DOLCI, Danilo
Poeta e intellettuale-attivista, impegnato su diversi fronti, nacque a Sesana (Trieste) il 28 giugno 1924. Da alcune biografie (Capitini, 1958; Fontanelli, 1976; Barone, 2000) si ricava l’immagine di un’infanzia e una gioventù sostanzialmente ordinarie per un ragazzo di estrazione sociale medio-borghese, nato sul confine orientale da una madre slovena, Meli Kondely, donna relativamente colta, amante della musica e animata da una profonda fede religiosa, e un padre italiano (Enrico, per la verità italo-tedesco), ferroviere. Ebbe una sorella minore, Miriam Lippolis, scrittrice, impegnata ancora in tempi recenti a mantenere viva la memoria del fratello (Bisconti, 2013). A causa del lavoro del padre la famiglia dovette presto trasferirsi in Lombardia, dove Danilo frequentò la scuola fino al conseguimento del diploma tecnico (geometra) a Pavia e poi della maturità artistica a Milano.
Tra gli spostamenti lavorativi del padre occorre ricordare quello, breve ma decisivo, a Trappeto, in provincia di Palermo, nei primi anni Quaranta. Per il ragazzo le visite al seguito del padre furono occasione di un primo incontro con mondi molto lontani da quello in cui viveva, compresa una povertà a lui sconosciuta.
Le esperienze maggiormente incisive per la biografia del giovane furono due: il rifiuto di arruolarsi nell’esercito della Repubblica sociale italiana (RSI), ragione per cui nel 1943 fuggì in Abruzzo maturando una profonda avversione per la violenza e il militarismo; l’incontro con la comunità cattolica di Nomadelfia (presso l’ex campo di concentramento di Fossoli, vicino Modena) e il suo animatore, don Zeno Saltini. Quest'ultimo avvenimento segnò una svolta nella vita di Dolci: nel 1950, all’età di 26 anni, abbandonò gli studi in architettura quasi completati a Milano, la fidanzata e il lavoro come insegnante presso una scuola serale di Sesto S. Giovanni (dove aveva conosciuto Franco Alasia, suo futuro strettissimo collaboratore) per prendere parte alla vita comunitaria di Nomadelfia. L’esperienza fu profondamente formativa, Dolci visse con grande fervore quel periodo e partecipò anche alla fondazione di un secondo centro comunitario nella provincia di Grosseto. Lì si era «come ripulito ed essenzializzato», poi però se ne distaccò, sentiva il bisogno di uscire da una comunità che era «come un’isola, un nido caldo», per entrare in contatto con «il resto del mondo» (Dolci, 1968, p. 15). Trappeto, «il paese più misero che ave[esse] mai visto», gli parve pertanto la destinazione ideale.
Nonostante la centralità del rapporto con don Saltini, questo passaggio segnò una ormai definitiva presa di distanza dalle forme di dedizione umanitaria e sociale tipiche dell'impegno cattolico, per approdare a una prassi più apertamente laica e dettata dalla necessità di intervenire su realtà inaccettabili per modificarle. Questo atteggiamento avvicinava Dolci ad altre figure animate da una profonda spiritualità 'metaconfessionale', mentre lo allontanava, necessariamente, dal cattolicesimo istituzionale.
L’arrivo in Sicilia, nel gennaio 1952, segnò la fase più intensa della sua vita. Nei primi anni Cinquanta la Sicilia era una sorta di metafora della condizione di indigenza, arretratezza e noncuranza che ampi strati di popolazione dell’ex Regno delle due Sicilie erano ancora costretti a sopportare senza che le classi dirigenti italiane – in sostanziale continuità tra il periodo liberale, quello fascista e quello repubblicano – fossero riuscite o si fossero preoccupate di affrontare in maniera risolutiva. Trappeto e Partinico erano luoghi al contempo concreti, caratterizzati da una miseria indicibile e da un bisogno improrogabile di intervento, ma anche simboli del malessere profondo che attraversava diffusamente l’intero Mezzogiorno. L’esistenza di gravissime condizioni di arretratezza e deprivazione – connesse al problema della squilibrata distribuzione fondiaria – non era ignota alla classe dirigente italiana. Nello stesso periodo in cui Dolci decise di recarsi presso i più poveri e di denunciare, attraverso la pubblicazione dei suoi studi – tra i primi e più noti Fare presto (e bene) perché si muore (Torino 1954); Banditi a Partinico (Bari 1955); Inchiesta a Palermo (Torino 1956) –, una Commissione parlamentare incaricata di condurre un’inchiesta «sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla», condusse le proprie ricerche, tra il maggio 1952 e il giugno 1953, mettendo in luce una realtà di arretratezza che strideva dolorosamente con l’orizzonte di sviluppo e benessere che si stava preannunciando (Braghin, 1978; Fiocco, 2004).
Il fatto che la questione della povertà fosse oggetto di iniziative politiche, nonché di una certa attenzione pubblica, contribuì probabilmente ad amplificare la risonanza del dramma di Trappeto, dove nell’ottobre 1952 un bambino poco più che neonato morì di stenti. La vicenda avrebbe potuto essere letta semplicemente come una triste conferma della gravità del problema della miseria, ma assunse un significato ben più ampio nel momento in cui il giovane Danilo Dolci, da poco arrivato, intraprese uno sciopero della fame per esprimere pubblicamente la sua indignazione e necessità di ribellione. Come avrebbe più tardi spiegato, la sua iniziativa non si basò su presupposti teorici, essa fu piuttosto una istintiva, umana reazione di fronte a una realtà inaccettabile: «Allora cominciai a digiunare. Non c’era un ragionamento preciso, non avevo letto Gandhi, sapevo solo che non potevo accettare che esistesse un paese senza fognature, senza strade. Anzi le fognature erano le strade stesse. Volevo manifestare istintivamente la mia solidarietà. Avevo la vaga intuizione […] che nella zona le cose potessero cambiare» (Intervista, Tarozzi, 1995).
La sua intuizione che «le cose potessero cambiare» nascondeva la determinazione, costante nella sua vita, a intervenire sulla realtà per infrangere forme di dominio 'naturalizzate'. Si trattava di un’ambizione niente affatto infondata: quando si trasferì in Sicilia le regioni meridionali della neonata Repubblica italiana avevano già alle spalle una intensa stagione di lotte per la riforma agraria. Dai decreti Gullo del 1944 al lodo De Gasperi del 1946, passando per gli eccidi di Portella delle Ginestre (1947), di Melissa, di Montescaglioso e di Torremaggiore (1949), le terre del Sud erano state oggetto di una conflittualità sociale e politica asperrima, in cui la posta in gioco più immediata risiedeva nella riforma della proprietà fondiaria, quella a più lunga scadenza nell’emancipazione sostanziale della maggior parte della popolazione meridionale.
La Sicilia era in quegli anni parte importante dell’orizzonte spaziale, sociale e politico in cui si adoperavano le sinistre italiane per cercare di intercettare, sostenere e guidare il riscatto sociale cui aspirava la popolazione contadina (Rochefort, 2005). Figure come Girolamo Li Causi (primo segretario regionale del Partito comunista), Raniero Panzieri (dal 1949 in Sicilia, dal 1951 segretario regionale del Partito socialista), per non parlare di Giuseppe Di Vittorio e della sua CGIL, ma anche di intellettuali e attivisti come Carlo Levi o Rocco Scotellaro, furono tra i protagonisti più impegnati nello spirito di emancipazione e rinnovamento che animò profondamente le popolazioni meridionali negli anni della ricostruzione – economica, ma anche e soprattutto politica, nel senso di costruzione della democrazia.
Dolci non era dunque solo nel suo anelito a cambiare le cose – in Italia, nel Mezzogiorno, in Sicilia – ma lo espresse, anzi lo agì, in maniera diversa dalla sinistra istituzionale, non solo in merito alla pronunciata connotazione spirituale (ma mai confessionale) che caratterizzò soprattutto i primi anni della sua esperienza, ma anche rispetto al metodo. Dopo i primi mesi a Trappeto si impegnò nella realizzazione di un progetto comunitario ed educativo, il Borgo di Dio. Si trattava di una forma di intervento di ispirazione umanitaria-religiosa che rifletteva, ma solo in parte, l’esperienza di Nomadelfia. Anche il Borgo, come Nomadelfia, fu creato per accogliere in primo luogo bambini abbandonati a se stessi e destinati a un futuro sventurato. A differenza del progetto di don Saltini, aspirante a una comunità esemplare, quello di Dolci mirava tuttavia a innescare sinergie virtuose tra le risorse, le energie e i valori già presenti all’interno della comunità. Il suo intento era infatti quello di «collaborare alla vita», non guidarla – così come il suo amico Aldo Capitini ricordava, citando le stesse parole di Dolci, nella biografia che gli dedicò già pochi anni dopo averlo conosciuto (Capitini, 1958, p. 33).
Il suo originale modo di porsi dalla parte degli e con gli oppressi esercitò una straordinaria attrazione su alcuni ambienti sia della sinistra che del cristianesimo sociale. Numerosi giovani intellettuali inseriti in contesti culturali e politici agli antipodi di Trappeto o Partinico furono talmente incuriositi da ciò che stava accadendo nella lontana Sicilia, che vi si recarono di persona, trattenendosi per un certo periodo. Scrive Gabriele Corsani: «In particolare intorno alla Trappeto di Dolci ruotano numerosi gruppi di persone, di Milano, Genova, Bologna, Firenze, Siena e Roma […]; attraverso loro sono collegati i mondi […] di Ernesto Bonaiuti, Zeno Saltini, Aldo Capitini, Lamberto Borghi, David Maria Turoldo» (Corsani, 2012, p. 168). Accanto a questi luoghi e a questi nomi occorre ricordare anche una vivace rete di giovani donne, soprattutto insegnanti, pedagogiste e scrittrici che si sentirono fortemente attratte dagli innovativi progetti pedagogici prima di Borgo di Dio e poi, dal 1975, del Centro educativo di Mirto. Tra queste ricordiamo Grazia Fresco, Maria Fermi Sacchetti, Margherita Pieracci, Cristina Vittoria Guerrini (poi nota nome Cristina Campo), Maria Chiappelli, Anna Bonetti, Ida Sacchetti (Pieracci Harwell, 2012). E, ancora, la pedagogista svedese Elèna Norman, futura seconda moglie di Dolci (con cui ebbe i figli Sereno ed En) dopo la rottura del ventennale matrimonio con Vincenzina Mangano, colei che di fatto mediò l’integrazione di Dolci a Trappeto accogliendolo nella sua famiglia – era vedova con cinque figli – per ampliarla e aggiungervi gli altri cinque avuti con lui (Libera, Amico, Cielo, Chiara, Daniela). Occorre inoltre ricordare anche i legami con Torino, da dove presero le mosse giovani sociologi e intellettuali come Vittorio Rieser e Giovanni Mottura e, per altre ragioni, Goffredo Fofi, per andare a conoscere da vicino l’esperienza dolciana. Nonostante la relativa breve durata del loro soggiorno e alcune rilevanti divergenze, politiche e personali – la collaborazione con una personalità così forte come Dolci non fu sempre facile – questa esperienza fu fondamentale per coloro che, come Raniero Panzieri che aveva seguito da vicino l’attività di Dolci (Rizzo, 2001), pochi anni più tardi avrebbero dato vita all’esperienza dei Quaderni Rossi, divenendo un nucleo estremamente fecondo della sinistra eterodossa italiana.
Ecco perché si ritiene che la Sicilia, la Sicilia di Danilo Dolci in particolare, fu uno snodo cruciale per lo formazione politica di un certo ambiente intellettuale su scala nazionale. Alla metà degli anni Cinquanta le idee della democrazia di base, dell’intervento non al di sopra ma all’interno delle e con le masse, idee che avrebbero caratterizzato profondamente la 'nuova sinistra' transnazionale negli anni a venire, avevano già trovato una prima significativa esperienza nel particolare ambiente politico, culturale e umano da lui creato. In particolare la pratica della 'autoanalisi popolare' – un laborioso processo preliminare alla presa di decisioni collettive così come alla costruzione di volontà politiche condivise – e 'l’inchiesta', volta a trasformare l’oggetto dell’intervento conoscitivo in soggetto consapevole della propria condizione e artefice del cambiamento, furono esperienze cruciali che avrebbero segnato in maniera determinante il lavoro politico del futuro gruppo torinese, il metodo della 'conricerca' (Rieser, 2008; Mottura, 2014) e nuove inchieste sociali, come quella sugli immigrati meridionali a Torino (Fofi, 1964). L’esperienza con Dolci fu sotto questo punto di vista uno snodo cruciale per la circolazione di idee e pratiche di 'vita associata democratica', che per vie e reti relazionali multidirezionali attraversarono l’intero Paese.
L’interesse e il riconoscimento della particolare rilevanza dell’impegno dolciano esorbitò inoltre dai confini nazionali: ne sono prova non solo le numerose traduzioni dei suoi scritti in diverse lingue, ma anche l’attribuzione di una serie di importanti premi e titoli onorari. Tra questi ricordiamo il premio Lenin per la pace (1958), grazie al quale fondò il Centro studi e iniziative per la piena occupazione a Partinico, e il premio Sonning per il contributo alla civilizzazione europea (1971), ma l’elenco è ben più ricco – ne riporta dettagliate informazioni la nota biografica di Ragone (Ragone, 2011, pp. 13-50) – e comprende anche prestigiosi premi letterari, come il premio internazionale Viareggio per la raccolta di poesie Creatura di creature (Milano 1979).
Cosa contraddistingueva l’impegno di Dolci al punto di farne una figura di riferimento così significativa e influente in Italia come all’estero? Due ci paiono i tratti più essenziali della sua ricca biografia.
Scriveva Aldo Capitini nel 1958: «Chi può negare che ci sia una linea dal Danilo Dolci che nel gennaio 1952 arrivò a Trappeto per aiutare quelli ‘che non ce la facevano’ a vivere, al Danilo Dolci di oggi, tutto impegnato a stimolare tutti a fare dell’Italia una Repubblica veramente fondata sul lavoro?» (Capitini, 1958, p. 29). Dolci colse il senso del lavoro come dimensione cruciale per il riscatto sociale e il superamento di rapporti di prevaricazione sin dai primi mesi del suo arrivo a Trappeto e su tale consapevolezza continuò a lungo a orientare gran parte del suo impegno. Nel particolare tessuto politico e sociale siciliano il lavoro si caricava infatti di un valore particolare di liberazione da un dominio di matrice feudale che continuava a condannare vasti strati di popolazione all’indigenza, all’ignoranza e alla subordinazione passiva su basi di violenza intimidatrice. Tutto ciò era in buona parte riconducibile al fenomeno mafioso, un problema enorme di fronte al quale Dolci, in stretta collaborazione con Franco Alasia, non si sottrasse, intraprendendo inchieste in grado di rendere noti nomi e modalità di un sistema che lui definì clientelare-mafioso (Dolci, 1966; Id., 1968), e che gli costò, come pure ad Alasia, un processo per diffamazione e una condanna poi condonata.
Tornando alla questione del lavoro, emerge quanto le azioni di Dolci fossero in sintonia, nonostante le diverse modalità, con le lotte portate avanti dalla sinistra italiana in quello stesso periodo. Negli anni Cinquanta la questione del lavoro riguardava infatti l’intero Paese, basti ricordare la mobilitazione della CGIL di Di Vittorio, che con il suo Piano del lavoro (1949-50) aveva contribuito non poco a caricare di istanze concrete l’art. 1 della neonata Repubblica italiana (Loreto - Musso, 2014). Un raccordo particolarmente significativo tra l’intervento di Dolci in Sicilia e l’impegno civile e politico della sinistra italiana si ebbe in occasione dello 'sciopero a rovescia', organizzato da Dolci nei primi mesi del 1956 per richiamare l’attenzione sull’assenza di infrastrutture elementari, come le strade, e le effettive possibilità occupazionali nella provincia palermitana. Non si trattava di una forma di lotta inedita nell’Italia di quel periodo, inedita fu tuttavia la rete di solidarietà nazionale che si sviluppò a seguito dell’arresto di Dolci e di quattro sindacalisti coinvolti nello sciopero (Schirripa, 2010, p. 73 sgg.). Il processo a Dolci fu tramutato dal suo illustre difensore Piero Calamandrei in un atto d’accusa contro una classe dirigente che non si premurava di onorare il diritto costituzionale al lavoro sancito dall’art. 4. Grazie alla vasta solidarietà sviluppatasi numerosi intellettuali, politici, e scrittori si presentarono al processo per deporre in favore degli accusati, testimonianze che l’editore Einaudi pubblicò prontamente nel volume Processo all’art. 4 (Torino 1956) e che a distanza di sessant’anni testimoniano della centralità ascritta a una certa concezione del lavoro per la costruzione della democrazia nell’Italia postfascista (Fofi, 2006). Una concezione che Dolci e i suoi compagni di lotta espressero come segue in una lettera indirizzata alle più alte cariche istituzionali per spiegare le ragioni dello 'sciopero a rovescia' e il relativo digiuno intrapreso: «Non per disperazione oggi digiuniamo, ma nella speranza di contribuire perché l’Italia diventi un paese civile. Sappiamo che lavorando generosamente siamo la vita. Chi ci impedisce è assassino: non paghiamo le tasse perché il nostro paese […] sia una mala galera in mano ai prepotenti. Firmato: mille cittadini che credono nell'articolo 4 della Costituzione» (Dolci in Spagnoletti, 1977, p. 83).
Il lavoro espressione di vita: questa l’idea che avrebbe guidato lunghe e difficili lotte, ma coronate dal successo, per interventi sul territorio atti a favorire l’occupazione e una vita dignitosa alla popolazione. Dolci alternò progetti concreti, come la realizzazione delle dighe dello Jato e di Roccamena (Barbera, 1964), a iniziative di ricerca, approfondimento e raccolta di fondi per promuovere il lavoro. Rientravano tra queste sia l’organizzazione di importanti convegni che con la partecipazione di studiosi autorevoli contribuirono a fare della piena occupazione una istanza di respiro nazionale, sia la realizzazione di centri permanenti di studio, come il Centro studi e iniziative per la piena occupazione nel 1958 (poi Centro per lo sviluppo creativo) e il Centro di formazione per la pianificazione organica, dal 1968, volto alla formazione di quadri competenti per l’intervento sul territorio a partire da un confronto costante con la popolazione locale.
Tutti i diversi ambiti di azione erano di pari importanza nell’approccio dolciano alla questione del lavoro. Sul piano economico-produttivo egli mirava a promuovere lo sviluppo di un’agricoltura svincolata dal controllo mafioso e capace di garantire il benessere della popolazione; su quello politico e pedagogico si adoperava invece affinché gli obiettivi perseguiti si realizzassero attraverso pratiche politiche autenticamente democratiche e nonviolente, contribuendo di conseguenza ad alimentare costantemente la cultura politica della partecipazione.
La nonviolenza è stata a lungo, e giustamente, identificata come la cifra peculiare dell’agire dolciano. Per Dolci stesso la nonviolenza costituiva un valore imprescindibile, su di essa scrisse e fu spesso chiamato a esprimersi esplicitamente. Praticare la nonviolenza significava per lui aprirsi al mondo e lottare per il suo cambiamento con mezzi tali da prevenire il riprodursi della violenza. Il rifiuto di uccidere, l’importanza di sottrarsi a schieramenti ideologici e chiusure pregiudiziali, credere nella possibilità di infrangere consolidate forme di dominio e sopruso furono i principi cardine che orientarono con estrema coerenza la sua vita e le sue numerosissime iniziative. Il digiuno – a partire da quello dell’ottobre 1952 – divenne con lui una pratica originale ed efficace nel panorama politico degli anni Cinquanta, segnato soprattutto da scioperi e proteste di piazza, oltre che repressioni da parte delle forze dell’ordine, troppo spesso degenerate in omicidi di manifestanti.
Come già ricordato, il suo primo sciopero della fame non si rifaceva a presupposti teorici di alcun tipo. La notizia dell’atipica protesta dolciana colpì invece immediatamente l’attenzione di un precursore della nonviolenza nell’Italia repubblicana, il filosofo Aldo Capitini, il quale da Perugia gli fece pervenire parole di piena approvazione e sostegno. Questa presa di contatto fu non solo il primo passo di una nuova e importante amicizia; l’intenso confronto con Capitini, durato fino alla morte di questi (1968), rappresentò anche l'occasione per avviare l'approfondimento teorico dei presupposti della nonviolenza. Sotto questo profilo Capitini fu un vero e proprio maestro per Dolci e questi, dal canto suo, fu indubbiamente uno dei migliori 'allievi' del filosofo. Come emerge dalla corrispondenza tra i due (Barone - Mazzi, 2008), Capitini vedeva nell’agire di Dolci la migliore concretizzazione dei suoi ideali e della sua concezione di azione nonviolenta. La nonviolenza fu per certi versi la base più solida di convergenza tra i due, il nucleo valoriale a cui entrambi attinsero nell’alimentare la loro crescente stima reciproca e profonda amicizia.
Ci pare tuttavia che se si sposta il punto di osservazione dall’iniziale afflato spirituale alle attitudini mostrate nei decenni successivi, è possibile sostituire progressivamente la cifra della nonviolenza con quella di una radicale consapevolezza democratica. Che si considerino la pratica dell’autoanalisi popolare, le sperimentazioni in ambito educativo, la concezione del metodo maieutico, o ancora, la trasformazione del Centro studi sull’occupazione in Centro per lo sviluppo creativo, si può constatare la costante presenza di un elemento profondamente qualificante il suo agire: la ricerca, la promozione, l’alimentazione della partecipazione, del coinvolgimento attivo e della presa della parola da parte di tutti i cittadini – non «paesani», come scriveva nella raccolta Il limone lunare (Bari 1970) – di una comunità. In questo suo procedere Dolci alimentava circuiti comunicativi circolari e processi decisionali il più possibile condivisi, e promuoveva di fatto la cultura della democrazia diretta o democrazia di base, quella stessa che in altri contesti ma nello stesso periodo veniva teorizzata in termini di partecipatory democracy.
In questo aspetto, più ancora che nella nonviolenza, si distinse dalle pratiche degli altri attori impegnati in progetti di emancipazione di soggetti subalterni, tra cui, in primis, la sinistra istituzionale. Anche questa, nonostante un rapporto difficile con il tema della violenza rivoluzionaria, mai si fece promotrice di pratiche esaltanti la violenza. Se tra i digiuni di Dolci e le manifestazioni sindacali di piazza vi era insomma una sostanziale condivisione di pratiche nonviolente, la differenza risiedeva invece nell’importanza che egli attribuiva alla partecipazione di base. In questo Dolci si distanziava profondamente dalle modalità verticistiche tipiche dei partiti dell’Italia repubblicana, necessariamente ancorati ai principi della democrazia rappresentativa, cui però spesso aggiungevano un di più di centralismo che certamente non stimolava la cultura della partecipazione democratica.
Sotto questo profilo Dolci può essere più adeguatamente collocato vicino all’orientamento della nuova sinistra, pur se egli mai vi si riconobbe esplicitamente. La sua sensibilità per la democrazia sostanziale, per la cultura politica della partecipazione e della condivisione, così come emerge anche nello scritto indirizzato Ai più giovani (Milano1967), sempre più insofferenti all’ordine sociale esistente, attestano una implicita affinità con l’orizzonte politico e culturale che nel corso degli anni Sessanta andò strutturandosi attorno al pensiero della nuova sinistra transnazionale. Una certa affinità può essere riscontrata non solo sul piano astratto dell’orizzonte valoriale, ma anche, e forse in misura ancora maggiore, rispetto alle pratiche della politica dolciana. Pratiche definite significativamente 'antiautoritarie' dal gruppo tedesco di solidarietà terzomondista Brot für die Welt (Ragone, 2012, p. 41), implicando un nesso, seppur indiretto, con l’antiautoritarismo caro alla nuova sinistra tedesca. L’antiautoritarismo dolciano si esprimeva particolarmente nell’importanza che egli attribuiva alla comunicazione, intesa come processo necessariamente creativo ed educativo, perché fondato sullo scambio, confronto e sviluppo continuo di idee e saperi (Dolci, 1985). La crescente attenzione sui molteplici potenziali della comunicazione lo portò peraltro a farsi involontariamente pioniere dell’uso democratico di un mezzo convenzionale quale la radio. Con la creazione di Radio libera Partinico nella primavera del 1970, per denunciare le condizioni in cui ancora viveva la popolazione colpita dal terremoto del Belice due anni prima, si inaugurava un impiego di questo mezzo come strumento di comunicazione dal basso e multidirezionale, in contrapposizione all’uso monodirezionale e controllato dai poteri pubblici fino ad allora praticato (Lorrai, 2015). Sotto questo profilo Dolci ci appare perfettamente in sintonia con le istanze su cui si sviluppò la nuova sinistra, nonché un anticipatore di alcune pratiche che l’avrebbero caratterizzata.
Tra il Dolci che nel 1952 abbandonò il «caldo nido» di Nomadelfia per aprirsi al «resto del mondo» a quello dedito, negli anni Settanta, al Centro educativo di Mirto – su cui in più occasioni fece convenire i più competenti pedagogisti di fama internazionale –, al Dolci che nel 1985 trasformò il Centro studi per la piena occupazione in Centro per lo sviluppo creativo, si può riconoscere il percorso di una vita condotta con estrema coerenza. La volontà di partecipare alla vita per contribuire a cambiarne le condizioni più inaccettabili rappresentano un punto fermo nella biografia di Dolci, anche dopo gli anni Cinquanta, il periodo di maggior incisività della sua azione. La motivazione che lo portò a intraprendere il suo primo digiuno fu la stessa che lo portò a concentrarsi sui metodi educativi negli ultimi decenni della sua vita. Partendo da problemi concreti e circoscritti – l’indigenza, il dominio mafioso, il governo delle acque e l’organizzazione del territorio – focalizzò progressivamente il suo intervento sull’educazione, intravedendovi le premesse fondamentali da cui partire per infrangere i meccanismi di riproduzione di ignoranza, dominio, violenza. Anche in questo ambito – incentrato sul concetto a lui caro di maieutica (Dolci, 1996; Ragone, 2011, pp. 177-82; Mangano, 1992) – egli non operò individualmente, bensì coinvolse pedagogisti, centri di ricerca, scuole, insegnanti, giovani, istituzioni nazionali e internazionali (già nel 1980 fu invitato a prendere parte a un simposio sull’educazione organizzato dall’UNESCO). La laurea honoris causa in scienze dell’educazione conferitagli dall’Università di Bologna nel 1996 attesta il riconoscimento istituzionale di cui fu coronato questo percorso.
L’evoluzione di Dolci non rifletteva tuttavia unicamente la sua maturazione interiore. Nel frattempo anche la Sicilia era cambiata, numerosi problemi erano rimasti, ma l’indigenza non era più causa di morte, la popolazione si era urbanizzata e integrata, soprattutto emigrando al Nord, nei circuiti dell’economia fordista e dei consumi di massa. I 'banditi' di Partinico si erano in qualche modo emancipati, altri erano forse diventati potenti mafiosi, ma la rudezza del tessuto sociale si era indubbiamente mitigata in virtù di un processo di mobilità sociale che aveva attraversato anche la Sicilia. Inoltre, le idee della democrazia di base avevano trovato una potente cassa di risonanza nelle culture giovanili, benché caricate di connotazioni politiche diverse da quelle dolciane.
Va aggiunto, per concludere, che Dolci non coincise mai pienamente coi ruoli che ricoprì nelle diverse fasi della sua vita. La sua figura presentava punti di incontro e convergenza con mondi tra loro molto distanti – la spiritualità cristiana, la sinistra marxista ortodossa ed eterodossa, il mondo della cultura e della scienza, la povera gente – senza mai aderire, tuttavia, esclusivamente ad alcuno di questi, all’insegna di una soggettività eccezionalmente ricca, che rifiutava appartenenze entro rigidi confini identitari. Ancora alla fine degli anni Novanta, quando lo si poteva ormai identificare come un pedagogista, benché non smise mai di scrivere poesie, il suo impegno debordante si spostò sulle attività della NATO in Sardegna, mettendone in discussione sia la legalità, sia il grave impatto ambientale. Il Dolci pedagogista si ricongiungeva così, secondo un moto circolare in continua espansione, col Dolci antimilitarista e pacifista già emerso in gioventù.
La sua vita fu in effetti un moto intenso e continuo che si concluse nella sua amata Partinico il 30 dicembre 1997.
Tra i testi selezionati per la stesura di questa voce biografica si vedano Chi gioca solo, Torino 1966; Ai più giovani, Milano 1967; Inventare il futuro, Bari 1968; Palpitare di nessi. Ricerca di educare creativo a un mondo nonviolento, Roma 1985; La struttura maieutica e l’evolverci, Scandicci 1996.
A. Capitini, D. D., Manduria 1958; L. Barbera, La diga di Roccamena, Bari 1964 (nuova ed. Porretta-BO 2016); G. Fofi, L’immigrazione meridionale a Torino, Milano 1964; Conversazioni con D. D., a cura di G. Spagnoletti, Milano 1977; Inchiesta sulla miseria in Italia, a cura di P. Braghin, Torino 1978; G. Fontanelli, D. D., Firenze 1984; A. Mangano, D. D. educatore. Un nuovo modo di pensare e di essere nell’era atomica, Fiesole 1992; Intervista di M. Tarozzi a D.D., Come l’ape che si posa su un fiore, in DuemilaUno, X (1995), 49, http://www.centrostudialeph.it/archivio/dolci/web_site/dda/tarozzi.html (6 sett. 2016); G. Barone, La forza della nonviolenza. Bibliografia e profilo biografico di D. D., Napoli 2000; D. Rizzo, Il Partito socialista e Raniero Panzieri in Sicilia (1949-1955), Soveria Mannelli 2001; Raccontare D. D. L’immaginazione sociologica, il sottosviluppo, la costruzione della società civile, a cura di S. Costantino, Roma 2003; G. Fiocco, L’Italia prima del miracolo economico: l’inchiesta parlamentare sulla miseria, 1951-1954, Manduria 2004; G. Fofi, L’inchiesta sociale in Italia e le sue diramazioni, in Lo straniero, 2005, n. 62-63, pp. 46-50; R. Rochefort, Sicilia anni Cinquanta. Lavoro cultura società, Palermo 2005 [Paris 1961]; Perché l’Italia diventi un paese civile. Palermo 1956: il processo a D. D., a cura di G. Fofi, Napoli 2006; Aldo Capitini - Danilo Dolci. Lettere 1952-1968, a cura di G. Barone - S. Mazzi, Roma 2008; V. Rieser, L’inchiesta nella fabbrica e nella società, in L’inchiesta sociale in Italia, a cura di E. Pugliese, Roma 2008, pp. 55-59; V. Schirripa, Borgo di Dio. La Sicilia di D. D. (1952-1956), Milano 2010; M. Ragone, Le parole di D. D.. Anatomia lessicale-concettuale, Foggia 2011; Verso la città territorio. L’esperienza di D. D., a cura di G. Corsani - L. Guidi - G. Pizziolo, Firenze 2012 (in partic. G. Corsani, La nascita del Borgo di Dio. Presentazione dell’opuscolo, pp. 167-70; M. Pieracci Harwell, D. D. nei primi anni ’50, pp. 123-37); P. Bisconti, Il ricordo di D. D. attraverso le parole della sorella, 2013, http://www.linkiesta.it/it/blog-post/2013/02/10/il-ricordo-di-danilo-dolci-attraverso-le-parole-della-sorella-miriam/14496/ (15 agosto 2016); Il Piano del Lavoro del 1949: contesto storico internazionale e problemi interpretativi, a cura di F. Loreto - S. Musso, Roma 2014; G. Mottura, Vittorio Rieser e l’inchiesta, in Inchiesta, 2014, n. 184, pp. 19-20; M. Lorrai, La breve primavera della radio locale, in L’Italia e le sue regioni, a cura di M. Salvati - L. Sciolla, vol. 4, Società, Roma 2015, pp. 425-42.
Principale sito di riferimento è quello del Centro sviluppo creativo Danilo Dolci: http://danilodolci.org/.