Abstract
L’Autore in modo sintetico descrive i criteri di qualificazione del danno nel diritto inglese, sia sotto il profilo del danno personale sia sotto il profilo del danno patrimoniale. Illustra anche la nozione di danno morale, e cita i casi più notevoli con cui si è disegnata la disciplina.
Nell’esperienza francese non si distinguono i diversi effetti della responsabilità susseguenti alla lesione di interessi che assurgono ad una più o meno forte tutela da parte dell’ordinamento; l’interesse è protégé, anche se non è contenuto nelle forme del diritto soggettivo.
Si distinguono invece i tipi di danno e le tecniche con cui si procede – ciascuna adattata al tipo – alla liquidazione.
Anche qui il metodo è informato essenzialmente a principi pratici; è cioè descrittivo di situazioni. Qualche esempio. La quantificazione del danno derivante da uno sciopero illecito si calcola considerando il valore della giornata di lavoro perduta (Ch. soc. 8.12.1986, in JCP, 83, IV, 52). Per il danno derivante dall’omissione di un’informazione (gli esempi riguardano la responsabilità che noi definiremmo precontrattuale quali, ad es., la mancata creazione di un vincolo per nullità di esso, ovvero l’apparenza della creazione) anche se gli autori confessano che in questo settore regna una certa confusione, la Cassazione è incline ad accordare la riparazione integrale non solo con riguardo alle spese ma anche al profitto sperato come se il rapporto contrattuale si fosse costituito validamente (Cass., 4.10.1978, n. 292, in Bullettin civil, 1978, I, p. 227). Si rintraccia qui un’altra delle capitali differenze tra l’ordinamento francese e quello italiano (Viney, G., Le dèclin de la responsabilitè individuelle, Paris, 1965). Il danno alla personalità è equitativamente liquidato dal giudice, tenendo conto anche delle possibili utilizzazioni economiche del diritto. Nel caso di danno all’ambiente, si fa riferimento al costo del restauro (Remond-Gouilloud, M., Le prix de la nature, 1982, Chron., 33). Nel caso di concorrenza sleale, si opera la differenza del giro d’affari realizzato anteriormente e successivamente alla attività concorrenziale (Cass. civ., chambre sociale, 21.1.1987, ined.).
Per il danno di carattere patrimoniale, arrecato ad un bene, l’alternativa seguita dalla giurisprudenza francese è il calcolo della differenza tra il valore di mercato fissato prima e dopo il fatto, oppure il calcolo del costo del ripristino.
Sono empiriche le regole che seguono ora l’una ora l’altra tecnica. Di solito si applica la prima, a meno che l’attore non richieda l’impiego della seconda, e l’ottiene senza difficoltà (Chambre. civ, 11.1.1984, in Revue droit immobilier, 1984, p. 191). Qualche controllo si compie secondo il criterio della normalità (ad es. quando accade che il prezzo di ripristino di una vecchia auto sia eccessivo) (Cass. civil, 16.6.1980, in JCP, 1980, IV, p. 333).
Si tiene conto ovviamente, dell’arricchimento eventuale del danneggiato; ma anche delle perdite di profitti dovute alla mancata utilizzazione del bene (Cass. civil, 25.4.1983, in Revue droit immobilier, 1983, p. 348).
Nel common law, si riscontrano singolari analogie e significative differenze a questo riguardo. Quanto alle analogie, si sostiene, in common law (inglese) che, a seguito dell’inadempimento contrattuale, la parte che ha subito l’inadempimento deve essere posta nella medesima situazione (pecuniaria) in cui si sarebbe trovata se il contratto fosse stato adempiuto (Robinson v. Mazman, 1848, 1 Exol 850, 855; 154 E.R. 363, 365, cit. da Dias e Markesinis, Tort Law, Oxford, 1989, p. 392). A seguito dell’illecito extracontrattuale, la vittima deve essere posta nella medesima situazione in cui si trovava prima dell’accadimento (Livingstone v. Rawyards Coral Co., 1880, 5 App. Cas., 25, 34).
In ogni caso, danno risarcibile è solo il danno ragionevolmente prevedibile. Non esiste una differenziazione tra le due aree di danno così come codificato dagli artt. 1223 ss. e 2056 ss. c.c. italiano.
Si applicano poi le regole della causalità (Cfr. Burrows, A., Remedies for Torts and breach of Contract, London, 2004, pp. 247 ss.). Sul punto si è già descritto il quadro emergente dalle decisioni in materia.
Secondo Harris (Harris, D., Remedies in Contract & Tort, London, 1988. p. 226) queste sono le principali differenze nella disciplina della causalità a seconda che il danno sia contrattuale ovvero extracontrattuale.
Nel rapporto contrattuale il contatto tra le parti comporta che esse si scambino informazioni, anche sui rischi nel quali potranno incorrere. Chi assume con la propria promessa di tenere un determinato comportamento si assume altresì tutti i rischi connessi alla violazione della promessa. I rischi ovviamente sono quelli specificati in contratto o inerenti alla natura stessa del contratto.
Diversamente, nella situazione creata dall’illecito, ciascuno si assume i propri rischi, anche quelli derivanti dal proprio comportamento negligente; ma non c’è possibilità di scambio di informazioni, né di limitazione della responsabilità.
Pertanto l’inadempiente assume tutti i rischi che inerivano alla ragionevole considerazione delle parti («in their reasonable contemplation»), mentre il danneggiante in caso di tort è responsabile per le conseguenze che erano ragionevolmente prevedibili quali rischi evitabili da un uomo ragionevole.
Il momento nel quale operare il controllo di prevedibilità è, per il contratto, quello della sua conclusione, e si fonda sulla effettiva o presunta conoscibilità dei rischi da parte dei contraenti al momento della conclusione. Per l’illecito, dopo che si è concretato il comportamento dannoso, e sulla base della attuale o presunta risarcibilità dei rischi da parte del danneggiante in quel momento.
Il grado della probabilità delle conseguenze è diverso: per il danno contrattuale, le conseguenze «non debbono essere improbabili»; per il danno extracontrattuale, il grado è inferiore.
Il lucro cessante in caso di inadempimento contrattuale è sempre risarcito. Nell’illecito, solo in quanto esso sia connesso con un danno alla persona o alla proprietà, autonomamente non ottiene protezione se non in casi eccezionali (cd. purely financial loss).
Il risarcimento non può superare la perdita effettiva, né arrecare un vantaggio al danneggiante. È questo un principio comune di diversi ordinamenti, ma applicato in modo non univoco.
Al di là delle differenze di disciplina, occorre accertare se sia possibile una sovrapposizione di azioni, e se nell’ambito dell’azione promossa per l’accertamento della responsabilità extracontrattuale del convenuto e per il risarcimento del danno subìto dalla vittima sia possibile tener conto dei «profitti» ottenuti dal convenuto mediante il suo comportamento o l’esercizio della sua attività.
Si deve comunque sempre salvare il principio che non si dà luogo ad arricchimento ingiusto se il danneggiante ha in ogni caso acquisito quel profitto.
In common law le due azioni (di restitution e di compensation a seguito dell’illecito extracontrattuale) sono alternative, non cumulabili (Burrows, A., Remedies for Torts, cit., p. 254).
Allora, l’attore può preferire di esperire il primo rimedio (inusuale) o perché può ottenere un risarcimento più alto o perché questa è l’unica via per ottenere comunque un risarcimento del danno subìto.
Il caso da cui muove l’analisi degli autori inglesi si era risolto in modo negativo (Phillips v. Homfray, 1883, 24 Ch. D. 439, cit. da Burrows, A., op. cit., p. 255). Si tratta di un’azione intentata dal proprietario di un terreno attraverso il quale gli attori avevano organizzato il trasporto di carbone senza aver chiesto alcuna autorizzazione. L’attore poteva ricorrere per ottenere il risarcimento al trespass to land; ma preferì esperire un’azione di restitution. Con una decisione contrastata da importanti dissenting opinions si ritenne che non si poteva accogliere la richiesta in quanto non si era in presenza di una acquisizione della proprietà da parte del convenuto ma solo di un risparmio di spesa.
Ma l’azione fu ammessa in casi più recenti in cui il convenuto aveva trattenuto per sé cose o somme di danaro senza restituirle al loro legittimo titolare.
Molti casi sono portati ad esempio dell’operare delle regole di restitution quale rimedio per il danno extracontrattuale.
È il caso di una utilizzazione di beni altrui senza esserne autorizzati; anche se non vi è danno per il proprietario, occorre riconoscergli un «canone ragionevole» per il periodo di uso (nella specie, Strand Electric Engin Co. Ltd. v. Brisford Entertainements Ltd., 1952, 2 QB 246: si trattava dell’uso non autorizzato di attrezzature teatrali.). L’ammontare del risarcimento è calcolato sulla base del canone di mercato di analoga attrezzatura per tutto il periodo d’impiego.
Nello stesso senso (i convenuti si erano rifiutati di rimuovere le loro merci allo spirare del contratto, sì da impedire l’utilizzazione del magazzino degli attori) si è deciso per la mancata utilizzazione di cose da parte del danneggiato (Penarth Dock Engin, Co. Ltd. v. Pounds, 1963, 1 Lloyd's Rep. 359). È sempre Lord Denning che offre argomenti razionali (a distanza di più di un decennio dalla precedente decisione) per ammettere la restitution del profitto ingiustamente ottenuto dai danneggianti. Così per l’uso di un appezzamento di terreno (Swordheath Properties Ltd. v. Tabet, 1979, 1 W L 285), anche se gli attori non portarono la prova del danno, né del possibile profitto realizzabile mediante affitto a terzi.
Le Corti in questi casi ragionano come se tra attore e convenuto si potesse realizzare un ipotetico accordo volto alla utilizzazione onerosa della cosa.
È il caso, ancora, della restitution del progetto ottenuto dai convenuti che sopraelevando in modo illecito di due piani il loro edificio privarono della luce e della vista il proprietario confinante. Anziché chiedere il risarcimento del danno, il confinante chiese che gli fosse liquidata una somma corrispondente all’incremento di valore ottenuto mediante la sopraelevazione (Carr Saunders v. Dick Mc Neil Associates Ltd., 1986, 2 All ER 888).
È ancora il caso di chi viola l’obbligo di mantenere riservata una informazione e viene punito per una somma corrispondente a quella che sarebbe stata necessaria per ottenere l’informazione rivelata (Seager v. Copyder, n. 2, 1969, 1 W.L.R. 809).
Il divieto di ingiustificato arricchimento non vale solo per il danneggiante, ma anche per il danneggiato. Ed infatti è principio costantemente seguito quello che fa obbligo alle Corti di liquidare nulla di più del valore corrispondente alla perdita subita (salvi gli aggiustamenti dei punitive e degli exemplary damages).
A differenza delle Corti italiane, però, i giudici inglesi si chiedono se, in casi di eccezione, sia possibile tener conto del «surplus del consumatore». Il problema è certamente nuovo per i giuristi, mentre è strumento usuale di studio per gli economisti (cfr. Harris, D., Remedies in Contract, cit., p. 44). Il problema è, in altri termini, accertare se sia possibile, per assicurare un risarcimento integralmente satisfattivo, tener conto delle soggettive valutazioni del danneggiato: la risposta, fino a qualche tempo fa, è sempre stata negativa, atteso che la valutazione soggettiva è del tutto arbitraria, può dar luogo a speculazioni da scoraggiare e comunque si contrappone ad una razionale distribuzione delle perdite perché si può risolvere in un eccessivo aggravio per il danneggiante. Ma pur aderendo a queste linee interpretative, si è constatato che in qualche caso una valutazione delle cose in termini di indici di mercato (e cioè in termini di costi di produzione, di intermediazione e di profitti) risulta troppo inferiore alla valutazione di utilità o di godimento operata dal consumatore. Ad esempio, la distribuzione di un bene infungibile significa eliminazione di un valore superiore a quello di mercato.
Queste considerazioni non sono condivise, come si è detto, dalle Corti italiane.
Il principio costantemente osservato in giurisprudenza è quello di porre il patrimonio del danneggiato nello stesso stato in cui si sarebbe trovato se non si fosse verificato l’evento lesivo; occorre quindi una effettiva perdita subita (Cass., 3.10.1987, n. 7389, in Foro it., 1987, voce Danni in generale, Rep., n. 85); in materia contrattuale talvolta si applica il medesimo principio, altra volta si applica la regola che attribuisce al creditore il profitto conseguibile mediante l’adempimento.
Esempio del primo caso è quell’orientamento che considera il danno in modo unitario: si dice che il risarcimento del danno ha la funzione di reintegrare il patrimonio del leso nelle condizioni anteriori alla consumazione dell’illecito, costituito, in materia contrattuale, dall’inadempimento o dal ritardato adempimento, e tale finalità viene conseguita mediante l’attribuzione di un equivalente pecuniario che deve comprendere anche il pregiudizio mediato, sempre che questo costituisca l’effetto normale della inadempienza o del ritardo, ossia rientri nelle ordinarie conseguenze di quell’illecito, secondo il criterio della cosiddetta regolarità causale: l’accertamento in ordine all’esistenza di siffatte connotazioni giuridiche del danno compete al giudice del merito e sfugge al sindacato di legittimità se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logico-giuridici (Cass., 18.7.1987, n. 6325, in Foro it., 1987, voce cit., n. 86).
E, ancora, si precisa che la somma risarcitoria non deve essere un mero palliativo: la liquidazione del danno non patrimoniale sfuggendo ad una precisa valutazione analitica resta affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi del giudice del merito, il quale, nell’effettuare la relativa quantificazione, deve tener conto delle effettive sofferenze patite dall’offeso, della gravità dell’illecito di rilievo penale e di tutti gli elementi peculiari della fattispecie concreta, in modo da rendere la somma riconosciuta adeguata al particolare caso concreto ed evitare che la stessa rappresenti un simulacro di risarcimento (Cass., 18.12.1987, n. 9430, in Foro it., 1987, voce cit., n. 184).
Ovviamente, il risarcimento deve ricomprendere anche la rivalutazione della somma da liquidarsi; ciò nel caso di fatto illecito extracontrattuale: la rivalutazione della somma da liquidarsi a titolo di risarcimento di danni e gli interessi sulla somma rivalutata assolvono funzioni diverse, poiché la prima mira a ripristinare la situazione patrimoniale del danneggiato quale essa era prima del fatto illecito generatore del danno e a porlo nelle condizioni in cui egli si sarebbe trovato se l’evento dannoso non si fosse verificato, mentre i secondi hanno natura compensativa: conseguentemente essi sono giuridicamente compatibili, e pertanto sulla somma risultante dalla rivalutazione debbono essere corrisposti gli interessi a decorrere dal giorno in cui si è verificato l’evento dannoso (Cass., 16.6.1987, n. 5287, in Foro it., 1987, voce cit., n. 266).
Ed invero, l’attribuzione degli interessi costituisce, ai sensi dell’art. 2056 c.c., un elemento della reintegrazione medesima, correlato al divario temporale fra la produzione della lesione ed il godimento dell’equivalente pecuniario di essa e analogicamente ispirato alla disciplina del danno da mora; conseguentemente, qualora la reintegrazione mediante equivalente pecuniario avvenga con riferimento all’epoca della lesione (salva la rivalutazione monetaria), essa comporta gli interessi sulla somma liquidata per il risarcimento con decorrenza dal giorno in cui si è verificato il fatto dannoso (Cass., 14.2.1987, n. 1636, in Foro it., 1987, voce cit., n. 267).
L’altro principio vigente in materia contrattuale che riconosce al creditore il diritto a ottenere quanto avrebbe avuto se il contratto fosse stato adempiuto, è, a ben vedere, identico al precedente, ma formulato in modo positivo; in modo negativo, al creditore si garantisce il rimborso di quanto avrebbe ottenuto se l’adempimento non si fosse verificato.
Cosi si è deciso in una ipotesi di inadempimento a un contratto di trasporto: il risarcimento del danno derivante dalla perdita di cose trasportate deve essere considerato come debito di valore, avendo la funzione di ristabilire l’equilibrio economico turbato dall'’nadempimento del vettore e di porre il creditore nella stessa situazione patrimoniale in cui si sarebbe trovato se non si fosse verificato l’inadempimento; ne consegue che il relativo credito si sottrae al principio di cui all’art. 1277 c.c. ed è soggetto a rivalutazione monetaria, con liquidazione degli interessi legali sulla somma rivalutata (Cass., 29.8.1987, n. 7116, in Riv. giur. circ., 1988, p. 112).
La nozione di danno si ricava soprattutto dalla lesione della proprietà; sul danno alla persona le voci sono divise, anche se i principi sono analoghi; ma la semplificazione delle circostanze di fatto gioca, spesso, un ruolo che inquina il limpido quadro dei criteri di riferimento.
Ebbene, nell’ipotesi di danno alla proprietà si indicano questi basilari criteri:
a) il danno deve essere concreto, materiale, non presunto. Ciò anche quando è impossibile determinarlo con precisione: la liquidazione equitativa del danno presuppone che questo, pur non essendo provato nel suo preciso ammontare, sia certo nella sua esistenza ontologica; se tale certezza non sussiste, è inibito al giudice di procedere ad una valutazione equitativa e deve essere applicato il principio: actore non probante, reus absolvitur (Pret. Catania, 7.10.1987, in Assicurazioni, 1988, II, 2, p. 49);
b) deve rispondere o a una perdita di valore (disvalore) o a un mancato guadagno;
c) non può comportare un arricchimento del danneggiato;
d) ma può comportare anche il risarcimento del disagio subìto dal proprietario;
e) non deve consistere nella cessazione o diminuzione di una attività realizzata contro disposizioni di legge (Trib. Belluno, 4.10.1985, in Rassegna giuridica Enel 1987, p. 406; Cass., 1.8.1986, n. 4927).
Sulla base di questi principi si è deciso che non è risarcibile il danno causato da immissioni intollerabili, costituito dal deprezzamento dell’immobile oggetto di tali immissioni se non risulta provata la sussistenza di un danno materiale o di un mancato guadagno; inoltre non può essere configurato come permanente il danno derivante dal decremento patrimoniale dell’immobile qualora si condanni il responsabile delle immissioni illegittime al ripristino del normale godimento del bene (App. Milano, 6.11.1987, in Resp. civ., 1988, p. 201).
Nel contempo si segnala la decisione in base alla quale la compressione o la limitazione del diritto di proprietà che siano causate dall’altrui fatto dannoso sono suscettibili di valutazione economica non soltanto se ne derivino perdite dei frutti della cosa (cd. lucro cessante) oppure la necessità di una spesa ripristinatoria (cd. danno emergente), ma anche se la compressione e la limitazione del godimento sia sopportata dal titolare con suo personale disagio o sacrificio ed in base ad una libera scelta, fra questa soluzione e i rimedi di un ripristino immediato comportante l’anticipazione di spese, oppure perché costretto dalla impossibilità o difficoltà di sopportare l’esborso necessario. In ordine alla sussistenza e quantificazione di tale danno, mentre resta a carico del proprietario il relativo onere probatorio che può essere assolto anche mediante presunzioni semplici, il giudice può fare ricorso anche ai parametri del cd. danno figurativo, trattandosi di casa di abitazione, come quello del valore locativo della parte dell’immobile del cui godimento il proprietario è stato privato. Il principio è stato applicato in tema di infiltrazione di acqua proveniente da lastrici solari ed imputabile a gravi difetti costruttivi (Cass., 27.7.1988, n. 4779, in Giust. civ. Mass., 1988, fasc. 7).
Il lucro cessante, apprezzato con elasticità, deve essere risarcito non solo in caso di assoluta certezza, ma anche quando, sulla base della proiezione di situazioni già esistenti, possa ritenersi che il danno si produrrà nel futuro secondo una ragionevole e fondata previsione (Cass., 16.1.1987, n. 333, in Foro it., 1987, voce cit., n. 137).
Ma non sono consentiti automatismi. Ad esempio, il danno a persona non può essere calcolato in rapporto al reddito, occorrendo una effettiva incidenza negativa (Trib. Bologna, 11.7.1986, in Arch. giur. circ., 1987, p. 501).
In ogni caso il processo logico con cui il giudice è pervenuto alla liquidazione equitativa può essere controllato in sede di legittimità perché nella adozione di questa scelta occorre specificare le ragioni per le quali non si è potuto tener conto di prove specifiche; allo stesso modo, in caso di danno di incerto ammontare il giudice deve darsi carico di giustificare la mancata adozione della liquidazione equitativa. Si legge in giurisprudenza che con riguardo alla valutazione di danni che per loro stessa natura evidenziano la pratica impossibilità di una precisa dimostrazione, quali quelli derivanti dalla perdita del guadagno di un’attività commerciale dai risultati incerti e mutevoli (nella specie: programmazione di una pellicola cinematografica), il mancato esercizio da parte del giudice del merito del potere di stima equitativa, conferitogli dall’art. 1226 c.c., deve trovare supporto non in semplici enunciazioni di stile, ma in argomentazioni logiche ed esaurienti, che spieghino perché nel caso concreto il danneggiato abbia la possibilità di fornire la suddetta dimostrazione (Cass., 13.1.1987, n. 132, in Foro it. Rep., voce cit., 1987, n. 166).
Allo stesso modo, si evita che il danneggiato possa conseguire una ingiusta locupletazione; ciò si registra, ad es., nel caso di risarcimento del danno ai congiunti per la morte della vittima, qualora essi fruiscano, proprio a seguito del decesso, di un trattamento economico superiore a quello di cui avrebbero goduto se la vittima fosse rimasta in vita (Trib. Massa, 20.8.1985, in Dir. prat. trib., 1986, p. 159). Questo orientamento non è univoco; si è osservato infatti che quando a seguito di un altrui fatto lesivo, dalla morte del marito sia sorto a favore della moglie il diritto alla pensione di reversibilità, non trova applicazione la (cosiddetta) compensatio lucri cum damno, poiché la pensione non ha titolo nell’infortunio (App. Cagliari, 18.9.1986, in Riv. giur. sarda, 1988, p. 36).
Perché, nel caso in cui il danno consista in una lesione personale da cui deriva al danneggiato una pensione di invalidità permanente a carico dell’INPS, il relativo importo capitalizzato non può essere detratto dall’ammontare del danno, poiché il fatto dannoso non costituisce il titolo giuridico ma solo la condizione per l’attribuzione della pensione (Cass., 10.10.1988, n. 5464, in Foro it. Rep., voce cit., 1988, n. 156).
Ma lo stesso principio impedisce al lavoratore di percepire la completa riparazione del danno se, nel periodo intercorrente tra l’accadimento lesivo e la ripresa dell’attività lavorativa, egli abbia continuato comunque a percepire la sua retribuzione; tale circostanza esclude, in linea di massima, che questa abbia prodotto immutazione pregiudizievole nel patrimonio dell’infortunato, tranne che la forzata assenza dal lavoro abbia comportato la perdita di particolari vantaggi economici dipendente dall’effettiva prestazione lavorativa (Cass., 8.9.1986, n. 5480, in Arch. giur. circ., 1987, p. 393).
La giurisprudenza di merito è assai precisa al riguardo perché si preoccupa dello sforzo fisico necessario, nel periodo di riadattamento e anche successivamente, alla vittima per riprendere le sue normali abitudini: nel caso di invalidità di un lavoratore dipendente, che abbia continuato a percepire l’intero stipendio o salario e che abbia proseguito nella precedente attività lavorativa, il danno patrimoniale da risarcire si identifica nel lucro cessante e va determinato accertando la ripercussione che l'invalidità temporanea o permanente abbia in concreto avuto sulla capacità di lavoro e di guadagno; non compete pertanto alcun risarcimento di lucro cessante se non sia provata alcuna riduzione di reddito, salvo l’accertata perdita di emolumenti supplementari o l’accertato pregiudizio della normale evoluzione della carriera ovvero di provata incidenza negativa sul secondo lavoro; solo in presenza di tali particolari fattispecie, il cui accertamento è demandato al giudice di merito, il lucro cessante da invalidità lavorativa si aggiunge al danno alla salute; tuttavia, pur in presenza di una continuità di rapporto lavorativo che non incida sulla capacità lavorativa del danneggiato, il maggior sforzo e la maggior usura per mantenere le prestazioni lavorative ad un livello analogo a quello precedente il sinistro debbono essere compensate con il correttivo equitativo al risarcimento del danno alla salute (Trib. Pisa, 10.2.1986, in Dir. prat. assic., 1987, p. 393).
Nel contempo, con riguardo agli interessi, si è precisato che al fine di evitare una ingiusta locupletazione, gli interessi compensativi sulle somme liquidate a titolo di risarcimento del danno per invalidità parziale permanente decorrono dal momento della cessazione dell’invalidità temporanea, liquidata separatamente, e non dal giorno dell’evento dannoso; qualora il giudice del merito, anziché ricorrere alla capitalizzazione tabellare del reddito per il danno futuro, faccia riferimento alle perdite di reddito maturate alla data della decisione, valutandole per ciascun anno a decorrere dalla cessazione dell’invalidità temporanea fino alla morte del danneggiato verificatasi nelle more processuali, gli interessi vanno calcolati dalle singole scadenze annuali in cui le perdite si sono concretamente realizzate (Cass., 13.5.1987, n. 4370, in Foro rit. Rep., 1987, voce cit., n. 270).
E ancora si è precisato che il criterio di capitalizzazione della rendita, operante in base alla presumibile durata della vita del danneggiato (quale risulta dai parametri di cui al R.d. 9.10.1922, n. 1403 tenendo altresì conto dello scarto tra vita fisica e vita lavorativa) deve subire un correttivo allorché nelle more del giudizio quel limite – calcolato con riferimento alla età del danneggiato all’epoca dell’evento dannoso – venga in concreto superato per la sopravvivenza del soggetto cui la rendita è dovuta; in tal caso, dovranno operarsi due liquidazioni: la prima, sulla base dell’elemento concreto costituito dal periodo di vita del danneggiato protrattosi fino all’epoca della decisione, trattandosi di danno attuale, e non futuro, esattamente accertabile; la seconda, invece, in via congetturale, sulla base della presumibile vita futura del danneggiato dalla data della decisione in poi (Cass., 28.11.1988, n. 6403, Foro it. Rep, cit. 1988, n. 155).
La Suprema Corte ha poi corretto il tiro ed ha ammesso che il principio per cui nulla compete a titolo di risarcimento del danno al lavoratore dipendente, per la sua invalidità totale temporanea, allorché questi, durante il relativo periodo, abbia continuato a percepire l’intero stipendio o salario (salvo la dimostrazione che, per effetto di tale invalidità, si è verificata la perdita di emolumenti supplementari o siano intervenuti pregiudizi alla normale evoluzione della carriera o del rapporto di lavoro), non è applicabile sic et simpliciter nel caso di invalidità parziale permanente, che, secondo l’id quod plerumque accidit, rende presumibile una influenza negativa sulla percezione di speciali compensi per una prestazione di lavoro più intensa del normale e/o sull’ulteriore sviluppo di carriera e/o su una possibile collocazione anticipata a riposo, nonché su alternativa possibilità di lavoro, talché in un caso siffatto si impone l’obbligo del giudice del merito di accertare, pur quando il soggetto abbia continuato a percepire la retribuzione, se ed in quale limite sia al medesimo derivato un danno risarcibile sotto forma di lucro cessante (Cass., 28.11.1988, n. 6403, Foro it. Rep, cit.. 1988, n. 170; nello stesso senso v. Cass., 10.10.1988, n. 5465).
Ma un diverso orientamento è espresso da quella giurisprudenza che intende impedire la locupletazione: in applicazione del principio di cui all'art. 2058 c.c. – secondo il quale il risarcimento per equivalente, così come la somma corrispondente alle spese sostenute dal danneggiato per la reintegrazione in forma specifica, non possono essere superiori al valore della cosa danneggiata – allorché le spese sostenute dal danneggiato per la riparazione del veicolo sinistrato risultino superiori all’effettivo valore del medesimo, il danneggiato non ha diritto all’integrale rimborso delle stesse (Trib. Asti, 1.2.1988, in Arch. giur. circ., 1988, p. 750).
La locupletazione deve essere però conseguenza diretta e immediata del fatto illecito, altrimenti non se ne può tener conto: anche nella determinazione del danno derivante da colpa extracontrattuale, come quella contrattuale, il principio secondo il quale deve tenersi conto dell’eventuale vantaggio che il fatto illecito abbia procurato al danneggiato, ad evitare che il risarcimento si risolva in un lucro indebito, è applicabile solo quando anche il lucro sia conseguenza diretta ed immediata del fatto illecito, sì che il vantaggio e il danno si presentino come eventi contrapposti di un medesimo fatto avente l’idoneità a determinarli entrambi; pertanto va esclusa la compensation lucri cum damno tra il vantaggio derivato, al proprietario di un fondo, dalla costruzione di una contigua strada pubblica, ed il danno, dal medesimo subìto, per frane ricollegabili non già all’opera pubblica in sé, bensì al comportamento illecito della P.A. che, nella relativa esecuzione, abbia trascurato di effettuare gli interventi indispensabili ad evitare movimenti franosi del terreno (Cass., 27.6.1986, n. 4267, in Giur. it., 1987, I, 1, c. 1501).
Si deve tener conto non solo della locupletazione del danneggiato ma anche di quella del danneggiante. Sintomatica di questa regola è la vicenda relativa alla diffamazione della famiglia dell’ex Presidente della Repubblica Giovanni Leone per effetto della pubblicazione di un libro scritto da Camilla Cederna. Con riguardo al problema che ci occupa si è stabilito che la liquidazione del danno non patrimoniale svolge nel sistema vigente una funzione risarcitoria; e si deve tuttavia tenere conto nella valutazione equitativa di ogni elemento che amplifichi il disvalore dell’azione illecita e la sua conseguente intensità lesiva, come può essere il fatto che l’autore dell’llecito tragga un vantaggio patrimoniale, a maggior ragione se ingente, dalla sua attività (applicando questi criteri la Corte d’appello ha liquidato la somma di lire cento milioni a ciascuna delle persone offese) (App. Milano, 23.12.1986, in Dir. inf., 1987, p. 585).
Nella quantificazione del danno da fatto illecito il giudice deve tener conto, anche d’ufficio, della svalutazione monetaria sopravvenuta fino alla data della pronuncia di liquidazione (Cass., 23.1.1987, n. 648, in Arch. giur. circ., 1987, p. 600): ciò perché l’obbligazione di risarcire il danno derivante dal fatto illecito, dovendo assicurare la reintegrazione del danneggiato nella situazione economica esistente al momento del fatto, ha natura di debito di valore, con la conseguenza che deve tenersi conto, anche d’ufficio e in grado d’appello, dell’eventuale svalutazione verificatasi nel corso del giudizio, sino alla liquidazione finale, realizzando un siffatto adeguamento il petitum originario nella dovuta interezza (Cass., 30.7.1986, n. 4895, in Arch. giur. circ., 1987, p. 399).
La situazione non muta se il danneggiato ha provveduto da sé ad eliminare le conseguenze dannose: in tal caso, l’obbligazione risarcitoria dell’autore del danno non perde la sua natura di debito di valore e, pertanto, ai fini della reintegrazione del patrimonio del danneggiato nella situazione economica preesistente, le somme da lui erogate sono suscettibili di rivalutazione in relazione al mutamento del potere di acquisto della moneta (Cass., 28.4.1988, n. 3209, in Arch. civ., 1988, p. 1054).
Che accade se le spese sostenute dal danneggiato sono superiori al valore della perdita subíta? Il dilemma è sciolto non nel senso più razionale, della liquidazione della sola somma corrispondente alla perdita, ma nel senso del completo ristoro: si precisa infatti che il proprietario di un’autovettura di vecchia costruzione e quindi di esiguo valore commerciale, rimasta danneggiata a seguito di sinistro stradale ascrivibile a responsabilità altrui, non è tenuto a venderla e ad acquistarne un’altra parimenti usata (pretendendo dal danneggiante, a titolo di risarcimento, la differenza di prezzo), ma può farla riparare e chiedere l’importo della riparazione (Trib. Perugia, 10.2.1987, in Arch. giur. circ., 1987, p. 794).
In altri termini, tale pregiudizio è classificato come lucro cessante, e può essere liquidato anche in mancanza di prove specifiche.
Il completo ristoro può ottenersi con la reintegrazione in forma specifica; altrimenti si fa riferimento all’equivalente pecuniario.
Anche nel caso di riparazione materiale del veicolo, il controllo sull’entità del risarcimento è effettuato secondo il criterio della ragionevolezza, che equivale al valore di mercato.
Così precisa una sentenza milanese: il danneggiato non può porre a carico del responsabile le conseguenze derivanti dall’avere incautamente affidato la vettura danneggiata ad un’officina che pretenda il pagamento di un prezzo di gran lunga superiore a quello di mercato (Trib. Milano, 18.9.1986, in Resp. giuridica della circolazione., 1988, p. 122).
Fonti normative
Artt. 1223 e 2056 c.c.
Bibliografia essenziale
Burrows, A., Remedies for Torts and breach of Contract, London, 2004, pp. 247 ss.; Harris, D., Remedies in Contract & Tort, London, 1988. p. 226; Remond-Gouilloud, M., Le prix de la nature, 1982, Chron., 33; Viney, G., Le dèclin de la responsabilitè individuelle, Paris, 1965.
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