Dante Alighieri, Opere minori: Epistole - Introduzione
L'edizione critica della Società Dantesca Italiana (Firenze 1921), comprese tredici lettere in latino. Delle molte lettere che Dante certo avrà scritto, in volgare e in latino, solo quel modesto manipolo si era salvato. Semmai aveva rischiato di essere ridotto, ché la critica, fino al traguardo di quell'edizione, aveva sferrato colpi per contestare l'autenticità di alcune di quelle lettere. Le battaglie non si sono più riaccese (dubbi avanza ancora E. SESTAN, per la lettera II, ai conti di Romena, in Dante e i conti Guidi, nel volume Italia medievale, Napoli, E.S.I., 1967, pp. 347-9). Salvo che per la lettera a Cangrande: chi la vuole autentica, chi falsa, chi autentica solo nei primi quattro capitoli.
Nessuno ha più speso una parola, invece, a proposito delle tre epistole al re degli Unni, a papa Bonifacio, a un figlio, che il Filelfo, tra le «innumerabiles» di Dante, disse di aver avuto sott'occhio (cfr. la sua Vita di Dante, ed. Solerti, in Le Vite di Dante, Petrarca e Boccaccio scritte fino al secolo decimosesto, Milano, F. Vallardi, 1904-1905, p. 183): un'impostura i suoi incipit, evidentissimi a fianco dei falsi esordi che, ahimè, lo stesso Filelfo credette di offrire per il De vulgari eloquentia e il Monarchia.
Per la lettera, poi, a Guido da Polenta, pubblicata dal Doni nelle sue Prose antiche (1547), in cui Dante darebbe notizia di una sua ambasceria a Venezia (per esprimere le congratulazioni per l’elezione del doge Giovanni Soranzo, eletto il 13 luglio 1312; la lettera, da Venezia, è datata il 30 marzo 1314: «… non sì tosto pronunziai parte dell'esordio ch'io m'aveva fatto a rallegrarmi in nome vostro della novella elezione di questo serenissimo Doge, Lux orta est iusto et rectis corde letitia, che mi fu mandato a dire o ch'io cercassi d'alcuno interprete o che mutassi favella. Così mezzo fra stordito e sdegnato, né so qual più, cominciai alcune poche cose a dire in quella lingua che portai meco dalle fasce; la quale fu loro poco più familiare e domestica che la latina si fosse. Onde in cambio d'apportar loro allegrezza e diletto, seminai nel fertilissimo campo dell'ignoranzia di quegli abondantissimo seme di maraviglia e di confusione. E non è da maravigliarsi punto che essi il parlare italiano non intendano, perché da progenitori dalmati e greci discesi, in questo gentilissimo terreno altro recato non hanno che pessimi e vituperosissimi costumi insieme con il fango d'ogni sfrenata lascivia...»), non si è levato più difensore alcuno contro la critica che la giudicò spuria per gravi ragioni, anche se il Vandelli e il Pistelli, in fondo, ritenevano che la questione non fosse definitivamente forse chiusa (ma di questa lettera esiste una ventina di manoscritti, «la maggior parte dei quali non è descripta dall'edizione doniana»: cfr. F. MAZZONI, Le epistole di Dante, nel volume Conferenze aretine 1965, Arezzo, Tip. Zelli, 1966, p. 87; R. MIGLIORINI FISSI, La lettera pseudo-dantesca a Guido da Polenta, in “Studi danteschi n, XLVI, 1969, pp. 101-272).
Né il manipolo delle tredici lettere pervenuteci ha avuto in sorte,dopo il 1921, di accrescersi per fortunate scoperte.
In verità, fino a Leonardo Bruni esistevano più lettere. Se il Bruni non conobbe quella di cui fa parola lo stesso Dante nella Vita Nuova (XXX, 1-2), scritta per esprimere la desolazione di Firenze, dopo la morte di Beatrice, e che cominciava: «Quomodo sedet sola civitas», in latino, e che Dante perciò non riportò nell'opera dove niente doveva esserci «altro che in volgare», ebbe certo fra mano lettere dantesche perfino in originale, sicché poteva notarne la scrittura «magra e lunga e molto corretta». Ricorda che Dante, da Verona, scrisse per ottenere di rientrare a Firenze «più volte non solamente a' particulari cittadini del reggimento, ma ancora al popolo; ed intra l'altre un'epistola assai lunga, che incomincia: "Popule mi, quid feci tibi?"» - a questa lettera con ogni probabilità accennava anche Giovanni Villani, assertore dell'eccellenza, riconosciuta, di Dante nell'epistolografia (Cron., IX, 136). - E da questa lettera il Bruni traduceva un passo dichiarando, al principio e alla fine della citazione, la paternità di Dante: «... le parole sono queste: Tutti li mali e l'inconvenienti miei dalli infausti comizi del mio priorato ebbono cagione e principio; del quale priorato, benché per prudenzia io non fussi degno, niente di meno per fede e per età non ne era indegno, perroché dieci anni erano già passati dopo la battaglia di Campaldino, nella quale la parte ghibellina fu quasi del tutto morta e disfatta, dove mi trovai non fanciullo nell'armi, dove ebbi temenza molta, e nella fine allegrezza grandissima, per li vari casi di quella battaglia. Queste sono le parole sue». E una parafrasi è la descrizione della battaglia di Campaldino, offertaci sempre dal Bruni, del testo dantesco, cui si fa appunto riferimento: «Questa battaglia racconta Dante in una sua epistola e dice esservi stato a combattere, e disegna la forma della battaglia». E, sempre da questa lettera, pare, il Bruni deriva la giustificazione di Dante a proposito del richiamo dei Bianchi esiliati a Sarzana: «A questo risponde Dante, che quando quelli di Serezzana furono rivocati, esso era fuori dell'uffizio del priorato, e che a lui non si debba imputare: più dice, che la ritornata loro fu per l'infirmità e morte di Guido Cavalcanti, il quale ammalò a Serezzana per l'aere cattiva, e poco appresso morì». Infine, l'enumerazione particolareggiata dei danni subiti da Dante in seguito all'esilio, «secondo egli scrive», dice il Bruni, potrebbe avere sempre come fonte la lettera «Popule mi».
Il Bruni c'informa poi di un'altra lettera, contrapponendola a quella pervenutaci, rivolta ai Fiorentini scelleratissimi, raccontando: «Pure il tenne tanto la riverenza della patria, che venendo lo 'mperadore contra Firenze, e ponendosi a campo presso la porta, non vi volle essere, secondo esso scrive, con tutto che confortator fusse stato di sua venuta». (Cfr. Vita di Dante, ed. Solerti cit., pp. 99, 100, 102-4; e il libro IV delle Historiae fiorentinae, in R.I.S.2 XIX, III, p. 77).
Ad altre lettere di Dante alluse Flavio Biondo (Decades, II, IX), che attestava di aver veduto certe lettere di Pellegrino Calvi, cancelliere a Forlì di Scarpetta Ordelaffi, nelle quali si faceva frequente menzione a Dante, «a quo dictabantur»; e una diretta a Cangrande, scritta verso il 1310, al tempo della discesa di Arrigo.
Sulla tradizione manoscritta delle singole lettere dò notizia all'inizio del commento ad ogni lettera. Basterà qui riassumere che Giovanni Boccaccio, nel suo Zibaldone che è il codice Laurenziano Mediceo XXIX, 8, ci ha conservato le lettere a Cino da Pistoia, ai Cardinali italiani, all'amico fiorentino. Il Boccaccio aveva avuto certo presente anche la lettera a Moroello. Ma non la copiò sullo Zibaldone. Aggiunse invece due suoi esercizi di apprendista epistolografo. Ai destinatari danteschi, Cino, letterato, e Moroello, nobilissimo dominante, sostituì, nei suoi esercizi, parallelamente, Francesco Petrarca e il duca di Durazzo, salvo poi invertire la materia delle sue lettere, ma seguendo da presso lo svolgimento, il numero delle citazioni e così via. Sicché l'imitazione boccaccesca può costituire una sorta di tradizione indiretta anche per la lettera a Moroello. Che è invece compresa nel codice Vaticano Palatino 1729, che raccoglie tutte le lettere pervenuteci di Dante - non le tre del Laurenziano Mediceo XXIX, 8, e non quella a Cangrande, che ha tradizione e vicende proprie. Dunque nove lettere: le raccolse, nel 1394, Francesco Piendibeni da Montepulciano, notaro, successore di Filippo Villani nel cancellierato di Perugia, infine scrittore apostolico e, sotto Giovanni XXIII, arciprete di Montepulciano e Vescovo d'Arezzo dal 1414 al 1433. Le lettere ai Signori d'Italia e ad Arrigo VII sono tramandate inoltre dal codice 101, S. Pantaleo 8, della Biblioteca Nazionale di Roma (la seconda, anche dal codice Marciano Lat. XIV, 115, della Biblioteca Marciana di Venezia, e, incompleta, dal codice F. V. 9 della Biblioteca Comunale di Siena). Di queste due lettere ci sono giunti numerosi volgarizzamenti (ne ricorda diciassette F. MAZZONI nel suo studio, già citato, Le epistole di Dante, p. 97, studio di grande interesse anche per il problema della tradizione delle lettere dantesche). Per quanto riguarda il testo delle prime dodici epistole, ho tenuto presente l'edizione critica di Paget Toynbee, DANTIS ALAGHERII Epistolae, Emended Text, with lntroduction, Translation, Notes and Indices, and Appendix on the Cursus, Oxford, at the Clarendon Press, 1920 (questa edizione è stata preceduta da una serie di articoli sulle singole lettere, pubblicati in «The Mod. Lang. Review», spesso recensiti da E. G. PARODI, in «Bull. d. Soc. d ant.» - del Parodi si veda anche la rassegna: Intorno al testo delle epistole di Dante e al "cursus", nel «Bullettino» cit., N.S., XIX, dicembre 1912, pp. 249-75, ripubblicato in Lingua e letteratura, a cura di G. Folena, n, Venezia, Neri Pozza, 1957, pp. 399-442); e quella di E. PISTELLI, in Le opere di Dante, testo critico della Società Dantesca Italiana, Firenze, Bemporad, 1921 (2a ed. 1960), preceduta dal saggio Dubbi e prospettive sul testo delle Epistole, in «Studi danteschi», II (1920).
Da queste edizioni, e da quella della Lettera ai Cardinali italiani di R. Morghen (La lettera ai Cardinali italiani, in «Bullettino dell'Ist. Stor. Ital. per il M.E.», n.° 68, 1956, pp. 25-31) mi sono talora discostato, con nuove proposte di lettura e di emendamento del testo conservatoci nei codici ricordati.
Per tali codici, ricordiamo le edizioni che li riproducono: Lo Zibaldone Boccaccesco Mediceo Laurenziano Plut. XXIX, 8. Riprodotto in Facsimile a cura della R. Biblioteca Medicea Laurenziana con prefazione del Prof. Guido Biagi, in Firenze presso Leo S. Olschki Editore, 1915; facsimile in DANTIS ALAGHERII Monarchiae liber et Epistolae ex codice Vaticano Palatino Latino 1729 phototypice expressa. Praefatus est Fridericus Schneider, Romae apud Bibliothecam Vaticanam, 1930; Dantes Briefe an die Fiirsten und Volker ltaliens und an Kaiser Heinrich VII, nebst iiltesten italienischen Uebersetzung des Briefes an Kaiser Heinrich VII, aus dem Cod. 101 S. Pantaleo 8 der Bibliothek Vittorio Emanuele in Rom und aus Cod. Marcianus latinus XIV II5 der Bibliothek von S. Marco in Venedig nebst einer Uebersichtstafel zur handschrijtlichen Ueberlieferung der Dantebriefe im Faksimile-Druck, eingeleitet und herausgegeben von Friedrich Schneider, Zwickau Sa., Ullmann, 1930.
Edizioni delle epistole con versione in italiano e commento non mancano, se pure non si valgono, sistematicamente, di un censimento critico dei numerosissimi contributi particolari disseminati in tanti e tanti articoli: dalla edizione di A. MONTI, Milano, Hoepli, 1921, a quella di A. DEL MONTE, nel volume D. ALIGHIERI, Opere minori, Milano, Rizzoli, 1960 - da segnalare la traduzione delle «epistole politiche» (V, VI, VII, XI) di G. VINAY, in appendice al Monarchia da lui curato, Firenze, Sansoni, 1960; e, a parte, il commento alla traduzione francese di A. PÉZARD (DANTE, Œuvres complètes, Paris, Bibliothèque de la Pléiade, 1965).
Non ho la pretesa di essere riuscito a mettere insieme tutte le schede dell'auspicato censimento. Nel commento dò spesso notizia del mio consenso o del mio dissenso nel confronto di altri studiosi. Qui ricorderò, almeno, che ho tenuto conto, per il testo, del problema del cursus: oltre del già citato Parodi, mi sono valso di F. DI CAPUA, Fonti ed esempi per lo studio dello «Stilus curiae romanae» medioevale, Roma, Maglione, 1941 (vi si dà l'edizione con divisione in stichi e indicazione delle clausole delle lettere I, V, VI, VII, X, XI); dello stesso autore, altri studi sulla retorica medievale e Dante e su singoli problemi delle epistole in Scritti minori, II, Roma, Desclée e C., 1959, pp. 226-355 e 373-445). Ma il problema del cursus è solo un aspetto del problema del latino di Dante (cfr. G. BRUGNOLI, Il latino di Dante, nel volume Dante e Roma. Atti del Convegno di studi a cura della «Casa di Dante», Firenze, Le Monnier, 1965, pp. 51-71), e il problema del latino delle Epistole comporta l'identificazione di certa patina dialettale che si sarebbe sovrapposta sulla loro trascrizione (cfr. F. MAZZONI, Le epistole di Dante, cit., pp. 50 sgg.). Tutti «problemi» che sovrastano troppo la mia competenza; vorrei soltanto che la mia edizione, non critica perciò, meritasse almeno l'aggettivo, non tecnico, di volenterosa e, se non è troppo ambizioso, di utile.
Roma, marzo 1970
Arsenio Frugoni
L'Epistola
A = Milano, Biblioteca Ambrosiana, C 145 inf.
M = Munchen, Staatsbiblithek, Lat. 78
Bg = Bergamo, Biblioteca Comunale, 4.5.25.
Me = Firenze, Biblioteca Mediceo-Laurenziana, Carte Strozziane, Serie Ia , 136
M1 = Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magliabech. C1. VI, 164
M3 = Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magliabech. C1. VII, 1028.
Ri = Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Platin. Filza Rinuccini, 19
V = Verona, Biblioteca Capitolare, 314
Cfr. F. MAZZONI, Le epistole di Dante, in Conferenze aretine 1965, Arezzo, Tip. Zelli, 1966, pp. 87 sgg., di cui adotto le sigle dei manoscritti. A M Me M1 M2 M3 Ri V sono stati pubblicati in fototipia da F. SCHNEIDER, Die Handschriften des Briefes Dantes an Can Grande della Scala, Zwickau Sa., Ullmann, 1933; Bg fu collazionato da A. MANCINI, Un nuovo codice dell'Epistola a Can Grande, in «Studi danteschi», XXIV (1939), pp. 111-22.
I manoscritti si possono raggruppare in due famiglie: α (= A M Bg) e ß ( = Me M1 M2 M3 Ri V).
La stessa tradizione manoscritta dell'Epistola suggerisce dubbi. La famiglia α dei manoscritti, che è la più antica, tramanda infatti soltanto i paragrafi 1-13 (capp. 1-4) dell'Epistola e cioè soltanto la parte nuncupatoria, omettendo la parte dottrinale e quella espositiva. La fine del paragrafo 13: «Itaque, formula consumata epistole, ad introductionem oblati operis aliquid sub lectoris officio compendiose aggrediar», fa però pensare che i manoscritti della famiglia αderivino da un esemplare che aveva operato una riduzione da un' Epistola più vasta (cfr. A. MANCINI, Nuovi dubbi ed ipotesi sulla Epistola a Cangrande, in «Atti della R. Accademia d'Italia. Rendiconti. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche», serie VII, volume IV, Roma 194-3, p. 228; B. NARDI, Il punto sull'Epistola a Cangrande, Firenze, Le Monnier, 1960 [«Lectura Dantis Scaligera»], p. 17, nota 2) che comprendeva anche gli altri paragrafi.
Alcune lezioni dei manoscritti recenziori risalgono «indubbiamente a cattive letture di abbreviazioni e compendi trecenteschi, segno che la tradizione ha radici profonde» (F. MAZZONI, Per l'Epistola a Cangrande, in Studi in onore di A. Monteverdi, Modena, S.T.E.M. di C. Mucchi, 1959, ora in Contributi di filologia dantesca. Prima serie, Firenze, Sansoni, 1966, p. 25).
ß è più sfigurata di α, per quel che riguarda i trascorsi meccanici di scrittura: ciò dimostra che α ebbe lunga vita indipendente da ß e fu meno letta.
Sul piano qualitativo A presenta però errori altrettanto gravi (lezioni faciliores) che ß.
Tuttavia sul piano quantitativo α dovrà considerarsi più pura di ß. L'esame delle variae lectiones per i primi otto paragrafi (cfr. F. MAZZONI, Contributi, cit., pp. 25-6) conferma questo giudizio:
LEZIONE ESATTA LEZIONE ERRATA § 1 Cesarei α
et sereni
existentia
essentia
postmodum
primordii
inferioribus coniugari
inferiores coniungat
non videatur
ac ratione
atque r.
Filippo Villani che lesse Dante a Firenze nei primi del '400 è il primo ad attestare una conoscenza dell'Epistola in tutti i suoi trentatré capitoli: «il testo dell'Epistola allo stato degli atti deve ritenersi conosciuto da Piero di Dante, da Guido da Pisa, da Jacopo della Lana, dal Boccaccio, forse anche dal Buti, e solo, per tutti, nella parte generale compresa nei paragrafi [intendi: capitoli] 6-16, mentre la parte propriamente epistolare (par. 1-4) e il commento particolare, cioè l'"expositio littere" (par. 17-31) e la chiusa (par. 32-33) non risulta abbiano avuto fortuna non che di diffusione, di conoscenza»: questa situazione prospettata da Mancini fu migliorata da Mazzoni. Jacopo della Lana conosce il capitolo 17 dell'Epistola nell'attacco del suo commento al Paradiso, dove riprende letteralmente la distinzione dell'Epistola fra "Prologo" e "parte esecutiva"; l'Ottimo (terza redazione del manoscritto Vaticano, Barberiniano Lat. 4103) conosce i capitoli 20-3, 28, 30 fra il 1337 e il 1343· Ma è pur vero che né Jacopo della Lana né l'Ottimo, pur largamente sfruttando questi passi, si sentono obbligati a riconoscerne esplicitamente l'origine dantesca!
L'autenticità dell'Epistola fu messa in dubbio per la prima volta da Scolari (F. SCOLARI, Note ad alcuni luoghi delli primi cinque canti della Divina Commedia, Venezia 1819, pp. 12-21; F. SCOLARI, Lettera critica intorno alle Epistole latine de l'Alighieri, Venezia, Tip. all'Ancora, 1844). Tra gli assertori dell'autenticità, prima e dopo Moore, furono Witte (J. H. F. K. WITTE, Observationes de Dantis Epistola nuncupatoria ad Canen Grandem de la Scala, Halis Saxonum 1855), Giuliani (G. B. GIULIANI, in Le opere latine di D. ALIGHIERI, Firenze 1882), Torraca (F. TORRACA, L'Epistola a Cangrande, in «Rivista d'Italia», II, 1899, ristampato in Studi danteschi, Napoli, Perrella, 1912, pp. 248-304), D'Alfonso (R. D'Alfonso, Note critiche sull'autenticità della Epistola a Can Grande della Scala attribuita a Dante Alighieri, Nicastro, Tip. V. Nicotera, 1899), Vandelli (G. VANDELLI, in «Bull. d. Soc. dant.»,VIII, 1901, fase. 7°-8°, p. 155), Mazzoni (oltre che in Contributi, cit., in L'Epistola a Cangrande, in «Atti della Accademia Nazionale dei Lincei. Rendiconti. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche», serie VIII, volume X, Roma 1955, pp. 157-98), Padoan (G. PADOAN, La mirabile visione di Dante, in Dante e Roma. Atti del Convegno di Studi, Firenze, Le Monnier, 1965, pp. 283-314). Sostennero invece il falso di tutta l'Epistola o della seconda e terza parte di essa D'Ovidio (F. D'OVIDIO, L'Epistola a Cangrande, in «Rivista d'Italia», II, 1899, pp. 3 sgg., ristampato in Studi sulla Divina Commedia, II, Napoli, Guida, 1931, pp. 229-89), Luiso (F. P. Lurso, Per la varia fortuna di Dante nel secolo XIV, in «Giornale dantesco», XL, 1902, pp. 83-97, XI, 1903, pp. 20-6, 60-9), Pietrobono (L. PIETROBONO, L'Epistola a Cangrande, in «Giornale dantesco», XL, 1937, pp. 1-51, ristampato in Nuovi saggi danteschi, Torino, S.E.I., 1954, pp. 199-244), Schneider (F. SCHNEIDER, Der Brief an Can Grande, in «Deutsches Dante-Jahrbuch», XXXIV-XXXV, 1957, pp. 3-24), Hardie (C. G. HARDIE, The Epistle to Cangrande again, in «Deutsches Dante-Jahrbuch», XXXVIII, 1960, pp. 51-74), Nardi (oltre che in Il punto sull'Epistola, cit., in Osservazioni sul medievale accessus ad auctores in rapporto all'Epistola a Cangrande, in Studi e problemi di critica testuale. Atti del Convegno di Studi di Filologia italiana nel Centenario della Commissione per i Testi di Lingua [7-9 Aprile I1960], Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1961, pp. 273-305 [«Collezione di Opere inedite o rare pubblicate dalla Commissione per i testi di lingua», vol. 123]).
Per limitarci alle discussioni più recenti, Mancini sostenne che l'Epistola fosse da considerarsi dantesca solo per i capitoli 1-4, esclusa la frase finale «Itaque, formula» e «e che tutto il resto costituisse invece il frammento iniziale di un'anonima esposizione del Paradiso; questa «expositio littere» del Paradiso sarebbe stata in seguito accodata mediante la frase finale del capitolo 4 all'autentica Epistola a Cangrande, costituendo il testo della redazione maior e recenziore. Gli argomenti che Mancini usò a sostegno di questa tesi si fondano essenzialmente sulla constatazione del silenzio che la tradizione indiretta prima di Filippo Villani, quasi unanimemente, presenta riguardo alla seconda parte dell'Epistola; ancor meglio sulla individuazione degli elementi interpolatori determinati da «quei mutamenti e quei raffazzonamenti» ravvisabili nell'opera del compilatore della redazione maior «per dare alla nuova epistola una qualche coesione». Chiara sarebbe l'opera interpolatoria nel capitolo 32 dove l'accenno alla «rei familiaris angustia» sarebbe prova dell'improntitudine del falsario, perché queste ristrettezze finanziarie non potevano in realtà affliggere Dante, ché anzi «male sarebbero ammissibili negli anni a cui dovrebbe riferirsi l'Epistola», sì che sorge il dubbio che siano «state verisimilmente aggiunte da chi ha messo insieme l'epistola, per spiegare con la solita grossolanità l'interruzione dell'esegesi» (A. MANCINI, op. cit., p. 240). Per Mancini l'Epistola nella parte nuncupatoria deve avere un termine ante quem nel 25 agosto 1320, quando Cangrande fu sconfitto sotto le mura di Padova, dato che l'autore dell' Epistola non avrebbe potuto dopo questa data rivolgersi a lui come «victorioso domino» (§ I); un termine post quem nel 16 marzo 1317 (nomina di Cangrande a Vicario Imperiale: in realtà a questa data - come fece poi notare Mazzoni - Cangrande fu soltanto riconfermato in questa carica che gli era stata attribuita la prima volta il 13 febbraio 1312) o nel dicembre del 1318 (nomina di Cangrande a Capitano generale della Lega ghibellina: ma Mazzoni osservò giustamente che il dato è irrilevante, dato che non è menzionato dall'autore dell'Epistola) o nella fine del 1319 (conquista del suburbio di Padova: sempre Mazzoni, e giustamente, considerò anche questo dato senza importanza). La questione più grossa che ripropone Mancini fu quella, già segnalata da Colfi (B. COLFI, Di un antichissimo commento all' Ecerinide di Albertino Mussato, Modena 1891, p. 6, nota 1), del rapporto fra alcuni passi della parte dottrinale dell'Epistola e alcuni consimili che si leggono nel Commentum all'Ecerinide di Alberto Mussato composto da Guizzardo di Bologna e Castellano di Bassano e che è datato al 21 dicembre 1317. Contro chi aveva proposto che il Commentum dipendesse per quei passi dall'Epistola, Mancini oppose, o che il Commentum e l'Epistola dipendessero da una stessa fonte, o che l'Epistola dovesse dipendere dal Commentum, confermando così di essere stata scritta intorno al 1317.
Contro Mancini si pose Mazzoni. In primo luogo fece notare come la distinzione fra senso letterale e allegorico data dal capitolo 7 poteva essere intesa come tentativo d 'interpretazione ad alto livello, comunque degno del pensiero di Dante, se i commentatori trecenteschi ne avevano poi frainteso il vero significato. Ne verrebbe allontanato il sospetto, da alcuni affacciato, che le coincidenze fra l'Epistola e i commentatori trecenteschi si potessero spiegare ipotizzando una dipendenza dell'Epistola proprio da quei commentatori (F. MAZZONI, L'Epistola a Cangrande, cit., pp. 163- 5): le numerose banalizzazioni dei commentatori fanno escludere questa tesi (F. MAZZONI, L'Epistola a Cangrande, cit., pp. 167-82).
La lettura dell' Epistola da parte dell'Ottimo sarebbe comunque assicurata già fra il 1337 e il 1343 (F. MAZZONI, Contributi, cit., pp. 29-37). In secondo luogo Mazzoni cercò di sanare le difficoltà cronologiche. Il controsenso della «rei familiaris angustia» sarebbe spiegabile spostando la datazione dell'Epistola a un periodo fra il 1314 e il 1317, quando Cangrande era già stato nominato Vicario Imperiale e Dante poteva realmente fargli presente la difficoltà obiettiva della sua situazione economica (F. MAZZONI, L' Epistola a Cangrande, cit., pp. 188-9 e nota I). Per il problema dei rapporti fra l'Epistola e il Commentum all'Ecerinide Mazzoni ritornò alla tesi tradizionale che il Commentum dipendesse in qualche modo dall'Epistola (ma vedi le mie osservazioni nella nota a cap. 10, § 28).
Dopo Mazzoni, che ha l'indubbio merito di aver rinverdito la questione, furono opposte alla tesi dell'autenticità dell'Epistola diverse obiezioni da Schneider (F. SCHNEIDER, Der Brief an Can Grande, cit.), Hardie (C. G. HARDIE, The Epistle to Cangrande again, cit.) e principalmente da Nardi (B. NARDI, Il punto sull'Epistola, cit.; Osservazioni, cit.).
Se le obiezioni di Schneider ripetono antichi dubbi e perplessità (cfr. F. MAZZONI, Contributi, cit., pp. 17-24), ben più nuove sono quelle avanzate da Hardie e Nardi.
Secondo Hardie, ai sensi di Par., X, 22-7 Dante non poté mai avere l'intenzione di commentare il Paradiso, prima perché occupato nella stesura della Cantica, poi perché egli stesso dichiara che il lettore per sé stesso deve cibarsi della sua materia: le lodi poi della generosità di Cangrande di Par. XVII sarebbero addirittura ironiche se Dante fosse autore dell'Epistola dove chiedeva a Cangrande - senza peraltro ottenerlo, dato che non seguita il commento - un aiuto finanziario. Altre osservazioni minori di Hardie saranno esaminate e discusse nel mio commento.
Le osservazioni di Nardi sono certamente le più importanti espresse di recente, anche se nuoce loro l'esser state dettate nella suggestione di una polemica diretta con Mazzoni, che fu forse troppo arguta e sottile.
Al primo punto di Mazzoni, Nardi obiettò (B. NARDI, Osservazioni, cit.), sulla base di una vasta e decisiva documentazione, che il sistema interpretativo adottato dall'autore dell'Epistola non era affatto originale ma discendeva direttamente e senza variazioni di sorta dagli schemi usuali degli accessus medievali. Non sarebbe giusto quindi «affermare che Guizzardo nel commento all'Ecerinide, quando accenna ai "sex solita" che sogliano premettersi o, come diceva Boezio, prelibarsi, a principio di ogni esposizione o commento, pensasse ai "sex inquirenda" della parte espositiva dell'Epistola a Cangrande. E cioè per la buona ragione che quei "sex in omni expositione praelibanda" erano stati fissati da Boezio sull'autorità di Mario Vittorino, ed avevano ormai una tradizione ininterrotta di 800 anni; ai tempi di Dante e di Guizzardo erano usati ovunque e da tutti, astronomi, medici, filosofi, teologi, giuristi e grammatici, specialmente a Bologna ... sì da farci ritenere che fossero scritti fin sui proverbiali boccali di Montelupo» (B. NARDI, Il punto sull'Epistola, cit., p. 12). Questo e gli altri rapporti fra l'Epistola e il Commentum all'Ecerinide si spiegherebbero ampiamente, secondo Nardi, con la vasta diffusione scolastica di discussioni consimili. Al tentativo fatto da Mazzoni di retrodatare l'Epistola, Nardi obiettò (B. NARDI, Il punto sull'Epistola, cit., pp. 12, 20) che «per supporre ... che l'Epistola tutta intera fosse scritta da Dante un po' prima del dicembre 1317, mettiamo pure nel corso del 1316 o qualche mese dopo, bisogna esser ben sicuri che questa lettera accompagnasse l'invio del primo canto del Paradiso o di pochi altri canti, e non di tutta la terza cantica già compiuta, e che nella parte espositiva l'autore si proponesse di esporre solo la protasi del primo canto e non tutta intera la cantica», laddove nell'Epistola «non si parla né di "decem vascula" né di primizie di canti, ma della cantica del Paradiso pronta ormai ad essere dedicata "sub epigrammate proprio", intitolata, offerta e non promessa, anzi raccomandata al Signore di Verona»: la datazione dell' Epistola dovrebbe di conseguenza essere limitata fra il 1319 e l'agosto del 1320, quando Cangrande era ancora «victoriosus». Per Nardi sono sicuramente danteschi i capitoli 1-4 dell' Epistola per «le tipiche cadenze ritmiche dello stile epistolare, le reminiscenze di altre opere dantesche ... l'ardita franchezza nel rivolgersi al principe amico e il non meno ardito ragionare col quale questa franchezza si giustifica, la stessa fiera convinzione d'aver trovato finalmente, tra le sue coserelle, quella davvero degna dell'ospite liberale e magnifico, da ricambiare in dono n (B. NARDI, Il punto sull' Epistola, cit., p. 19). Ma gli si può francamente obiettare che questi elementi non giustificano poi la sua tesi: infatti sarebbe stato immetodico pensare che la strutturazione della parte epistolare non rispondesse ai dettami retorici del genere e altrettanto ingenuo credere che le parti dottrinale e espositiva potessero seguire gli stessi dettami della parte epistolare; la stessa osservazione vale per il recupero degli elementi psicologici. Nardi ha il merito di aver chiarito filologicamente la posizione di Mazzoni e anche quello di aver fondato la propria analisi dell'Epistola sulla ricerca in essa dell'animo e della conseguenzialità di Dante: e quest'ultima esigenza è presente pure nella discussione portata avanti da Mazzoni. Ma anche in Nardi, come in Mazzoni, rimangono insoluti alcuni punti essenziali della questione. Certo è oscuro allo stesso Nardi l'accertamento del momento della tradizione in cui la coda dell'Epistola sarebbe stata appiccicata alla parte autentica», come era stato abbozzato dalla tesi di Mancini che egli eredita: «il problema da risolvere, nella teoria del Mancini, è triplice : quando poté essere scritta la parte autentica dell'Epistola a Cangrande? - primo problema; quando verosimilmente fu scritta, e con quali intenti, la dissertazione dottrinale? - secondo problema; quando questa fu accodata alla parte nuncupativa? - terzo problema» (B. NARDI, Il punto sull' Epistola, cit., pp. 9-10). Ecco le risposte di Nardi: 1. La parte nuncupatoria dell'Epistola fu scritta fra il 1319 e l'agosto del 1320 (B. NARDI, Il punto sull' Epistola, cit., p. 20); 2. La dissertazione dottrinale fu scritta prima del 1337, quando ne fa uso - senza peraltro attribuirla a Dante - la terza redazione dell'Ottimo; in ogni caso, poco dopo la morte di Dante, da «qualche dotto teologo eremitano di Sant'Eufemia» in Verona, «col pio intento» di giustificare gli ardimenti del poeta e «difenderlo dalle accuse di chi "gli latrava contro" per aver osato attribuirsi, ancor vivo e peccatore, la grazia della profetica visione» (B. NARDI, Il punto sull'Epistola, cit., p. 40); 3. La dissertazione dottrinale fu accodata alla parte nuncupativa all'epoca di Filippo Villani.
Si deve riconoscere che molti punti della questione non sono stati esauriti dagli studiosi o neppure trattati, e lo dimostrerò nel mio commento all'Epistola, che sarà perciò un commento a carattere documentario e problematico con l'ambizione di costituire la base di nuove e più ampie discussioni, proponendo nuovi interrogativi e riesumandone di vecchi e poi trascurati. È certo che un'analisi definitiva andrebbe comunque esaurita “ vagliando con sobrietà le tante argomentazioni venute in campo; radunando tutti i ragguagli e gl'indizi già da un pezzo allegati, e i recentemente scoperti; facendo uno stretto confronto grammaticale, lessicale e stilistico, con le opere latine sicuramente dantesche; analizzando passo per passo il pensiero e la forma dell'epistola, in riscontro ad un giusto concetto dell'ingegno, dell'animo e delle dottrine di Dante» (F. D'OVIDIO, Studi, cit., pp. 231-2).
Resterà in ogni caso aperto il grosso problema che sottostà a queste contese filologiche, e che è quello dell'interpretazione che l'autore dell'Epistola dà del viaggio di Dante: che intenderebbe come un viaggio "filosofico" secondo Mazzoni, come un viaggio "allegorico" secondo Nardi. E s'intende che l'attribuzione a Dante dell'Epistola diventa in questo caso determinante per l'esegesi della Commedia e del pensiero dantesco. Mazzoni e Nardi concordano in questo su un solo punto, e cioè che l'Epistola interpreti comunque il viaggio dantesco come fictio poetica che adombra un pellegrinaggio filosofico (Mazzoni) o allegorico (Nardi) dell'uomo: anche se l'uno accumula su questa base le prove dell'autenticità e l'altro le distrugge. In questo ambito certamente è più persuasiva l'operazione di Nardi che parte evidentemente dalla generosa convinzione che Dante non avrebbe mai potuto svalutare il senso letterale del suo viaggio ultraterreno senza rinunciare nel contempo agli ardimenti poetici e alle roventi invettive che ne avevano giustificato l'invenzione. Sulla traccia di Nardi ora Padoan (G. PADOAN, La mirabile visione, cit., pp. 291-7) sostiene che «l'Epistola riaffermi apertamente proprio la realtà del viaggio oltremondano di Dante, differenziandosi in ciò, in modo sintomatico, dai commentatori trecenteschi del poema» che, per coprirne le pericolosità teologiche, ne proposero invece una lettura simbolica. Si tratta di un intelligente capovolgimento della situazione i cui elementi andranno controllati; se provati, serviranno a sciogliere i punti d'attacco della questione, se non forse a superarli.
Comunque permangono evidenti alcuni ostacoli di carattere filologico e dottrinale e sono quelli che abbiamo su evidenziati e che cercheremo di chiarire nel commento. Se non saranno definitivamente dissolti, nulla potrà impedire di pensare che, pur non essendo Dante l'autore dell'esposizione dottrinale dell'Epistola, altri abbia potuto o voluto sottolineare il senso letterale del viaggio dantesco, m opposizione alla predominante interpretazione allegorica.
BIBLIOGRAFIA. Oltre alle opere citate nell'Introduzione e nel commento si vedano: D. BIGONGIARI, Notes on the Critical Text of Dante's Epistles, in «The Mod. Lang. Review», XVIII (1923), n.°4; G. BOFFITO, L'Epistola di Dante Alighieri a Cangrande della Scala , in «Atti d. Acc. d. sc. di Torino», LVII (1907), pp. 1-39; E. PISTELLI, Dubbi e prospettive sul testo delle Epistole, in «Studi danteschi», II (1920), pp. 149-55; P. RENUCCI, Dante disciple et juge du monde gréco-latin, Paris, Les Belles Lettres, 1954, p. 122.
Roma 1973
Giorgio Brugnoli