Danno da mancato godimento del riposo settimanale
L’Adunanza plenaria 19.4.2013, n. 7, si pronuncia sul risarcimento del danno dovuto al lavoratore per mancato godimento del riposo settimanale, affrontando in particolare la questione dell’onere della prova di cui è gravato il lavoratore ricorrente. La decisione ha aderito alla tesi, che sembrava superata nella giurisprudenza amministrativa dopo la risistemazione del danno non patrimoniale operata dalle Sezioni Unite 11.11.2008, n. 26972, che sostiene che l’onere della prova del danno può risolversi in un mero onere di allegazione del mancato godimento del riposo, e per aver sostenuto che, in presenza di tale allegazione, il danno è presunto iuris tantum.
Con la sentenza 19.4.2013, n. 7, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato è intervenuta a risolvere le oscillazioni giurisprudenziali insorte all’interno della giurisdizione amministrativa sullo statuto del danno da usura psico-fisica del lavoratore per mancata fruizione del riposo settimanale, a seguito della risistemazione generale della materia del danno non patrimoniale operata dalla nota sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione civile 11.11. 2008, n. 26972.
La pronuncia delle Sezioni Unite, infatti, ha riscritto lo statuto del danno non patrimoniale, delle voci in cui esso si articola, della sua applicabilità al di fuori della responsabilità extracontrattuale, dei termini di prescrizione in cui deve essere azionato, e degli oneri della prova che lo caratterizzano, ed ha conseguentemente imposto il ripensamento e l’adeguamento teorico al nuovo sistema di fattispecie particolari di danni tradizionalmente ricondotti al paradigma del danno non patrimoniale.
Tra queste vi era anche il danno da usura psico-fisica del lavoratore derivante dalla mancata fruizione del riposo settimanale, fattispecie di danno teorizzata in origine dalla giurisprudenza del giudice del lavoro1, e poi recepita anche da quella del giudice amministrativo relativamente ai rapporti lavorativi attribuiti alla sua giurisdizione2.
Per non confonderla con figure simili, è bene precisare che si tratta del danno derivante dall’aver prestato l’attività lavorativa per sette giorni consecutivi, in violazione del precetto previsto dall’art. 36, co. 3, Cost., secondo cui «il lavoratore ha diritto al riposo settimanale (ed a ferie annuali retribuite) e non può rinunciarvi». Non si tratta quindi del danno derivante dall’aver lavorato in giorno festivo, che trova già una propria compensazione nel c.d. soprassoldo domenicale previsto da alcuni contratti collettivi, che è destinato a compensare unicamente la particolare penosità del lavoro prestato di domenica, e non anche l'ulteriore disagio costituito dal mancato godimento del riposo settimanale entro il settimo giorno del turno3. Non si tratta neanche del danno derivante dal non aver fruito di recuperi compensativi per la prestazione dell’attività lavorativa oltre sei giorni consecutivi, perché la previsione nel contratto collettivo di un recupero compensativo che reintegri la proporzione massima di sei giorni lavorativi per uno di riposo non esclude la esistenza del danno da usura psico-fisica del lavoratore, ma al più la diminuisce4. Si tratta, quindi, del danno derivante dalla mera alterazione del ritmo biologico della persona cagionato dal mancato recupero delle energie psico-fisiche, che è conseguenza della alterazione della periodicità massima ammessa dalla Costituzione tra giorni destinati al lavoro e giorni destinati al riposo5.
Posto, pertanto, che, pur in mancanza di una norma specifica ed in assenza di previsioni nei contratti collettivi, la mera prestazione dell’attività lavorativa oltre il sesto giorno consecutivo dà comunque diritto ad un ristoro pecuniario che compensi l’alterazione del ritmo biologico della persona cagionato dal mancato recupero delle energie psico-fisiche, sulla natura giuridica di tale ristoro pecuniario in giurisprudenza erano state prospettate (prima della risistemazione generale del danno non patrimoniale operata dalle Sezioni Unite n. 26972/ 2008), tre tesi:
a) la natura di retribuzione, dovuta in base al principio di proporzionalità di cui all'art. 36 Cost.6;
b) la natura di indennizzo, determinabile anche equitativamente, per la privazione, pur legittima, della pausa destinata al recupero delle energie psicofisiche7;
c) la natura di risarcimento del danno, conseguente ad un illecito del datore di lavoro consistente nella violazione della norma generale dell’art. 36, co. 3, Cost.
Le tesi della retribuzione e dell’indennizzo, in realtà, spiegherebbero meglio perché siano comunque legittime le clausole dei contratti collettivi che prevedono una indennità sostitutiva della mancata fruizione del riposo settimanale, e perché si ritenga esclusa la sussistenza dell’illecito quando i contratti collettivi prevedono specificamente una indennità sostitutiva del mancato godimento della giornata di riposo settimanale (e purché tale indennità compensi specificamente il mancato godimento del riposo, e non soltanto la maggiore penosità dell’essere stati costretti a lavorare in giorno festivo).
Tra le due, la tesi dell’indennizzo, a sua volta, spiegherebbe meglio perché il ristoro pecuniario del mancato godimento del riposo settimanale sia sganciato dal quantum della retribuzione, e sia collegato invece al quantum del sacrificio peculiare imposto al prestatore di lavoro.
In giurisprudenza è, però, prevalsa la tesi che configura il ristoro pecuniario della mancata fruizione del giorno settimanale di riposo come risarcimento del danno da fatto illecito, ed è stata a tal fine enucleata una particolare categoria di danno consistente nell’usura psico-fisica del lavoratore.
Nel ricostruire poi lo statuto di tale particolare categoria di danno la giurisprudenza si era orientata nel senso che:
- si trattava non di responsabilità aquiliana, ma di un illecito contrattuale commesso da una delle parti del rapporto di lavoro nell’esecuzione dello stesso8;
- soggetto pertanto alla prescrizione decennale in base alla norma generale dell’art. 2946 c.c.9;
- soggetto alla regola dell’onere per il lavoratore di provare il fatto costitutivo del proprio diritto, e cioè la mancata fruizione della giornata di riposo10, mentre l’usura psico-fisica che ne costituiva danno-conseguenza veniva talora ritenuta in re ipsa11, in altri casi oggetto di prova12.
La sistematica della figura, e la distinzione da figure simili, come il danno biologico, però, non è mai stata nitidissima. Nelle ricostruzioni prevalenti si distinguevano all’interno della categoria del danno da usura psico-fisica per mancata fruizione del riposo settimanale due distinte voci di danno, un danno biologico in senso proprio consistente nella menomazione all’integrità fisica subita dal lavoratore, ed un danno di tipo esistenziale relativo alle ulteriori compromissioni non patrimoniali subite dal lavoratore nella propria vita personale e familiare per effetto della mancata fruizione del riposo settimanale13.
Le sentenze che aderivano a questa prospettazione parcellizzavano l’onere della prova tra le distinte voci di danno, in quanto ritenevano abbisognevole di prova, in conformità alle regole generali, il danno biologico, ma oggetto di presunzione assoluta la voce di danno che è stata sopra definita come danno esistenziale14.
Il ristoro pecuniario dell’usura psico-fisica del lavoratore derivante dalla mancata fruizione del riposo settimanale era stato, dunque, tradizionalmente classificato come risarcimento del danno non patrimoniale, ma, come detto, l’11.11.2008 con sentenza n. 26972/2008 le Sezioni Unite riscrivono completamente la sistematica del danno non patrimoniale, ridefinendo tra l’altro sia la impostazione teorica del danno biologico (che viene spostata dall’art. 2043 c.c. all’art. 2059 c.c.) che quella del danno esistenziale (di cui viene negata la rilevanza giuridica, o quantomeno l’autonomia concettuale come voce di danno).
In particolare, per la parte che interessa ai fini del nostro discorso, nella sentenza n. 26972/2008 le Sezioni Unite sostengono che:
- il danno non patrimoniale è regolato nel nostro ordinamento dalla norma generale dell’art. 2059 c.c.;
- il sistema della responsabilità per danni è impostato sui due poli dell’art. 2043 c.c. per il danno patrimoniale e dell’art. 2059 c.c. per il danno non patrimoniale (con la specificazione che «il danno non patrimoniale di cui parla, nella rubrica e nel testo, l'art. 2059 c.c., si identifica con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica»);
- la struttura dell’illecito è la stessa in entrambe le norme (perché «l'art. 2059 c.c., non delinea una distinta fattispecie di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma consente la riparazione anche dei danni non patrimoniali, nei casi determinati dalla legge, nel presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della struttura dell'illecito civile, che si ricavano dall'art. 2043 c.c….»);
- la differenza consiste nel fatto che la responsabilità per danni patrimoniali ex art. 2043 c.c. è atipica, mentre la responsabilità per i danni non patrimoniali ex art. 2059 c.c. è tipica in quanto la risarcibilità è ammessa soltanto «nei casi previsti dalla legge» («il risarcimento del danno patrimoniale da fatto illecito è connotato da atipicità, postulando l'ingiustizia del danno di cui all'art. 2043 c.c., la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante, come precisato da sent. 500/1999, mentre quello del danno non patrimoniale è connotato da tipicità, perché tale danno è risarcibile solo nei casi determinati dalla legge e nei casi in cui sia cagionato da un evento di danno consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona»);
- in quanto poi alla esatta delimitazione del danno non patrimoniale, di cui è predicata la tipicità, però l’art. 2059 c.c. non aiuta («l'art. 2059 c.c., è norma di rinvio. Il rinvio è alle leggi che determinano i casi di risarcibilità del danno non patrimoniale»);
- al contrario di ciò che è stato a lungo ritenuto, la clausola «nei casi previsti dalla legge» di cui all’art. 2059 c.c. non limita, peraltro, la risarcibilità del danno non patrimoniale al solo danno derivante da reato, perché se è vero che il primo caso «previsto dalla legge è stato proprio l’art. 185 c.p. sul danno-conseguenza di un reato, è però anche vero che con il passare degli anni sono state introdotte dal legislatore numerose altre fattispecie di danni non patrimoniali di cui è stato ammesso il risarcimento, e che quindi rispettano la riserva di legge prevista dalla clausola dell’art. 2059 c.c. (le Sezioni Unite citano la l. 13.4.1988, n. 117, sui danni derivanti dalla privazione della libertà personale cagionati dall’esercizio di funzioni giudiziarie; la l. 31.12.1996, n. 675, sulla raccolta di dati personali; il d.lgs. 25.7.1998, n. 286, sull’adozione di atti discriminatori; la l. 24.3.2001, n. 89, sul termine ragionevole di durata del processo);
- ma la formula «nei casi previsti dalla legge» dell’art. 2059 c.c. consente il risarcimento anche dei danni non patrimoniali inflitti a diritti espressamente attribuiti in Costituzione, perché in questo caso, pur in mancanza di norma di legge esplicita, la rilevanza costituzionale del diritto obbliga a ritenere assistito il diritto dalla tutela risarcitoria («al di fuori dei casi determinati dalla legge, in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili, la tutela è estesa ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione»);
- con la specificazione, però, che se la fonte del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale è direttamente una norma della Costituzione, la risarcibilità passa attraverso il filtro della gravità dell’offesa («la gravità dell'offesa costituisce requisito ulteriore per l'ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili. Il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. La lesione deve eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza. Il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile. Pregiudizi connotati da futilità ogni persona inserita nel complesso contesto sociale li deve accettare in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone ex art. 2 Cost.»);
- in definitiva, la tipicità del risarcimento del danno non patrimoniale è nella sostanza una tipicità non dei comportamenti, ma degli interessi la cui lesione integra danno risarcibile («la risarcibilità del danno non patrimoniale postula, sul piano dell'ingiustizia del danno, la selezione degli interessi dalla cui lesione consegue il danno. Selezione che avviene a livello normativo, negli specifici casi determinati dalla legge, o in via di interpretazione da parte del giudice, chiamato ad individuare la sussistenza, alla stregua della Costituzione, di uno specifico diritto inviolabile della persona necessariamente presidiato dalla minima tutela risarcitoria»);
- una volta selezionato l’interesse non patrimoniale risarcibile, il risarcimento copre l’interezza del danno, e non si limita al cd. danno morale soggettivo che è solo una delle voci del danno non patrimoniale risarcibile (che copre invece ogni «danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica»)
- per effetto di questa ricostruzione, va ricondotto nell'ambito dell'art. 2059 c.c., il danno da lesione del diritto inviolabile alla salute, cd. danno biologico («in precedenza, come è noto, la tutela del danno biologico era invece apprestata grazie al collegamento tra l'art. 2043 c.c. e l'art. 32 Cost., come ritenuto da Corte Cost. n. 184/1986, per sottrarla al limite posto dall'art. 2059 c.c., norma nella quale avrebbe ben potuto sin dall'origine trovare collocazione, come ritenuto dalla successiva sentenza della Corte n. 372/1994 per il danno biologico fisico o psichico sofferto dal congiunto della vittima primaria»);
- non ha invece alcuna autonomia concettuale la figura del danno esistenziale, che non è necessaria nel momento in cui si accoglie una interpretazione estensiva del danno non patrimoniale risarcibile non più limitato al c.d. danno morale soggettivo («la figura del danno esistenziale era stata proposta nel dichiarato intento di supplire ad un vuoto di tutela, che ormai più non sussiste»), e che anzi è inconciliabile con il sistema perché rischia di essere lo strumento per far saltare la tipicità voluta dal legislatore nella responsabilità per danni non patrimoniali (attraverso la generica «sottocategoria denominata danno esistenziale … si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell'atipicità, sia pure attraverso l'individuazione della apparente tipica figura categoriale del danno esistenziale, in cui tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini della risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal legislatore ordinario né è necessitata dall'interpretazione costituzionale dell'art. 2059 c.c., che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specifici valori della persona presidiati da diritti inviolabili secondo Costituzione»);
- il risarcimento del danno non patrimoniale non può neanche subire duplicazioni affiancando alla risarcibilità dell’integrità psico-fisica il risarcimento di danni ulteriori rispetto ad essa («possono costituire solo “voci” del danno biologico nel suo aspetto dinamico, nel quale, per consolidata opinione, è ormai assorbito il c.d. danno alla vita di relazione, i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell'integrità psicofisica, sicché darebbe luogo a duplicazione la loro distinta riparazione»);
- in conformità ai principi generali sull’onere della prova, il danno non patrimoniale di cui si chiede il risarcimento deve essere provato («il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato»);
- non c’è nessuna ragione per cui le regole generali soffrano eccezioni nel risarcimento del danno non patrimoniale a valori della persona costituzionalmente tutelati («da respingere è la variante costituita dall'affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perché la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo»);
- tra i mezzi di prova del danno non patrimoniale, nel caso del danno alla integrità psico-fisica è previsto espressamente, pur se non obbligatorio, l’accertamento medico-legale; per gli altri pregiudizi non patrimoniali diversi dalla integrità psico-fisica esisteranno i comuni mezzi di prova («per gli altri pregiudizi non patrimoniali potrà farsi ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva»);
- tra questi comuni mezzi di prova assumeranno un rilievo particolare le presunzioni, che consentiranno di ridurre nella sostanza l’onere probatorio del danneggiato ad un mero onere di allegazione («attenendo il pregiudizio non biologico ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l'unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri. Il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto»).
La nuova ricostruzione delle Sezioni Unite avrebbe potuto comportare anche risistemazioni radicali della natura del danno da usura psico-fisica del lavoratore, che, come si è precisato sopra, era ritenuto comunemente un danno da illecito contrattuale. In base alle costruzioni tradizionali sarebbe stato, infatti, difficile ammettere nell’ambito del sistema della responsabilità contrattuale il risarcimento di un danno slittato, con tutto il danno biologico, nell’ambito del non patrimoniale. Nel diritto delle obbligazioni, infatti, il danno patrimoniale non esisteva fino alla pronuncia delle Sezioni Unite.
Per mantenere il risarcimento del danno da usura psico-fisica poteva, quindi, essere necessario ripensarne la natura e sussumerlo sotto gli schemi della responsabilità extracontrattuale, dove il risarcimento del danno non patrimoniale veniva, invece, comunque garantito attraverso la previsione dell’art. 2059 c.c.
Questo ripensamento, però, non è stato necessario, ed al contrario la tesi della natura contrattuale della responsabilità del datore di lavoro per usura psico-fisica del lavoratore derivante dalla mancata fruizione del riposo settimanale ha trovato nella sentenza delle Sezioni Unite un avallo definitivo.
Nei passaggi successivi della pronuncia, infatti, le Sezioni Unite hanno anche precisato che il sistema della responsabilità per danni non patrimoniali si applica non solo all’illecito extracontrattuale, ma anche a quello che consegue ad un illecito di tipo contrattuale, pur nella mancanza nel diritto delle obbligazioni di una norma analoga a quella dell’art. 2059 c.c. («dal principio del necessario riconoscimento, per i diritti inviolabili della persona, della minima tutela costituita dal risarcimento, consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporta l'obbligo di risarcire tale danno, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale. Se l'inadempimento dell'obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata nell'azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all'espediente del cumulo di azioni»). Pur se manca nel sistema del diritto delle obbligazioni una norma che costituisca fonte dell’obbligo di risarcire i danni non patrimoniali, essa deve essere cercata nelle norme tradizionali, che devono essere rilette alla luce dell’obbligo di tutela dei danni non patrimoniali (si tratta in particolare «dell'art. 1218 c.c., nella parte in cui dispone che il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, non può quindi essere riferito al solo danno patrimoniale, ma deve ritenersi comprensivo del danno non patrimoniale, qualora l'inadempimento abbia determinato lesione di diritti inviolabili della persona. Ed eguale più ampio contenuto va individuato nell'art. 1223 c.c., secondo cui il risarcimento del danno per l'inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta, riconducendo tra le perdite e le mancate utilità anche i pregiudizi non patrimoniali determinati dalla lesione dei menzionati diritti»). In questo sistema è salva la natura contrattuale della responsabilità per danni da usura psico-fisica del prestatore di lavoro, che anzi è citata espressamente dalla Corte come un caso normativamente previsto di responsabilità contrattuale per danni non patrimoniali (in particolare, «l'art. 2087 c.c. …, inserendo nell'area del rapporto di lavoro interessi non suscettivi di valutazione economica, l'integrità fisica e la personalità morale, già implicava che, nel caso in cui l'inadempimento avesse provocato la loro lesione, era dovuto il risarcimento del danno non patrimoniale. Il presidio dei detti interessi della persona ad opera della Costituzione, che li ha elevati a diritti inviolabili, ha poi rinforzato la tutela. Con la conseguenza che la loro lesione è suscettiva di dare luogo al risarcimento dei danni conseguenza, sotto il profilo della lesione dell'integrità psicofisica secondo le modalità del danno biologico, o della lesione della dignità personale del lavoratore, come avviene nel caso dei pregiudizi alla professionalità da dequalificazione, che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall'impresa»).
Ne consegue che, nel nuovo sistema della responsabilità per danni non patrimoniali conseguito alla sentenza n. 26972/2008, la responsabilità del datore di lavoro per le lesioni alla integrità psico-fisica del prestatore di lavoro è espressamente considerata come una responsabilità di tipo contrattuale, in quanto fondata sulla violazione dell’obbligo contrattuale imposto al datore di lavoro dall’art. 2087 c.c. di adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Se, quindi, la natura contrattuale della responsabilità per danni da usura psico-fisica del prestatore di lavoro usciva confermata e rafforzata dalla risistemazione teorica delle Sezioni Unite, restavano, però, aperti i nodi: della identificazione del danno da risarcire (posto che la endiadi danno biologico in senso stretto/danno esistenziale è stata bocciata dalle Sezioni Unite e giudicata in sostanza come una duplicazione del danno); del connesso onere probatorio (che le Sezioni Unite vorrebbero adempiuto preferibilmente con l’accertamento medico legale nel danno alla integrità psico-fisica in senso proprio, e con i comuni mezzi di prova, ivi comprese le presunzioni, negli ulteriori danni non patrimoniali).
Ed in effetti, la necessità di ripensare lo statuto della responsabilità per danni da usura psico-fisica dopo la pronuncia delle Sezioni Unite, quantomeno in punto di onere della prova, emergeva subito nella giurisprudenza amministrativa, che fino a quel momento era stata incline a sostenere la tesi del danno in re ipsa, quantomeno per le conseguenze non strettamente biologiche della mancata fruizione del riposo settimanale.
Infatti, con le pronunce 1.9.2009, n. 5125, 15.7.2010, n. 4553 e 8.3.2012, n. 1371, la VI sezione del Consiglio di Stato ha affermato, che dopo la pronuncia n. 26972/2008 delle Sezioni unite della Corte di cassazione, il lavoratore è tenuto ad allegare e provare in termini reali, sia nell'an che nel quantum, il pregiudizio del suo diritto fondamentale alla salute psicofisica, perché il danno non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ., anche quando la sua applicazione consegua alla violazione di diritti inviolabili della persona come il diritto alla salute, costituisce pur sempre un'ipotesi di danno-conseguenza, il cui ristoro è in concreto possibile solo a seguito dell'integrale allegazione e prova in ordine sia alla sua consistenza materiale che alla sua riferibilità eziologica alla condotta del soggetto asseritamente danneggiante. Pertanto, in mancanza dell'allegazione degli elementi probatori relativi alla violazione del diritto alla salute, la domanda risarcitoria diventa non accoglibile.
Questa prima immediata adesione al nuovo sistema del risarcimento del danno non patrimoniale deciso dalla VI sezione del Consiglio di Stato è stato rimesso, però, in discussione da un successivo pronunciamento della V sezione che, con ordinanza 3.12.2012, n. 6161, non persuasa dalla risistemazione della materia che si stava operando con le citate pronunce della VI sezione, ha rimesso all’Adunanza plenaria i due profili della tipologia del danno risarcibile e dell’onere della prova. Quanto al danno risarcibile, l’ordinanza di rimessione sostiene che in tema di danno non patrimoniale risarcibile la giurisprudenza civile individua distinte fattispecie: il danno biologico, consistente nella lesione dell'integrità psicofisica medicalmente accertabile, ed il danno di tipo esistenziale, da intendere come ogni pregiudizio (di natura oggettiva e non meramente emotiva e interiore) al fare areddituale del soggetto, tale da alterarne le abitudini, gli assetti relazionali e le scelte di vita quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno, quale il demansionamento del prestatore di lavoro. Dalla prestazione lavorativa nel giorno destinato al riposo settimanale, secondo l’ordinanza di rimessione, possono discendere entrambi: il danno da usura psico-fisica, di tipo esistenziale, legato alla accresciuta penosità del lavoro in assenza delle pause di riposo garantite dall'art. 36, co. 3, Cost., ed il danno alla salute o biologico, che si concretizza in una infermità del lavoratore. Nel caso esaminato, caratterizzato da allegazioni molto generiche dei ricorrenti, la V sezione ha ricondotto la domanda di risarcimento al danno esistenziale, e, quanto all’onere della prova di tale danno esistenziale, ha osservato che se è vero che la giurisprudenza nega che il danno sia in re ipsa e non necessiti di alcuna prova, però è anche vero che la stessa sentenza delle Sezioni unite ammette la prova per presunzioni. La prova per presunzioni semplici facilita l'assolvimento dell'onere della prova da parte di chi ne è onerato, trasferendo sulla controparte l'onere della prova contraria, sicché, una volta formata e rilevata, essa ha la medesima efficacia della presunzione legale iuris tantum e consente al giudice, attraverso il ricorso alle presunzioni, di sopperire alla carenza di prova, ritenendo sufficiente un onere di allegazione. Dall’allegazione della circostanza di aver lavorato anche oltre sei giorni consecutivi si poteva inferire la conseguenza dell'usura psicofisica per la ragionevole probabilità, desunta dalle regole di esperienza delle diverse discipline che hanno studiato lo stress, da quelle mediche a quelle psicologiche a quelle aziendalistiche, che lo svolgimento di mansioni attinenti al trasporto passeggeri anche nel settimo giorno senza riposo compensativo per quasi un decennio abbia ingenerato nei ricorrenti usura psico-fisica.
Pur a fronte del formale ossequio alla decisione delle Sezioni Unite, l’ordinanza di rimessione della V sezione segna, in realtà, un ritorno all’antico rispetto alle prime decisioni pronunciate dal Consiglio di Stato dopo la risistemazione teorica del danno non patrimoniale e, forse spinta anche dai perduranti limiti che caratterizzano il processo amministrativo nell’accertamento delle situazioni controverse in fatto, cerca l’avallo dell’Adunanza plenaria per provare a riaffermare il vecchio indirizzo giurisprudenziale sul danno in re ipsa.
Per superare i problemi di prova del danno biologico derivante dall’usura psico-fisica che avrebbe dovuto passare attraverso l’accertamento medico-legale, la ordinanza di rimessione qualifica, infatti, una componente del danno invocato dai ricorrenti come “esistenziale”, riesumando una categoria che le Sezioni Unite avevano espressamente escluso dal sistema.
E per provare il danno “esistenziale” ritiene sufficiente l’onere di allegazione, desumendo da esso «per la ragionevole probabilità, desunta dalle regole di esperienza delle diverse discipline che hanno studiato lo stress, da quelle mediche a quelle psicologiche a quelle aziendalistiche, che lo svolgimento di mansioni attinenti al trasporto passeggeri anche nel settimo giorno senza riposo compensativo per quasi un decennio abbia ingenerato usura psicofisica» quella «serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto» che le Sezioni Unite intendevano quando avallavano la prova per presunzioni per provare il danno patrimoniale non biologico.
L’Adunanza plenaria n. 7/2013 condivide il ragionamento della ordinanza di rimessione e ripropone nella sostanza la soluzione del danno in re ipsa, pur se attraverso il ricorso allo strumento della presunzione iuris tantum.
L’Adunanza plenaria sostiene, infatti, che si discute non di un danno propriamente biologico, suscettibile di accertamento medico-legale, bensì di un danno derivante dalla usura psico-fisica, compensativo del riposo spettante ai dipendenti affinché essi possano reintegrare le proprie energie fisiche e psichiche, danno attinente alla sfera esistenziale perché tale da impedire al dipendente «di realizzare, in tutto in parte, la propria personalità, costringendolo a limitare o, nei casi estremi, a non esercitare quelle attività, anche non lavorative, che afferiscono alla vita normale di un soggetto». Tale danno è riconducibile all'art. 2059 c..c., il quale, interpretato in modo conforme a Costituzione, prevede difatti una categoria unitaria di danno non patrimoniale per lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, in cui rientrano sia il danno alla salute in senso stretto, cosiddetto biologico, sia quello c.d. tipo esistenziale quale quello appunto da usura psico-fisica. Quanto alla prova, con riguardo al danno propriamente biologico, l'indagine medico-legale non è indispensabile e il giudice può, nell'ambito della valutazione discrezionale al medesimo riservata, accertare il verificarsi della menomazione dell'integrità psicofisica della persona facendo ricorso alle presunzioni e quantificare il danno in via equitativa, purché la motivazione indichi gli elementi di fatto che nel caso concreto sono stati tenuti presenti e i criteri adottati nella liquidazione equitativa, perché altrimenti la valutazione si risolverebbe in un giudizio del tutto arbitrario, in quanto non è suscettibile di alcun controllo. Con riguardo al danno di tipo esistenziale, diverso dal biologico e consistente nel pregiudizio, di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, arrecato alle attività non remunerative del soggetto passivo, costretto ad alterare le proprie abitudini ed i propri assetti relazionali ed a sottostare a scelte di vita diverse dalle precedenti in ordine all'espressione ed alla realizzazione della sua personalità anche nel mondo esterno, il ricorso alle presunzioni è ancor più necessario, purché esse siano intese nel senso tecnico di presunzioni semplici (non assolute); in tal caso il convincimento del giudice può fondarsi anche su una sola presunzione, purché grave e precisa, non occorre neanche che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità. Si è aggiunto che nelle controversie in esame quindi per effetto del ricorso alla prova per presunzione semplice si può sostenere che la perdita definitiva del riposo settimanale si traduce nella mancata ricostituzione delle energie psico-fisiche del lavoratore che, ove reiterata nell'arco di un periodo complessivo notevole, comporta la cosiddetta usura psico-fisica del medesimo lavoratore, determinandone una situazione patologica di stress, vale a dire una sofferenza soggettiva con significativa compromissione nel funzionamento sociale, ma anche lavorativo nell'ambito sia sociale, sia lavorativo.
In definitiva, l’Adunanza plenaria tornando anch’essa all’antico sostiene che il danno da usura psico-fisica ricomprende sia il danno biologico in senso proprio che quello esistenziale. Entrambi possono essere provati attraverso presunzioni iuris tantum, e cioè mediante mero onere di allegazione della circostanza di aver lavorato anche oltre i sei giorni consecutivi.
La decisione dell’Adunanza plenaria n. 7/2013 lascia aperta la questione della esatta natura del danno che si va a risarcire con valutazione equitativa, sganciata da qualsiasi esatta individuazione dello stesso. Per superare le sabbie mobili della prova del danno biologico, l’Adunanza plenaria ha fatto virare, infatti, in modo esplicito il risarcimento del danno da mancata fruizione del riposo settimanale verso un danno di tipo esistenziale.
Essa, infatti, ritiene risarcibile il danno consistente nell’impedire al dipendente «di realizzare, in tutto in parte, la propria personalità, costringendolo a limitare o, nei casi estremi, a non esercitare quelle attività, anche non lavorative, che afferiscono alla vita normale di un soggetto». Le pronunce della VI sezione 1.9.2009, n. 5125, 15.7.2010, n. 4553 e 8.3.2012, n. 1371 risarcivano, invece, il danno arrecato alla salute del lavoratore.
L’aggancio diretto all’art. 36, co. 3, Cost. consente senz’altro di ritenere risarcibile il tipo di danno su cui ha focalizzato l’attenzione l’Adunanza plenaria senza incontrare le obiezioni sulla irrisarcibilità del danno esistenziale evidenziate dalla Corte regolatrice della giurisdizione nella sentenza n. 26972/2008; si tratta, però, di qualcosa di diverso dall’usura psico-fisica derivante dall’alterazione del normale ritmo biologico, su cui è nata ed è stata costruita questa figura, che somiglia di più alla sanzione della violazione puramente formale della previsione dell’ultimo comma dell’art. 36 Cost., che non ad un risarcimento del danno in senso proprio.
Ed, infatti, le Sezioni Unite n. 26972/2008 avevano proprio affermato che nel caso di lesione di valori della persona il danno non poteva essere in re ipsa, «perchè la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo».
L’idoneità di un ristoro compensativo di questo tipo a rimanere all’interno della sistematica del risarcimento del danno, e più in particolare di quella del danno non patrimoniale, dovrà, pertanto, essere verificata dalla giurisprudenza successiva allorché riaffronterà la questione.
1Per tutte Cass. civ., sez. lav., 27.11.1992, n. 5015; Cass. civ., sez. lav., 17.4.1996, n. 3634; Cass. civ., sez. lav., 4.12.1997, n. 12334; Cass. civ., sez. lav., 26.1.1999, n. 704
2 Per tutte Cons. St., 28.3.2003, n. 1640; TAR. Campania, Napoli, sez. III, 3.1.2007, n. 10.
3 Ha chiarito Cass. civ., sez. lav., 8.10.2003, n. 15046, che quando, in relazione a prestazioni lavorative comportanti turni di lavoro di sette giorni consecutivi con riposo compensativo, il lavoratore chieda compensi maggiori di quelli già corrisposti in conformità al contratto collettivo, facendo valere specificamente la maggiore gravosità della prestazione per lo spostamento del riposo settimanale, il giudice deve accertare se i compensi previsti dal contratto collettivo in relazione ad una siffatta distribuzione temporale abbiano anche la funzione di compensare tale tipo di gravosità, inerendo tale verifica alla fattispecie costitutiva della pretesa azionata. Nel caso di specie la S.C. ha confermato, in quanto adeguatamente motivata, la sentenza con cui il giudice di merito aveva ritenuto che il cosiddetto soprassoldo domenicale previsto dall'art. 47 del contratto collettivo nazionale dei dipendenti delle ferrovie fosse diretto a compensare unicamente la particolare penosità del lavoro prestato di domenica e non anche l'ulteriore disagio costituito dal mancato godimento del riposo settimanale entro il settimo giorno del turno, riconoscendo pertanto al ricorrente un ulteriore compenso.
4 Cass. civ., sez. lav., 17.2.2000, n. 1769, secondo cui anche nel caso in cui il mancato godimento del riposo settimanale dopo sei giorni consecutivi di lavoro dipenda da una legittima deroga alla regola generale e sia seguito - come in ogni caso è imposto dai principi costituzionali in materia - dal successivo godimento del riposo, con il mantenimento quindi del rapporto di sei giorni di lavoro ed uno di riposo, o di un rapporto più favorevole, deve escludersi che tale recupero elimini completamente la maggiore onerosità della prosecuzione della prestazione dell'attività lavorativa oltre il sesto giorno e quindi lo stesso, se vale a diminuire l'onere indennitario a carico del datore di lavoro per la mancata fruizione da parte del lavoratore del riposo nel settimo giorno, non elimina completamente il corrispondente diritto, che peraltro è distinto dall'eventuale ulteriore diritto al compenso per la prestazione di attività nel giorno domenicale
5 E su cui in dottrina v. Lella, G., La natura del compenso per il lavoro domenicale e per il lavoro prestato oltre il sesto giorno, in Riv. it. dir. lav., 2008, 1, 124; Briccarello, M., Il danno non patrimoniale deve essere allegato e provato anche dal dipendente pubblico, in Resp. civ. e prev., 2011, 1, 141; Valerio, F., Riparto di giurisdizione nel pubblico impiego privatizzato: cambio di rotta della Cassazione, in Dir. giust., 2013, 0, 38.
6 Cass. civ., sez. lav., 8.10.2003, n. 15046.
7 Cass. civ., sez. lav., 6.9.2007, n. 18708.
8 Cass. civ., sez. lav., 24.12.1997, n. 13039.
9 Cass. civ., sez. lav., 7.3.2002, n. 3298; Cass. civ., sez. lav., 24.12.1997, n. 13039. In dottrina v. Bona, M., Prescrizione e dies a quo nel danno alla persona: quale modello?, in Resp. civ. prev., 2004, 574.
10 Cass.civ., sez. lav., 20.3.2004, n. 5649.
11 TAR Campania, Napoli, sez. II, 6.5.2004, n. 8235.
12 Cons. St., 27.7.2007, n. 4180; Cons. St., 15.6.2006, n. 3524.
13 Cass. civ., sez. lav., 3.7.2001, n. 9009.
14 TAR Campania, Napoli, sez. IV, 6.6.2006, n. 6737; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 18.7.2005, n. 9792.