Dante Alighieri, Opere minori: Il Fiore - Introduzione
È il titolo, puramente convenzionale, assegnato dal suo primo editore (1881), Ferdinand Castets, a una corona anepigrafa di 232 sonetti che costituisce una parafrasi del Roman de la Rose fuso, come di norma, nelle sue due parti, quella redatta da Guillaume de Lorris e la continuazione aggiunta, è detto nel poema, quarant'anni più tardi (ma Guillaume è perfettamente sconosciuto), dal ben noto traduttore e rimatore Jean de Meung-sur-Loire, morto nel 1305. Oggetto dell'allegorico Roman è la conquista della rosa incarnazione della persona amata (e, in Jean per lo meno, del suo specifico attributo): essa nel testo italiano è regolarmente sostituita dal più generico «fiore» che giustifica la scelta, pure algebrica, del Castets.
Il testo è tramandato da un solo manoscritto, attualmente (ma da più secoli) legato di séguito a un esemplare del Roman francese, segnato H 438 nella Biblioteca interuniversitaria (sezione Médecine) di Montpellier. lvi è del resto giunto solo nel 1804, a séguito della nazionalizzazione dei beni dei Cistercensi di Clairvaux, i quali l'avevano comprato fra altri del fondo appartenuto, almeno fin dal Seicento, ai collezionisti e alti magistrati Bouhier di Digione; il Casamassima ha recentemente scoperto le prove dell'unione più antica, quattrocentesca, dei due pezzi in territorio francese; finora, pur retrocedendo, non si riesce a uscire dalla Francia, così che è stato congetturato che il testo stesso vi sia stato composto. Sia sùbito avvertito che la lezione, benché nell'insieme piuttosto corretta, non lo è al punto da potersi immaginare autografa: la fisionomia dell'autografo vi si riflette peraltro da vicino. Ciò, intanto, nell'imitazione grafica di un'ordinaria pagina del Roman de la Rose, nei cui manoscritti è di norma a due colonne con rubriche marginali o interlineari: ogni pagina del Fiore consta di due colonne ciascuna di due sonetti, con poche eccezioni muniti di un rigo di didascalia (in nero), sicché ogni colonna è di trenta righi scritti, ciò che si avvicina alla media del Roman. Ma, mentre per solito il Roman è illustrato, ciò che si verificherà fino alle edizioni incunabule, e perlomeno suole avere la miniatura iniziale del personaggio addormentato, a segnare, come poi in qualche codice della Commedia, che si tratta di una visione (tra le poche scevre è proprio la copia legata col Fiore, che pure offre divergenze testuali), il Fiore è sprovvisto di qualsiasi ornamento che non spetti alle iniziali.
Nel Fiore il sonetto è usato come strofe, secondo la calzante definizione del Biadene. La corona è ben più ampia di quelle inventate da Guittone e anche dell'estesa che fu inesattamente chiamata Trattato di ben (o della maniera di) servire e creduta, perché vi compare un sonetto impropriamente a lui attribuito, di Guido Cavalcanti (nei Poeti del Duecento è stata neutramente intitolata Corona di casistica amorosa e assegnata a un «Amico di Dante» - per abbondanza di echi e avvicinamenti a lui - nel quale numerosi indizi portano a sospettare Lippo Pasci de' Bardi). L'organicità del Fiore, oltre che da frequenti sebbene discontinui legami lessicali, è provata in prima istanza dalla costanza dello schema metrico, ABBA, ABBA, CDC, DCD, schema che prima del Fiore si ritrova con portata epistolare perfino in Guittone e suoi vicini, nonché all'interno del canzoniere dantesco, e che con Cecco Angiolieri (difficile dire in che direzione) domina la maggioranza della produzione, divenendo poi esclusivo in Folgore e Cenne, additato a esempio dal metricista Antonio da Tempo e dal Pucci, vera istituzione della poesia "comica". Questo spiega forse l'odore di Trecento fiutatovi dal giovane Morpurgo, mentre l'arcaicità dell'insieme coincide piuttosto bene con gli inizi dei rapporti di Cecco con Firenze e il suo maggior poeta, attorno al confine fra penultimo e ultimo decennio del Duecento. La parafrasi esercitata sul Roman è fortemente riduttiva, se si pensa che la redazione costituita da Ernest Langlois nella sua edizione del 1914-1924 conta 21780 versi (octosyllabes, è vero, cioè novenari nostri, ma la fonetica francese importa una rilevante potatura di sillabe). In sostanza l'ossatura è portata alla mera affabulazione, mantenendo le parti mal riducibili di quattro personaggi: Ragione, Amico, Falsembiante, la Vecchia; le interpolazioni vastissime di natura parateorica nella parte di Jean (ma anche le descrizioni di Guillaume) sono nettamente espunte. Il Langlois non è alieno dal supporre che il parafraste italiano movesse non da un testo integrale, bensì da un testo abbreviato nella parte di Jean, e abbreviato secondo lo stesso stile, fin dalla fine del Duecento, nel gruppo di manoscritti che egli chiama B. Quando a suo tempo il Petrarca farà dono di una Rose a Guido Gonzaga, parlerà di «brevis libellus» (da lui, com'era immaginabile, scarsamente stimato), e il diminutivo sembrerebbe parlare per il tipo B. Se comunque il Fiore risale anch'esso a questo tipo, si tratterà di un individuo meno scorciato, e dunque più antico di quelli conservati. E poiché la parte "naturalistica" (e in particolare quanto deriva da Alano da Lilla), comunque la si interpreti, è affidata fondamentalmente a queste interpolazioni entro la narrazione, bisognerà concluderne che il Fiore ha scarsa portata ideologica. In compenso esso contiene allusioni estranee alla Rose, di cui la principale
è quella relativa all'assassinio di Sigieri di Brabante a Orvieto (XCII), evento che ha pochissime altre attestazioni: tutto il contesto è, come la Rose, favorevole ai cosiddetti averroisti latini in contrasto col prepotere degli ordini mendicanti alla Borbona, ed è forse un fatto italiano posteriore alla Rose e non lontano nel tempo (1283-1284). Propria del Fiore è anche (cxxiv, cxxvi) la menzione dei «paterini» (catari?) perseguitati in Toscana, ciò che dai più aggiornati storici è stimato temporalmente troppo generico, mentre per Firenze almeno (sono menzionate anche Prato e Arezzo) il Torraca ebbe a mettere in rilievo le sentenze del 1282, del 1283 (in cui fu condannato post mortem Farinata quale «consolato», oggetto cioè del rito eterodosso del consolamentum), del 1287. Infine, là dove il Roman denuncia il tormento delle «povres genz», il Fiore (CXVIII) introduce la persecuzione dei cavalieri a opera dei borghesi, ciò che è certo una condanna della politica antimagnatizia praticata in Firenze dal 282 al 293, e addirittura prima, sottolinea l'Arnaldi, in Bologna.
Caratteristica vistosa del Fiore è l'abbondanza, a tratti turbinosa, dei francesismi, in nulla comparabile alla loro presenza in testi volgarizzati o nel poema dell'Intelligenza: non tanto dal punto di vista quantitativo quanto per la manifesta intenzione caricaturale palesata da un rimatore pressoché generalmente riconosciuto di qualità. Si tratta qualche volta di traslitterazioni quasi brutali, spesso di ricordi di parti remote del testo, che attestano un possesso sicuro del poema francese nella memoria, meno di frequente di elementi lessicali estranei all'àmbito della prima come della seconda Rose. È un oltranzismo di meticciato strettamente letterario, che appartiene alla sfera del "comico". Alla sua base resta comunque una conoscenza del francese quale non sembra possibile acquistare fuori di Francia: tanto più che, con l'ovvia eccezione del Piemonte, la diffusione del Roman de la Rose in Italia sembra doversi con;siderare fortemente limitata.
E bisognerà venire alla questione per la quale esclusivamente si menziona il Fiore nelle storie letterarie e per la quale a ogni modo esso compare nel presente volume: quella, trattata non di rado con un'inurbanità anche belluina, della sua paternità. L'attribuzione a Dante fu avanzata nella stessa editio princeps (appunto Montpellier 1881) dal Castets con una cautela forzosa suggeritagli da Alessandro D'Ancona, allora nell'acme della sua autorità. Cautela che non poteva non legarsi al contenzioso sorto intorno all'edizione stessa, promessa nel 1878 sulla sua rivista («Giornale di Filologia romanza», I 238-43) da Ernesto Monaci in collaborazione col D'Ancona appunto. Qui furono pubblicati per la prima volta quattro sonetti e le didascalie sul fondamento di una copia: secondo il costume del tempo, i filologi renitevano alle spese e alla scomodità dei viaggi, specialmente all'estero, e reclutavano copiatori, non sempre facili a trovarsi in provincia; qui i due italiani avevano finito per trovar modo d'accordarsi con studiosi indigeni per un'impresa a più mani. Questa del 1878 non è peraltro la primizia assoluta dell'importante inedito: essa va riconosciuta nella scheda (fiutata appunto dal Monaci) del catalogo di Montpellier (1849), scheda dovuta al bibliofilo e cleptomane, di sua professione matematico, Guglielmo Libri, che si ritroverà seviziatore e ladro proprio anche nel manoscritto montepessulano; ed è una consolazione che l'incipit da lui trascritto lo sia, a pena dello scientificamente sterile furto, in modo spropositato.
Pare francamente strano che, essendo la progettata edizione Monaci-D'Ancona sponsorizzata, come oggi si dice, dalla « Société pour l'étude des langues romanes», proprio questa risultasse editrice del Castets, e costui (romanista, ma evidentemente non lettore dei periodici della disciplina) si proclamasse all'oscuro dei precedenti, tanto da chiedere una mano ai due italiani, che non gli negarono qualche suggerimento per le note (stampate dopo il testo, composto a buon conto tutto d'un fiato). L'edizione passa per cattiva, ma si è molto esagerato. Certo il Castets non era un italianista (era un francesista specializzato in canzoni di gesta), ma conosceva assai bene la Rose e non era sprovvisto di capacità ragionativa. Ed è questa che lo spinge ad avanzare, pur a mezza voce, gli argomenti esterni, poi divenuti tradizionali, in particolare con Guido Mazzoni, presso i fautori dell'assegnazione a Dante. E intanto: nel punto equivalente a quello dove la Rose (nella parte di Jean) nomina l'autore, il personaggio-che-dice-io, Guillaumes, il Fiore mette Durante (LXXXII 9), una firma interna che ritorna, qui fuori d'ogni corrispondenza col Roman (ccn I4), nella forma di ser Durante (dove ser avrà significato non tecnico ma burlesco). Ora, Durante è il nome integrale di cui Dante è l'ipocorismo; né altri Duranti o Danti (tranne, in astratto, quello da Maiano) paiono, in Firenze o lì vicino, in grado di aspirare all'identificazione.
Altri argomenti: la menzione, sopra citata, di quel Sigieri (di Brabante) che è presente con tanta lode nel Paradiso; il riferimento a Dante, in una storiella anticlericale (o, ma il Castets, con tanti altri, lo ignorava, entro un commento alla Commedia), della prima quartina (con lieve variante) o di un po' più del sonetto xcvii del Fiore(« Chi della pelle del montan fasciasse...»); il riconoscimento, entro il sonetto dantesco Messer Brunetto (dal Castets e da altri creduto il Latini), dei «frati Alberti» nel «frate Alberto» del Fiore (erroneamente preso per un impostore, ma l'identità tiene per il grande esegeta Alberto Magno), di «messer Giano» in Jean de Meung, e di conseguenza nella «pulzelletta» mandata a Brunetto del Fiore stesso (l'ultimo, assai attraente, suggerimento, dovuto al Garni, gli sostituisce il Detto d'Amore). Né il Castets manca di accostare la rosa mistica del Paradiso alla carnale del Fiore.
A tali indizi, privati solo della diplomatica esitazione del Castets (il quale si rinfrancò nel I89I dopo l'approvazione del Casini), si rifecero i fautori dell'alta attribuzione, non aggiungendo molto: il Mazzoni e il D'Ovidio connettendo le tre occorrenze di Cristo in rima degradante, più quella della tenzone con Forese, alle quattro di Cristo in rima con sé stesso nella Commedia, e ciò per ammenda, come suona un sintagma ugualmente rimante solo con sé stesso; il Rajna, che portò il peso della sua autorità in un articolo del 1921, vedendo in particolare prefigurato nella doppia terzina dei sonetti floreali uno schema prossimo a quello della terza rima.
L'intervento, indubbiamente tardivo, del Rajna, deve riconnettersi alle discussioni, in seno alla Società Dantesca Italiana, circa l'ammissibilità di Fiore e Detto nella compagine delle Opere di Dante, che in quell'anno centenario offrirono finalmente, senza apparato giustificativo e perciò a rigore in via ancora provvisoria, ma in lezione fededegna elaborata dai migliori specialisti, i testi danteschi. Di quelle discussioni è larga ed esplicita traccia nella Prefazione firmata dal Barbi (pp. xxvii-xxviii); che per conto proprio confessa di esser stato risospinto «nella selva del dubbio» dopo un primo cedimento alle argomentazioni del Mazzoni e del D'Ovidio: «E s'io esamino il testo in sé, più vi cerco il fare di Dante, e meno ve lo trovo». Fu deciso allora che i due poemetti formassero l'anno dopo un'Appendice affidata alle cure del Parodi: ottima edizione finalmente (lo si dice soprattutto per il Fiore, che nel frattempo aveva avuto un'edizione d'intenzione, per così dire, riparatrice, ma purtroppo mediocre, per le mani del Mazzatinti, 1888, con un'effusa e quasi irrilevante premessa del Gorra), e per quanto riguarda l'attribuzione equilibratissima nonostante la conclusione negativa. Del resto, le successive edizioni, tutte descriptae dal Parodi, nei primi due casi con esili ritocchi (Di Benedetto, 194-1, in Poemetti allegorico-didattici del secolo XIII; Petronio, 195I, in Poemetti del Duecento; Blasucci, 1965, ed Enciclopedia Dantesca, 1978, in appendice a (Tutte) le Opere di Dante; Marchiori, I983), provengono, tolte le due penultime che sono neutrali, da avversari della paternità dantesca. Ciò non sembra valere per il Della Torre, la cui edizione peraltro, postuma, 1919 (in appendice a Tutte le Opere ecc.), forse per non avere avuto le ultime cure dell'editore, non può rendere alcun servizio. Né vennero pubblicate altre preannunciate, fra cui quella del Mazzoni, al quale si è pur sempre debitori d'una preziosa edizione fototipica (1923).
L'assegnazione a Dante pareva dunque archiviata, se se ne tolgono gli isolati studiosi citati, trattati con compatimento quando non con insolenza come quelli che non si peritavano di ascrivere all'Alighieri un'opera (o, col Detto, due) così toto caelo diversa da quelle sicure (quasi che l'inesausta sperimentalità non ponesse anche qui variazioni potenti); la licenziosità del dettato è per i più delicati motivazione di sacrilegio. (Recenti esegesi di autori per lo più anglofoni, chiamati Robertsoniani da uno dei loro capifila, per verità oppongono agostinianismo e neoplatonismo da scuola di Chartres a realismo, condendoli di parodia e d'ironia, nel Roman e di riflesso nella sua parafrasi toscana, ma queste attenuazioni interpretative vanno prese con ogni beneficio d'inventario). Il più antico in data degli antidantisti è ovviamente il D'Ancona, con un lungo corteo di mediocri e di qualche eminente in genere comunque in posizione positiva rispetto al testo: Borgognoni, Renier, Torraca, Novati, Farinelli, Benedetto, Biagi, Zingarelli, Debenedetti ecc. ecc. Si possono citare a titolo di lode due tesi dottorali, della Sr. D. Ramacciotti (I936) e di B. Langheinrich (I937), fondate sulla comparazione con opere certe di Dante e per inevitabile conseguenza negative: costitutiva della difficoltà è precisamente la differenza nell'impianto linguistico. Privi di serietà i conati di identificazione: con Rustico Filippi, Lippo Pasci de' Bardi, Brunetto Latini e fino un Dante degli Abati (oltre, si capisce, a vari altri Duranti o Danti) del quale si ignora che scrivesse un sol verso; impegnata solo la prova esperita ultimamente dal Fasani prima con Folgore da San Gimignano, poi con Antonio Pucci, entrambe ritirate alla fine dal proponente.
Più recente, e decisivamente aggiunto agli argomenti esterni per la paternità (dei quali pure il Parodi scriveva: «Fu detto, ed è giusto ripetere, che, se non si trattasse di Dante, queste prove avrebbero persuaso anche molti de' più diffidenti»), quello linguistico-stilistico (non meramente grammaticale) che affonda nella memoria, non necessariamente conscia, del poeta. È singolare che il più antico riscontro sia stato operato dal primo avversario dell'attribuzione dantesca, il D'Ancona, che chiarì l'amico che non fu di Puglia» (XLIX 3) con «fu bugiardo / ciascun pugliese» di Inf. XXVIII, costretto però a immaginare in un terzo luogo, un presunto proverbio, l'elemento comune. Di altri riscontri, indubbiamente portanti, recati da avversari o non fautori della paternità dantesca, ci si chiede che significato abbiano per i loro proponenti. In quest'àmbito il primo che ebbe il merito di riconoscervi un'identità di mano- mescolando purtroppo dati certi e dati . assai deboli - fu Alfred Bassermann (traduttore integrale del poema in tedesco nel 1926). Dopo di lui bisogna aspettare il rilievo (1961) degli imponenti rapporti che corrono tra Fiore II e IX (e anche XLVIII, LXXIV, LXXVII) e liriche sicure (LXIX, LXII), alcune addirittura accolte nella Vita Nuova (IX 9 sgg., XXIV 7 sgg.), perché il critico, Domenico De Robertis, riconoscesse la necessità di « riesaminare la posizione del Fiore rispetto all'opera dantesca». Questo riesame è stato compiuto sistematicamente dall'autore di queste pagine (particolarmente in «Cultura e scuola» di gennaio-giugno 1965, pp. 768-73, in Enciclopedia Dantesca [voce Fiore], II 895-901; negli scritti ristampati attualmente in Un'idea di Dante, Torino 1976, pp. 91-3, 153-4, 245-83; oltre che naturalmente nell'Introduzione all'editio maior del Fiore), proponendo la conclusione che l'ipotesi di lavoro più economica è per l'assegnazione del Fiore a Dante, restando acclarato l'ordine Rose-Fiore-Commedia.
Quest'ipotesi di lavoro ha riscosso adesioni più larghe (anche se non universali) e autorevoli di quelle meritoriamente avanzate in precedenza. È perfino accaduto che vari studiosi siano partiti dalla nuova formulazione come da un dato di fatto dimostrato: una menzione speciale tocca alla vasta monografia (1979) di LUIGI VANOSSI, Dante e il «Roman de la Rose». Saggio sul «Fiore».
La danteità del Fiore, una volta affermata, obbliga a chiedersi quale ne sia il significato entro la carriera di Dante. Erich Kohler, in un articolo del 1957 (già benemerito per assumere la responsabilità della tesi in Germania, dove, tolti il Wiese, il Wechssler, lo Schneider, l'iniziativa del Bassermann era stata accolta con malposta ilarità), vi trovava, se dantesco, la prova d'una poi superata fase averroistica. L'entità dell'argomento è diminuita dal fatto che si tratta di una parafrasi parziale portata sul narrativo, benché sia certo che tradurre l'elogio di Guillaume de Saint-Amour, soprattutto con la capitale aggiunta di Sigieri, importa un minimo di adesione intellettuale. Riteniamo però che il più importante significato del Fiore in quanto dantesco consista nel suo essere la prima prova di ragguardevole estensione nell 'àmbito "comico", tenuta linguisticamente in chiave di oltranza parodica.
Il problema più delicato è quello che spetta alla sua datazione. Il terminus a quo, cioè la composizione del poema francese, offre già qualche difficoltà, perché chiusa fra la menzione dell'esecuzione di Corradino (1268) e quella di Carlo I d'Angiò (morto nel 1285) come vivo, ma da portarsi, secondo l'acuta argomentazione da ultimo del Lecoy, non oltre il principio del 1277. D'altra parte già il Langlois ebbe a osservare come il Fiore dipenda non dal testo più antico della Rose, ma da una redazione contenente inserzioni (da lui chiamate interpolazioni) - risalenti possibilmente, a nostro parere, a nuove edizioni ritoccate dallo stesso Jean de Meung - le quali peraltro compaiono già in manoscritti della fine del Duecento. Un secondo terminus a quo è segnato, si ripete, dalla menzione della morte di Sigieri (1283-1284), fatto che ha un significato verosimilmente solo a non grande distanza di tempo.
Guido Mazzoni pensava ai paraggi del 1295. Il Torraca, per il quale il Fiore non è di Dante, retrocedeva al decennio precedente in virtù delle citazioni antipopolane e patariniche, meno stringenti per gli storici moderni. L'ultima congettura è quella del 1286-1287 avanzata dal Petrocchi, col vantaggio che essa lascia spazio a un eventuale soggiorno in Francia, senza del quale la minuta conoscenza e del francese e della fonte letteraria non riesce facilmente comprensibile.
Quanto al manoscritto, il Castets, che tutto sommato abbiamo trovato tanto benemerito, incorse nella disavventura di assegnarlo al secolo XV (seguito per inerzia dal Renier e dallo Zingarelli); benché alla fine si sia lasciato persuadere a varcare a ritroso i confini del Trecento. E al Trecento, per lo più medio, pensa la maggior parte dei critici. Importante che a caldo un conoscitore come il Morpurgo abbia esitato tra fine Duecento e il primo Trecento; altra opinione ebbe moventi non paleografici. Più di recente il Casamassima ha inquadrato il problema in quello della « bastarda fiorentina» a uso librario, i cui esempi più netti appartengono al secondo decennio del Trecento, benché con altri si risalga fino al 1285. Par certo dunque che, quando l'apografo fu tratto, Dante era ancora in vita. E così non par dubbio che la grammatica sia quella d'un fiorentino arcaico, che in qualche punto (i numerosi e per i protonici) coincide con i risultati dell'Italia mediana messi in rilievo in particolare dal Bertoni (più interessante ripètall(a) XLVI 10, per cui il Parodi, che a testo mette ripeterl(a), si chiede se non potrebbe leggersi ripetàre, cioè, se s'intende bene, un gallicismo del tipo di disposat(o) v 4, proposi xxxvii 5, riposata cxcvi 2). Semmai questa lieve spolveratura dovrà attribuirsi al copista pur nel complesso accurato.