Danno da farmaci
La medicina contemporanea ha di fronte, tra gli altri, due problemi strettamente correlati. Da un lato aumenta la percentuale di anziani e la diffusione di malattie croniche, dall’altro cresce in parallelo l’impiego contemporaneo di farmaci diversi. Di conseguenza, si intensificano esponenzialmente i rischi di effetti collaterali e di interazioni tra farmaci, accentuando l’interesse per questo argomento. Ecco perché il danno da farmaci, indicato dagli studiosi con l’espressione reazione avversa da farmaci, calco di quella inglese adverse drug reaction (ADR), occupa sempre più spesso siti Internet o le colonne di riviste scientifiche e monopolizza pubblicazioni specializzate come l’«Adverse drug reaction bulletin» o il volume annuale «Side effects of drugs annual», curato da Jeffrey K. Aronson dell’università di Oxford e giunto nel 2009 alla 31a edizione.
Al fenomeno del danno da farmaci è stata riservata un’attenzione crescente a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta del 20° sec. quando, nel tentativo di conoscerlo meglio, gli studiosi concordarono che era utile distinguere ADR di tipo A e B, a seconda che l’effetto fosse legato all’azione curativa del farmaco (per es., il rallentamento mentale di un farmaco antiansia) o non avesse una connessione con esso (l’anemia causata da un antibiotico). Inoltre, per creare un linguaggio comune che facilitasse lo scambio d’informazioni, l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) propose di definire ADR «ogni effetto tossico non intenzionale che si osserva a dosi del farmaco usate nell’uomo per terapia, profilassi o diagnosi» (WHO, International drug monitoring. The role of national centres: report of a WHO meeting, 1972), definizione sovrapponibile a quella proposta quasi vent’anni dopo, nel 1989, dalla Food and drug administration (FDA). Una scelta ritenuta poi da molti osservatori troppo benevola nei confronti della realtà perché – come hanno osservato Virginia A. Sharpe e Alan I. Faden (1998) – molte reazioni avverse sono legate non alla molecola del farmaco in quanto tale, ma a errori nell’uso dei farmaci, come nel dosaggio, o a interazioni possibili di cui non si è tenuto conto nella prescrizione.
Dimensioni del problema
Un’indagine, condotta negli Stati Uniti su un campione di 63 ospedali e conclusasi nel 2006, ha indicato che ogni anno circa 700.000 persone si rivolgono a un pronto soccorso per danni da farmaci, nel 40% dei casi analgesici o antibiotici. Pubblicata nello stesso anno (Budnitz, Pollock, Weidenbach et al. 2006), l’indagine ha fatto emergere che circa 1/4 delle persone sono ultrasessantacinquenni, bisognose in metà dei casi di un ricovero, che in 1/3 dei casi si tratta di reazioni allergiche e in pari quantità di assunzione involontaria. Sempre nel 2006 è emerso che in Gran Bretagna ogni anno più di 250.000 persone sono ricoverate in ospedale per danni da farmaci, che il fenomeno costa 650 milioni di euro al sistema sanitario nazionale e che tra i farmaci più spesso responsabili figurano l’acido acetilsalicilico e altri antidolorifici/antinfiammatori, i diuretici e il warfarin, quest’ultimo usato spesso nelle malattie cardiocircolatorie. Da un’altra indagine condotta in Svezia e in Norvegia è emerso che il 3% di tutti i decessi nella popolazione è dovuto a farmaci (Wester, Jönsson, Spigset et al. 2007).
D’altra parte, è opinione diffusa che questi numeri non rispecchino la realtà. Sempre in Gran Bretagna, per es., un confronto diretto tra la segnalazione spontanea di ADR e un sistema di monitoraggio osservazionale di ADR su oltre 44.000 persone ha indicato che la percentuale di mancata segnalazione può arrivare al 98%. Uno studio condotto in Francia ha stimato che soltanto una su 24.000 reazioni è stata comunicata al centro regionale di farmacovigilanza e che, anche in caso di reazioni gravi e non riportate in etichetta, il numero di segnalazioni è stato di una su 4600. Negli Stati Uniti, mentre l’organo di sorveglianza sui farmaci, la FDA (Food and Drug Administration), ha ricevuto in media 82 segnalazioni all’anno di ADR associate all’impiego di digitale, i ricoveri ospedalieri per ADR correlate all’uso di questo farmaco registrati nell’arco di sette anni sono stati oltre 200.000. In Italia, da anni le segnalazioni di ADR sono più basse rispetto a quelle rilevate in altri Paesi. Dal 2001 al 2005 le segnalazioni annue hanno oscillato tra 6000 e 7000, con differenze importanti da regione a regione e con un tasso largamente al di sotto dell’obiettivo ottimale di 30 per 100.000 abitanti raccomandato dall’OMS. Almeno in teoria, il numero ridotto di segnalazioni può essere spiegato con differenze genetiche che rendono gli italiani più resistenti ai danni da farmaci, per es. per un assetto particolare di un pool di enzimi che metabolizzano i farmaci, ma è un’ipotesi che riscuote poca fortuna tra gli studiosi. È più facile che i medici italiani facciano semplicemente meno segnalazioni di ADR, magari solo perché non tendono ad attribuire a un farmaco la responsabilità del problema che assilla il malato.
Ruolo delle segnalazioni
Molti osservatori sono del parere che per ridurre i danni da farmaci nei prossimi decenni occorrerà migliorare lo studio degli stessi, nel senso di condurre uno studio continuo e più attento sui loro effetti, di migliorare la preparazione di chi li prescrive e rendere più snelle le procedure per ritirarli, se necessario, dal mercato. Anche se previsto nelle diverse normative nazionali, il ritiro di un farmaco dal mercato per la comparsa di ADR gravi e di un bilancio negativo rischio-beneficio è un processo laborioso e difficile. Il primo motivo è la difficoltà stessa di raccolta di dati sulle ADR, sia per un deficit di segnalazione da parte dei medici, sia per una sensibilità inadeguata degli organismi istituzionali.
Un problema presente, in diversa misura, in tutti i Paesi è la disparità tra i fondi destinati alla sorveglianza postmarketing e quelli destinati invece all’autorizzazione al commercio. Il settore del Ministero della sanità canadese incaricato della sicurezza dei farmaci, per es., dispone a malapena di un quinto dello stanziamento annuale rispetto a quello dedicato alle domande di registrazione e può contare solo su un quinto del personale. Negli Stati Uniti, nel 1999, la FDA aveva 1408 impiegati che si occupavano delle registrazioni dei farmaci e 72 erano addetti alla sorveglianza postmarketing di quasi 50.000 specialità medicinali. In Gran Bretagna, la MHRA (Medicines and Healthcare products Regulatory Agency) si dedica principalmente all’analisi dei dati precedenti la commercializzazione di un farmaco e presta meno attenzione alla sorveglianza postmarketing, cosicché, a causa di risorse limitate, le autorità possono incontrare difficoltà nell’effettuare il controllo delle informazioni ricevute.
Almeno in teoria, le fonti di informazione più importanti per l’analisi sulla sicurezza del farmaco dovrebbero essere i sistemi nazionali di raccolta delle ADR, argomento sul quale si registrano differenze significative tra i vari Paesi, espressione di una diversa cultura del farmaco. Da quando è iniziato il programma di raccolta dei dati, nel 1969, la FDA statunitense ha accumulato più di 2,5 milioni di segnalazioni, peraltro non tutte della stessa rilevanza. Quella di un caso importante o un gruppo di segnalazioni di eventi poco frequenti possono innescare iniziative delle autorità sanitarie e, in particolare, analisi più approfondite su tutti gli eventi dello stesso tipo. Così è avvenuto, per es., che le segnalazioni di ADR che hanno messo in relazione la fenilpropanolamina (usata come dimagrante) con l’ictus emorragico hanno portato al ritiro dal mercato di questo farmaco. In tutti i Paesi, i medici e gli altri operatori sanitari sono incoraggiati a segnalare possibili casi di ADR e in alcuni, tra cui Canada, Svezia, Gran Bretagna e Italia, sono accettate anche le segnalazioni effettuate personalmente dal paziente.
Consapevoli dell’inadeguatezza o, perlomeno, dell’incompletezza del sistema della segnalazione spontanea, in alcuni Paesi si è pensato a qualcosa di più sistematico, anche se è ancora troppo presto per conoscerne i possibili vantaggi. In Gran Bretagna, per es., la DSRU (Drug Safety Research Unit) dell’Università di Southampton, che gestisce il sistema PEM (Prescription-Event Monitoring), un monitoraggio di eventi conseguenti a prescrizione di farmaci, raccoglie i dati delle prescrizioni dei medici di medicina generale riferiti a gruppi di circa 10.000 malati curati con un farmaco nuovo. I medici ricevono un questionario che chiede loro di riportare qualsiasi problema/disturbo segnalato dai malati dopo la prescrizione. Inoltre, sempre in Gran Bretagna, è stato adottato un sistema di allarme originale per richiamare l’attenzione sui farmaci nuovi e raccogliere informazioni sulla loro sicurezza. Sulle scatole dei medicinali, per i primi due anni di commercializzazione, a fianco del nome della specialità è stampato un triangolo nero indicante che il farmaco è sotto stretto controllo da parte delle autorità sanitarie. In questo modo, medici e malati sono invitati a segnalare qualsiasi reazione avversa sospetta legata al suo impiego. In Giappone vige un sistema di sorveglianza attiva nei primi sei mesi di commercializzazione di un farmaco, sia mediante ripetute comunicazioni sulla vigilanza durante le prime fasi del periodo postmarketing, sia tramite domande rivolte ai medici dai rappresentanti delle case farmaceutiche.
I malati, in particolare, non sono stati considerati sinora una fonte d’informazione importante, ma c’è chi reclama a riguardo un cambiamento di rotta. Ogni malato è un ‘frequentatore assiduo’ di una malattia e può diventare un utente competente di una medicina. Come ha sostenuto Julius Barlow in un convegno organizzato da «Drug and therapeutics bulletin», una rivista della Consumers’ association inglese, «è inevitabile che i malati siano quelli che conoscono meglio di tutti la propria condizione e le sue conseguenze psicologiche, funzionali e sociali. Grazie a questa conoscenza approfondita e alla possibilità di controllare gli effetti dei trattamenti, il malato diviene spesso un esperto e può dare un contributo importante alla gestione della propria malattia» (Who are the experts, where is the expertise?, «Drug and therapeutics bullettin», 2002, 40, 7, p. 55). I malati possono trovare collegamenti, suggerire ipotesi di lavoro, riscontrare effetti inaspettati; essi vanno ascoltati prima, durante e dopo l’approvazione di un farmaco. Un esempio di come possa funzionare questo sistema di arruolamento dei malati per l’opera di segnalazione degli eventi avversi è un programma mandato in onda dalla BBC. Durante la trasmissione erano stati intervistati diversi malati che riportavano le reazioni avverse dovute al nuovo genere di antidepressivi indicati con la sigla SSRI (Selective Serotonin Reuptake Inhibitor). Da un confronto tra le segnalazioni dei malati e quelle dei medici emergeva che le prime erano più numerose ed erano caratterizzate da maggiore puntualità. È stato proprio sulla base di quelle segnalazioni che l’agenzia britannica ha riconsiderato i rischi possibili di un farmaco di questo genere, la paroxetina. L’OMS ha sottolineato più volte l’utilità di questo approccio multicanale tra medico e malato, perché nella ricerca di fenomeni avversi come quelli dei farmaci nessun canale è migliore di un altro.
Migliorare la qualità degli studi
Sinora, tendenzialmente in tutti i Paesi industrializzati, per ridurre le probabilità di reazioni avverse e misurare l’effetto curativo si è praticata la strada di indagini preliminari su un numero crescente di persone prima di commercializzare il farmaco. Il sentiero dalla molecola alla farmacia viene percorso in tappe successive proprio allo scopo di raccogliere informazioni diverse, a partire da quelle che si ottengono nei test preclinici condotti su cellule o su animali da esperimento. Queste prove possono durare da uno a cinque anni e forniscono le prime informazioni sulla sicurezza del farmaco, ossia sull’eventuale tossicità e sul funzionamento. Successivamente, si passa alla tappa dei test clinici, cioè alla sperimentazione sull’uomo, che prevede quattro fasi, per un periodo medio di cinque o sei anni, ma che possono durare da due a dieci.
Nella fase I il farmaco è somministrato in basse dosi a una decina di volontari sani con lo scopo di controllare che non sia tossico e in che modo sia metabolizzato dal corpo. La fase II coinvolge un primo gruppo di persone malate che potrebbe trarre vantaggio dal farmaco – in genere un centinaio – e mira a studiare gli effetti curativi, ad avere un primo bilancio tra rischi e benefici, a precisare le dosi e i tempi di somministrazione. In caso di risultati incoraggianti, si arriva alla fase III che serve a confermare se il farmaco è efficace e sicuro e se è migliore di altri in circolazione. In questa fase è coinvolto in genere un migliaio di malati, ma il numero varia in base alla frequenza del fenomeno di cui si vuole ridurre la frequenza, per es. una malattia o un sintomo, e all’efficacia attesa. È a questo livello che si ricorre al metodo dello studio controllato randomizzato (RCT, Randomized Controlled Trial) e si confronta il nuovo farmaco con il placebo o con uno già in circolazione. A questo punto, in caso di risultati positivi, il farmaco è registrato e se ne ammette la commercializzazione. Il problema è che queste prime prove coinvolgono non più di 4000-5000 persone e, solo quando il farmaco è negli scaffali delle farmacie, si entra nella cosiddetta fase IV, il periodo di sorveglianza postmarketing. Il farmaco è in commercio, ma sotto osservazione per controllare, nella pratica clinica di tutti i giorni e non più nell’ambiente sperimentale dell’RCT, che non causi problemi e per valutare meglio se e in che misura sia efficace.
Come accennato, il rischio connesso all’uso quotidiano di un farmaco nella popolazione generale è molto diverso da quello che emerge negli studi preliminari su una popolazione selezionata. Solo in questi ultimi anni ci si è resi conto che strumenti di verifica rigorosi e affidabili come gli RCT presentano dei limiti. Sono veri e propri esperimenti, con tutti i vantaggi e gli svantaggi, ma non è detto che i risultati siano applicabili ai malati seguiti ogni giorno negli ospedali o negli studi medici. Nelle fasi iniziali della vita di un farmaco, per avere informazioni precise sulla sua azione in una malattia gli RCT sono condotti su gruppi limitati di malati, per di più selezionati, e per un tempo ristretto. L’obiettivo principale degli RCT è misurare l’efficacia del farmaco, mentre gli effetti indesiderati sono rilevati incidentalmente e in modo non sistematico. Così, quando il medicinale viene commercializzato e assunto da decine di migliaia di malati, eventualmente con caratteristiche non proprio simili a quelli coinvolti negli RCT, possono presentarsi effetti secondari inattesi. Inoltre, durante i primi studi clinici di valutazione, non ci si preoccupa troppo delle interazioni possibili tra il farmaco allo studio e altri. La cerivastatina, un medicinale utilizzato nel trattamento dell’ipercolesterolemia, rappresenta un caso eclatante. Non ci furono affatto sorprese all’inizio, quando questo farmaco fu testato in malati che non assumevano altri medicinali. I problemi nacquero quando esso arrivò nelle farmacie e fu usato diffusamente anche da persone trattate con medicinali con cui la cerivastatina aveva un’interazione pericolosa.
Nella comunità scientifica è stato osservato che ci sono diversi modi per raccogliere maggiori informazioni sui possibili rischi di un farmaco e che questo tipo di studio dovrà procedere sempre più in questa direzione nei prossimi anni.
Per prima cosa, occorre andare oltre la prova degli RCT, che a parere di molti sono solo la fotografia di ciò che possono fare i centri qualificati e non rappresentano invece quello che succede ogni giorno nel consumo dei farmaci. La reale trasferibilità dei benefici ottenuti in condizioni sperimentali alla realtà della pratica clinica è una domanda cruciale alla quale solo da poco si cerca di dare risposta con la cosiddetta outcome research, vale a dire la ricerca di risultato. Se gli RCT consentono di ottenere informazioni preziose e precise sull’azione di un determinato farmaco in gruppi di pazienti molto selezionati, si possono avere risultati inattesi quando lo stesso è assunto da pazienti diversi e non più selezionati. Da qui la necessità di valutare cosa succede quando un farmaco viene prescritto nel contesto abituale della medicina curativa, ossia dell’outcome research che, tra l’altro, non serve solo a valutare gli effetti di una terapia nelle popolazioni reali (e non sperimentali), ma permette anche una riflessione globale sulle necessità dei malati e sui bisogni di migliorare l’approccio terapeutico in funzione di tali bisogni, individuando anche le aree grigie che fanno della pratica clinica un osservatorio privilegiato di pratica e di ricerca continua. Se gli RCT servono fondamentalmente all’industria per capire come agisce un medicinale e avere le informazioni necessarie affinché ne sia approvata la vendita, il ruolo delle outcome researches è di chiarire l’uso che ne viene fatto e le modalità con cui si affronta la cura di una determinata malattia.
In secondo luogo, sarebbe opportuno rinforzare l’azione di sorveglianza sugli effetti di un farmaco subito dopo la sua immissione sul mercato. Da un riesame dei dati resi pubblici dalle autorità statunitensi e britanniche riguardanti 11 farmaci nel periodo compreso tra il 1999 e il 2001, è emerso che quattro prodotti sono stati ritirati solo sulla base di segnalazioni spontanee, e due in virtù della dimostrazione di un effetto rilevante per il malato ottenuta da studi comparativi. Per questo si auspica la pianificazione di studi prospettici che inizino nella prima fase di commercializzazione del medicinale. In questa direzione destano viva speranza le regole sulle attività di farmacovigilanza pubblicate nel 2008 dall’EMEA (European MEdicines Agency), che sottolineano i passaggi da effettuare all’inizio della fase di postmarketing di un nuovo farmaco.
In ultimo, si dovrà prestare maggiore attenzione a un possibile conflitto d’interessi tra i ricercatori. In genere, oggi i mass media, i medici e l’opinione pubblica tendono a dare particolare importanza agli studi pubblicati su riviste prestigiose, i cui articoli enfatizzano oltre misura i vantaggi di un farmaco. Diversi casi hanno dimostrato che il conflitto d’interessi gioca un ruolo importante nel distorcere la qualità delle pubblicazioni. Un caso esemplare è stato quello occorso nel 1996, quando da una ricerca caso-controllo (Abenhaim, Moride, Brenot et al. 1996) risultò un rischio di ipertensione polmonare 23 volte superiore tra coloro che per dimagrire assumevano anoressizzanti derivati della fenfluramina, come la desfenfluramina. Nell’editoriale di commento a quell’articolo, Joann E. Manson e Gerald A. Faich (Pharmacotherapy for obesity. Do the benefits outweigh the risks?, «The New England journal of medicine», 1996, 335, 9, pp. 659-60) sostennero che l’uso di tali farmaci su un milione di soggetti trattati per anno avrebbe evitato il decesso di 280 persone e avrebbe indotto 14 decessi da ipertensione polmonare, concludendo con l’affermazione che «il possibile rischio di ipertensione polmonare associato alla desfenfluramina è piccolo e sembra irrisorio rispetto ai benefici ottenuti con una appropriata prescrizione del farmaco» (p. 659). Fu scoperto in seguito che entrambi gli editorialisti erano stati consulenti dell’industria che produce la desfenfluramina ed entrambi avevano prestato la loro opera, come esperti dell’industria, nel corso delle procedure di approvazione del farmaco da parte della FDA. I direttori della rivista, con un secco editoriale, dichiararono di essere venuti a conoscenza del possibile conflitto di interessi soltanto tre giorni prima della data di pubblicazione della ricerca e ribadirono la posizione assunta dalla rivista, che dal 1984 ha richiesto agli autori degli articoli originali di dichiarare i loro legami finanziari con le industrie e che dal 1990 ha introdotto un’ulteriore restrizione, rifiutando articoli di revisione ed editoriali da esperti che avessero un qualunque legame con l’industria. Naturalmente che si evidenzi una condizione di conflitto di interessi non significa che vi siano scorrettezze sul piano scientifico, tendenziosità, scarsa oggettività o addirittura faziosità. Un conflitto di interessi non comporta che si debba automaticamente negare la validità di ciò che è stato scritto o detto. Però è preferibile che chi legge un articolo, ascolta una conferenza, accetta una prescrizione sappia se l’autore, il relatore o il medico ha un qualche legame con un’industria che produce farmaci o dispositivi medici. Gli anglosassoni la chiamano disclosure, noi trasparenza.
Anche in considerazione di ciò che avviene sempre più spesso nelle società industrializzate, è bene che la condotta professionale di uno scienziato sia limpida, perché i risultati delle sue ricerche possono influenzare la vita di migliaia di persone (e non solo il budget di un’industria). Anche in campo scientifico, in materia di ricerche che riguardano la salute occorre che il ricercatore renda pubblici i propri legami così che il lettore, il medico o il malato possano valutare se le affermazioni a favore di un certo prodotto siano giustificate sul piano scientifico, o frutto di una indebita pressione esterna.
Danno da farmaci ed eventuali differenze biologiche
Molti studiosi sono convinti che il futuro della sperimentazione e dell’uso dei farmaci dovrà fare sempre più i conti con differenze biologiche come quelle uomo-donna e adulto-bambino, argomenti che hanno riservato parecchie sorprese negli ultimi anni.
Numerosi farmaci presentano differenze tra uomo e donna nel modo in cui sono assorbiti, distribuiti nel corpo, metabolizzati ed eliminati. In una ricerca condotta dalla FDA nel 1998 emerse che il 25% circa dei farmaci era eliminato diversamente: in qualche caso più rapidamente nell’uomo, in qualche altro nella donna. Ciò che più sorprende era che le dosi e i tempi previsti per i farmaci in commercio erano gli stessi. Ecco perché nella conclusione di uno studio specifico condotto dall’Institute of medicine nel 2000 si sottolineò che, proprio per tutelare i malati, bisognava studiare meglio sin dalle prime mosse l’effetto dei farmaci sull’organismo. Le sorprese tuttavia continuarono. Quando un’altra ricerca condotta nello stesso anno su 20 volontari – 10 uomini e 10 donne – cercò di studiare le eventuali differenze uomo-donna nel metabolismo del metoprololo, una sostanza molto usata in cardiologia, si scoprì che le donne ‘sentivano’ maggiormente l’effetto del farmaco, che restava più a lungo nel corpo e nel sangue in concentrazioni maggiori. Con un altro farmaco usato per curare il morbo di Crohn si arrivò alle medesime conclusioni e così pure con un terzo, la tirilazide. Dopo aver seguito oltre 6000 malati per alcuni anni è stato scoperto che uno dei farmaci in uso da più tempo (oltre 200 anni), la digitale, non esercitava alcun effetto sulla sopravvivenza degli uomini, ma riduceva quella delle donne. Si ipotizzò che l’effetto negativo non dipendeva in modo diretto dalla sua azione farmacologica, ma dal fatto che, a parità di dose, nelle donne, mediamente più piccole e leggere degli uomini, la digitale raggiungeva concentrazioni ematiche più elevate, diventando pericolosa. Dopo i primi risultati sconfortanti sull’efficacia del farmaco arrivati dall’Europa, nel 2001 si scoprì che vi era una differenza del 149% tra i due sessi nella velocità con cui il farmaco scompariva dal sangue. In pratica, la stessa dose determinava nelle donne una concentrazione ematica del farmaco inferiore di 2/3 rispetto agli uomini. Dato che negli studi uomini e donne avevano ricevuto la stessa dose di farmaco, questo poteva spiegare l’assai minore efficacia. Si era così persa l’opportunità di un medicinale nuovo per le donne e si erano esposti gli uomini a un rischio d’intossicazione da farmaco. Tutto era stato scoperto in volontari e comunque nelle prime fasi di studio del farmaco. Un’altra conferma del fatto è venuta dal gruppo guidato da Brenda Evelyn nel suo rapporto (B. Evelyn, T. Toigo, D. Banks et al., Women’s participation in clinical trials and gender-related labeling. A review of new molecular entities approved 1995-1999, 2001): di 185 farmaci nuovi, 125, ovvero il 68%, presentava qualche differenza tra i sessi. Anche in questo caso non è stata raccomandata ancora nessuna differenza uomo-donna nella terapia.
Nel nostro Paese, la Commissione salute donna istituita nel 2002 presso il Ministero della Salute, insieme all’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (AGENAS), ha promosso la costituzione di un gruppo di lavoro con il compito di formulare Linee guida sulle sperimentazioni cliniche e farmacologiche che tengano conto della variabile uomo/donna e del corretto utilizzo dei farmaci orientati per genere (gender oriented). L’iniziativa è stata presa in seguito alla constatazione che anche in Italia, nelle sperimentazioni, esiste una sottovalutazione delle donne sia per cause legate ai potenziali rischi sulla fertilità, sia per la ciclicità dell’attività ormonale. In pratica le donne assumono medicinali che non sono stati sperimentati su di loro in maniera specifica, nonostante si vadano sempre più notando differenze di comportamento e di risposta terapeutica dei farmaci proprio in funzione del sesso. A tale proposito agli sponsor, ai comitati etici e agli sperimentatori si dovranno formulare raccomandazioni affinché nella conduzione degli studi clinici siano incluse, in modo paritetico, metodologie statistiche e valutazioni relative a entrambi i sessi. Così, pur in assenza di una normativa dell’Unione Europea, sarà possibile anche in Italia iniziare l’attività di sperimentazione di farmaci gender oriented. Attività che negli Stati Uniti è già disciplinata dalle Linee guida emesse dalla FDA nel 2002, secondo cui l’autorizzazione e l’applicazione di un farmaco possono essere rifiutate dall’Amministrazione sanitaria competente qualora non vi siano adeguate valutazioni sull’efficacia e sicurezza per le sottopopolazioni definite dal sesso e dall’età.
Problemi analoghi a quelli esaminati a proposito delle differenze uomo-donna valgono nel caso adulto-bambino. Per molto tempo si è pensato che per non fare correre rischi in giovane età occorresse lasciare i bambini fuori dai trials. Poi si è visto che con i trials si sarebbe passati da un rischio cieco e inconsulto a uno calcolato. Attualmente si prescrivono medicine che non sono mai state testate sui bambini. Se non si hanno informazioni ben documentate da trials clinici specifici, si rischia che ogni prescrizione si trasformi in un esperimento non controllato; la realtà delle cose non cambia a seconda dell’età. Se il medico vuole agire nell’interesse del malato bambino, per essere sicuro che le medicine che usa risulteranno efficaci dovrebbe usare quelle sperimentate con trials su altri bambini. Nel 2002, l’associazione Working group on women and child health, impegnata nella ricerca di nuove cure per donne e bambini, preparò un documento sull’argomento (Improving child health. The role of research, «British medical journal», 2002, 324, 7351, pp. 1444-47) prendendo in considerazione il quadro mondiale e le priorità sanitarie. L’auspicio, per quanto riguardava la ricerca, era che gli interventi fossero basati su prove scientifiche affidabili per ottimizzare i risultati sulla salute dei bambini; di agire così nel loro interesse per proteggerli sia dai possibili rischi della ricerca sia dai pericoli derivanti dall’uso di farmaci provati in modo inadeguato.
Per soddisfare queste richieste i trials dovrebbero essere validi sul piano scientifico e sociale, dimostrativi, con un favorevole rapporto rischio/beneficio, soggetti a un giudizio etico esterno, condotti secondo uno standard appropriato e, naturalmente, dopo avere ottenuto un consenso informato. Si frappongono però degli ostacoli: per es., gli studi sui farmaci presentano rischi fisici o psicologici difficili da quantificare. L’accettazione di un certo rischio è indispensabile perché si abbiano progressi curativi, per es. contro malattie infantili come la leucemia linfoblastica acuta o le malattie cardiache congenite. Inoltre, le ricerche con fondi industriali riguardano farmaci con alti volumi di vendite, come gli antibiotici, ma che fare di tutti gli altri? Sinora l’oscillazione tra la paura per un bambino-cavia e la voglia di sicurezza per il bambino-malato ha generato solo norme incerte, mentre sarebbe servita chiarezza d’intenti e di metodi. Esemplificativo è quanto accaduto in pochi anni negli Stati Uniti. Nel 1997 la legge nota come Food and drug administration modernization act of 1997 (7 genn. 1997) prevedeva un contributo sostanzioso alle ditte che avessero voluto condurre sui bambini studi sull’efficacia di farmaci di cui era già autorizzata la vendita: trials riguardanti malattie serie e che avessero interessato un campione piuttosto ampio di giovani malati, con benefici curativi sostanziali, e trials in bambini di età diversa. Il contributo permetteva un prolungamento di sei mesi del monopolio brevettuale sul farmaco sperimentato. In questo modo, da stime fatte dalla FDA, le ditte avrebbero avuto un incremento di fatturato di 29 miliardi di dollari nei venti anni successivi, mentre ciò sarebbe costato ai consumatori 14 miliardi di dollari. Nel 2000 la FDA pediatric rule chiedeva di più esigendo studi sui bambini per qualsiasi nuovo farmaco previsto in ambito pediatrico. Nel 2001 la FDA fissava una norma di controllo sui trials condotti sui bambini, la Additional protections for children (24 apr. 2001) stabilendo che questi fossero condotti in modo corretto, nel rispetto di norme etiche di sicurezza. Si trattava della prima norma della FDA specifica sui bambini e prevedeva, tra l’altro, che questi fossero per quanto possibile d’accordo nel partecipare alla ricerca e che i loro genitori firmassero un foglio di consenso informato. La Best pharmaceuticals for children act (4 genn. 2002) ha promosso lo studio sui bambini di un numero maggiore di farmaci presenti sul mercato. Oltre a ribadire una protezione brevettuale più lunga in cambio di studi più accurati, la norma imponeva di trasmettere ogni nuova informazione buona o cattiva acquisita durante il trial.
Sull’argomento, i diversi Paesi e i diversi ricercatori non usano ancora un linguaggio comune e questa sarà una formidabile sfida per garantire meno rischi con i farmaci a donne e bambini nei prossimi decenni.
Migliorare la preparazione dei prescrittori
L’importanza del problema è ricordata ripetutamente sulle riviste mediche di aggiornamento e dalle società scientifiche e riguarda ogni momento della vita professionale, dalla preparazione del medico alla fase di esercizio della professione.
Per quanto riguarda la prima, secondo la British pharmacological society il problema degli errori è almeno in parte dovuto alle carenze di istruzione degli studenti di medicina. Nel 1994, gli aspiranti medici britannici erano tenuti a frequentare una media di 61 ore di lezione di farmacologia. Per fare un paragone, gli studenti di infermieristica che frequentavano l’University of Liverpool dovevano seguire un corso di addestramento di 162 ore di teoria e 90 di pratica in farmacologia. Senza adeguate conoscenze scientifiche e cliniche di base, la percentuale di errori di prescrizione tra i neomedici è fatalmente elevata. La British pharmacological society ha elaborato un test per verificare l’adeguata preparazione dei medici nelle università britanniche, ma il problema ha basi strutturali molto difficili da modificare.
Un altro aspetto importante è la necessità di migliorare la correttezza e la completezza delle informazioni continuamente fornite ai prescrittori, temi ai quali non si presta la dovuta attenzione per ragioni che sono state riesaminate in una rassegna pubblicata sull’«Adverse drug reaction bulletin» (Lexchin 2006). Vi si poteva leggere, tra l’altro, che da uno studio era emerso come la gravità degli effetti avversi e la tossicità determinata con test di laboratorio fossero state definite in modo adeguato solo nel 39% e, rispettivamente, nel 29% di 192 pubblicazioni di RCT, e che solo il 46% degli studi precisava quanto spesso fosse stato necessario sospendere il trattamento a causa di eventi avversi. Inoltre, negli Stati Uniti, dal 1998 al 2003, le aziende farmaceutiche hanno concordato con la FDA di iniziare studi postmarketing concernenti la sicurezza o le reazioni indesiderate di alcuni farmaci e le interazioni farmaco-farmaco; tuttavia, solo una parte di questi studi è stata completata. Del resto, ricerche del genere sulla sicurezza dei farmaci possono non essere effettuate, o completate, o terminate con ritardo, ma senza rendere pubblici i risultati.
Entrambe le considerazioni appena fatte indicano che premessa indispensabile per un valido comportamento del medico è promuovere un’informazione corretta e aggiornata, una conoscenza esatta di ciò che è stato scoperto. Ma perché l’informazione sia adeguata occorre soddisfare almeno due condizioni: che sia corretta e che sia diffusa in modo appropriato tra gli operatori. Per quanto riguarda il secondo aspetto, il divario tra l’informazione industriale e quella istituzionale o indipendente è enorme e rappresenta un problema da risolvere se si vuole migliorare la qualità della prescrizione farmaceutica e ridurre quindi l’incidenza della tossicità da farmaci. In Italia, secondo l’Istituto di management sanitario (IMS), l’industria farmaceutica ha speso nel 2001 circa 1067,3 milioni di euro per informazioni medico-scientifiche; cifra che, secondo Abacam (la Banca dati Multimedia), andrebbe quasi raddoppiata e fissata a 2066,7 milioni. Nello stesso anno il Ministero della Salute ha investito in tema d’informazione 25 milioni di euro. Il problema non è solo italiano. Negli Stati Uniti l’industria spende ogni anno 8000÷13.000 dollari per medico per la promozione dei suoi prodotti, con il sostegno di circa ottantamila rappresentanti. Come è stato sostenuto in diverse occasioni, non meraviglia che tanto più i medici accettano per buone le informazioni industriali, tanto meno saranno razionali le loro prescrizioni. Il contatto abituale con il rappresentante promuove, tra l’altro, un comportamento poco critico nel medico e incoraggia aspettative irrealistiche nei malati. Un problema reso più serio dal fatto che l’industria spesso fornisce contributi finanziari anche alle associazioni di consumatori o di malati, senza che sia possibile accertare l’estensione di questo fenomeno.
Un ostacolo per la correttezza è il rilievo comune di articoli compiacenti o anche semplicemente di troppi articoli favorevoli sponsorizzati dall’industria. Da un riesame delle pubblicazioni concernenti i calcioantagonisti, una famiglia di farmaci molto usati per le malattie circolatorie, è emerso, per es., che la probabilità di trovare finanziatori industriali andava dal 90% per gli articoli in qualche modo a favore dei farmaci al 33% per quelli contrari. E lo stesso parere esprimeva il canadese Joel Lexchin (Lexchin, Bero, Djulbegovic, Clark 2003), docente di Health policy, management & evaluation presso la University of Toronto, quando, sulle pagine del «British medical journal», scriveva che le ricerche sponsorizzate dall’industria erano quattro volte più spesso favorevoli al farmaco di quelle indipendenti, e che non si era al sicuro neanche quando lo sponsor era istituzionale.
Un quadro di come vadano le cose in Italia è stato offerto da un editoriale del «British medical journal» firmato da Alessandro Liberati, docente dell’Università di Modena e Reggio Emilia, e Nicola Magrini, direttore del Centro per la valutazione dell’efficacia dell’assistenza sanitaria (CeVEAS) di Modena (Information from drug companies and opinion leaders, «British medical journal», 2003, 326, 7400, pp.1156-57). «L’asimmetria dell’informazione disponibile per i professionisti della salute e per i consumatori è una barriera fondamentale per scelte informate e razionali», sostenevano i due autori. Eppure un’asimmetria del genere esiste, era il loro commento. E per dimostrarlo prendevano in esame quanto riportato in un documento dell’European federation of pharmaceutical industries and associations (EFPIA) e nei commenti seguiti alla conclusione di uno studio relativo alla cura dell’ipertensione, il trial ALLHAT (Antihypertensive and Lipid-Lowering treatment to prevent Heart Attack Trial). I due studiosi lamentavano due aspetti in particolare: il merito delle critiche, ma soprattutto il fatto che le critiche e le osservazioni mosse allo studio non erano state inviate alla rivista che lo aveva pubblicato, il settimanale dei medici statunitensi «Journal of the American medical association». In questo modo – dicevano – si era creato un doppio scenario di discussione, quello della rivista, dove il confronto scientifico sarebbe stato tra pari, e quello di pubblicazioni rivolte a medici o malati, che poco sapevano del merito dello studio condotto negli Stati Uniti: «Le industrie e gli opinion leaders dovrebbero riconoscere il loro preciso dovere etico di evitare questo doppio linguaggio, quello adottato sulle riviste scientifiche e l’altro cui si ricorre parlando ai medici e all’opinione pubblica». Tra l’altro, è curioso che lo studio preso di mira sia stato proprio quello che negli Stati Uniti viene considerato lo standard per identificare cure economiche ed efficaci nella lotta all’ipertensione.
È stato rilevato da più parti che un sistema efficace per la diffusione capillare di informazioni sui possibili rischi di un farmaco è quello di una disseminazione personalizzata, il sistema della Dear letter inaugurato nei Paesi anglosassoni, approdato di recente anche nel nostro Paese, ma che dovrebbe o potrebbe avere ulteriore sviluppo nei prossimi anni. Un esempio è quello presente sul numero 5 del 2007 del «Bollettino d’informazione dei farmaci» dell’Agenzia italiana del farmaco (AIFA).
Soluzioni curative diverse: speranze e sorprese
Una soluzione teoricamente ideale per evitare il danno da farmaci sarebbe quella di rendere obsoleti questi mezzi curativi con soluzioni, laddove possibile, definitive. Ciò potrebbe riguardare non tutte le malattie, ma solo quelle con una base o una componente genetica decisiva. La cosa escluderebbe quindi le malattie infettive e presupporrebbe una conoscenza della causa biochimica e, appunto, genetica. Almeno per le malattie causate da un difetto piuttosto semplice del DNA (DeoxyriboNucleic Acid), si potrebbe pensare a quel punto di sostituire o vicariare i geni difettosi con altri funzionanti forniti dall’esterno, ossia a una terapia genica. Una soluzione tentata sinora solo per le malattie ereditarie molto gravi, incurabili e dalla causa piuttosto semplice, in particolare dovute al difetto di un solo gene. Il progresso delle ricerche a tale riguardo è testimoniato, tra l’altro, dal fatto che nel 1990 ha iniziato le pubblicazioni la rivista «Human gene therapy». Sinora, in ogni caso, gli studi sono stati condotti su malattie molto gravi e incurabili, come la ADA-SCID (Adenosindeaminasi-Severe Combined Immuno Deficiency), dovuta alla mancanza di un enzima, la adenosindeaminasi. Per alcuni anni, questo tipo di terapia è parsa difficile da praticare, ma virtualmente esente da pericoli o danni, cosicché per questo diversi Paesi hanno visto la nascita di centri o iniziative specializzati. In Italia, per es., è nata nel 1995 Telethon per la terapia genica, una joint venture tra l’Istituto scientifico universitario San Raffaele e la Fondazione Telethon per lo sviluppo della ricerca di base, preclinica e clinica nella terapia genica di malattie genetiche.
I primi collaudi sulle persone, però, hanno dimostrato che nel nostro futuro potrebbero esserci anche danni da terapie geniche. I primi del genere sono emersi nel 2003 durante una prova su 10 bambini malati di ADA-SCID. Nello studio, condotto presso l’Ospedale pediatrico Necker-Enfants malades di Parigi, si faceva uso di particolari virus, i retrovirus, per trasportare i geni sani all’interno del corpo dei malati, nelle loro cellule, sul loro DNA. Lo studio è stato sospeso dopo che si è verificato il secondo caso di leucemia tra i dieci bambini. Gli scienziati hanno ancora molti dubbi sulle possibili cause. L’ipotesi più probabile è che il retrovirus si sia inserito in prossimità di un oncogene, collegato alla leucemia infantile. Un’eventualità che la teoria aveva previsto ma che, secondo le statistiche, poteva verificarsi soltanto una volta su un milione. Come per il danno provocato da qualsiasi farmaco, anche in questo caso si è cercata la spiegazione, e gli studiosi sono stati abbastanza concordi nel ritenere che il retrovirus non s’inserisce in modo casuale nel DNA, ma predilige la posizione in prossimità dell’oncogene LMO2 che, attivandosi, può causare una malattia del sangue. Esaminando il DNA dei bambini trattati a Parigi, Christof von Kalle, dell’Ospedale pediatrico di Cincinnati, ha scoperto che nelle cellule modificate infuse a entrambi i bambini ammalatisi di leucemia il retrovirus si è inserito nello stesso punto, in prossimità di LMO2. Il genetista ha anche scoperto che la stessa inserzione si riscontra in un terzo bambino, che tuttavia non ha sviluppato il tumore. Il fatto ha provocato reazioni diverse nel tempo da parte di vari osservatori.
In tutti i casi, molte malattie continuano a essere oggetto di studio e sperimentazione, da quelle oggi incurabili ad altre che lo sono in parte come l’emofilia o il diabete tipo I. Per questo si parla anche di terapia genica per malattie acquisite. Per il cancro, per es., si stanno studiando terapie con geni suicidi, o terapie che bloccano lo sviluppo di vasi sanguigni nel tumore impedendone la crescita. Due terzi di tutti gli studi di terapia genica riguardano il cancro e molti stanno per entrare in fasi avanzate, per es. in fase III. Tra i tumori maligni oggi studiati vi sono quelli di cervello, fegato, cute, colon, reni e mammella. Altri studi di terapia genica si stanno conducendo per il trattamento di malattie neurologiche, per es. della malattia di Parkinson. Sinora, anche i casi riusciti hanno confermato che la terapia genica non permette di considerare obsoleto il tema del danno da farmaci; obbliga solo e parlarne in uno scenario diverso, con parole diverse.
Conclusioni
L’esperienza degli ultimi decenni ha indicato che il problema del danno da farmaci non si risolve semplicemente con un controllo più attento, più ampio o prolungato del farmaco prima della sua commercializzazione. Solo questa rappresenta un suo collaudo su larga scala, nelle condizioni più disparate, in persone di varia età e che si curano spesso con diversi farmaci contemporaneamente. Negli Stati Uniti, nel 2006, la FDA ha dichiarato che quasi 20 milioni di americani hanno fatto uso di cinque farmaci, in seguito ritirati dal mercato per ragioni di sicurezza. E nel suo saggio Deadly medicine (1995), Thomas J. Moore ricorda che «È stato stimato che in soli pochi anni 50.000 persone sono decedute a causa di farmaci usati per prevenire l’arresto cardiaco. Dopo che centinaia di migliaia di malati avevano preso questi farmaci, una sperimentazione clinica dimostrò che non prevenivano affatto l’arresto cardiaco, come i medici credevano. Questo errore di valutazione sulle proprietà di tali farmaci ha prodotto più morti di quanti gli Stati Uniti ne hanno avuti nelle guerre di Corea e Vietnam» (p. 34).
Sono vicende tragiche che però sottolineano concordemente un fatto fondamentale con il quale la medicina dei prossimi decenni dovrà misurarsi: la valutazione del danno che un farmaco può arrecare al malato è più difficile della valutazione dell’eventuale beneficio.
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Si veda inoltre:
Committee on safety of medicines, http://www.mhra.gov.uk/Committees/Medicinesadvisorybodies/CommitteeonSafetyofMedicines/index.htm (29 marzo 2010).