Danimarca
Stato dell’Europa centrosettentr., con capitale Copenaghen. La D. fu abitata in epoca antica da cimbri e teutoni, che mantennero scambi commerciali con l’impero romano, e poi con l’impero bizantino. Fu unificata sotto lo scettro di Gorm il Vecchio, il cui figlio Aroldo II (m. 988) introdusse la religione cattolica nel Paese e s’impadronì della Norvegia e del Holstein. Successivamente Canuto il Grande (m. 1035) estese la sovranità danese su tutto il Mare del Nord, sottomettendo anche l’Inghilterra, e su buona parte del Baltico. Alla sua morte, il grande impero si sfasciò e l’Inghilterra fu persa. Dopo aver scongiurato un’invasione slava (1043), la D. riacquistò l’indipendenza con Svend Estridson (1047-76), che separò la Chiesa danese dall’arcivescovato di Amburgo-Brema. Tra i discendenti di Svend scoppiò una sanguinosa guerra civile, dalla quale uscì vittorioso Valdemaro I (1157-82); sotto Valdemaro II (1202-41) il regno si estese nel Baltico con la conquista dell’Estonia, e in Germania con quelle delle terre tra l’Eider e l’Elba, conquiste riconosciute dall’imperatore Federico II, ma cui lo stesso re dovette poi rinunciare (1227). Alla sua morte la D. divenne campo di lotte intestine e aggressioni esterne, che condizionarono la politica del Paese per oltre un secolo. Nel 1282 fu sottoscritta una Magna Charta di diritti, con cui il sovrano s’impegnava a governare il Paese in collaborazione con i nobili e conferiva al Parlamento e ad alcune assemblee anche poteri legislativi; il patto sarebbe durato fino alla seconda metà del 17° sec., quando trionfò l’assolutismo monarchico. La lotta per il regno tra Cristoforo II e Valdemaro III, nel secondo decennio del 14° sec., portò all’occupazione del Paese da parte di nobili tedeschi, ma Valdemaro IV (1340-75) ristabilì l’autorità della monarchia con una politica espansionistica nel Baltico, anche se la Lega anseatica lo obbligò a riconoscere nel 1370 (Pace di Stralsunda) il proprio dominio commerciale nel Baltico. Nel 1397, la regina Margherita costituì l’Unione di Kalmar fra i tre regni di D., Norvegia (ne dipendeva anche l’Islanda) e Svezia (allora comprendente anche la Finlandia). Sotto i successori di Margherita si verificarono, tuttavia, tentativi di distacco da parte della Svezia, che nel 1523 pose termine all’Unione di Kalmar. Nel 1536 il re Cristiano III introdusse la riforma luterana. Dopo l’intervento di Cristiano IV nella guerra dei Trent’anni (1625-29), l’egemonia sul Mar Baltico passò alla Svezia di Gustavo Adolfo. Dal 1660 la monarchia da elettiva divenne ereditaria e la «legge regia» (1665) conferì a Federico III poteri assoluti. L’affermazione dell’assolutismo monarchico e di una burocrazia centralizzata si accompagnarono a un rafforzamento della grande aristocrazia terriera, che tra il 16° e il 18° sec. controllava quasi tutta la terra coltivabile sottoponendo i contadini danesi a una pesante condizione servile; solo a partire dal 1784 la politica di riforme diede inizio a un processo di trasformazione sociale, abolendo progressivamente gli oneri feudali, liberalizzando il commercio e avviando una redistribuzione della proprietà terriera. Dopo la grande guerra del Nord (1700-21) e la rinuncia alla supremazia, il lungo periodo di pace successivo fu interrotto dalle guerre napoleoniche, che ebbero gravi conseguenze economiche; nel 1814 la Norvegia fu ceduta alla Svezia. La ripresa economica, dopo il 1830, si accompagnò a una crescita del movimento liberale e dell’agitazione nazionalista nei ducati dello Schleswig e del Holstein. Il tentativo di integrare lo Schleswig nello Stato danese provocò la guerra (1864) contro Austria e Prussia, conclusasi con la perdita di Schleswig, Holstein e Lauenburg. Le rivendicazioni liberali ottennero un primo successo nel 1849: Federico VII adottò una nuova costituzione che istituiva un Parlamento bicamerale e sanciva le libertà fondamentali.
La riforma costituzionale del 1915 sancì la piena affermazione del sistema parlamentare e l’avvento del suffragio universale (comprese le donne) in entrambe le Camere: per il Landsting, aboliti i seggi di nomina regia, l’elezione rimase indiretta e riservata ai maggiori di 35 anni; al Folketing il sistema uninominale fu sostituito da quello proporzionale tra il 1918 e il 1920 e l’età di voto fu abbassata a 25 anni (1920). Nel 1918 l’Islanda, che a partire dal 1874 aveva goduto di una crescente autonomia, ottenne il pieno autogoverno, restando legata alla D. soltanto nella persona del sovrano (Cristiano X: 1912-47) e per quanto riguarda la politica estera, nel 1920 fu risolta anche la questione dello Schleswig settentrionale, a maggioranza danese, che con un referendum decise la propria annessione alla D.; nello stesso anno questa entrava a far parte della Società delle nazioni. I liberali tornarono al governo nel 1920-24 e nel 1926-29, ma, a partire dal 1924, i socialdemocratici divennero la principale forza politica del Paese, guidando il governo nel 1924-26, con l’appoggio dei radicali, e poi, in coalizione con questi ultimi, dal 1929 al 1940. Durante gli anni Trenta furono adottate misure di controllo dell’economia e un’estesa legislazione sociale, che alleviò le conseguenze della grande depressione, mentre in politica estera il mantenimento di una posizione rigidamente neutrale non salvò la D. dall’aggressione nazista. Dopo aver firmato il patto di non aggressione proposto dalla Germania nel 1939, il paese fu invaso nella primavera 1940, pur mantenendo una parvenza di autonomia (governi di unità nazionale a guida socialdemocratica) fino al 1943, quando, di fronte allo sviluppo del movimento di resistenza, le autorità militari tedesche proclamarono la legge marziale e imposero un duro regime di occupazione. La situazione bellica contribuì al definitivo distacco dell’Islanda dalla Danimarca. Dopo la liberazione (maggio 1945) la D. riconobbe l’indipendenza islandese, rientrando invece in possesso delle isole Faerøer e della Groenlandia (resa indipendente nel 1979). L’esperienza della guerra indusse la D. ad abbandonare il tradizionale neutralismo e nel 1949 aderì al Patto atlantico. Negli anni successivi, condusse una politica prudente nei confronti dell’Unione Sovietica e del blocco orientale, rifiutò di accogliere armi nucleari nel territorio nazionale e cercò di limitare le spese militari. L’adesione al Consiglio nordico nel 1952 riconfermò i tradizionali legami con i Paesi della regione. Nel 1973 la D. entrò nella CEE dopo un acceso dibattito nel Paese. Sul piano istituzionale, l’abrogazione della legge salica permise a Margherita II di salire al trono (1972). Il sistema di welfare state fu confermato ed esteso. I socialdemocratici rimasero di gran lunga la forza principale, ma il sorgere di un polo alla loro sinistra (si affermò dal 1960 il Partito socialista popolare) e l’indebolimento dei radicali resero impossibile la ricostituzione della maggioranza bipartita prebellica, dando luogo a una notevole instabilità politica. Nel 1982, i conservatori tornarono, per la prima volta dal 1901, alla guida del Paese: la coalizione di centrodestra ridusse il tasso di inflazione, ma la persistenza di un equilibrio politico precario era confermata dalle numerose sconfitte parlamentari del governo di P.H. Schlüter. Negli anni Novanta la vita politica della D. fu caratterizzata dal dibattito sull’integrazione europea e da una difficile situazione economica; nel 1993 l’impegno dell’esecutivo di centrosinistra, tornato alla guida del Paese con P.N. Rasmussen (il centrosinistra sarebbe restato al governo fino al 2001), a sostegno del processo di integrazione europea pesò nell’approvazione del referendum di adesione al trattato di Maastricht. Nel 2000 fu bocciata l’adesione alla moneta unica e si configurò uno schieramento trasversale che vide uniti contro i sostenitori dell’euro (socialdemocratici, liberali, establishment economico e finanziario, sindacati) l’estrema destra xenofoba del Partito popolare danese (affermatosi alle elezioni del 1998), il Partito socialista popolare e gli ambientalisti, accomunati dal timore di una perdita di sovranità nazionale a vantaggio dell’Europa. Dopo le elezioni politiche del 2001, dominate dal dibattito sulla questione degli immigrati, i liberali, guidati da A.F. Rasmussen, diedero vita a un governo di centrodestra (con i conservatori e l’appoggio esterno del Partito popolare danese) che introdusse norme più restrittive in tema di immigrazione. Le elezioni politiche anticipate del 2005 premiarono la coalizione guidata da Rasmussen, mentre la crescita del Partito del popolo consolidò la presenza nel panorama politico nazionale della destra più radicale. Entrata in crisi la coalizione di governo, nelle elezioni anticipate del 2007 Rasmussen ha ottenuto una esigua maggioranza.