Dante Alighieri, Opere minori: De vulgari eloquentia - Introduzione
Scritto successivamente all'esilio (I, VI, 3) e alla pace di Caltabellotta (II, VI, 4), preannunciato anzi in Convivio, I, V, 9 («Di questo si parlerà altrove più compiutamente in uno libello ch'io intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza»), steso almeno in parte prima del febbraio 1305 (morte di Giovanni di Monferrato, nominato come vivente a I, XII, 5), lasciato infine in tronco a mezzo del capitolo xiv del secondo libro, il De vulgari eloquentia condivide col trattato volgare cronologia, destino di incompiutezza e molti problemi e interessi costitutivi.
Entrambi sono il frutto di quella che è eminentemente in Dante la stagione della prosa: in un momento in cui si va rarefacendo la produzione lirica e verosimilmente la Commedia non è ancora iniziata, egli, sollecitato anche dalla condizione di esule a definire la propria posizione di intellettuale, svolge i propri robusti interessi teoretici nella prosa dottrinale «temperata e virile»: nel doppio registro linguistico del volgare e del latino, e nella doppia angolatura gnoseologica della filosofia e della retorica (ma con molti scambi e interferenze). È estremamente caratteristico della mentalità dantesca che questa vocazione teoretica prenda in entrambi i casi la forma della riflessione sopra la propria esperienza letteraria, da cui sono dedotti (o a cui sono sovrapposti) vasti corollari dottrinali. In questo senso i due trattati (e più, si capisce, quello volgare), mentre sviluppano la tendenza all'auto-esegesi della Vita Nuova, dispiegano un'esigenza di speculazione intellettuale accanto all'espressione poetica il cui appagamento e superamento sarà la sintesi poetico-dottrinale del poema (l'importanza del Convivio per la genesi anche formale della Commedia è uno degli acquisti capitali del dantismo recente).
La struttura mentale, tipica del Medioevo, del trattato dottrinale come commento di testi autorevoli diviene perciò in Dante auto;commento, con un gesto egocentrico in cui è già l'audacia di chi delegherà lo svolgimento di un'antropologia e teodicea esemplari alla testimonianza del "personaggio che dice io". Se un auto-commento è esplicitamente il Convivio, non lo è meno nella sostanza il De vulgari: e non solo perché le autocitazioni vi preponderano, ma perché tutti i suoi nodi concettuali rispecchiano il senso dell'esperienza lirica dantesca, alla cui explication sono funzionalizzati i densi scorci di storiografìa letteraria italiana e "romanza". Ora tale esperienza si caratterizza eminentemente per discontinuità e sperimentalismo, con bruschi salti di pressione, auto-superamenti ma anche sperimentazioni contemporanee di modi contrapposti, dal dolce delle rime "stilnovistiche" all'aspro delle petrose, dal registro speculativo delle dottrinali a quello basso e convolto del "comico" (tenzone con Forese, Fiore)- metricamente dalle scorciatoie del sonetto al giro ampio delle canzoni. Coerentemente il De vulgari vuoi essere un'enciclopedia esaustiva degli stili (la Commedia lo sarà in atto), ed anzi dei livelli linguistici, se l'ambizioso progetto prevedeva addirittura di arrivare (I, XIX, 3) al volgare «quod unius solius familie proprium est». Ma nello stesso tempo, come il Convivio (commento delle canzoni «d'amore come di virtù materiate»), anche il De vulgari privilegia all'interno di tale esperienza una precisa linea di tendenza - che era anche, nel momento grave dell'esilio, la linea vincente di fatto -, quella che dalla poesia amorosa della loda si sviluppa alla lirica matura della rectitudo. Donde la concezione gerarchica dei contenuti e dello stile poetico, che pone al vertice della piramide i magnalia dell'amor e della virtus (2, II, 7-8 e altrove; l'armorum probitas è un omaggio alla Provenza), e il relativo stile "tragico", linguisticamente e metricamente selezionato, senza contaminazioni. La duplice prospettiva, enciclopedica da un lato, selettiva dall'altro, determina subito contraddizioni teoriche che il trattato incompiuto non è in grado di sanare. Così, nella dottrina stilistica, quella fra una concezione possibilistica e orizzontale degli stili, ognuno degno e anzi opportuno nel suo ambito purché siano rispettate le regole del conveniens, e una esclusivistica e verticale, per cui solo lo stile sommo e i corrispondenti contenuti sono degni dei doctores illustres forniti di scientia e ingenium, sono adeguati alla loro altezza morale.
Se perciò il De vulgari è essenzialmente una poetica personale, d'altra parte l'esigenza medievale di oggettività ed esaustività del sapere, prepotentemente sentita da Dante, vuole che quelle norme siano sorrette da un'armatura concettuale totalizzante ed eziologica, e dunque inserite in una concezione generale del linguaggio. Di qui la forma del trattato, oscillante anche nella sua struttura fra enciclopedismo e specializzazione. Alla materia specifica della sua intentio («doctrinam de vulgari eloquentia tradere» : I, XIX, 2) si approda infatti dopo una vasta introduzione sulla natura, origine e storia del linguaggio (1, I-X) che ne illumina lo svolgimento dall'unità adamitica alla attuale differenziazione; segue la teoria del volgare «illustre”, prima negativamente definito attraverso una rassegna dei "dialetti" italiani che ne indica la distanza da quell'ideale (1, XI-XV), poi positivamente e deduttivamente inquadrato nella sua essenza (1, XVI-XIX). Il secondo libro individua dapprima la tematica degna di tale volgare illustre (I-II), quindi le forme metriche, il livello stilistico e lessicale ad esso appropriati (III-XIV ...). Del piano complessivo non realizzato da Dante sappiamo solo che esso prevedeva un quarto libro dedicato alle forme poetiche in volgare mediocre ed umile (il terzo doveva probabilmente contenere la teoria della prosa illustre) e una più generica discesa per i gradi del volgare fino all'idioletto familiare.
La stessa struttura dell'opera dà dunque ragione delle contrastanti interpretazioni che ne sono state date nel tempo: ora in direzione socio-linguistica, come teoria della norma nazionale da inserirsi nella secolare "questione della lingua" (soprattutto nel Cinquecento), ora come mera problematica di lingua letteraria e di stile (secondo la tesi firmata in particolare, e polemicamente, dal grande Manzoni). A questa dicotomia interpretativa l'esegeta moderno farà bene a reagire, non solo richiamandosi al carattere consustanziale dell'enciclopedismo di Dante e alla logica delle sue deduzioni, ma anche mostrando gli effettivi legami di implicazione fra i vari aspetti del trattato (ad esempio fra la visione teologica della storia del linguaggio e quella altrettanto teologica del volgare illustre assimilato in I, XVI a Dio; fra la nozione dei volgari come effetto di peccato e di cattiva molteplicità e quella di una lingua italiana unitaria come riparazione della colpa e restaurazione di una comunione, o fra la tesi del latino come stabile "grammatica" e l'idea del volgare che, pur restando natura e non artificio, può darsi stabilità e grammaticalità attraverso l'ars). Tuttavia ad essa dovrà anche, almeno in parte, arrendersi, come a una polarità che è insita nella cosa stessa.
Si prenda il concetto centrale di volgare illustre (e cardinale, aulico, curiale). Nella sua concreta politicità, che continuamente perfora lo schema astratto della dimostrazione - ed è ad esempio assente dalla nozione di lingua letteraria delle grammatiche provenzali -, è da vedere una delle conquiste maggiori del De vulgari.
Inaugurando una prospezione tipica del rapporto fra intellettuali e questione della lingua in Italia, Dante conferisce al volgare letterario già coralmente attuato dai doctores la patente di lingua nazionale, di strumento di un'aula e una curia che ancora non esistono ma di cui quei poeti costituiscono già le membra effettive (e con acuto giudizio politico attribuisce a Federico II e Manfredi l'avvenuta e poi interrotta realizzazione di queste condizioni). E tuttavia il metodo d'inquisizione, che vuole empirica la parte destruens, veramente razionale nell'accezione medievale, dunque astratta e deduttiva quella construens («rationabilius investigemus de illa ... »: I, XVI, I), fa sì che fra la massa dei dialetti respinti nel loro particolarismo municipale e quel volgare illustre non esista comunicazione, sì che di esso viene taciuta la genesi concreta: l'esistenza del volgare illustre non è un processo, ma un dato; il volgare illustre esiste, semplicemente, se è vero che esistono come esistono Italia e italiani (Vinay). Di più - è sempre il Vinay ad avere additato l'aporia - il volgare illustre viene ad essere due cose ben distinte: da un lato la lingua degli italiani a pieno titolo (vedi in particolare I, XIX, I), quella che necessariamente parla - e sembra non poterne fare a meno - chi sia davvero italiano, rappresentante dell'aula e curia potenziali; dall'altro la lingua specializzata dello stile più alto, e solo di esso, da cui non soltanto può ma deve evadere verso il basso il poeta che esperimenti gli stili inferiori, sia pure capace di poetare excellentissime (il primo capitolo del II libro lo dice molto chiaramente). Contraddizione istruttiva, e perfettamente parallela a quella che abbiamo sottolineato per la teoria degli stili: tale comunque da giustificare sia l'interpretazione diciamo "trissiniana" sia quella manzoniana del trattato.
Quando le tensioni concettuali non si delineano all'interno del trattato stesso, si aprono fra questo e il contemporaneo Convivio. Merito precipuo di entrambe le opere è di aver presentato il problema dei rapporti di coesistenza fra latino e volgare nei termini effettivamente drammatici in cui si è a lungo posto in Italia, al di qua dell'irenica visione di un Francesco da Barberino come della dura alternativa umanistica; impostando fra l'altro la questione della scelta fra le due lingue, concretamente, come scelta fra due pubblici sociologicamente diversi («volgari» e «litterati ») e fra nazionalità e sovra-nazionalità della cultura (le pagine del I libro del Convivio sono estremamente precise al proposito). Se dunque nel De vulgari Dante riassume (I, I, 4) i motivi psicologici, sociali e culturali di difesa dell'uso del volgare che aveva svolto nel Convivio, la logica stessa di quelle argomentazioni lo porta a rovesciare il principio di maggior nobiltà del latino ivi sancito, caricando di segno positivo la nozione di "naturalità" del volgare (che là era ancora, negativamente, uso ribelle alle regole) e deviando il concetto del latino come «arte» proprio del Idel Convivio verso quello del latino come lingua artificialis, convenzionale (perno filosofico del rovesciamento è l'assioma aristotelico-tomistico della superiorità della "natura" sull’“arte"). Paradossalmente, mentre il Iibro del trattato italiano si chiudeva nella prospettiva antagonistica di una letteratura volgare che sorgeva nuova dove l'usata latina tramontava, nel De vulgari la duplicità stessa della nozione di "arte", insita nella visione dantesca del latino, permette di continuare ad additare la regolarità e stabilità di quest'ultimo come permanente modello del volgare che va acquisendo dignità culturale e norme stabili. Altra e istruttiva divaricazione fra i due trattati si crea a proposito del concetto di ornatus stilistico, e dei rapporti fra prosa e poesia. Coerentemente alla novità della sua impostazione - la ricerca di una prosa intellettuale robusta ed autonoma- e alla duplicità del rapporto fra commento e poesie commentate (che è insieme di subordinazione e di inveramento e superamento), il Convivio, mentre riconosce alla poesia (I, xiii, 6) la funzione di dare «stabilitade» al volgare, privilegia decisamente la prosa (I, x, 12-3) nella facoltà di manifestare la bontà del volgare: indicando nei tratti costitutivi della forma poetica, definiti «accidentali adornezze» e assimilati a superflui abbellimenti femminili, una remora anziché un potenziamento delle capacità significative del volgare (nel De vulgari, II, xiii, 13, questa accusa di «semper sententie quicquam derogare» sarà riservata solo a determinati preziosismi tecnici). Il trattato latino corregge simultaneamente il tiro su tutti e due i punti (II, i): rivendicando ai poeti (avientibus) la priorità storica nella creazione di un linguaggio che poi rimane come modello (exemplar) ai prosaycantes; e integrando la teoria tradizionale dell'ornato come abbellimento additizio, verso cui (ha notato il Nencioni) il Convivio mostra così spesso insofferenza, con quella del conveniens o congruenza fra livello formale e livello del contenuto: per cui la forma resta pur sempre distinta sebbene mescolata (discretive mixta) al contenuto, e l'ornatus resta additio, ma alicuius convenientis additio. E un'altra ambivalenza va sottolineata, che è insita nell'atteggiamento del trattato verso i generi "comici". Il teorico, pur riconoscendone la legittimità, attua una precisa discriminazione e respinge il comico in un àmbito inferiore e subordinato, angolando una prospettiva tutta dominata dalla seriosità dei magnalia tragici, cui è conferita superiore dignità non solo letteraria e intellettuale, ma etica, e con ciò stesso limitando quella congrua sezione della propria precedente attività poetica che si era appunto svolta all'insegna della comedia (e d'altronde il De vulgari limita anche le petrose e il loro patrono Arnaldo: II, xiii, 13): implicita palinodia il cui corrispettivo più impressionante è forse il totale silenzio dell'opera dantesca sulla punta di diamante di quell'esperienza, il Fiore. Di conseguenza, nella parte che ci resta del trattato, la poesia comica propria ed altrui (Rustico, Cecco) è completamente taciuta. In compenso lo scrittore si prende le sue rivincite. Se la natura delle esemplificazioni dialettali del De vulgari è certamente composita, vi domina tuttavia il gusto della mimesi e deformazione parodistica dei vernacoli, il quale va inserito nella vivace tendenza all'improperium della letteratura delle origini, che costituisce una specificazione particolarmente aguzza della maniera "comico-realistica" (o del genere novellistico). D'altronde è Dante stesso a citare (I, xi), dichiarando di conoscerne altri, due improperia, la canzone del Castra e una parodia perduta di milanesi e bergamaschi; e buona parte degli specimina dialettali che egli adduce mostrano rapporti né generici né casuali coi testi di quella tradizione (vedi in particolare le note agli esempi romano e veneziano). Ancora in II, vii, 4 Dante - come ha detto Contini ad altro proposito - soddisfa il suo gusto per il cromatismo lessicale nel momento che lo esclude dal piano nobile della tragedia; e direi che siamo al puro lusus (con un occhio specialmente, mi sembra, alla prosa epistolare di Guittone e guittoniani) per alcuni vocaboli del successivo elenco di verba yrsuta, perfezionato infatti da una coda del tutto teorica, la “longissima dictio » honorificabilitudinitate che piacerà più tardi al grottesco verbale shakespeariano. Analogo formalismo ludico si dispiega, in latino, negli esempi (II, vi, 4) di gradus constructionis. Per tal modo il De vulgari, pur toto caelo diverso nell'impianto teorico, lascia anch'esso i suoi buoni addentellati all'incipiente Commedia, ed ecco i plebeismi fiorentini manicare e introcque, o le voci puerili mamma e babbo, puntualmente ripresi nel poema. Eppure quelle riprese saranno - quasi polemicamente - possibili giusto in ragione di un mutamento totale degli orizzonti retorici ed ideologici rispetto al trattato e all'ideale lirico in esso celebrato. Riflesso congruente, sebbene tutt'altro che esaustivo, del mutamento è in sede teorica l'Epistola a Cangrande dove all'assoluta discretio fra tragedia e generi inferiori praticata nel De vulgari fa riscontro l'ammissione dell'intercomunicabilità fra livello comico e tragico (nel trattato, sintomaticamente, tale comunicazione funzionava solamente fra il piano di mezzo e il basso, se la comedia poteva assumersi, oltre che il suo proprio volgare mediocre, l’ “umile" riservato all'elegia: II, iv, 6).
Tutto ci porta dunque all'esigenza di considerare il De vulgari come prodotto estremamente puntuale dell'esperienza di Dante, sicché la sua incompiutezza, lungi dall'essere un accidente di lavoro, ci appare connaturata al suo stesso significato, specie se, come rimane ben probabile, essa va addebitata precisamente al sorgere del poema. Questa puntualità non funziona solamente nei confronti del Dante contemporaneo e futuro, ma anche a ritroso: vale cioè a suo modo la stessa cautela che ci fa riconoscere nel sistematico allegorismo che il Convivio applica alla spiegazione delle canzoni un elemento almeno in parte nuovo ed estraneo rispetto alla genesi stessa di quelle liriche. Ma se dalla variabile occasionalità delle tesi ci spostiamo alla tematica e all'atteggiamento mentale che la promuove, allora il De vulgari ci appare come il prodotto centrale e più significativo di quell'autentica costante della personalità dantesca che Contini ha definito come il «perpetuo sopraggiungere della riflessione tecnica accanto alla poesia”, l'«associazione di concreto poetare e d'intelligenza stilistica”. Non si allude solo al fatto che, proprio in quegli anni, anche la corrispondenza poetica con Cino genera il proprio commento (l'Epistola III, razo del sonetto Io sono stato con Amore insieme), e che più tardi la Commedia esigerà la chiosa dell'Epistola a Cangrande; ma soprattutto alle molte concrezioni di poetica ed autodefinizione stilistica che crescono all'interno stesso dei testi letterari danteschi. Così già nella Vita Nuova i capitoli diciottesimo e diciannovesimo e specialmente il venticinquesimo, primo abbozzo di storiografia poetica romanza e primo tentativo anche di parificare poesia latina e volgare (vi si richiama De vulg. el., II, iv, 2); così gli spunti retorici contenuti nelle rime della maturità, che partendo dalla definizione di un momento stilistico in relazione ad uno tematico («Così nel mio parlar voglio esser aspro ...») giungono a sintetizzare tutta un'evoluzione formale («Le dolci rime d'amor ch'i' solia l cercar ne' miei pensieri, l convien ch'io lasci ... l diporrò giù lo mio soave stile l ... e dirò del valore /...con rima aspr'e sottile ... »). Anche questo atteggiamento culmina nella Commedia: ma se ad esempio l'attacco di Inf. XXXII («S'io avessi le rime aspre e chioccie...») è ancora sulla linea delle rime - e remotamente, direi, delle autogiustificazioni guittoniane -, l'abbondanza e pertinenza con cui il poema accoglie digressioni funzionali di storia letteraria e giudizi critici militanti presuppone precisamente l'esperienza del De vulgari e si commisura dialetticamente su essa (non occorre qui dire con quante rettifiche per ciò che attiene alle concrete valutazioni); e anche le teorie propriamente linguistiche del trattato conoscono del resto la loro appendice e palinodia in Par. XXVI.
Con un movimento che appartiene alla topica degli esordi (specie in opere retoriche), ma è anche squisitamente dantesco (si pensi solo alle "verità intentate" del proemio della Monarchia), il De vulgari proclama sulla soglia la propria novità. A buon diritto. Se i trattati provenzali - anche il più originale, le Razos de trobar di Ramon Vidal - raramente oltrepassano il livello della precettistica grammaticale, testi culturalmente ben più complessi come la Rettorica o il terzo libro del Tresor, di Brunetto, concernono di fatto un àmbito diverso, quello dell'oratoria forense e politica. E in realtà non sono queste opere a costituire il retroterra attivo del De vulgari: anche il gran Tesoro vi influisce puntualmente piuttosto per nozioni diverse da quelle specificamente retoriche. La novità del trattato di Dante sta preliminarmente nell'ampiezza della sua fondazione culturale: al di là dei modelli classici, quali Rhetorica ad Herennium, De inventione e Ars poetica oraziana (che è, astutamente, l'unica autorità retorica citata), le sollecitazioni concettuali e terminologiche vengono a Dante soprattutto dalla più recente tradizione delle poetrie transalpine (Matteo di Vendome, Goffredo di Vinsauf , Giovanni di Garlandia) e delle artes dictaminis nostrane (prossimi appaiono specialmente Guido Fava e Bene da Firenze). Lo dimostrano esaurientemente brani come il proemio o la definizione di volgare cardinale o la teoria dei vocaboli di II, vii. Questa assunzione in forza della trattatistica latina per un'opera che fonda l'eloquenza volgare non è un semplice fatto di acquisizione culturale, ma si riflette sulla sua struttura concettuale e ne è a sua volta determinata: alludo in particolare a quel nodo fondamentale del De vulgari che è la nozione di convertibilità della prassi e teoria dei latini regulati, garantita dal principio di emulazione, in prassi e teoria del volgare. Insegni soprattutto II, iv, 3, dove il rapporto di imitazione fra poetare volgare e latino è affiancato e reso possibile (stante la priorità della teoria, ivi stesso affermata) dalla dichiarata volontà di emulare le poetrie classiche. (Ma già in I, x, 2 proprio la maggior capacità di initi gramatice di Cino e Dante rispetto a francesi e provenzali veniva addotta quale caratteristica privilegiante della letteratura in volgare di sì). Come mostra il travaglio concettuale del I del Convivio, questo del confronto col latino e i latini era veramente il punto di passaggio obbligato. E Dante non si limita solo a mettere sullo stesso piano le due lingue e letterature (con la riserva che l'italiana deve ancora, ma può, darsi le sue regole stabili), ma fa anche un passo ulteriore, nel senso dell'autogestione del volgare. Allo stesso modo che la dignità e autonomia del volgare si trova garantita d'emblée nel proemio dalla proclamazione della sua maggiore "nobiltà", così la dignità della rispettiva letteratura si fonda sull'autorità stessa dell'esperienza che essa ha già compiuto. Non sfugga l'importanza del passo relativo alla supprema constructio in II, vi: dopo aver foggiato un exemplum fictum latino, Dante suggerisce i caratteri dell'altissimo periodare attraverso un elenco di canzoni volgari che non per nulla è il più lungo del trattato, avvertendo il lettore che solo con tanti “huiusmodi exempla” può indicare che cosa esso sia (e i poeti volgari vi sono chiamati, si badi, autores); soltanto a questo punto viene raccomandata, ma come facoltativa (fortassis), la lettura di poeti e prosatori regulati. È un passo paradigmatico del legame di Dante con la tradizione retorica, ma nello stesso tempo del suo superamento: vi sono presenti entrambi gli elementi portanti che ne costituivano la precettistica, cioè gli exempla ficta e il ricorso ai classici, ma vi è in più, e in posizione predominante, il richiamo ai modelli volgari. Così ancora in II, x, 5 il largum arbitrium, la licentia che l'uso concede ai poeti di canzoni sono fondati sulla dignità dei poeti volgari che costituiscono modello (autoritatis dignitate). Più in genere, questa è una delle novità fondamentali del trattato: se, come vuole la mens medievale, esso è uno sviluppo di princìpi e norme garantiti dal continuo appello ad auctoritates, nel momento che si entra nel vivo dell'eloquenza volgare l'auctoritas fondamentale diviene la stessa tradizione letteraria dei volgari, quale culmina poi nell'esperienza di Dante medesimo.
Quanto alla presenza determinante delle artes dictaminis accanto alle poetiche, questa non si spiega certamente senza tener conto dei rapporti abbastanza stretti che all'epoca della stesura del De vulgari I'Alighieri doveva avere con la cultura universitaria bolognese. Ma anche in questo caso il dato culturale si integra nella struttura stessa dell'opera. Dante accoglie, anche se data l'interruzione del De vulgari non riesce a sviluppare, il principio della intercambiabilità fra prosa e poesia largamente sancito dalla tradizione retorica: prova ne sia non solo l'accenno di II, i, I alla possibilità di una prosa italiana, accanto alla poesia, di livello illustre, ma soprattutto il passo appena discusso sulla constructio, che affianca ad esempi poetici volgari esempi di periodare prosastico in latino, e, simmetricamente, affianca ai poeti regolati i prosatori quali modelli atti a crearne l'habitus. Di questa complanarità egli dà anzi una particolare formulazione, suggeritagli dall'esperienza concreta delle letterature romanze, indicando come si è visto la priorità dei poeti nella costituzione di una lingua letteraria che poi rimane come exemplar ai prosatori: dove è forse da vedere anche il tentativo di precostituirsi un alibi alla difficoltà di reperire, diversamente che per la poesia, modelli autorevoli di prosa illustre volgare (in I, x, 2 si suggerisce che la prosa romanza, dominata dai francesi, si è sviluppata in realtà in generi romanzeschi e dottrinali non così prestigiosi come la lirica).
Ma non si tratta solo del fatto che il De vulgari eccede nettamente la media dei testi congeneri nello specifico delle letture retoriche messe in opera; coerentemente al suo impianto enciclopedico e alla natura schiettamente filosofica di molti dei problemi affrontati (specie nei primi capitoli), esso se ne distingue ancor più per larghezza di impostazione dottrinale e relativa attrezzatura culturale. E non si deve pensare semplicemente a una periferia di temi filosofico-teologici che avvolge il nucleo più sostanziale della problematica retorica: molto più importa per la struttura concettuale del trattato l'abitudine di fondare rigorosamente su base filosofica, metafisica, problemi specifici dell'eloquenza volgare.
Tipiche a questo proposito le deduzioni aristotelico-tomistiche della necessità di un volgare illustre unitario o della priorità dei tre magnalia (I, xvi; II, ii); ma anche la definizione dei costituenti metrici della canzone (II, x, I) parte dalla citazione di un assioma del «Magister Sapientum». Questa costante integrazione del discorso filosofico al discorso retorico, e quindi della necessità razionale della logica e metafisica all'empiria dei precetti stilistici, non è meno importante per il fatto che ubbidisce a un costume intellettuale abbastanza diffuso nel Medioevo, quale era stato in particolare applicato dalla cosiddetta "grammatica speculativa".
In questo senso ancora il De vulgari si rivela contemporaneo del Convivio, e certamente ne utilizza a fondo l'armamentario dottrinale: ma anche qui secondo una sua propria specificità, poiché ad esempio vi resta pressoché inattiva una delle "fonti" filosofiche costitutive del trattato volgare, Alberto Magno. Domina naturalmente (ed è l'unico a beneficiare di una citazione) Aristotele, ma bene spesso mediato dai Commenti o dalle Summae tomistiche, e san Tommaso appare, sia per numero che per funzionalità concettuale dei suoi suggerimenti, l'autorità filosofica fondamentale. Anche è sensibile, specialmente nella parte iniziale, l'apporto agostiniano, ma qui è più spesso da sospettare l'azione di intermediari più vicini. Poiché ovviamente Dante non è uno specialista, ma un geniale dilettante della speculazione filosofica: fanno testo da questo lato i frequenti debiti verso opere di vasta e proba compilazione enciclopedica quali gli Specula di Vincenzo di Beauvais (vedi I, ii, 3, nota 2) o il Tresor di Brunetto, giù giù fino ai "dizionari enciclopedici" di Isidoro da Siviglia e di Uguccione da Pisa, senza dubbio responsabili (specie il secondo) di cognizioni non puramente lessicali.
Ancor più interessa accertare i modi di impiego di queste, e altre, letture. Come normale nel Medioevo, l'ossequio e la flagrante appropriazione (in quanto bene comune) dell’auctoritas vanno di conserva a una notevole spregiudicatezza nell'utilizzarla. Spesso nel De vulgari il riecheggiamento di un testo autorevole è un semplice appiglio verbale per fissare i contorni delia tesi da dimostrare. Così nei passi sulla lingua degli angeli di I, ii-iii sono letteralmente riprese parole e modulazioni concettuali di san Tommaso per sostenere un'opinione opposta a quella del santo (gli angeli non hanno bisogno di una lingua); analogamente in I, iv, 6 la parafrasi di un passo agostiniano si risolve in un'interpretazione letterale e naturalistica di dati che Agostino elencava in funzione di un'interpretazione spiritualistica dello stesso fenomeno. L'autonomia dell'iniziativa dantesca si rivela d'altronde anche nello spessore di strati culturali che costituisce spesso la pagina del De vulgari, prodotto di una pluralità e un intreccio di "fonti" (talvolta di autentici processi contaminatòri). Già è significativa in materia la consuetudine di assumere Aristotele attraverso la mediazione del commento tomistico; ma si guardi il «Nos ... cui mundus est patria ... » di I, vi, 3: dove la sentenza ovidiana è piuttosto il punto d'arrivo che quello di partenza, ed è certo suggerita a Dante da Brunetto che la parafrasa nel contesto di un passo sulla stoica sopportazione dell'esilio che, assieme all'autorità del De remediis fortuitorum ivi ormeggiato, continuerà a fruttare in brani danteschi tematicamente affini, dall'Epistola m a quella Amico Fiorentino. Montaggio culturale che è caratteristico non solo di una tecnica del richiamo analogico e della dissolvenza l'una nell'altra delle "fonti", ma anche dell'esigenza di riscoprire, procedendo a ritroso dalle derivazioni più recenti, gli archetipi antichi e solenni del sapere (sulla parità concessa in via di metodo agli auctores latini- nel caso ancora Ovidio - nei confronti dei testi sacri del Cristianesimo informa chiaramente il procedimento di I, ii, 6-7, benché si tratti, s'intende, di abitudine non specificamente dantesca ma più generalmente medievale).
Come per ogni altra opera di Dante così per il De vulgari il primo imperativo iscritto all'ordine del giorno della critica è dunque quello di spiegare Dante col Medioevo: tanto più nel caso di un testo che, come già nel Cinquecento, ha subìto spesso indebite interpretazioni modernizzanti (ne sono tracce sensibili ancora nel commento del Marigo). Anche in questo caso la comprensione passa attraverso il riconoscimento di una distanza culturale. Ciò non toglie che, se l'obiettivo è pur sempre la ricostruzione dell'unità dell'opera iuxta sua principia, rimanga tuttavia perfettamente legittimo chiedersi quali aspetti di essa sono più attivi nella nostra cultura. La risposta non è dubbia: l'attualità del trattato risiede soprattutto nei suoi aspetti di storiografia e critica militante della letteratura romanza, nei quali consiste anche il maggior salto qualitativo di Dante rispetto ai suoi antecedenti.
Si guardi alle grammatiche e retoriche provenzali, mosse da esigenze affini a quelle dantesche: ciò che le mantiene decisamente al di qua del De vulgari non è tanto la frantumazione delle auctoritates in altrettanti esempi di correttezza grammaticale e formale - di contro alla globalità etico-stilistica della nozione dantesca di modello letterario -, quanto il carattere storicamente inerte e astratto del canone degli autori. Il fatto è che Dante non si limita a inventariare post festum l'eredità di una cultura, ma se ne costituisce parte in causa, elemento dinamico di un suo divenire ancora pienamente in atto, anzi incipiente. Per cui nel De vulgari costituzione di un canone, ricostruzione storiografica e atteggiamento critico "militante" si implicano a vicenda. Anche da questo punto di vista il trattato dantesco è veramente la coscienza critica dello Stilnovo. Conseguenza primaria della rottura consapevolmente praticata dagli stilnovisti nella tradizione letteraria italiana fu infatti il costume della polemica ad hominem in cui, provocati o provocatori, quei poeti furono coinvolti nei confronti dei rappresentanti della vecchia scuola (attacco di Bonagiunta al Guinizzelli, del Cavalcanti a Guittone, polemica di Onesto con Cino e della Vita Nuova contro gli «alquanti grossi» incapaci di un uso intellettualmente cosciente delle figure retoriche). La vivace politica culturale del De vulgari non è concepibile fuori di questo quadro - e molto probabilmente dell'impatto con la cultura bolognese e settentrionale in cui come sappiamo la vecchia scuola continuava a godere di posizioni egemoniche: prova a posteriori ne sia il fatto che ancora negli squarci di critica letteraria del poema Dante si richiama, attraverso una fitta trama di rimandi allusivi, a quelle polemiche.
Asse portante della ricostruzione storico-militante del De vulgari è, da un lato, l'opposizione fra i veri doctores illustres e i poeti «municipali», di fatto soprattutto Guittone - e poi gli altri rappresentanti toscani della «scuola di transizione» (mentre nei confronti delle loro appendici settentrionali Dante attua una diversa strategia, attirando nell'orbita del proprio gruppo poeti, come ad esempio Onesto, che in realtà sono tributari della cultura siculo-toscana o al massimo oscillano fra vecchia e nuova poesia); dall'altro la distinzione fra predecessores e moderni - col Guinizzelli presumibilmente in posizione di cerniera: perché se i siciliani eccellenti sono proclamati del tutto pari per lingua illustre e altezza di stile agli «stilnovisti » (I, xii, 6 e implicitamente altrove), in pratica la normativa metrica del II libro si fonda sui moderni e mette fra parentesi i «predecessori». Qui la Commedia (Purg. XXXV) scioglierà il nodo approfondendo le distinzioni storiche: Guinizzelli verrà proclamato «padre», ma i siciliani, attraverso la figura antonomastica del Notaio, verranno decisamente scalati anch'essi «di qua dal dolce stil novo». E s'aggiunga che con ogni probabilità, come anche per i trovatori, l'elencazione dei dottori illustri italiani è impostata sulla successione cronologica.
Accanto alla storia, la geografia. La pertinenza delle classificazioni letterarie del De vulgari sta, ancor più, nel fatto che alla loro base è il riconoscimento del carattere regionale e municipale della cultura nostra delle origini, al quale demiurgicamente Dante applica la sua forte esigenza di unità linguistica e culturale. Così il panorama della poesia italiana anteriore e coeva prende dapprima forma nel corso di quei capitoli XI-XV del I libro che, come è ormai pacifico, piuttosto che una rassegna dei vari dialetti regionali e cittadini sono una rassegna delle varie letterature regionali. È soprattutto in virtù di questa angolazione che i giudizi storici danteschi continuano ad essere costitutivi di qualsiasi nostra ricostruzione del Duecento poetico italiano, a cominciare dalla nozione fondamentale di "scuola siciliana" come unità omogenea di rimatori non necessariamente siciliani attorno a Federico e Manfredi e alla loro politica culturale. Ciò vale spesso anche per le valutazioni di merito se, restando nello stesso settore, la critica recente ha potuto recuperare appieno, contro quella ottocentesca, una gerarchia di valori con in testa non i rimatori più immediati e "popolareggianti" della scuola, ma quelli più sottili e intellettualistici (qui rappresentati dal Giudice Guido delle Colonne). E si pensi ancora all'individuazione dei due gruppi, rispettivamente municipale e curiale, di poeti toscani o all'enucleazione di una "scuola" bolognese accanto al Guinizzelli. Non solo dunque con la sua statura di scrittore, ma col suo acume storiografico e polemico di critico, Dante ci costringe ancora a una visione delle nostre Origini tracciata e dominata da lui.
Si capisce che, spostandoci fuori dell'Italia, dobbiamo fare i conti non più solo coi suoi umori polemici, ma anche con le sue lacune di informazione. E tuttavia è ammirevole come il De vulgari sappia fare di necessità virtù, traendo dagli stessi limiti di conoscenza lo stimolo per un giudizio più pregnante: è il caso soprattutto della pagina (I, x, 2) sulla letteratura d'oil che, individuandone il punto di forza nella prosa romanzesca, storica e dottrinale, ne impoverisce enormemente il rilievo obiettivo ma proprio per questo traccia con estrema esattezza le vie della sua penetrazione egemonica in Italia. Qualcosa di simile avviene anche per i trovatori. L'ignoranza della prima fase di quella poesia (fino a Bernart di Ventadorn, probabilmente compreso) facilita a Dante il riconoscimento di un canone fondamentale di quattro poeti del momento centrale e culminante (Bertran de Born, Giraut de Bornelh, Arnaldo e Folchetto), intelligentemente sceverati dalla folla dei minori e individuati con sicurezza nelle loro dominanti tematiche - e con questi, pur nel mutare delle prospettive, continuerà a fare i conti la Commedia; mentre l'appendice dei due Namerici adombrerà (Folena) l'idea del legame storico fra epigonismo trobadorico e nuova lirica italiana.
Ma torniamo all'Italia. Se i punti più qualificanti della ricostruzione di Dante sono la limitazione dei siculo-toscani (ma soprattutto di Guittone) e l'indicazione della propria esperienza e di quella di Cino come culmini della lirica illustre, la sua revisione critica coinvolge anche, più copertamente, i compagni di strada. Alludo all'ambigua posizione che ha nel De vulgari il Cavalcanti: lodato come maestro di volgare illustre, di constructio e di metrica, ma di fatto soppiantato da Cino nel ruolo di pendant di Dante, poiché al pistoiese e non a lui spetta di rappresentare l'eccellenza nella tematica amorosa (11, ii, 8). Fra il sodalizio della Vita Nuova e il pieno recupero del magistero cavalcantiano attuato nella Commedia (lnf. X; Purg. XI), il trattato attesta dunque un momento di frizione, che conferma ma purtroppo non illumina, dalla parte di Guido, il sonetto I' vegno 'l giorno a te: che motivi del contendere fossero in primo luogo la concezione cavalcantiana dell'amore come accidens e l'estraneità di Guido alla cultura latina privilegiata nel De vulgari, è quanto si può verosimilmente supporre, ma senza facoltà di prova. Anche qui, come nell'inversione (Purg. XXVI) dei rapporti gerarchici fra Giraldo e Arnaldo indicati nel trattato, la Commedia dunque si riallaccerà al De vulgari, ma per rettificarlo (frattanto tacendo del tutto dell'amicus Cino): indizio ulteriore, insieme, della fedeltà di Dante ai propri interessi vitali e della sua illimitata capacità di correggersi ed auto-superarsi.