sedicenne, fu ammesso nel noviziato dei gesuiti di Novellara. Nel 1625 fu mandato a Piacenza, dove pronunciò i tre voti religiosi e proseguì, per un anno, gli studi di retorica. Trasferito a Parma, vi compì il triennio degli studi di filosofia; ma, venuto in gran fama presso i maestri e i condiscepoli, alla conclusione di quel corso fu destinato lui stesso ad insegnar retorica. Questo magistero durò quattro anni, e verso la sua conclusione, nel 1633, pur continuandolo per le insistenze di tutti, cominciò a studiare il primo anno di teologia. Ma il B., che da tutti i biografi viene descritto di complessione delicata e cagionevole, sembrava risentire della grave fatica impostagli dal duplice incarico, sì che i superiori preferirono allontanarlo da Parma, mandandolo nel 1634 a proseguire i suoi studi nell'università di Brera in Milano, poi, l'anno successivo a Bologna, dove ebbe fra i maestri di teologia il famoso p. G. B. Riccioli, da cui è probabile che assorbisse quegli interessi o curiosità scientifiche, che molto tempo più tardi dovevano tornare a manifestarsi in maniera così chiara nelle sue opere.
Compiuto l'intero corso di studi, si trattava da parte dei superiori di decidere il destino dei giovane religioso dentro la Compagnia. Certo è che egli desiderava ardentemente, come molti suoi condiscepoli, d'esser assegnato alle missioni. Già nel 1627, quando era a Parma per seguire il corso di filosofia, egli ne aveva rivolto richiesta al p. Muzio Vitelleschi, generale della Compagnia. Nel 1633 egli rinnova la petizione allo stesso ViteReschi, con una lettera del 16 maggio, nella quale proclama fervorosamente: "Dove pericoli maggiori e maggior occasione v'è da patire e morire negli stenti, o essere ammazzato per questo effetto, là più mi sento, con la divina grazia, animato ad andare, sia il Giappone, l'Inghilterra, la Cina, il Miogor, o qual si voglia altro paese, ma sia almen qualcuno * (Lettere edite e inedite del p. D. B. della C. d. G. e di uomini illustri scritte al medesimo, Bologna 1865, p. 5). Un'altra lettera inviò il B., quando nel 1634 soggiornò a Parma, al p. Marcello Mastrilli, che si recava in Spagna e in Portogallo per passare di lì in Giappone; infiammato dall'es empio del Mastrilli, che doveva poi diventare un personaggio eroico della sua maggior opera (cfr. Il Giappone, V, 26), il giovane gesuita rinnovò il tentativo d'essere associato ad una sorte gloriosa di martirio.
Ma tutto fu inutile. I superiori, valutando soprattutto le qualità della sua preparazione retorica e culturale, decisero che dovesse restare in patria e dedicarsi all'insegnamento della filosofia. E il B., di cui tutti i biografi esaltano concordemente una straordinaria disposizione all'ubbidienza, piegò il suo fervore al più umile ma altrettanto necessario incarico assegnatogli. Ma proprio nel momento in cui, dopo aver terminato, il corso degli studi ed esser già stato ordinato sacerdote, si preparava ad assumere il suo posto d'insegnante, per la necessità di provvedere ad un pulpito mancante durante la Quaresima, egli venne indirizzato alla predicazione. In tal modo il B. esaudiva, sia pure parzialmente, il suo desiderio di non staccarsi completamente da una attività diretta di edificazione e di battaglia: sì che non stupisce la fervida intensità con cui egli svolse questo suo nuovo compito. Nel 1637 fu a Piacenza, e nei quattro anni seguenti a Mantova, Modena, Parma, Bologna. Accresciuta la sua fama, fu richiesto da Ferrara, Firenze, Lucca, Genova, Torino, Roma, Napoli, Palermo, Malta.
Purtroppo tutte le sue prediche - e dovevano esser molte e molto ricche - andarono perdute. Nel gennaio del 1646, infatti, mentre si dirigeva da Napoli verso Palermo, dove avrebbe predicato la Quaresima, la galea di Malta, su cui si trovava, fu sorpresa da una violenta tempesta e fece naufragio. Il B. scampò a malapena alla morte, raggiungendo a nuoto la non lontana isola di Capri, ma gli scritti e gli appunti che portava con sé, pur essendo in parte recuperati nei giorni successivi, subirono danni irrimeaiabili. Il B. rientrò a Napoli, e subito dopo raggiunse con altri mezzi Palermo, per portare a termine la sua missione. Ma il grave pericolo da lui corso, e i danni alla salute che ne ricavò, indussero i suoi superiori ad impiegarlo in attività più consone alla sua dottrina e alle sue possibilità. Il generale V. Carafa lo elevò a dignità di storico della Compagnia di Gesù e gli assegnò come dimora stabile la casa dei professi in Roma. Ma nel 1647 egli predicò ancora la Quaresima a Napoli, l'anno dopo a Malta, e lesse per un semestre la Sacra Scrittura nella chiesa dei gesuiti in Roma. Solo nel 1648, essendogli stata assolutamente proibita la predicazione, poté dedicarsi esclusivamente alla stesura della sua Storia.
Difficile è giudicare questa pur lunga e indubbiamente intensa attività di predicatore del Bartoli. Sembra giusta l'opinione di coloro (G. Boero) i quali avanzano l'ipotesi che parecchie delle operette moralì del B. siano state ritessute sugli argomenti e sui testi stessi delle prediche: ciò che spiegherebbe, fra l'altro, il tono incontestabilmente oratorio di molte fra esse, come le Grandezze di Cristo, L'Eternità consiglìera, Dell'Ultimo e beato fine dell'uomo, i Pensieri sacri. Quanto allo stile, anche qui non si possono fare che congetture ma non andremo lontani dal vero pensando che nelle prediche il B. abbia portato lo stesso spirito equilibrato e la stessa inclinazione ad una maestosità dignitosa che caratterizzano le sue opere narrative e storiche.
Il B., il quale nel frattempo aveva fatto solenne professione dei quattro voti, lega da questo momento in poi ancor più strettamente la propria vita alle incombenze assegnategli dai superiori. Le date più importanti di questa esistenza appartata e solitaria coincidono con quelle di pubblicazione delle sue opere. Per il resto, i giorni scorrono al B. in una successione ininterrotta d'impegni esclusivamente intellettuali. Solo un'applicazione indefessa e senza pause poteva permettergli l'elaborazione di tanta mole di scritti, molti dei quali (come quelli relativi all'Istoria della Compagnia) comportavano anche la consultazione e il confronto di una miriade di documenti. Abbiamo notizia di alcuni viaggi del B. a Loreto e, forse, a Venezia. Sappiamo che nel 1671 fu dal generale G. P. Oliva creato rettore dell'università del collegio romano: carica che egli accettò senza entusiasmo e lasciò con piacere tre anni più tardi. Ma, in complesso, i quarant'anni trascorsi dal B. nella tranquillità della Casa romana dei professi si riassumono in una sola, lunghissima giomata di studio, della quale non sai se ammirare di più la pazienza, la tenacia o l'inesauribile vitalità.
Prima del suo ritiro a Roma, il B. aveva pubblicato una sola opera, L'uomo di lettere difeso ed emendato, apparsa a Roma nel 1645, ma forse risalente al periodo degli studi giovanili di retorica. L'opera di storiografo della Compagnia s'iniziò doverosamente con la compilazione della ponderosa biografia di s. Ignazio, in 5 libri (Della Vita e dell'Istituto di S. Ignazio Fondatore della Compagnia di Gesù ... ), scritta probabilmente all'età di quaranta anni e apparsa nel 1650.
Il B. si proponeva di narrare le vicende della Compagnia, seguendo la partizione offerta spontaneamente dai quattro continenti in cui essa aveva operato: Europa, Asia, Africa, America. L'opera fu pubblicata a mano a mano che il B. l'andava componendo. Nel 1653 apparve L'Asia (ristampata nel '56 e poi nel '67); nel '60 Il Giappone; nel '63 La Cina; nel '67 L'Inghilterra; nel '73 L'Italia. Nel 1663, separatamente, fu pubblicata La missione al Gran Mogor del p. Ridolfo d'Acquaviva, che fu aggiunta all'Asia nell'edizione del '67.
Accorgendosi verso la fine della vita che non avrebbe mai potuto compiere l'impresa gigantesca dell'Istoria, il B. intraprese a dame una stesura più compendiosa sotto forma annalistica, di cui nel 1684 aveva già composto 5 libri (Degli uomini e dei fatti della Compagnia di Gesù - Memorie storiche). Nelle pause della composizione dell'Istoria, che al B. parve in taluni momenti una "lunga e incredibilmente noiosa fatica", egli venne occupandosi di tutta una serie di problemi religiosi, etici, retorici, grammaticali, intorno ai quali diede alla luce numerose opere e operette, di valore disuguale, ma assai importanti, generalmente, a comprendere la posizione e la personalità di questo scrittore gesuita.
Vanno ricordate innanzi tutto quelle che si legano strettamente all'Istoria, in quanto si propongono l'esaltazione di figure di religiosi appartenenti alla Compagnia: dalla Vita di p. Vincenzo Carafa settimo generale della C. d. G. (1651) alle pagine Della vita e dei miracoli del beato Stanislao Kostka (1670); dalla Vita di S. Francesco Borgia terzo generale della C. d. G. (1681) alla Vita del p. Niccolò Zucchi (1682). Particolare rilievo ha in questo gruppo la Vita di Roberto Cardinal Bellarmino Arcivescovo di Capua (1678), infiammata di vivissimo spirito antiereticale (che un biografo gesuita del B. poté perfino giudicare eccessivo). Il B. è spesso trascinato dall'unzione religiosa e dal desiderio d'innalzare i grandi della sua Compagnia oltre i confini dell'umano e del verosimile: le biografie di questi personaggi sono gallerie di virtù eroiche, dalle quali il carattere individuale del religioso rappresentato non riesce a staccarsi. Ma è d'altra parte evidente che proprio questo è l'effetto a cui il B. mirava indirizzando la propria ricerca ad un fine fondamentalmente edificatorio.
Questa preminenza dell'intento eticoreligioso, espresso spesso in forme oratorie, o comunque sempre di netta intonazione oratoria, si ritrova in molte delle restanti opere del B.: particolarmente, s'intende, in quelle che hanno ad oggetto immediato la riflessione sul destino dell'uomo e sul suo rapporto con il divino.
Tra esse porremo La Povertà contenta, descritta e dedicata ai ricchi non mai contenti (1650); L'Eternità consigliera (1653); L'uomo al punto, cioè in punto di morte (1667); i due libri Dellultimo e beato fine dell'uomo (1670), un'esposizione della prima considerazione degli Esercizi spirituali di S.. Ignazio; le considerazioni Delle due eternità dell'uomo, l'una in Dio, l'altra con Dio ( 1675), in cui il B. sperava "di dar chiaramente a vedere nella prima eternità dell'uomo in Dio il tanto di che siam tenuti all'infinita sua carità verso noi: e nella seconda eternità dell'uomo con Dio, l'inestimabile stima che dobbiam fare di noi..."; Le grandezze di Cristo in se stesso e le nostre in Lui (1675), in cui si mostra come noi siamo grandi in Cristo, e come Cristo debba esser grande in noi (con un'evidente affinità d'ispirazione, rispetto all'opera precedente). Infine vanno citati i Pensieri sacri., sei considerazioni sopra differenti materie, raccolte insieme dal B. verso la fine della sua vita; l'opuscolo polemico Che orazione sia quella che chiamano di Quiete e come si Pratichi, contro gli errori dei quietisti, e l'Esame della "Risposta" (uscita anonima) all'opuscolo precedente.
Molto legati alle opere morali, quanto al fine, ma con una fisionomia particolare, per quanto riguarda la tematica e il tipo d'esposizione, appaiono quegli scritti in cui il B. si serve di pretesti simbolici - analogie fisiche, naturali, logiche e psicologiche - per accendere la propria fantasia ed aprire il corso, anche in questo caso, alle riflessioni sulla grandezza divina o sul destino dell'uomo in terra e nell'oltretomba.
Tipici di atteggiamento, così connesso a certe tendenze della letteratura secentesca, sono La geografia trasportata al morale (1664) e i tre libri De' simboli trasportati al morale (1677); ma ad esso può essere ricondotta un'opera come La ricreazione del savio in discorso con la natura e con Dio (apparsa nel 1659, ma probabilmente composta anni prima), in cui la ricca e variata rappresentazione del mondo serve soprattutto a ricondurre l'animo del lettore sulle possibilità infinite della potenza e magnificenza di Dio.
A questo interesse verso i fenomeni naturali, costante nel B., anche se il più delle volte sopraffatto dal cumulo delle istanze morali e religiose, sono legate le cosiddette opere scientifiche dell'autore che appartengono tutte all'ultimo periodo della sua vita: La Tensione e la Pressione disputanti qual di loro sostenga l'argento vivo ne, cannelli dopo fattone il vuoto (1677); Del suono, de' tremori armonici e dell'udito (1679); Del ghiaccio e della coagulazione (1681).
Il B. ebbe inoltre un'inclinazione vivissima - né poteva essere altrimenti in uno scrittore come lui - per i problemi retorici e grammaticali. La sua prima opera, non a caso, è dedicata al tentativo di delineare una figura d'intellettuale giudizioso e moderno: anche se L'uomo di lettere difeso ed emendato non può dirsi opera di retorica nel senso stretto del termine, è vero però che larghi brani vi sono dedicati alle principali questioni, tecniche e stilistiche, dello scrivere. Più specificamente dedicato ai problemi linguistici è Il torto e 'l' diritto del Non si può dato in giudicio sopra molte regole della lingua italiana (1655), apparso sotto lo pseudonirno di Ferrante Longobardi, cui seguì un trattato Dell'ortografia italiana (1670).
La conclusione di questa lunga e operosa vita di studioso non poteva non essere anch'essa contrassegnata da quel senso di pace tranquilla e sicura che promana da tutta l'attività del Bartoli. Anche se l'affettuosità dei biografi ha colorato di qualche tratto eccessivamente esemplare il trapasso del nostro autore a miglior vita, non abbiamo difficoltà a credere quel che si narra di lui in questa occasione. Ricevuto un segno della sua prossima morte, egli tralasciò ogni altra opera per dedicarsi tutto ai Pensieri sacri, che gli sembravano più confacenti al suo bisogno di meditazione e di raccoglimento. Colpito di lì a poco da un insulto apoplettico, trovò la forza d'accogliere ancora, pienamente lucido e sereno, i conforti della religione. Morì il 13 genn. 1685.
L'importanza del B. è dffficilmente valutabile, se non si tiene conto dell'ambiente e della situazione storico - culturale in cui egli si trovò ad operare. Non si può resistere alla tentazione, infatti, di considerare il B. lo scrittore più rappresentativo di quel periodo delle nostre lettere, fra il 1640 e il 1680, contrassegnato innegabilmente dal predominio della cultura ecclesiastica e in particolare gesuitica, uscita dalla Controriforma. Da questa condizione di forza, da questo impegno gigantesco di espansione, chevalica i confini d'Italia per raggiungere tutti i punti d'Europa.e del mondo, deriva senza dubbio - oltre che da una disposizione naturale del carattere - quel particolare tono di sicurezza, di serenità fiduciosa, di ampia e dignitosa apertura, che caratterizza tutta o quasi tutta l'opera del B., che, molto probabihnente, non avrebbe potuto neanche pensare ad un progetto così colossale come quello che contraddistingue l'Istoria della Compagnia di Gesù senza la convinzione di costruire su basi storicamente solide e durature.
Su altri punti di fondamentale importanza il B. conviene con i caratteri della cultura gesuitica a lui contemporanea. Il modo con cui. egli pone il rapporto con la tradizione o con gli aspetti essenziali della cultura contemporanea è invero assai tipico. In luogo di rifiutare sdegnosamente qualunque forma di umanesimo, come certi inizi battaglieri della Controriforma potevano far sospettare, l'atteggiamento dominante consiste ora - in B. non meno che nel Tesauro, nel Pellegrini, nel Pallavicini, nel Segneri - nel tentativo di assorbire con un'esperienza estremamente cauta e giudiziosa quanto di positivo era stato precedentemente elaborato, utilizzandolo a fini etici e religiosi, con la costante osservanza del principio che ad maiorem Dei gloriam possono essere impiegati anche gli strumenti di un lenocinio stilistico e rettorico giunto ormai alla sua estrema maturità. Il B. si distingue dagli altri suoi correligionari forse per un più accentuato senso della misura, che su tutte le questioni di tipo culturale e retorico lo spinge ad assumere una posizione di perfetta medietà, acuta e discreta allo stesso tempo. Nell'uomo di lettere è chiarissimo questo modo di procedere, rispondente insieme ad una componente psicologica fortissima e ad un consapevole programma di direzione culturale. La sua concezione etica dell'inteuettuale e la sua visione utilitaristica dell'arte si possono far discendere, certo, da alcuni elementi del pensiero rinascimentale; ma assumono in lui una vistosa coloritura di moralismo, anzi, per dir così, di precettismo cristiano, pur non escludendo la ripresa di tutto un patrimonio retorico di origine umanistica, che è come tramite alla persuasione e abbellimento non soltanto esteriore del discorso.
Lo stesso atteggiamento si trova nei confronti del barocco, decisamente rifiutato nel suo complesso nel famoso capitolo Dello stile che chiamano moderno concettoso, nell'uomo di lettere difeso ed emendato, e pure tenuto presente non solo nella pratica dello scrivere, bensì anche nelle formulazioni teoriche. Quando il B. discorre della legittimità - anche questa peraltro frenata dal buon giudizio - di rubare ad altri autori per arricchire la propria opera, sembra di leggere una pagina di una ben nota lettera di G. B. Marino a C. Achillini (G. B. Marino, Opere scelte, a c. di G. Getto, Torino 1949, pp. 150 s.), in cui il poeta-principe del barocco svolge un'argomentazione analoga. Quando egli critica "lo stile moderno concettoso", non lo fa per avversione generalizzata ad un'arte adorna di tutti i possibili fiori dell'omato, bensì per l'immoderatezza con cui esso applica i precetti di una retorica giudicata complessivamente assai preziosa. Una posizione di prudente empirismo interviene là dove una teoria rigorosa non porterebbe probabilmente ad alcun risultato, e la conclusione del discorso sta in una formula equilibrata, che più bartoliana non potrebbe essere: "... de' concetti e della maniera d'usarli, giudichi ognuno conforme alle ragioni e 'l gusto che ne ha. Io, se ho a dime alcuna cosa per necessità dell'argomento, gli stimo come le gioie, e ne prendo il pregio dalla natura e dall'uso: sì che non sieno falsi, ma reali, e disordinati a tutta baldanza, ma posti a lor luogo". Rifiutare lo stile asìano e quello laconico non significa dunque per lui, in un certo senso, proporne un terzo, distinto nelle qualità dello stile e, ancor più, dell'invenzione retorica, ma arrivare ad una posizione mediana fra i due. Non a caso il B. esalta uno stile ⟨4attico", che, ⟨icome elettro, d'amendue si tempera e si compone".
Come le questioni retoriche e stilistiche nell'uomo di lettere, così anche le questioni linguistiche e grammaticali ne, Il torto e 'l diritto del Non si può sono affrontate in un intelligente equilibrio tra impulso all'innovazione e freno della tradizione. Importantissimo è, ad esempio, che il B. continui in questo campo la polemica antiregolistica del barocco, sostenendo la necessità di una lingua più libera di quella propugnata dall'Accademia della Crusca (e forse in lui agiva, oltre a questo, il motivo antitoscano, anch'esso così vivo nei primi decenni del secolo). Sempre più il "buon gusto* - dote peraltro non spontanea, ma educata sulle letture sterminate dei classici, degli scrittori religiosi, degli autori italiani dei periodi aurei - si qualifica come l'arbitro supremo dello stile bartoliano.
Questo atteggiamento non è peraltro possibile confinarlo entro i domini della retorica e della cultura - se a questi termini diamo un significato ristretto limitativo. La realtà è che esso corrisponde ad una vera e propria "forma mentis", la cui genesi va colta in certi caratteri dominanti del costume e della religiosità gesuitica. Chi abbia letto anche soltanto le più importanti fra le opere del B., non avrà difficoltà a constatare, in molte di esse, una larga disponibilità umana, una benevola comprensione verso le esigenze dei tempi. In effetti il discorso assume sempre un andamento per dir così pendolare: la contemplazione delle bellezze terrene, spesso ampia e distesa, ma solo apparentemente disinteressata, conduce a meditare sulla finitezza dell'umana natura e dell'intero creato di fronte alla grandezza imperscrutabile e infinita di Dio; d'altra parte, l'idea di Dio è inscindibile dalla contemplazione della bellezza e della potenza della sua creazione; la riflessione sulla morte, così frequente, si risolve spesso in un trionfo della persona umana sublimata in Dio; e, viceversa, l'esaltazione dei Dio triumphans non è che un richiamo alla nostra morte e all'inevitabile - dubbioso e pauroso - giudizio, che per noi ne seguirà. L'uomo al punto e La ricreazione del savio sono forse, in questo senso, le opere più significative del Bartoli.
Non v'è dubbio che il,tipo di religiosità espresso da questo atteggiamento appaia ai nostri occhi limitato e superficiale, come quello che non riesce neanche ad esprimersi senza la presenza di suggestioni e stimoli di natura oggettiva se non addirittura fisica. Ma anche su questo punto si verifica un'interessanté saldatura fra la tradizione artistica secentesca e gli orientamenti nuovi della religiosità gesuitica. È stato fin troppo osservato che nella disposizione bartoliana a rappresentare il mondo come un immenso repertorio di simboli religiosi (La geografia trasportata al morale, De' simboli, ecc.) si manifesta l'eredità della lussureggiante inclinazione barocca alla metafora e all'emblema. Ma non si èviceversa notato a sufficienza che questa eredità "artistica" s'incontra e s'assimila nel B. con alcuni presupposti d'ordine morale e religioso, che trovano la loro genesi negli Esercizi spirituali di s. Ignazio e la loro piena applicazione nell'arte e nella letteratura gesuitica del sec. XVII. Soltanto chi avesse, come il B., ben meditato queste massime del fondatore dell'Ordine: "Vedere le persone con l'occhio della fantasia, meditando e contemplando le loro particolari circostanze, e cavando qualche frutto dalla vista..."; "Odorare e sentire con l'odorato e col gusto l'infinita soavità e dolcezza della divinità, dell'anima, delle sue virtù e di altre cose..."; "Toccare col tatto, come abbracciando e baciando i luoghi dove le persone passano e siedono, sempre procurando di cavarne profitto" (V contemplazione, I giorno della II settimana degli Esercizi spirituali), avrebbe potuto dispiegare una così eccezionale capacità d'interprete e descrittore degliaspetti sensibili della realtà, sempre pronto però a scorgere in essi un riflesso oggettivato, concreto, della spiritualità divina. È stato il B., nella Ricreazione del savio, a riassumere in una sola frase la summa di questo atteggiamento religioso materialistico che preferisce passare attraverso la visione e il tatto, più che per le vie meno facili della teoria e della meditazione interiore: "Havvi di molte e possentissime ragioni specolative onde convincere i negatori dell'universal providenza: ed io alcuna, in luogo più convenevole, ne apporterò; ma non meno che all'intelletto i sottili argomenti, la dimostrano agli occhi le stupende opere d'essa, tanto più efficaci a convincere quanto niù vili sono le cose al cui provvedimento s'adopera". E ancora nella stessa opera: "... se intendessero il linguaggio dei fiori, i quali anch'essi, come Eutimio disse de' cieli, 'aspectu utuntur pro voce', gli udirebbero come maestri di morale filosofia che ci stanno continuamente spiegando quella al ben viver nostro sì necessaria legazione:, Flores odoremque in diem gigni: magna (ut palam est) admonitione hominum, quae spectantissime fiorent, celerrime arescere, (Plinio)".
Non si può d'altra parte non riconoscere che proprio in questa attitudine ricca ed estesa, se non profonda, a guardare la realtà con occhi interessati e partecipi sta il germe dell'arte più alta del Bartoli. Accade talvolta al buon padre gesuita di obliarsi nella contemplazione della bellezza e di obliare nel contempo la missione edificatoria, alla quale pure egli ècosì fedelmente legato. Sono, forse, i momenti migliori del Bartoli. Non si vuole con questo sostenere la tesi di un B. "puro artista", che emerga quasi iniracolosamente dal fondo della sua ideologia religiosa e dalle componenti fondamentali di un gusto e di un'attitudine mentale, alla cui formazione la Compagnia aveva così fortemente contribuito. Ma certo è che, a latere dell'impegno gigantesco, sempre tenuto presente, di riscoprire nel mondo le tracce della presenza divina e di presentarle all'attenzione devota del lettore, si manifesta nel B. una vena più discreta e sottile dell'ispirazione, attraverso la quale scorre la linfa di un temperamento - nonostante tutto - ingenuo e quasi innocente. Se scaviamo sotto la grande mole dell'opera bartoliana, ci capiterà allora d'imbatterci, sparsi qua e là come fiorellini in mezzo ad un'irta e spesso noiosissima selva, in quadretti naturali deliziosi, in impressioni fresche, di una spontaneità indiscutibile. Quante parti dell'opera del B. siano contrassegnate da questa disposizione d'animo è facile dire a chi l'abbia anche semplicemente scorsa di sfuggita. Forse La ricreazione del savio e La geografia ne sono più ricche. Ma pagine e pagine della stessa Istoria sono contrassegnate da questo tono ilare e quieto di fervorosa ammirazione verso il mondo.
Ad esso, del resto, quando è presente, è legata la riuscita anche della altrimenti troppo lodata produzione scientifica del Bartoli. In nessuna delle opere da lui dedicata all'osservazione naturale c'è mai, infatti, quello che siamo abituati a considerare il fondamento di ogni ricerca scientifica: l'impulso fortissimo a conoscere razionalmente e, attraverso la conoscenza, a penetrare le leggi oggettive del meccanismo universale. Nel B. pseudo scienziato predomina viceversa il solito motivo di esaltazione e di stupore, l'ormai ben noto desiderio, inesausto e un po, infantile, di trovare ovunque - ragioni d'ammirazione per la grandezza e l'onnipotenza divina. Ma, per la natura stessa degli argomenti trattati, opere come La pressione e la tensione, Del suono, ecc., sono ricche di pagine in cui l'osservazione si libera in quadri ed esperienze d'un interesse del tutto spontaneo e genuino (come nei brani famosi sulla camera parlante di Caprarola, nella seconda opera citata, e sulle esalazioni e vapori, nella prima).
A un temperamento siffatto, si può capire come la stesura della Istoria della Compagnia potesse sembrare più un doveroso ma noioso incarico, che una lieta ed interessante incombenza. Le doti propriamente storiografiche mancano completamente al Bartoli. E del resto la Istoria fu scritta - né poteva essere altrimenti - con un'evidente scopo di esaltazione, che, per la natura stessa dell'assunto e dell'argomento trattato, finisce non di rado per infastidire a causa della sua troppo prolungata insistenza. Incapace di approfondire i valori specificamente spirituali della religione cristiana, il B. sente bene e descrive, con stile dignitoso e generalmente pacato, il fascino di un magistero ecclesiastico, che si fa azione, prassi, s'introduce nel mondo con un'aspirazione inesausta di milizia e di conquista. Si tratta pur sempre di retorica. Ma di retorica ad alto livello, come quella che sa esprimere il proprio punto di vista senza quasi mai concedere nulla alla lode spropositata ed inverosimile. Questo spiega perché il B. appaia ingenuo e scopertamente infantile quando rappresenta gli stati di beatitudine e d'estasi dei santi e dei martiri, sempre contrassegnati da particolari grezzamente materiali, mai visti nell'intimità delle coscienze e degli spiriti; mentre robusto e fiero si rivela là dove si tratta di descrivere l'animosità indomabile dei padri gesuiti di fronte ai pericoli della sorte, della natura e della guerra (come nelle pagine giustamente famose dell'Asia, dedicate al naufragio del vascello "Concezione" e al comportamento eroico di tre padri che vi erano ospitati). Non si aggiunge qui nulla a quanto è stato già detto a proposito delle descrizioni naturali, se non per ricordare che nei capitoli riguardanti la situazione geografica e antropologica della Cina "1 Postura, temperamento, fertilità"; "Laghi e fiumi naturali e a mano"; "Buone qualità dell'animo dei Cinesi", ecc.) il B. raggiunge forse il punto più alto della sua abilità paesistica e descrittiva: pagine veramente notevoli per la precisione del dettato e la sobrietà dei particolari. Sulle qualità stilistiche del B., tanto è stato scritto, che sembra quasi inutile tornare in questa sede sull'argomento. È forse opportuno sottolineare che, anche in questo campo, la grandezza dello scrittore gesuita consiste nell'essere egli riuscito a temperare l'eredità di una tradizione lussureggiante e ricchissima come quella barocca con il freno di un'educazione sobriamente classica e, forse, ancor di più, con la consapevolezza tutta religiosa che un'immoderatezza retorica e stilistica non può non essere il riflesso di una immoderatezza etica e dello spirito. Fra i più recenti studiosi del B., c'è chi ha osservato giustamente (G. Pischedda) che esso è forse il più dignitoso e il più sorvegliato dei prosatori di tutto il secolo, se si escludono, beninteso, gli scienziati meritevoli di questo nome. Mancano infatti nella sua opera quasi completamente le prosopopee, le personificazioni, le cinquecentesche climax. Non eccezionalmente numerosi sono gli epifonemi e le deprecazioni; la stessa metafora è poco presente. La sintassi è sempre ordinata, anche quando i vari membri del periodo s'intrecciano e s'incastrano l'uno nell'altro in "complessi" stilistici assai frondosi. Il lessico praticamente non conosce confini, tale è la sua ricchezza e varietà. Quel che tale prosa acquista in dignità e ordine, perde però in vivacità e freschezza. Checché se ne dica (e lo hanno pur detto personaggi come Leopardi), la successione regolata delle frasi bartoliane, sebbene impastate riccamente di colori e impressioni sensibili, non produce il più delle volte che un ritmo monotono ed eccessivamente uniforme, dietro il quale non s'intravvede il benché minimo travaglio interiore.
E stato detto (o abilmente sottinteso) che con il B. comincia la storia della prosa moderna italiana. 16 un giudizio con cui si può convenire, a patto che si ammetta di considerare come modello ideale di una prosa italiana moderna un certo stile, pure così diffuso dall'Otto al Novecento, in cui i pregi puramente formali di una urbana dignità espositiva soffocano tutte le tendenze ad un più necessario rivoluzionamento linguistico, così vivace invece, nello stesso periodo, presso altri paesi europei. La "medietà" bartoliana funzionerà presso codesti prosecutori (talvolta inconsapevoli, beninteso) come una forma stilistico-ideologica di stampo nettamente conservatore.
La fama del B. fu grandissima ai suoi tempi. Ricordiamo qui, perché ci sembra particolarmente significativa, l'alta stima che ne ebbe F. Redi. Nei periodi successivi egli fu assai variamente giudicato, a seconda che nel valutarlo prevalessero criteri di carattere ideologico oppure stilistico. Non si può d'altra parte dire che l'elemento discriminante della simpatia o dell'antipatia nei suoi confronti sia determinato dall'adesione o dal rifiuto dei critici verso il cattolicesimo. Intervengono di volta in volta motivazioni più complesse, che sempre però utilizzano il B. come pietra di paragone di un atteggiamento letterario generale, di tendenza. Dopo un declino accentuato durante il Settecento, il B. apre un nuovo periodo della sua fortuna con il purismo e il neoclassicismo.
Nettamente favorevoli gli sono scrittori come G. F. Galeani Napione, G. Perticari, A. Cesari, V. Monti e, s'intende, P. Giordani, per i quali esso è esempio splendido di stile ricchissimo e di lessico variato e pur rispettoso della tradizione. Più sorprendenti appaiono i giudizi del giovane Leopardi, il quale, in alcune pagine del suo Zibaldone, si esprime con accenti di eccezionale ammistrazione verso il B.: "... io posso dire per esperienza che la lettura del B., fatta da me dopo bastevole notizia degli scrittori italiani d'ogni sorta e d'ogni stile, fa disperare di conoscer mai pienamente la forza, e l'infinita varietà delle forme e delle sembianze che la lingua italiana può assumere". E in un altro luogo: "Il p. D. Bartoli è il Dante della prosa italiana". Con accenti curiosamente analoghi si esprime V. Gioberti, pure così lontano dall'apprezzare il contenuto gesuitico dell'opera bartoliana: "Arno il Bartoli, che, non ostante i suoi difetti causati da eccesso d'arte e dalle influenze del secolo in cui visse, è scrittore saporito e lautissimo. Esso è l'unico dei nostri scrittori che si possa chiamare dantesco...". Il romanticismo, intriso di umori patriottici e anticlericali, rifiutò viceversa, generahnente, il Bartoli. In prima linea, naturahnente, in questo atteggiamento di dura critica, gli scrittori del filone democratico. F. De Sanctis giudicò il B. "il Marino della prosa", "fabbro artificiosissimo e insuperabile di periodi e di frasi", "retore e moralista astratto". L. Settembrini, ancor più violento, ne fa addirittura il campione della decadenza del secolo cui appartenne, e finisce per identificare attraverso di lui secentismo e gesuitismo. Tutt'altro che tenera nei confronti del B. fu pure la tendenza cattolico-liberale, impegnata a realizzare un tipo di letteratura, e quindi di lingua e di stile, moderno e popolare insieme, e perciò tendente a scorgere nel frondoso B. uno dei nemici da battere. Non a caso uno dei più autorevoli rappresentanti della tendenza, R. Bonghi, proprio in uno dei suoi opuscoli sul Perché la letteratura non sia popolare in Italia, scriveva del gesuita: "Io ho il B. per uno scrittore nullo, mancante di pensiero, di vita e di verità, affastellato, farraginoso, senza chiarezza, senz'ordine, d'uno stile posticcio e artificioso, d'una lingua copiosa si, ma mescolata ed accozzata senza discernimento". Altrettanto naturale appare il fatto che G. Carducci, il quale si manteneva tenacemente fedele ad un suo attardato sogno di dignità e ricchezza classica, ammirasse il B., ad onta delle sue convinzioni anticlericali e antigesuitiche, seguendo, del resto l'esempio dei suoi prediletti Monti e Giordani. Nel Novecento la fama del B. subisce un ulteriore accrescimento soprattutto ad opera di quei critici e teorici che hanno tentato di reperire nel gusto barocco certi precorrimenti delle estetiche e delle poetiche a noi contemporanee. L'operazione, condotta soprattutto da L. Anceschi, ma ripresa o perfezionata da molti altri, presenta molti elementi dubbi (la riaffermazione di una posizione aristocratica, il conservatorismo della soluzione stilistica suggerita, la commistione non rigorosamente storica di elementi ben differenziati del gusto, ecc.), ma è almeno servita a penetrare più a fondo gli aspetti formali dell'opera del Bartoli.
Opere: Opere del p. D. B. della C. di G., Torino, 1825-1856, voll. 39 (la più accurata ristampa moderna di tutta l'opera di D. B.); Opere, Firenze 1829-1837, voll. 50. Stampe e ristampe di opere singole: Lettere edite ed inedite del p. D. B. della C. di G. e di uomini illustri scritte al medesimo, precedute da un Commentario della vita e delle opere del p. D. B., scritto da p. G. Boero, Bologna 1865; Quattro lettere di D. B., a cura di G. Campori, ibid. 1868; Lettere inedite di D. B. a L. Cominelli, a cura di G. Bustico, Genova 1910; L'uomo al punto, cioè l'uomo al punto di morte, introduz. e note di A. Faggi, Torino 1930; L'uomo al punto..., ibid. 1935; Dell'ultimo e beato fine dell'uomo, ibid. 1936; Scritti vari di D. B., a cura di M. Rigillo, Milano 1939; La Missione al Gran Mogor, a cura di G. Marzot, ibid. 1945; La Missione al Gran Mogor, a cura di L. Anceschi, ibid. 1946; scelta di opere, in Trattatisti e narratori del Seicento, a cura di E. Raimondi, Milano-Napoli 1960, pp. 315-649.
Bibl.: Per le questioni della biografia, cfr. soprattutto il Commentario di G. Boero; altre notizie, dai voll. di lettere edite e inedite. Per il regesto delle edizioni, cfr. Ch. Sommervogel, Bibliothèque de la Compagnie de Yésus, I, BruxellesParis 1890, coll. 965-85. Per il giudizio dei puristi e dei neoclassici, cfr. A. Avetta, Di alcuni giudizi letter. sul p. D. B., in Riv. d'Italia, VI (1903), pp. 527-35. Per i giudizi dei critici dell'Ottocento, V. Gioberti, Il gesuita moderno, II, Firenze 1848, p. 516; G. Leoipardi, Zibaldone, in Tutte le opere di G. L., a cura di F. Flora, I, Milano 1953, pp. 886 s., 1340, 1443, 1509; II, ibid. 1953, p. 560; F. De Sanctis, Storia della letter. ital., a cura di N. Gallo, II, Torino 1958, pp. 728-30; L. Settembrini, Lezioni di letter. ital., II, Napoli 1894, p. 367; R. Bonghi, Lettere critiche a C. Bianchi, in Opere di R. B., II, Studi manzoniani, Milano 1933, pp. 352-55, 391. Per il giudizio di G. Carducci, cfr. G. Chiarini, G. Carducci - Impressioni e ricordi, Bologna 190*1, p. 342. Per la critica del Novecento: G. Gronchi, La "Poetica" di D. B., Pisa 1912; P. P. Trompeo, Poeta della creazione, in C. Trabalza-E. Allodoli-P. P. Trompeo, Esempi di analisi letteraria, II, Torino 1927, ora ne Il lettore vagabondo, Roma 1942, pp. 9-28, con il titolo di Elogio di D. B.; A. Belloni, D. B. 16081685, Torino 1931; Id., Un classico della prosa ital. nell'età barocca, in La Nuova Italia, II (1931), pp. 396-400; Id., Il Seicento, Milano 1947, pp. 458-60, 597 s.; B. Croce, Storia dell'età barocca in Italia, Bari 1957, pp. 67 s., 109, 4.52; P. D'Elia, D. B. e N. Trigault, in Riv. stor. ital., s. V, III (1938), pp. 77-92; F. Flora, Storia d. letter. ital., 11, 2, Milano 1942, pp. 80g-16; G. Marzot, Critica ed estetica del padre B. e Seneca scrittore nel Seicento, in L'ingegno e il genio del Seicento, Firenze 1944, pp. 101-131, 133-169; L. Anceschi, La poetica di una "certa beatitudine del gusto", in Civ. delle lettere, Milano 1945, pp. 43-95; Id., Gusto e genio del B., in La critica stilist. e il barocco letter., Firenze 195 8, pp. 135-45; C. Calcaterra, Il problema del barocco, in Questioni e correnti di storia letter., Milano 1949, pp. 437-40; G. Pischedda, La lingua e lo stile del B., in Classicità Provinciale, L'Aquila 1956, pp. 251-81; G. Gamba, Ricerche sulla lingua delle opere scientifiche di D. B., in Arch. glott. ital., XLII (1957), pp. 1-23; G. Di Pino, Scienza e letter. negli scrittori del primo Seicento, in Stile e umanità, Messina-Firenze 1957, pp. 125-42; E. Raimondi, D. B. e la