Dante Alighieri, Opere minori: Quaestio de aqua et terra - Introduzione
Giunto ormai a questa parte del volume il paziente lettore si è certamente reso conto, attraverso pagine riguardanti volta a volta le Epistole (in particolare la XIII, a Cangrande della Scala) e le Egloge, di come un passaggio obbligato nell'indagine critica attorno le opere latine minori sia il problema dell'autenticità; o, per meglio dire, della serena attribuzione di quei testi all'Alighieri, cui vengono anche oggi talora negati con motivazioni speciose quanto sottili, laddove non siano invece francamente rudimentali.
Che ciò avvenisse in passato anche per la Questio,[1] vale a dire per l'unica opera dantesca (o come tale offerta al candido lettore) che esplicitamente rifiuta di «causer littérature»e si impegna invece risolutamente[2] a discutere un problema (per noi curioso quanto allora dibattuto) di cosmologia comparata,[3] non stupirà punto: ancor meno quando si ricordi che il contesto non giunge a noi per via di manoscritti, trasmesso com'è da una stampa cinquecentesca, curata da persona meritevole di sospetto almeno quanto degna di fede, l'agostiniano Benedetto Moncetti.[4] Stupirà invece l'ignaro di cose dantesche il sapere che si è perseverato nel dubbio non solo dopo pagine che con ogni ordine di argomenti interni bellamente risolvevano la questione dell'Autorschaft[5] ma anche (oltre ogni dignitosa ragionevolezza) dopo la recente scoperta, nella terza (e inedita) redazione del Commentarium alla Commedia di Pietro Alighieri, figlio del de cuius, non solo di un esplicito accenno alla dantesca disputa veronese («Dantes auctor iste, disputando seme! scilicet an terra esset alcior aqua vel econtra , sic arguebat ...»); ma di ciò che quell'accenno accompagna e conforta: vale a dire una vera e propria citazione indiretta, sintetica e precisa, dai capitoli conclusivi (ideologicamente centrali) dell'opera, dal XVIII al XXI,[6] che si aggiunge, potente conferma, al già veduto e cogente riferimento all'intitulatio (II, 5) del trattatello. Per qualunque altro autore e per ogni altra letteratura sarebbe molto probabilmente bastato; si è invece preferito, innanzi tutto, ripresentare la citazione del passo di Pietro Alighieri così mutilata (ridotta a otto righi e mezzo su ventisette e mezzo di stampa della mia trascrizione) da renderla del tutto irrilevante e incomprensibile anche per chi fosse del mestiere; e poi, dopo averla così svuotata d'ogni preciso riferimento storico e d'ogni contatto verbale con la Questio, la si è commentata avanzando l'ipotesi di un tranello in cui sarebbe caduto, per colpa di un falsario, l'ingenuo Pietro: formulando oltretutto dubbi sull'autenticità di quella postrema redazione del Commentarium, coinvolta essa stessa nel sospetto di una falsificazione.[7]
Tutto ciò qui si registra con animo sereno, perché fa ormai parte della storia della critica attorno la Questio, ed è semmai esemplare di un costume presentato (e da alcuni accettato) come metodo; ma anche e soprattutto perché, con le citate pagine del Nardi (è questo il loro sicuro pregio) il débat ha preso meritamente più ampio respiro: investendo e lumeggiando, in funzione e a chiarimento del problema attributivo, quello ben più vasto e importante della fisionomia culturale del vecchio Dante, e del suo atteggiamento sia nei confronti dell'ambiente filosofico-scientifico che lo circondava, sia delle soluzioni (o ipotesi) cosmologiche un tempo prospettate nella Commedia, in particolare narrando il diabolico cataclisma descritto nei vv. 118-26 del XXXIV canto d'Inferno: motivazione biblico-sacrale, teologica, d'un fenomeno - quello dell'emersione della «gran secca» nell'emisfero boreale dopo la caduta di Lucifero nell'emisfero australe - che nella Questio, quanto all'eziologia e alla sede primaria dell'evento, ha tutt'altra dichiarazione, nell'ambito di una ipotesi di lavoro che vuole rigorosamente immorare nella filosofia naturale.[8]
Dando come ormai dimostrata, in forza di rigorosi argomenti interni e non meno cogenti dati esterni, la paternità dantesca della Questio, e quindi definitivamente risolto (fin dal 1957: «nec posteri nostri permutare valebunt ...») il problema della sua autenticità, avviciniamoci piuttosto all'opera, in rapida sintesi, rammentando le ragioni (e occasioni) che han mosso Dante a comporla: quale il senso di quella esperienza entro la sua complessa biografia culturale, scientifica, filosofica, quale la tradizione di ricerca e di pens1ero m cui manifestamente il trattato s'inquadra e a cui si ricollega.
È Dante stesso, fin dalle prime battute dell'operetta (vera e propria «questio disputata» stesa però in forma epistolare diplomaticamente perfetta, articolata in protocollo, contesto, escatocollo) a esporre nella narratio (§§ 2-3) come durante un soggiorno mantovano (forse alla corte dei Bonacolsi, alleati di Cangrande) egli abbia assistito, e anzi partecipato, a un dibattito scientifico sul problema cosmologico dei reciproci rapporti delle sfere dell'acqua e della terra: problema che fin dall'antichità si era venuto ponendo a fisici e cosmologi (anche in rapporto alla concezione aristotelico-tolemaica dell'Universo, con la terra posta al centro del macrocosmo, e attorno ad essa, concentriche, le sfere degli altri elementi), e che aveva appassionato per lungo arco di secoli e con diverse soluzioni la cultura classica e quella medievale, per trovare approfondito sviluppo e formalizzazione da un lato con la inserzione dell'aristotelismo nella cultura occidentale e con l'enciclopedismo didattico del secolo XIII (affidato ai grandi Specula d'oltralpe), dall'altro con le elaborazioni concettuali, in quel secolo e nel successivo, dei cosmologi e degli astrologi (si pensi al Sacrobosco e ai suoi commentatori) ma anche con le sistemazioni trattatistiche della grande Scolastica.[9]
Che Mantova fosse terreno quanto mai propizio (e culturalmente fertile) per dispute accademiche di quel tipo e su tale argomento, non v'ha dubbio: basti rammentare che proprio a Guido Bonacolsi il notaio mantovano Vivaldo Belcalzer dedicava il volgarizzamento del De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico (vasta enciclopedia in diciannove libri composta intorno al 1230 e presto tradotta in francese, provenzale, castigliano, inglese), steso in volgare mantovano tra il 1299 e il 1309; ove alcuni dei punti toccati nella Questio venivano necessariamente esposti in rapporto alla materia trattata nei singoli libri e nei relativi capitoli.[10]
Ignoriamo l'esatta fisionomia della disputa mantovana, sicuramente animata per l'importanza scientifica dell'argomento,[11] per l'acuzie umorosa d'uno almeno fra i contendenti, per la probabile e immaginabile saccenteria di quelli che gli furono contradittori (se non addirittura, in senso etimologico, «provocatori»); i quali, in modo certamente non ufficiale, cioè a dire in un ambiente extrauniversitario, devono avere imbastito quasi all'improvviso («questio quedam exorta est ...») una specie di «questio de quolibet».[12] Gli argomenti allora sostenuti dalle parti non possono comunque essersi troppo discostati da quelli poi contestualmente ripresi dall'Alighieri, anche se egli stesso ci avverte (cfr. i capp. II, 6; VIII, 16) di avere operato, nel presentarli, una selezione. L'andamento della discussione mantovana spinse comunque Dante a riprendere a fondo il problema cosmologico oggetto della disputa in occasione di un temporaneo ritorno al «primo ostello» scaligero, lasciato da qualche anno per la magica quiete di Ravenna, nutrita di solenni, silenti memorie dell'imperiale romanità ma anche di memorabili exempla di una rarefatta e sublime spiritualità. Verona era oltretutto ambiente culturalmente engagé almeno quanto quello mantovano (continuerà ad esserlo per parecchi lustri dopo la morte di Dante, con il fervore di vita intellettuale e gli splendidi recuperi attorno la Capitolare); in particolar modo, proprio in quegli anni, all'agostiniano vescovo Tebaldo non spiaceva l'assistere, e anzi il promuovere, dispute dottrinali, secondo una ben nota testimonianza del Panvinio ripresa a suo tempo dal Biagi e dagli altri che si occuparono dell'argomento.[13] La mantovana «quodlibetale» divenne così la veronese «questio disputata» all'ombra della Capitolare e della Cattedrale; ed è facile ipotizzare, al lume di notizie generali relative alla procedura e al genere, come siano andate le cose a livello di pratica esecuzione.[14]
Proposto l'argomento liberamente assunto dal maestro (non dunque imposto da colleghi e scolari come avveniva nelle «quodlibetales» e come deve essere accaduto a Mantova), dopo ampie discussioni e obiezioni mosse pubblicamente dagli uditori (cui il maestro replicava con argomenti esposti in modo più colloquiale di quanto non comparisse nella successiva formalizzazione),[15] aveva luogo la determinatio magistrale, cui presto seguiva la vera e propria stesura della «questio», vale a dire la riformulazione e la confutazione ufficiale (la sola che mai sia giunta delle varie dispute, salvo testimonianze parallele o indirette di uditori o discepoli) delle proposizioni avversarie, secondo quanto era emerso dalla discussione.
Fu così che il 20 gennaio 1320 (una domenica in vicinanza d'una delle due grandi festività cristiane, Natale e Pasqua, tempo tradizionale e quasi canonico per virtuosità di tal genere) ebbe luogo nel sacello di Sant'Elena, piccola chiesa accanto al Duomo, la lezione dantesca; assenti alcuni (e non certo dei minimi) fra i precedenti interlocutori e obbiettori (cfr. cap. XXIV, 87: «coram universo clero Veronensi, preter quosdam qui, nimia caritate ardentes, aliorum rogamina non admittunt, et per humilitatis virtutem Spiritus Sancti pauperes, ne aliorum excellentiam probare videantur, sermonibus eorum interesse refugiunt»), per ragioni (non giustificabili ma comprensibili) di carattere psicologico e personale, connesse a precedenti punte polemiche (testimoniate non foss'altro dai §§ 80-81 dell' Epistola a Cangrande)[16] e ai motivi che avevano consigliato, se non imposto, il dantesco trasferimento in quel di Ravenna[17]; ma ora certamente esasperate da una divaricazione sul piano dottrinale, da una manifesta divergenza di opinioni scientifiche, venuta fuori in modo prepotente durante la pubblica discussione veronese antecedente alla definizione ufficiale del problema. Vinti dalla dialettica dantesca in prima istanza, gli avverasri rifiutano insomma di avallare la propria sconfitta assistendo, per così dire, alla «codificazione» del trionfo: cioè alla lezione con la quale il poeta «terminava» davvero la questione. La quale, come ogni questione disputata, si articola consuetudinariamente nell'enunciato delle tesi avverse (capp. III-IV), nella loro confutazione (capp. VII-XIV), infine (capp. XV-XXIII) nell'accertamento e nell'esposizione del vero: secondo tradizionali nervature che già avevano costituito la forma interna di pagine notissime del Convivio.[18]
Determinatio
Ma vediamo i termini del problema critico in rapporto all'inquadramento storico culturale della trattazione.
Era luogo comune della cosmologia aristotelica (e quindi medievale) che il globo terracqueo fosse al centro dell'universo, e che il centro della sfera terrestre appunto coincidesse col centro del medesimo; opinione che Dante, seguendo da presso il De coelo et mundo di Aristotele,[19] riprende ed espone in un capitolo del trattato terzo del Convivio che possiamo considerare luogo classico a capire le idee cosmologiche dell'Alighieri intorno al 1307: «Platone fu poi d'altra oppinione, e scrisse in uno suo libro che si chiama Timeo, che la terra col mare era bene lo mezzo di tutto, ma che 'l suo tondo tutto si girava a torno al suo centro, seguendo lo primo movimento del cielo; ma tarda molto per la sua grossa matera e per la massima distanza da quello. Queste oppinioni sono riprovate per false nel secondo De Celo et Mundo da quello glorioso filosofo al quale la natura più aperse li suoi segreti; e per lui quivi è provato, questo mondo, cioè la terra, stare in sé stabile e fissa in sempiterno. E le sue ragioni, che Aristotile dice a rompere costoro e affermare la veritade, non è mia intenzione qui narrare, perché assai basta a la gente a eu' io parlo, per la sua grande autoritade sapere che questa terra è fissa e non si gira, e che essa col mare è centro del cielo».[20]
Accolta, in tesi generale, l'ipotesi cosmologica sopra accennata, che riteneva le quattro sfere degli elementi (terra, acqua, aria, fuoco) essere disposte omocentricamente (dal più pesante al più leggero) sotto il cielo della luna, restava da indagare e risolvere, al lume della verità effettuale e dell'osservazione empirica, non tanto, sic et simpliciter, il problema legato all'emersione della terra nella cosiddetta «quarta abitabile» (facilmente quanto fideisticamente risolvibile a norma del Genesi, I, 9-10: «Dixit vero Deus: Congregentur aquae, quae sub caelo sunt, in locum unum, et appareat arida. Et factum est ita. Et vocavit Deus aridam terram congregationesque aquarum appellavit maria»), quanto l'altra e parallela questione, più impegnata a livello di ipotesi scientifica (o parascientifica) dei termini effettivi con cui definire ed esprimere il reciproco rapporto tra le due sfere, equorea e terrestre. Il vero nodo teorico, concettuale del problema (particolarmente indagato da filosofi, astronomi, cosmologi nei secoli XIII-XIV) era insomma un altro, più generale e squisitamente connesso alla Meccanica cosmologica degli elementi: cioè a dire quello del reciproco equilibrio dei solidi e dei liquidi, nella fattispecie della terra e del mare; affrontato da Aristotele in poi, su su fino agli Arabi e alla Scolastica, e per la cui soluzione erano state elaborate da tempo, sempre nell'ambito (in contrasto o nei termini) della fondamentale proposta aristotelica degli omocentrici, diverse teorie, che, sia pure a grandi linee, gioverà ricordare.[21]
V'era chi sosteneva che la sfera dell'acqua poteva, anzi doveva essere in qualche sua parte più alta della terra abitabile, o perché in alcun punto «gibbosa» rispetto alla terra emersa, o perché addirittura eccentrica rispetto alla sfera terrestre; allegando fra le altre prove l'osservazione, ritenuta fondamentale, e confortata dal salmistico (103, 6) «super montes stabunt aquae», che altrimenti sulle montagne non vi sarebbero state sorgenti. Fra i sostenitori (con varie motivazioni) di tale tesi, Isidoro di Siviglia, Etym., XIII, xiv, 3; il Sacrobosco, Tractatus de Spera, I;[22] Bartolomeo Anglico, De proprietatibus rerum, XIII, cap. xxi (su Isidoro); Brunetto Latini, Tresor, 1.105;[23] san Tommaso, Summa theol., I, q. 69, a. I; Ristoro d'Arezzo, La composizione del mondo colle sue casciani, II.5.1-5.[24]
L'ipotesi veniva poi spiegata, quanto all'eziologia, o ricorrendo al miracolo divino, oppure nell'ambito di una azione finalistico-astrologica che consentisse la vita sulla terra (si veda ad esempio, dai capitoli citati di Ristoro, il passo da noi allegato nel commento a VII, 3-4, p. 802).
Pur giungendo alla propria conclusione per diverse vie, e in particolar modo motivando diversamente la maggiore altezza della terra rispetto all'acqua (indipendentemente cioè dal problema della concentricità, asserita o negata, delle due sfere), vi era d'altronde anche chi, con maggiore buon senso, stimava essere l'acqua del mare, in ogni sua parte, più bassa della terra emersa. Alla teoria, diciamo così, «miracolistica ll (l'acqua, secondo natura, dovrebbe coprire tutto; la terra emerge intersecandone la sfera in una serie di punti in virtù d'una operazione divina miracolosa e permanente, a consentire un habitat per gli animali e le piante) ricorreva ad esempio Guillaume d'Auvergne nel De Universo ;[25] escludevano invece decisamente il miracolo (invocando l'azione ordinatrice e provvidenziale della Natura universale ai fini vitali) Ruggero Bacone, là dove affrontava il problema del «luogo» naturale degli elementi,[26] Michele Scoto, in pagine del commento alla Sfera del Sacrobosco fondamentali per la formulazione stessa del problema da parte di Dante,[27]nonché Bernard de Trille, nelle Questiones sopra la citata Sfera.[28] Spiegavano poi l'elevazione ed emersione della terra dalle acque meccanicisticamente, attribuendola all'azione d'una causa seconda, Alberto Magno, che puntava esplicitamente alla sottrazione di liquido dovuta alla continua azione del Sole[29] e Roberto Anglico, che sempre chiosando la Sfera cumulava l'azione delle stelle ad una superiore volontà teleologica e all'intrinseca secchezza della terra,[30] abbinando dunque causa efficiente e causa finale. La piena concentricità delle sfere dell'acqua e della terra (e degli altri elementi) veniva poi asserita da Maestro Campano di Novara nella Theorica Planetarum e ancor più chiaramente nel Tractatus de Spera, ove compare, a proposito dell'emersione terrestre, una spiegazione tutta finalistica, con la terra che, per volontà divina, si è levata a formare una grande isola, la quarta abitabile, alta sulla superficie del mare, perdendo in tale punto la sua «sfericità» (ma non la «concentricità»).[31] Ipotesi cosmologica fatta propria, in seguito, da Egidio Romano, sia nell'Hexameron che nel successivo commento In II Sententiarum;[32] postulando anch'egli (contro l'opinione sostenuta, qualche decennio prima, da Ristoro e da altri) la concentricità delle due sfere, negando sia l'intervento miracoloso (divino) che quello delle cause seconde, e ricorrendo alla nozione di una «magna gibbositas» costituita appunto, fin dalla creazione, dalla terra abitabile, allo stesso modo che anche un frutto, nella sua sostanziale rotondità, può ben presentare irregolarità (avvallamenti e rilievi) nella sua superficie.
Da notare (e l'ha benissimo notato il Nardi, senza però trarne tutte le implicazioni in rapporto al problema dell'autenticità della Questio)[33]che proprio nel decennio 1316-1326 v'era chi proponeva, anzi propugnava, un'altra ipotesi, cogliendo da vicino la verità effettuale delle cose: Antonio Pelacani, maestro di fisica e di medicina, che insegnava in quel tempo a Bologna e a Verona e che, non sappiamo quanto autorizzato, mentre nel 1319 era consigliere di Matteo Visconti tirò in ballo «Maestro Dante Aleguiro de Florencia» a proposito d'un sortilegio da fargli fare contro Giovanni XXII, papa allora felicemente regnante. Or dunque, come i fisici e i teologi del tempo suo, anche il Pelacani aveva ovviamente le sue idee ben precise in materia di equilibrio dei due elementi; e ragionava con buona dose d'acume, attingendo la verità. Egli pensava infatti che l'acqua e la terra fossero concentriche, non solo: ma che la terra contenesse tutta l'acqua marina entro i suoi avvallamenti, paragonati alla scabrosità d'un frutto.[34] Pensiero assai vicino alla realtà fisica quale oggi è nota, ma che, per il medioevo, rasentava da presso l'eresia, non tenendo conto dell'ordine divino attestato dal Genesi, cui già accennammo, pel solito interpretato nel senso più stretto, cioè a dire in rapporto all'emersione della terra abitabile nell'emisfero boreale (o, secondo alcuni, dapprima in quello australe come in più nobil luogo, per poi subire l'attrazione, poniamo, delle stelle boreali, e così trascorrere nell'altro emisfero). E il Pelacani andava ancor più in là: arrivava, portando alle necessarie conseguenze il suo ragionamento, a postulare addirittura l'esistenza di terre emerse nell'emisfero australe, vale a dire di dorsali emerse di avvallamenti marini, ai nostri antipodi: terre, egli aggiungeva (e questo è assai importante) che gli uomini non possono raggiungere unicamente perché, una volta varcata la linea equinoziale, «perdono il polo», egli dice, cioè perdono la bussola: «amittunt polum ... unde nesciunt amplius quo vadant». Tesi certo divinatoria ma in parte non nuova, se (esposta molto più dubitosamente) già compare nel commento di Roberto Anglico alla Sfera del Sacrobosco,[35] ove si legge: «Ad illud autem quod queritur iuxta hoc utrum quarta apposita huic quarte, in qua est habitatio nostra, sit habitabilis, credo quod sic, nisi impedimentum sit a parte aquarum, sicut forte est. Nec tamen credendum quod ibi habitet aliquis, cum de hoc numquam aliquis expertus in scientia fecisset mentionem»; e che, a parte il suo sapore ereticale a quell'altezza cronologica,[36] non poteva comunque trovare grazia alcuna, anche a livello della Questio, presso l'autore del canto d'Ulisse.
Chi voglia controllare, qui in limine, come pochi lustri dopo la morte di Dante si potessero presentare a grandi linee, schematizzando, le principali posizioni cui abbiamo fin'ora accennato, può leggere il brano del Tractatus spere materialis di Andalò dal Negro, da noi riprodotto nella chiosa a VII, 3-4 (pp. 801-2), rapida sintesi della problematica appena ricordata. Resta semmai da chiedersi a quale, delle diverse opinioni fin'ora esposte, si accosti l'autore della Questio. Egli espone dapprima (capp. III-VI) quattro argomenti tradizionalmente addotti a sostenere l'eccentricità o la «gibbosità» della sfera dell'acqua rispetto alla sfera della terra (le opinioni espresse, con maggiore o minore precisione, da Isidoro, dal Sacrobosco, da san Tommaso, da Brunetto, da Ristoro ecc.); nel cap. VII presentandone un quinto, meno comune, e anzi per il solito non invocato dai trattatisti: cioè a dire la prova che si voleva dedurre, per l'eccentricità e quindi la maggiore altezza della sfera equorea, dalla escursione delle maree, spiegata appunto da molti con la nozione di una presunta eccentricità dell'acqua in diretto rapporto con l'attrazione dei corpi celesti, e in particolare per effetto dell'orbita lunare. Tale argomento (combattuto anche da Egidio Romano nel citato commento al libro II delle Sententiae di Pier Lombardo),[37] istituisce una interessante connessione con un problema scientifico affrontato in modo particolarmente vivace- e pour cause - in certi ambienti della cultura transalpina, e più specialmente francese, del secolo XIII (copiose ad esempio le «questiones» dedicate a dibattere la problematica nelle università di Parigi e di Oxford, in stretto, evidente rapporto con la fortissima escursione delle maree nel Canale della Manica e sulle coste atlantiche).[38] Il dato, se lascia trasparire un qualche tratto- fosse pure indiziario - della fisionomia culturale degli avversari e interlocutori, mostra anche la deliberata attenzione di Dante («quinque retinui») non tanto per un fenomeno osservato e più volte descritto nella Commedia, quanto per un preciso elemento culturale, che forse rammentava al vecchio poeta esperienze e nozioni mediate, sotto altri orizzonti e costellazioni, nel corso del giovanile impatto con l'enciclopedismo didattico e la cultura francese del secolo XIII, consulibus Jean de Meung, i grandi Specula d'oltralpe, le molteplici (e in parte inedite) questioni e trattati «De Spera» e «De ftuxu et reftuxu marisn (particolarmente vivaci in ambiente oxoniense e parigino), nell'ambito di una indagine che dal dato empirico risaliva a varie e diverse teorizzazioni e spiegazioni di carattere francamente cosmologico.
Ponendosi magistralmente a sua volta in questo stesso filone Dante accoglie dagli avversari la non frequente connessione delle due problematiche (l'equilibrio tra solidi e liquidi messo in rapporto alla teoria delle maree), presente anche in Bernard de Trille; negando d'altronde (si veda XXIV, 84) che da una osservazione circoscritta sia possibile trarre deduzioni a livello di teoria generale. Premesso quindi nel cap. VIII un fondamentale accertamento empirico (il corso dei fiumi volge manifestamente verso il basso), l'Alighieri prosegue affermando l'intenzione di suffragarlo con argomenti strettamente e scientificamente razionali. La dimostrazione si articola così (cap. IX) in cinque parti, che, per gruppi di capitoli, danno una robusta ossatura a tutta la trattazione.
Si dimostra dapprima (in negativo) l'impossibilità che la sfera dell'acqua sia più alta della terra emersa (capp. X-XI), che sia eccentrica rispetto alla sfera terrestre (cap. XII), che sia in qualche modo «gibbosa» (cap. XIII); si afferma poi la necessità che essa sfera sia concentrica a quella della terra (cap. XIV), provando quindi di seguito (dal negativo al positivo) che la terra emersa è dovunque più alta, in ogni sua parte, della superficie del mare (cap. XV), risolvendo poi nella terza parte (cap. XVI-XVIII) alcune obiezioni al lume della fondamentale distinzione tra Natura particolare e Natura universale: la quale ultima ordina ai propri fini anche le concrete determinazioni del contingente, del generabile e del corruttibile, e nella fattispecie ha fatto emergere per virtù dei cieli (e contro la natura particolare del grave, che tende sempre al centro «al qual si traggon d'ogne parte i pesi», lnf., XXXIV, 111) l'elemento terra, perché attraverso la commistione dei vari elementi fosse possibile attuare il mirabile disegno della Creazione, in altre parole la vita.
La quarta parte (capp. XIX-XXII) è quindi dedicata a illustrare e documentare la soluzione del problema cosmologico cui aderisce l'autore (la sfera terrestre emerge dalla sfera equorea nell'emisfero boreale con una gibbosità a forma di semilunio) e a fornire nel contempo adeguata dichiarazione del fenomeno sia quanto alla sua estensione geografica, sia per ciò che è della già precisata causa finale e di quella efficiente, identificata nell'ottavo cielo o cielo delle Stelle fisse. Il discorso viene poi rincalzato, in clausola al cap. XXI e nel XXII, da una vigorosa e appassionata affermazione di perfetta acquiescenza ai disegni provvidenziali e alle imperscrutabili determinazioni della Sapienza divina: ultimo, sereno sigillo, in chiave d'autorità, ad un argomentare dialetticamente razionale, acuta prova ragionativa nel campo della filosofia naturale.
La quinta parte (capp. XXIII-XXIV) è finalmente dedicata al sintetico riesame e alla critica incisiva e puntuale delle cinque «prove» addotte dagli avversari, seccamente confutate con un discorso riepilogante rapido e preciso; seguono, in termini vibranti e solenni non scevri di sferzante polemica, la corroboratio e la datatio del trattato (come si disse, 20 gennaio 1320), in cui è inserita intenzionalmente, con l'esaltazione dell'ancora invitto Cangrande, una postrema riaffermazione, contro l'ingerenza del Papato nel temporale, degli imprescrivibili diritti dell'Impero trasmessi recta via ai suoi vicari. Si conchiude così, con un patente (e prepotente) riaffiorare di elementi e motivazioni personali, una pagina tutta filosofica, condotta rigorosamente «iuxta propria principia»: che dimostra, anzi conferma (se mai fosse necessario) quali e quanti fossero gli interessi culturali e scientifici dell'Alighieri, sorretti sempre da inesausta passione per la verità e dal bisogno di chiarire, a sé e agli altri, problemi aperti, andando al fondo delle cose.
Se, dopo questa breve analisi, vogliamo fare rapidamente il punto, potremo dire, in sintesi, che quanto all'ipotesi primaria (quella, cioè a dire, della concentricità delle due sfere e dell'elevazione della terra emersa in forma di semilunio gibboso) Dante si avvicina nettamente, come concezione cosmologica, alle idee professate da Maestro Campano e da Egidio Colonna;[39] mentre, per quanto riguarda l'interpretazione finalistica dell'emersione, si accosta alle idee di Michele Scoto, di Ruggero Bacone, del Campano, di Bernard de Trille, di Pietro d'Abano, di Egidio Romano, riprese in seguito anche da Cecco d'Ascoli. Quanto poi all'esplicito (e qualificante sul piano euristico) ricorso alla distinzione tra Natura particolare e Natura universale (e allo specifico, fondamentale intervento di quest'ultima entro la predetta concezione finalistica e contro le tesi «miracolistiche» di Guillaume d 'Auvergne e d'altri), l'Alighieri appare chiaramente allineato con le posizioni di Ruggero Bacone e di Pietro d'Abano.[40]Per quel che concerne l'identificazione della causa efficiente con l'azione («motus ad ubi»)delle stelle settentrionali (esclusa esplicitamente da Egidio contro Ristoro) Dante è infine vicino all'ipotesi meccanicistica di Roberto Anglico (depurata d'altronde dal sinergismo di fattori concorrenti, quali ad esempio la secchezza della terra che assorbe l'acqua), ma anche a precise affermazioni d'Averroè nel commento alle Meteore d'Aristotele,[41] condivise dal Sacrobosco e da Alberto Magno[42] e riprese da Ristoro d'Arezzo e da Pietro d'Abano.[43]
Questo referto, come non mira davvero ad esaurire le possibili connessioni dottrinali, così non intende neppure sottolineare, si badi, il carattere eclettico-combinatorio, o l'aspetto che a taluni potrebbe semplicisticamente apparire addirittura compilatorio del trattato (il che del resto, per un testo medievale siffatto, sarebbe andar contro alla storia); vuole semmai rilevare, e senza patriottismo di partito, come l'Alighieri, nell'ambito della tesi accolta (e in un certo senso vulgata) abbia saputo procedere a un rigoroso vaglio e a precise scelte sia per quanto riguarda le soluzioni caldeggiate, sia per ciò che è della loro esplicita (o implicita) documentazione. Per capacità di sintesi e rigore dialettico, per il suo vigoroso, ben condotto e strutturato argomentare, la Questio (nonostante alcuni giudizi, anche recenti, un po' frettolosamente limitativi)[44] è insomma, nel genere suo, un pezzo di bravura, teso a definire e risolvere (facendo un ben ragionato punto), un discusso problema, senza presumere di scoprire e portare novità. Quello che in essa avvince e convince il moderno lettore (chi, a storicizzare, tenga diacronicamente in filigrana le molteplici e varie trattazioni del dibattuto problema) è semmai il piglio disinvolto e sicuro (e talora il franco cipiglio) con cui Dante affronta l'argomento, e il livello - la soglia - cui è portata la discussione, sorretta da una ben articolata e sapiente struttura «magisteriale» (sia pur modellata, ovviamente, sul consueto schema delle «questioni»), da ordinata chiarezza di pensiero, da estrema precisione tecnica di linguaggio.
Da questo punto di vista non sarà del tutto scontato né lapalissiano percepire e riscoprire oggi nell'Alighieri della Questio (confrontato con lo scriba delle pagine scientifiche e cosmologiche del Convivio, e indipendentemente dalla verità effettuale, così in assoluto, delle tesi sostenute), non solo l'acuminato e buon sillogizzatore della Monarchia, ma anche e soprattutto Io scienziato maturo e profondo rivelato e garantito dai robusti inserti filosofici, dottrinali, astronomici della Commedia;[45] e, più ancora, il Dante misuratore cosmico del Paradiso: geodeta che ben sa traguardare, con occhio esperto, l'intiero universo: «che tutto s'affige l per misurar» e che nel freddo gennaio transpadano del 1320, spinto da inesausto bisogno di verità a tornar con la mente, tra Mantova e Verona, a testi e problemi cari da tempo alla sua cultura eclettica quanto arcaizzante (e tutta radicata sulle opere di alcuni Founders e sulle grandi sistemazioni dei secoli XII e XIII), questa volta ha voluto e saputo, da pari suo, «ritrovare, l pensando, quel principio ond'elli indigene».[46]
Restano a questo punto da mettere meglio a fuoco, quale ulteriore (e necessario) introibo alla lettura, due distinti problemi.
Il primo, già avvertito senza troppo stridore mentale dalla precedente critica (in particolare dal Moore, dal Russo, dal Parodi: tre convinti assertori dell'autenticità)[47]riguarda l'indubbia differenza, a livello di récit diagnostico-eziologico, tra la descrizione della catastrofe cosmologica nei vv. 121-6 del canto XXXIV dell’ Inferno e due punti (anzi due tesi fondamentali) della Questio.
Dalle due terzine infernali, come è ben noto, si apprende infatti:
1) che al momento della Creazione la «terra» emergeva nell'emisfero australe;
2) che poco dopo (ma certo anteriormente alla creazione dell'uomo),[48]la caduta di Lucifero - richiamata, si badi, anche a Par., XXIX, 50-1, su cui torneremoebbe a provocare un cataclisma, facendo ritrarre la terra emersa dall'emisfero australe a quello boreale, forse provocando nel contempo anche la formazione della montagna del Purgatorio (a rigore, stando alla cronologia relativa, del Paradiso terrestre). Ricordiamo il testo:
Da questa parte cadde giù dal cielo;
e la terra, che pria di qua si sporse,
ser paura di lui fé del mar velo,
e venne a l' emisperio nostro; e forse
per fuggir lui lasciò qui loco vòto
quella ch'appar di qua, e su ricorse.
Nella Questio invece:
1) non è assolutamente menzionata (neppure quale concausa) la caduta di Lucifero, prima considerata, s'è visto, unico innesco di una possente reazione cosmologica che ora viene attribuita alla sola azione attrattiva (o repulsiva) delle stelle;
2) a parte un dubitoso accenno (cap. XXI, 75) che fra l'altro non è di pacifica interpretazione e che in ogni caso riferisce altrui obiezioni, manca parimenti ogni riferimento ad una primitiva, possibile emersione della terra nell'emisfero australe; posto che l'elevatio emisperialis, avvenuta per l'azione delle Stelle fisse dell'emisfero boreale (cap. XXI, 69-73) «sive ... per modum attractionis, ut magnes attrahit ferrum, sive per modum pulsionis, generando vapores pellentes, ut in particularibus montuositatibus», stando al contesto non può in alcun modo esser considerata secondaria ad una precedente, diversa formazione e collocazione della terra emersa nell'altro emisfero.
Tale diversità di concezione e rappresentazione, semplicemente constatata dal Moore, fu considerata non rilevante dal Russo, il quale addirittura riteneva che «la concezione poetica dell'assettamento del globo terracqueo dopo la caduta di Lucifero contiene il nocciolo della Questio»;[49] venne poi interpretata dal Parodi[50] come frutto di due distinti e complementari atteggiamenti dell'Alighieri:
«se la spiegazione che nell'ultimo canto dell'Inferno è data dell'elevazione della terra non è quella medievalmente scientifica della Quaestio, non direi però che la escluda. Direi piuttosto che nel Poema abbiamo la teoria naturalistica della Quaestio interpretata con una potente fantasia teologico-poetica». Posizione critica condivisa di recente dal Freccero,[51] e che del resto appare in tutto parallela (certo indipendentemente) a quella un tempo assunta da Pietro Alighieri nel citato luogo della terza redazione del Commentarium, ove fra l'altro si legge: «Quantum vero ad veritatem et naturalem rationem de huiusmodi parte terre nostre sic ellevata a mari, non ficte et transumptive loquendo ut est locutus hic auctor, de hoc quidam naturales voluerunt dicere hoc evenire a virtute poli artici nostri attrahentis ad se terram sicut magnes trahit ad se ferrum ...».[52]
lo stesso, muovendo dalla citazione di Pietro, non ebbi nel 1957 da obiettare a tale impostazione ;[53] solo dopo le ulteriori pagine di Bruno Nardi (che vedeva insanabile contrasto fra i due testi, Inferno e Questio, traendone spunto per negare decisamente quest'ultima a Dante),[54] sottolineai, in un successivo articolo,[55] come non fosse certo la prima volta che Dante, quanto a elementi cruciali del suo pensiero, avesse mutato radicalmente nel tempo la propria opinione: per di più accostandosi in quest'ultimo caso, come già in precedenti sue «retractationes» consegnate in luoghi del Paradiso, a idee di ascendenza manifestamente egidiana e abbandonando, per l'ipotesi d'una primitiva emersione terrestre nell'emisfero australe, opinioni d'Aristotele e d'Averroè ben rilevate dallo stesso Nardi,[56]temperate d'altronde, in altri testi, da non meno precise quanto diverse affermazioni dello stesso Averroè.[57]
Alle idee del Nardi, corrette per ciò che è dell'autenticità e sviluppate invece a meglio capire gli effettivi rapporti tra il citato luogo dell'Inferno e la Questio, si è a sua volta accostato, nei suoi lavori, Giorgio Padoan, con osservazioni meritevoli di attenzione.[58]
In particolare egli ritiene che la narrazione cosmologica del XXXIV canto dell'Inferno abbia suscitato nei primissimi lettori del Poema vivaci reazioni e polemiche;[59] il che avrebbe indotto Pietro Alighieri, come altri più antichi chiosatori, a far ricorso al canone della «finzione poetica» per depotenziare - diciamo così - il carattere profetico e rivelativo che avrebbe avuto l'intiera Commedia (come già il Nardi, Padoan non ha dubbi che il poema sia una profetica e mirabile visione) e, nella fattispecie, la descrizione stessa della caduta di Lucifero nell'emisfero australe. Il critico sottolinea poi giustamente, sempre col Nardi, «come anche il dramma cosmico determinato dalla caduta di Lucifero si inseriva in una ben determinata posizione culturale»,[60] vale a dire entro la nozione averroista della maggiore nobiltà dell'emisfero australe rispetto a quello boreale. Respinta quindi, come s'è detto, per la caduta di Lucifero agli Antipodi, la chiave di lettura di Pietro, il critico sente d'altra parte l'esigenza «di verificare se le due diverse spiegazioni dantesche siano davvero in contraddizione fra loro», osservando preliminarmente che «In realtà, quelle due diverse spiegazioni non si escludono affatto a vicenda: ché il De situ si limita, constatata l'esistenza attuale di terra emersa nell'emisfero boreale, a giustificare sulla base dei princìpi fisici come ciò possa avvenire, limitandosi quindi esclusivamente a considerare tale fatto secondo quella verità che discende dall'indagine razionale, e non secondo quella che si pone sul piano della rivelazione divina, ed evita perciò accuratamente ogni affermazione che violi in qualche modo questo confine. Dante sottolinea con forza questa cosciente autolimitazione ...».[61] Nell'ambito di questa ipotesi di lavoro, meglio sviluppata e messa a fuoco per quanto riguarda l'emersione della cc terra» nell'emisfero australe, ignorata dalla Questio, Padoan osserva (e gioverà, anche questa volta, citarne per esteso le conclusioni): «Dal momento che il De situ si limita ad esaminare esclusivamente il fatto che nell'emisfero boreale esiste attualmente terra emersa, indagandone le cause fisiche, l'unico punto realmente delicato rispetto alla dottrina delineata nel canto XXXIV dell'Inferno concerne il perché dell'emersione nell'emisfero boreale, anziché nell'australe; ed è domanda apertamente espressa nel De situ, come possibile obiezione: "Quare potius elevatio emisperialis fuit ab ista parte quam ab alia?" (§ 75). Se in proposito vi fosse stato mutamento d'opinione da parte dell'Alighieri, ecco il momento più adatto per dichiarare esplicitamente la nuova convinzione (come egli d'altronde è uso fare); se la spiegazione offerta nell'Inferno era solo "invenzione poetica" ecco il destro per farlo capire, direttamente od indirettamente; o, se la prima emersione terrestre, avvenuta nell'emisfero australe, era frutto di convinzione filosofica ora ritenuta errata e perciò non più condivisa, bastava dare qui a quella domanda una risposta assai semplice - tipologicamente non molto diversa infine da quella addotta per giustificare la non circolarità della terra emersa (cfr.§ 74) - richiamandosi al diverso movimento delle stelle ... oppure alla maggiore e particolare virtù delle stelle soprastanti l'emisfero boreale ... Dante, al contrario, mantiene al riguardo un atteggiamento prudente e, senza entrare nel merito del problema, si guarda bene dall'escludere apertamente il fatto che nell'emisfero australe si sia potuto avere emersione di terra, e in sostanza si rifiuta di dare una risposta .. . Con ciò egli evita di ritrattare quanto aveva già affermato nella Comedia, da cui ormai non poteva più prescindere se non rinnegando tanta parte delle sue convinzioni e il senso stesso della sua opera; anzi egli afferma che solo Dio conosce quel perché, e gli uomini possono saperlo dunque per rivelazione, non per indagine razionale».[62]
Non è certamente questo il luogo per indagare se la Commedia sia davvero, come voleva Nardi, profetica narrazione di cose vedute, o per chiedersi piuttosto a quale genere letterario Dante artefice abbia pensato nel comporla (visione? opera costruita secondo l'allegoria «dei teologi» ? elaborata invece nell'ambito dell'allegoria «dei poeti», cioè entro il canone teorizzato nel De vulgari eloquentia e nel Convivio, della poesia quale «fictio rethorica musicaque poita»? dunque non soltanto canone «umanistico» come il Padoan vorrebbe);[63] mi chiedo, più semplicemente, se il disegno interpretativo, concettualmente rigoroso e vigoroso del Padoan, trovi effettiva rispondenza a livello della storia interna del pensiero di Dante, della sua stessa formazione ed elaborazione. E mi si presentano subito alcune difficoltà che non è possibile ignorare per definire il complesso problema interpretativo.
Sgombriamo per un momento il campo dall'ipotesi di lavoro di Pietro e torniamo ai testi danteschi, sondandoli in funzione dei punti dolenti sopra ricordati. E premettiamo un fatto che ci sembra indiscutibile. Qualunque sia, nei particolari minuti, l'interpretazione di Inf., XXXIV, 121-6, attribuire a quei versi un carattere, diciamo così, «provocatorio», che avrebbe indotto Pietro a mettere le mani avanti ricorrendo al concetto di «fictio», è ipotesi quanto meno indimostrabile: non fosse altro, perché è l'intiero Commentarium, caso mai, e in tutte le sue tre redazioni, saldamente appeso a quel concetto di basilare ermeneutica.[64] L'amico Padoan scrive fra l'altro: «Dovette pertanto essere assai arduo per i primi lettori, dinanzi a precise contestazioni, accettare senza obiezioni quella spiegazione che si sommava ed anzi si sovrapponeva al Genesi: se non avallandola sulla base di citazioni bibliche, come fece- poco dopo la morte di Dante - Graziolo Bambaglioli, che in proposito affermava: "hoc satis verificare videtur verbum illud Ysaie: 'Infernus sub te conturbatus est'": spiegazione ripetuta poi pedissequamente dall'Ottimo. Ma nel vivo delle polemiche che un'opera incandescente come la Comedia venne immediatamente suscitando (non occorre ricordare le infuocate espressioni del Vernani anche contro la Comedia, o la proibizione del Capitolo provinciale dei domenicani fiorentini del 1335, di tenere o di studiare "i libri o libelli composti in volgare da quello che chiamasi Dante"), ben si capisce la linea di difesa ben presto adottata dai primi commentatori ... per i punti "pericolosi" o comunque delicati come questo: e cioè di dichiarare che si trattava non di rivelazioni avute dall'autore per particolare grazia divina ("o superinfusa gratia Dei"), e nemmeno di costruzioni consentanee ad una determinata linea di pensiero, bensì di semplice "finzione poetica"; anche dove appariva invece evidente che l'intendimento di Dante si spingeva assai più in là».[65]
Ma quale mai particolare, personale rivelazione potrebbe aver avuto Dante quanto alla caduta di Lucifero? Quale «superinfusa gratia Dei» poteva presumere (o voleva far credere) d'aver ricevuto in proposito, quando la storia di quella caduta la si poteva leggere, se non proprio sui boccali di Montelupo (come in altra occasione amava dire Nardi), in testi scritturali notissimi (diversi dalla Genesi) cui Dante si è manifestamente ispirato? In una nota relativa alla veduta citazione di Isaia da parte di Graziolo,[66] Padoan osserva: «la citazione biblica non trova preciso riscontro, ma cfr. Is., XIV, 16: "qui conturbavit terram"», ed è svista veniale: si veda infatti Isai., 14, 9: «lnfernus subter conturbatus est in occursum adventus tui» (detto naturalmente di Lucifero). Ma ben più significativi i versetti circostanti: «suscitavit tibi gigantes. Omnes principes terrae surrexerunt de soliis suis, omnes principes nationum; ... detracta est ad inferos superbia tua, concidit cadaver tuum; ... Quomodo cecidisti de caelo Lucifer, qui marre oriebaris? corruisti in terram, qui vulnerabas gentes? qui dicebas in corde tuo: In caelum conscendam, super astra Dei exaltabo solium meum; sedebo in monte testamenti, in lateribus aquilonis; ascendam su per altitudinem nubium, similis ero Altissimo? Veruntamen ad infernum detraheris in profundum laci. Qui te viderint, ad te inclinabuntur teque prospicient: Nunquid iste est vir, qui conturbavit terram …?».[67]
I brani citati mostrano a sufficienza l'indubbio, autorevole sottofondo biblico-scritturale tenuto in filigrana da Dante nel collocare Lucifero nel profondo lago di Cocito; e sarebbe facile ribadire l'importanza di quella lettura, rilevando ad esempio contatti verbali tra 12 («Quomodo cecidisti de caelo Lucifer») e Inf., XXXIV, 121 («Da questa parte cadde giù dal cielo ...») o tra la frase di 16 «qui conturbavit terram» e i vv. 122-3 («e la terra ... / per paura di lui fé del mar velon), o meglio ancora con Par., XXIX, 51 («turbò il suggetto d'i vostri alimenti ...»). Tutto ciò per concludere, che, su quel punto specifico, nessuna contestazione poteva esser mossa, né prima né dopo, al poeta, bastando aprioristicamente a sua difesa l'aderenza alla biblica pagina d'Isaia, invocata del resto esplicitamente (con altri biblici testi) da Pietro nelle sue redazioni seconda e terza, accanto ai capitoli 12 e 20 dell'Apocalisse.[68] Motivo di contestazione, caso mai, poteva essere l'aver attribuito a Lucifero precipite il ruolo, per sua parte certo involontario, di causa seconda: cioè a dire, si badi, di collaboratore alla divina opera della creazione; ed è proprio questo il dato che ragionevolmente preoccupava Pietro di Dante, quando teneva a precisare che «non ficte et transumptive loquendo» la causa dell'emersione della terra nel nostro emisfero era tutt'altra: l'attrazione del polo artico (secondo alcuni filosofi naturali) o l'azione più o meno diretta della Natura universale (secondo l'opinione fatta propria dal Dante della Questio e rammentata da Pietro nella sua postilla). Ma parliamoci chiaro e senza schermi: chi mai può ritenere che Dante pensasse davvero, ritenendosi detentore d'una profetica rivelazione (e non in forza d'una potente accensione della propria fantasia di poeta, cioè a dire «ficte et transumptive loquendo») che l'emersione della terra, e il formarsi della quarta abitabile, fossero proprio dovute alla caduta di Lucifero e non, secondo la comune dottrina cosmologica, a una delle varie ipotesi di lavoro che abbiamo già registrato, optando per proprio conto, per la forza d'attrazione o di pulsione delle stelle? Che poi quella versione «poetica» fosse o potesse essere contestata da chi, volutamente, si stracciava le vesti fingendo di non capire, è altro discorso; legato a motivi di tutt'altro ordine (la polemica anti-ierocratica strenuamente condotta nella Comedia, la condanna inesorabile di papi, cardinali, ecclesiastici; la lucida, rigorosa distinzione tra i due poteri, temporale e spirituale, affermata e teorizzata nella Monarchia); ma ripeto, si tratta di un altro e diverso discorso.
Contestata e discussa, sempre nei soliti ambienti confessionali o conventuali deve essere stata, d'altronde, anche l'assunzione, nel XXXIV d'Inferno, di un patente elemento di pensiero averroistico, quale l'ipotesi della primitiva emersione terrestre nell'emisfero australe a causa della sua maggiore nobiltà rispetto a quello boreale:[69] concetto ignoto alla sacra pagina. E qui si pongono altri interrogativi. Sottratto di necessità ogni carattere «profetico»(«rivelativo») a tale nozione averroista, resta pur sempre (visto che nella Questio essa non compare) da confrontarla (sondandone l'eventuale presenza) con altri luoghi del poema ove, più o meno direttamente, riappare il tema della caduta di Lucifero, di per sé inseparabile dalla formazione del baratro infernale e quindi riconducibile sia alla dibattuta questione, magistralmente ripresa e trattata dal compianto Étienne Gilson, dei «coaequeva in creatione»,[70] sia ad un altro dibattuto problema, quello del carattere della materia all'atto che fu creata senza mezzo da Dio. Se muoviamo, in ordine topografico, da Inf., III, 7-8 («Dinanzi a me non fuor cose create / se non etterne, e io etterno duro») impariamo che alla formazione dell'Inferno preesistevano, delle cause seconde (cose create), soltanto quelle etterne, create immediatamente da Dio: cioè a dire, a norma di Par., VIII, 123-38; XXIX, 21-36: gli Angeli o intelligenze separate (pura forma senza materia); la materia prima del mondo sensibile (cioè a dire la pura potenza senza forma, o materia informe); «e nel mezzo il composto incorruttibile di materia e forma, cioè le sfere celesti», come ha precisamente osservato Bruno Nardi.[71] Le altre cose non etterne, vale a dire corruttibili, vennero poi create mediatamente, «informate» da «creata virtù», cioè dalla virtù dei cieli (causati a loro volta virtualmente dal Primo mobile), «mossi da quelle menti angeliche le quali ... "fabbricano col cielo queste cose di qua giuso" [Conv., III, vi, 6]».[72]
Questo il pensiero dantesco, almeno quale appare (implicitamente) da Inf., III ed esplicitamente da Par., VII e XXIX; i teologi però discutevano sia su quali e quanti fossero i «coaequeva» sia sul carattere della materia prima «come pura e assoluta potenza senz'atto di sorta».[73] La dottrina più comune (Pier Lombardo, Alessandro di Hales, Alberto Magno) precisava i «coaequeva» in numero di quattro: materia informe, natura angelica, cielo empireo e tempo (si veda la puntualizzazione tomista, Summa theol., I, q. 46, a. 3, Resp.: «Quatuor enim ponuntur simul creata, scilicet caelum empyreum, materia corporalis (quae nomine terrae intelligitur), tempus, et natura angelica»; e vedi anche q. 69, art. I, Resp.); dottrina, come s'è visto, non seguita dal poeta (ricorda almeno Par., VII, 64-72; XXIX, 16 sgg.) che nella stupenda narrazione del XXIX canto sottolinea come «lo discorrer di Dio sovra quest'acque» produsse, «in sua etternità di tempo fore», un triforme effetto, «come d'arco tricordo tre saette». Quanto al problema del carattere da attribuire alla materia («intesa» o non «intesa» direttamente da Dio?) era questione su cui Dante si era affaticato, per sua stessa ammissione, fin da quando seguiva le scuole dei religiosi e le disputazioni dei filosofanti,[74] per poi risolverlo, a livello del VII del Paradiso e successivamente (come nota il Nardi), ritenendo «la materia intesa e creata immediatamente da Dio»[75] e abbandonando«implicitamente ma necessariamente… il concetto aristotelico-tomistico della materia come pura e assoluta potenza senz'atto di sorta», per accostarsi a «quello, assai meno rigoroso ma molto diffuso ed a lungo discusso tra gli Scolastici, di sant'Agostino; il quale affermò appunto la creazione di una materia informe e caotica, che avrebbe preceduto la distinzione e l'ordinamento successivo del mondo»:[76]«Concreato fu ordine e costrutto l a le sustanze; e quelle furon cima l nel mondo in che puro atto fu produtto; l pura potenza tenne la parte ima; l nel mezzo strinse potenza con atto l tal vime, che già mai non si divima».[77]
Tornando al III d'Inferno, è indubbio che Dante, all'inizio del poema e in parallelo ad alcuni passi del Convivio ove si discorre, appunto, della creazione e della materia, ritiene che la formazione del baratro infernale sia avvenuta nella materia informe, non già nel globo terracqueo poi organato e potenziato dalle sostanze angeliche («che fabbricano col cielo queste cose di qua giuso») e quindi, come tutto ciò ch'è prodotto mediatamente dalle cause seconde, sottoposto a corruzione e a perire (si ricordi l'affermazione «e io etterna duro»). Nel canto XXXIV della stessa cantica parla invece della «terra»in modo che può far ritenere si tratti non della materia informe, ma d'uno dei quattro elementi corruttibili e limitati, dei quali, nel canto VII del Paradiso, discorre, lo si è già detto, come di cose create mediatamente (133-8: «ma li alimenti che tu hai nomati l e quelle cose che di lor si fanno l da creata virtù sono informati. l Creata fu la materia ch'elli hanno; l creata fu la virtù informante l in queste stelle che 'ntorno a lor vanno»). Di questa contraddizione si accorsero e discussero a lungo, specie nell'Ottocento, i dantisti; e io stesso ebbi ad occuparmene chiosando il canto III dell'Inferno, in pagine cui di necessità rimando anche per la storia della questione e la relativa bibliografia.[78]
Allargando queste prospettive critiche, Bruno Nardi - il maestro che in anni lontani e recenti ha maggiormente indagato, storicizzando, i problemi d'ordine storico-culturale cui abbiamo accennato - ha contrapposto come s'è detto, esasperando il contrasto, la concezione cosmologica espressa nel XXXIV d'Inferno e quella che si evince dalla Questio, traendone drastiche conclusioni circa l'autenticità del trattato; ma tanto varrebbe, allora, sostenere che Inferno III e XXXIV non sono della stessa mano; e, soprattutto, che il narratore della caduta di Lucifero «da questa parte», e nel bel mezzo delle sfere concentriche della «terra» e dell'«acqua», non è lo stesso poeta, o autore, che nel XXIX del Paradiso, vv. 49-57, fa precipitare Lucifero e i suoi colleghi di colpa e di pena non più negli elementi già informati dalla creata virtù dei cieli, ma sicurissimamente (nonostante una chiosa vulgata e facilior), nella materia informe: «Né giugneriesi, numerando, al venti / sì tosto, come de li angeli parte l turbò il suggetto d'i vostri alimenti. l L'altra rimase, e cominciò quest'arte l che tu discerni, con tanto diletto, l che mai da circuir non si diparte. l Principio del cader fu il maladetto l superbir di colui che tu vedesti l da tutti i pesi del mondo costretto». Il «suggetto d'i vostri alimenti» non può infatti essere altro che il «subiectum elementorum» (vale a dire la materia prima non ancora distinta negli elementi) di cui discorrono consuetudinariamente gli Scolastici: si veda ad esempio Alberto Magno, De gen. et corruptione, II, cap. iii (si accenna a Platone): «Ipse dicit quod subiectum elementorum se habet ad elementa sicut aurum ad opus operatum ex auro quod est anulus ... sed ibi est alteratio et figura tantum et non generatio, sed ex materia elementorum dicitur generari elementum». Passo che trova parallelo concettuale in Conv., II, i, 10: «... è impossibile procedere a la forma, sanza prima essere disposto lo subietto sopra che la forma dee stare: sì come impossibile la forma de l'oro è venire, se la materia, cioè lo suo subietto, non è digesta e apparecchiata; e la forma de l'arca venire, se la materia, cioè lo legno, non è prima disposta e apparecchiata»;[79] e che riceve conferma (quanto all'usus scribendi) ancora da Conv., IV, x, 5: «Poi dico similemente lui errare, che puose de la nobilitade falso subietto, cioè "antica ricchezza", e poi procede[tt]e a "defettiva forma", o vero differenza, cioè "belli costumi"»: luogo che ribadisce la contrapposizione cc subietto» l «forma», fondata sull'evidente equazione (che veniva di lontano) «subietto» "materia", banalizzata dai primi commentatori e da alcuni moderni interpreti del poema, ma che nel contesto di Par., XXIX, 51 (come ancor più chiaramente a II, 106-7) è indubbio termine tecnico, garantito oltretutto anche da una vera e propria dittologia sinonimica presente nella Questio al cap. XVIII, 47: «Et cum omnes forme materiales generabilium et corruptibilium, preter formas elementorum, requirant materiam et subiectum mixtum et complexionatum …».[80]
Siamo dunque sufficientemente sicuri che nella stessa epoca in cui stava per affrontare la problematica della Questio, Dante, dettando Par., XXIX, aveva in ogni caso abbandonato la versione cosmologica di Inf., XXXIV: riscattando così per il lettore che oggi proceda ad una elementare operazione di cronologia relativa, un possibile segno di contradizione tra Comedia (ormai ordita in tutte le sue carte) e Questio. Ciò svuota ulteriormente d'ogni veleno attributivo l'argomentare di Nardi sull'autenticità di queste pagine; pur restando ancora da spiegare perché mai lnf., XXXIV, 121-6 rappresenti variabile indipendente rispetto a: Inf., III, 7-8; Par ., VII, 67-72, 124-38; xxrx, 22-36, 49-63, la teoria cosmogonica della Questio. Al qual proposito, senza presumere di attingere la verità, osservo, anzi ripeto che sulla concezione poetica di Dante, e sulla sua formalizzazione a livello espressivo, deve aver influito, e non poco, l'impatto con la biblica auctoritas: assolutamente concorde nel far cadere Lucifero in «terra», o fra terra e mare, anche se poi con «terra» veniva indicato anche l'abisso infernale, allo stesso modo che dell'Inferno come «terra» si parla in non pochi luoghi della Scrittura. Già vedemmo più sopra il pregnantc testo di Isaia; si leggano ora, tenendo d'occhio il vocabolario, tre distinti luoghi dell'Apocalisse, che si riferiscono a Lucifero (retrospettivamente) o (profeticamente) all'Anticristo:
Apoc.,
20,1-3: «Et vidi angelum descendentem de caelo, habentem clavem abyssi et catenam magnam in manu sua. Et apprehendit draconem, serpentem antiquum, qui est Diabolus et Satanas, et ligavit eum per annos mille; et misit eum in abyssum et dausit et signavit su per illum ut non seducat amplius gentes ...».
Al tempo di lnf ., XXXIV, giunto a un luogo cruciale e teologicamente delicato del poema, Dante si stringe ai testi scritturali servendosi della lettura biblica, ascoltata e ripresa verbatim, quale modulo per fornire al lettore (in modo del tutto parallelo, ad esempio, alla figurazione stessa di Lucifero, rispondente a modi iconografici e a definizioni chiesastiche tradizionali) uno sfondo drammatico e possente. La narrazione virgiliana corre sul filo di quella lettera e di quella lettura, pur non sfruttandone le possibili implicazioni (basterebbe scorrere le glosse medievali all'Apocalisse per comprendere la carica allusivamente metaforica per il solito attribuita dagli esegeti a quella «terra» e a quel «mare»).[81] Nel suo cosmico racconto «in persona poetae», Dante non si discosta dalla lettera; il che gli consente di operare, «in via inventionis», la saldatura tra la biblica caduta di Lucifero, la catastrofica formazione del baratro infernale, la (tutta dantesca) ipotesi del collegamento di quegli eventi all'emersione della terra nell'emisfero boreale. Proprio l'indeterminatezza (il silenzio) del contesto biblico sulle coordinate di quella caduta[82] deve aver favorito e concesso al poeta la libertà di colmare la casella vuota con il motivo averroistico della maggiore nobiltà (iniziale) dell'emisfero australe, che forse meglio consentiva di motivare sul piano dell'invenzione («da questa parte cadde giù dal cielo ...»), rimanendo pur sempre nell'ambito della narrazione biblica, sia la formazione della terra emersa nell'emisfero boreale («per paura di lui fé del mar velo ...») sia, dubitosamente ("... e forse l per fuggir lui lasciò qui loco vòto») l'eziologia cosmologico-fisica e la collocazione geografica della montagna del Purgatorio.
Solo più tardi, affrontando spiegatamente invidiosi veri, filosofici e teologici, ben altrimenti profondi (quali la teoria stessa della Creazione, il problema filosofico e dogmatico dell'immortalità dell'anima contro la corruttibilità degli elementi, l'ordinamento dei cieli e dei cori angelici) la riflessione dantesca torna su quell'ormai lontano capitolo della propria storia poetica, rileggendolo al lume delle ulteriori acquisizioni d'un non mai cessato meditare. E in seguito alla frequentazione non più soltanto del testo biblico (un tempo volutamente promosso ad unica fonte) ma degli scritti filosofici, patristici, scolastici, che entro i tempi della divina creazione (segnati dalla Genesi) meglio analizzavano e distinguevano termini e modi dei vari accadimenti, la «terra», sconvolta con il «mare» da Lucifero a produrre il baratro infernale, viene ora, con la stessa Genesi, ripensata quale materia informe (1, 2: «terra autem erat inanis et vacua, et tenebrae erant super faciem abyssi, et spiritus Dei ferebatur su per aquas»), concreata alle intelligenze angeliche e ai cieli e poi tratta da potenza ad atto per l'incessante moto degli Angeli fedeli che, in quanto gerarchie angeliche, governano il mondo sensibile in rapporto ai fini direttamente voluti dalla Provvidenza. Il «maladetto l superbir di colui ... l da tutti i pesi del mondo costretto» (Par., XXIX, 55-7) non giuoca più quale principio di causazione, ma solo di tragica degradazione («Principio del cader ...») degli angeli ribelli ed imbelli, poi sostituiti dall'uomo nel disegno provvidenziale della creazione:[83] ogni connessione fra la caduta di Lucifero (nel nostro o nell'altro emisfero) e l'emersione della terra, a quella altezza cronologica, storico-culturale, poetica, è di fatto assolutamente superata.
Ed è proprio a questo punto che, muovendo dal certo e dal vero, dal fisico e non dal metafisica, si inserisce l'interpretazione cosmologica della Questio: che non muove più dalla caduta di Lucifero e degli angeli ribelli e imbelli, ma teorizza e discute accadimenti (quali l'elevazione della terra nell'emisfero boreale) certamente successivi a quella caduta (il che in ogni caso risulta da Inferno XXXIV) e, per progressiva «reductio ad unum», giunge a individuarne la causa finale nelle disposizioni della Natura universale e quella efficientè nel cielo ottavo, o delle Stelle fisse. Come osserva il Sapegno nel commento a Par., II, 115-7 ad esso cielo è demandata cc la prima differenziazione, e riduzione dall'uno al molteplice, della virtù universale trasmessa al Primo Mobile dall'Empireo; differenziazione che si rifletterà nella molteplicità delle nature o specie terrestri». Tale differenziazione ebbe inizio allorché il comando del divino Artefice «Congregentur aque in locum unum et appareat arida» aveva virtuato tale cielo ad agire sulla materia informe e potenziato («disposto»), entro questa, l'elemento terra a patire l'azione elevante delle stelle (si veda qui il cap. XXI, 76); e si era sviluppata, da allora in poi, mediante l'attrazione della terra nell'emisfero boreale «sive ... per modum attractionis, ut magnes attrahit ferrum, sive per modum pulsionis, generando vapores pellentes» (cap. XXI, 73).
Alla narrazione fantastica (inserita in una prospettiva fideistica) dell'Inferno si viene così a sostituire una interpretazione autentica e rigorosa, «iuxta principia», del reale: tanto poco fideistica (anche se inscritta in una concezione provvidenziale della Creazione) da evitare accuratamente ogni spiegazione «miracolistica» dell'emersione terrestre (idea che, già vedemmo, pur circolava nella trattatistica) per accostarsi invece, con Bacone, il Campano, Egidio Romano, a una ipotesi che non ha bisogno, per sussistere, di inneschi esterni al sistema («extra materiam naturalem»), salvo l'ovvio riferimento teleologico in chiave provvidenziale, presente del resto anche in eretici incalliti quali Michele Scoto e Cecco d'Ascoli.[84] Ed è proprio per questo che Dante non sente in alcun modo il bisogno d'avvertire il lettore, presente e futuro, d'un mutamento d'opinione rispetto alla Comedia (silenzio che, come vedemmo, appare invece sintomatico al Padoan come, per altro verso, al Nardi): i parametri segnati all'indagine, limitata alla materia naturale, imponevano (pusenza implicare la rinuncia ad una interpretazione «ortodossa» della Creazione) l'abbandono d'una posizione teologico-fideistica, allo stesso modo che, poniamo, nella Questio si parla solo dei cieli planetari e del Primo Mobile ma non dell'Empireo, cielo teologico posto fuori dal mondo corporeo (si veda per questo punto Conv., II, xiii, 8; xiv, 9 e qui il commento ai capp. IV, 9; XX, 67; XXI, 68-69).
Quanto poi alla convinzione di critici valenti come Padoan[85]che Dante, nel trattato, rifiuti di «escludere apertamente il fatto che nell'emisfero australe si sia potuto avere emersione di terra» e che perciò volutamente mantenga «un atteggiamento prudente… senza entrare nel merito del problema» per non ritrattare nella Questio quanto affermato a lnf., XXXIV, ormai vulgata e discusso, una rilettura spassionata del cap. XXI in rapporto alle linee di pensiero appena ricordate sembra possa condurre a diverse conclusioni. Ciò perché il riferimento (rituale quanto in un certo senso doveroso) al quadro cosmico disegnato al termine della prima cantica ha finito per condizionare più del giusto alcuni interpreti (si veda, per i particolari, il nostro commento a XXI, 31-33). Si ponga mente alle nervature del capitolo, e in particolare dei paragrafi 68-75. A 68 Dante esclude, quale causa efficiente dell'emersione terrestre, il Primo mobile (cielo «uniforme per totum et per consequens uniformiter per totum virtuatum»), perché quell'uniformità avrebbe necessariamente prodotto, nel moto di quel cielo da oriente a occidente, uniforme effetto: quindi «non est ratio quia magis ab ista parte quam ab alia elevasset». Riferimento indubbio alla forma semilunare della terra emersa, mentre l'uniformità del Primo mobile avrebbe in ogni caso indotto una piena circolarità. Nulla ci autorizza a ritenere che Dante includa a questo punto del suo raziocinare il problema dell'emersione terrestre in questo piuttosto che nell'altro emisfero. Si tratta, sic et simpliciter (mi ripeto) dell'osservazione che il Primo mobile, per le sue stesse peculiarità, non può aver causato l'emersione dell'elemento terra là dove e come Dante riteneva fosse avvenuta (per 180° di longitudine dal Gange a Gade): né più né meno.
A 69-70 l'emersione terrestre è di conseguenza attribuita all'azione del cielo delle Stelle fisse (ruotante anch'esso in senso orario da oriente a occidente); in particolare (72-73) all'influsso delle costellazioni comprese tra l'equatore e il circolo polare artico (dunque nell'emisfero boreale). A questo punto si instaura una retorica, e insieme scientifica percontatio, eco certa del dialogo dell'oratore col pubblico: dato che anche tale cielo ha moto circolare, come mai l'emersione non avvenne, secondo tale moto, circolarmente, cioè a dire formando una calotta sferica o quanto meno una corona circolare? E all'exquisitio segue immediata la subiectio: la materia informe potenziata dal cielo non era sufficiente a tanto (74: «quia materia non sufficiebat ad tantam elevationem»). Ma subito dopo (75) si insinua una ulteriore percontatio circa il cielo delle Stelle fisse in rapporto alla sua azione sulla terra: «Sed tunc arguetur magis, et queretur: Quare potius elevatio emisperialis fuit ab ista parte quam ab alia?». Domanda del tutto parallela (fin nel dettato) a quella già proposta indirettamente per il Primo mobile (68: «non est ratio quia magis ab ista parte quam ab alia elevasset»), e che ha dato avvio a due distinte interpretazioni cui accenniamo nel commento. Pur non presupponendo necessariamente identica risposta, è evidente che un identico interrogativo, sia pure riferito a diverso cielo, non può che investire (salvo forti prove in contrario) il medesimo fenomeno: anche questa volta il fatto che la terra emersa ha forma semilunare e non circolare. È pur vero che su ciò verteva la precedente domanda: la quale, a stare alla risposta, concerneva però la «quantità»disponibile dell'elemento (insufficiente a formare una calotta sferica), non si allargava al problema della sua collocazione. E a questo problema si volge proprio la seconda domanda, solo in apparenza ripetitoria: preso atto della pochezza (insufficienza) della materia, perché mai essa materia -l'elemento terra- è emersa in questo quadrante piuttosto che altrove? («Quare potius elevatio emisperialis fuit ab ista parte quam ab alia?»). Poiché la quarta abitabile occupa un quadrante sferico dell'emisfero boreale, Dante immagina insomma che un avversario chieda per qual mai ragione essa terra sia emersa in questo quadrante, anziché nell'altro dello stesso emisfero, vale a dire agli anteci. Il che, a ben vedere, equivale assolutamente a chiedere perché mai le stelle del nostro emisfero, data e concessa l'insufficienza della materia, abbiano agito in un preciso, determinato luogo e momento (piuttosto che altrove e in altra occasione), causando l'emersione della quarta abitabile proprio e soltanto tra 0° e 180° di longitudine e, in latitudine, nei termini indicati nel § 73.
Che questa sia la più economica ipotesi di lavoro (per alcuni forse temeraria),[86]appare del resto proprio dalla risposta di Dante: la stessa sprezzante risposta largita da Aristotele a chi scioccamente chiedeva perché mai il cielo ruotasse da oriente a occidente e non al contrario. Connessione non pretestuosa, chi pensi che a diverso (o inverso) moto del cielo, stante l'accertata e dichiarata pochezza della materia, avrebbe necessariamente corrisposto, nel pensiero dantesco, anche una diversa dislocazione della terra nell'altro quadrante dell'emisfero boreale, magari addirittura (come dicemmo) agli anteci.
Nonostante le apparenze (legate ad una interpretatio plausibile quanto facilior) Dante non si è dunque tenuto nel vago per eludere un problema; ha invece esposto il proprio pensiero, quale gli ronzava nella mente intorno all'anno 1320, formulando una rigorosa ipotesi scientifica. Che poi tale pensiero segni il superamento di tesi precedenti e insieme l'abbandono di fatto (nel trattato) d'una costruzione fantastica ad esse tesi collegata e a suo tempo offerta in clausola alla prima cantica, è fatto che quadra perfettamente con l'ormai notissima fisionomia culturale dell'Alighieri: poeta, filosofo, retore che non ha mai cessato, lungo l'arco della vita, di leggere, sperimentare, innovare. Se è vero che la Questio lascia dietro le spalle i catastrofici eventi immediatamente successivi alla Creazione, per offrire una descrizione sincronica ed eziologica d'una concreta realtà cosmico-fisica, è anche vero che l'indubbio accostamento in queste pagine alle teorie campano-egidiane, e il ripensamento dell'intricato, discusso problema al lume dei testi che di volta in volta è stato utile segnalare nella nostra postilla, sono stati sicuramente favoriti, anzi imposti, da quel non mai intermesso meditare: da un continuo, appassionato, pensoso progredire verso ulteriori e talora intentate verità.
Il secondo problema su cui fermare l'attenzione riguarda il titolo dell'opera, che esige alcune precisazioni. Dall'edizione del Giuliani in poi (1882) fu abbandonato il colophon e l'intitolazione manifestamente posticcia (inesatta quanto laudativa) della princeps[87]e si divulgò quello ormai tradizionale e compendioso (Questio de aqua et terra). Il sottotitolo apposto nel 1921 dal Pistelli,[88] e qui convenzionalmente mantenuto (cfr. la Nota al testo) è una ripresa da II, 4 («Questio igitur fuit de situ et figura sive forma duorum elementorum, aque videlicet et terre») contaminata (per ciò che è dell'inversione dei complementi e l'espunzione di Questio e di figura sive) con la conclusio di XXIII, 86, ovviamente quanto necessariamente brachilogica, non essendovi certo bisogno, in quel luogo finale, di ripetere al lettore la materia del trattato, addirittura specificandone i due elementi («Sic igitur determinatur determinatio et tractatus de forma et situ duorum elementorum, ut superius propositum fuit»). L'ultimo editore, il già più volte (e meritamente) citato Padoan, che nel 1965 (cfr. bibliografia) manteneva l'epigrafe tradizionale (La Questio de aqua et terra), nel 1966 adottava la formula De situ et figura aque et terre, nel 1968 finendo per apporre, quale frontespizio all'edizione, De situ et forma aque et terre; diversamente componendo e compendiando gli elementi del dettato dantesco e sopprimendo (oltre che l'insopprimibile sostantivo Questio, allusivo a preciso genere e per di più rincalzato nella conclusio dal non meno tecnico, e lì anzi rituale, richiamo alla determinatio magistrale: cfr. Par., XXIV, 47-8) una prima volta la specificazione sive forma duorum elementorum ... videlicet, una seconda figura sive ... duorum elementorum .. . videlicet: riservando un titolo più aderente a quanto emerge in modo certo dal contesto (si veda appunto II, 4) alla didascalia che, all'inizio del testo, precede, nell'edizione, l'inscriptio e lintitulatio.[89]
Non ci saremmo fermati su questi dettagli, che potrebbero sembrare di una analiticità sproporzionata all'oggetto, se non si trattasse di ricostruire (nel limite del possibile) la parola dantesca per coglierne meglio il genuino significato. Ognuno di quei tre termini di volta in volta omessi (Questio, forma, figura) rimanda infatti, sul piano storico culturale, a tradizionali, precisi elementi di pensiero che gioverà ricordare. Se l'omissione di Questio, in una «disputata», non richiede certo postilla, il recupero del sostantivo forma nell'edizione 1968 a danno di figura (per fermarci all'essenziale) presuppone la convinzione editoriale (espressa del resto da Padoan in sede di commento: cfr. ed. cit., p. 5, nota 8) che il termine figura implichi per Dante, come per Aristotele, rinvio alla categoria della «quantità» oltre che a quella della «qualità»; mentre la dantesca indagine verte soltanto su tale secondo aspetto, impegnata com'è a determinare il «quale» e non il «quanto» del reciproco rapporto tra i due elementi, più precisamente la reciproca situazione della rispettiva superficie naturale. In effetti tale è il vero ed unico oggetto del trattato: si rammenti, oltre il cap. II, 5, anche XVI, 35 (dove pur ipotizzando in assurdo diversità di volume tra i due emisferi terrestri, si respinge ogni quantificazione: «nec refert utrum parum vel multum diversificentur in distantia, dummodo diversificentur») e ancor meglio XIX, 50, dove si esclude dall'assunto, a proposito dei due elementi, proprio la categoria della quantità, con la medesima formula: «Nec refert, quantum ad propositum verum, aqua parum vel multum a terra distare videatur». A tale convinzione era del resto giunto nel 1907 Vincenzo Biagi, procurando una organica, documentata edizione dell'operetta[90] (poi, nel 1960, ripetuto dal Del Monte a p. 834 dell'edizione che citeremo in bibliografia); il Biagi considerava infatti sive forma «aggiunta dichiarativa dell'A., non già inutile come crede il Boffito (II, 21), anzi opportuna alla trattazione, poiché "forma dicit id quod est qualitatis et non quantitatis"», con rinvio ad una chiosa di Alberto Magno[91]lì ridotta all'osso e che qui occorre riprendere allargandola oltre la semplice conclusione: «Figura dicitur dupliciter, secundum id quod est quantitas terminata, et sic dicitur id quod est in genere quantitatis; est etiam figura secundum id quod est in figura terminatio quantitatis, et hoc modo non dicit nisi id quod est in genere qualitatis. Forma autem, quamvis sit idem subiecto, differt tamen ratione, nec dicitur forma nisi secundum quod causata est a forma substantiali actu continenti intrinseca. Et ideo forma dicit id quod est qualitatis et non quantitatis».
La «forma» esprime dunque sempre la categoria della qualità; ma tale categoria è anche espressa dalla «figura», «secundum id quod est in figura terminatio quantitatis», in rapporto cioè all'aspetto e alle proprietà estrinseche dell'oggetto (in geometria piana diremmo il suo perimetro), non alla sua «forma sostanziale»: distinzione ancor meglio comprensibile attraverso un altro passo del commento di Alberto a quel luogo dei Praedicamenta, che suona così: «Quartum vero genus qualitatis est forma et circa aliquid constans figura ... Differunt autem haec: quia motus terminationis linearum in superficie vel corpore referri potest ad intra, ad formam scilicet substantialem, ... et sic dicitur forma. Potest etiam referri ad extra, ad quantitatem scilicet sic vel sic terminatam in tales ve! tales angulos, et sic dicitur figura. Unde patet quod unum et idem secundum ad quod qualitas est figura et forma, sed secundum esse differt; quia relatum ad intra quod continet et terminata est forma, relatum autem ad extra dicitur figura».[92] Muovendo da queste premesse non appare del tutto infondata neppure la vecchia, approssimativa, confusa postilla del Giuliani (ed. cit., p. 384): «Figura prende qui il valore stesso di Forma o Qualità, che vuolsi intendere per il modo della quantità, il quale risulta dalla terminazione della grandezza della quantità stessa. Così nei suoi Predicamenti la definisce Aristotele». Citeremo a suo luogo (cfr. II, 2) il passo dei Praedicamenta (commentato come s'è visto da Alberto Magno) a cui allude il Giuliani; qui, per ciò che è del titolo, osserviamo che, in base ai testi riportati, per espungerne figura occorrerebbe una irriducibile opposizione, o incompatibilità concettuale, tra figura e forma, tale da farci considerare la presenza del termine a II, 4 una interpolazione del Moncetti o d 'altri, magari glossematica e alternativa di fronte a grafemi compendiosi (fa?).
Il che ci sembra davvero impossibile, non tanto sul piano strettamente diplomatico, quanto perché, come s'è visto, si tratta di due precisi termini tecnici. A parte la già veduta chiosa d'Alberto Magno ai Praedicamenta, in Aristotele e nei testi medievali che si muovono in quell'ambito i termini sono solidali e compresenti, e addirittura intercambiabili, sino a poter comparire come una dittologia sinonimica, che taluno respinge in nome d'una ben salda tradizione. Si veda in proposito quanto osserva san Tommaso, Summa totius logicae Aristotelis, ed. Venezia 1602, coll. 429-30:[93]
«Forma que est in quarta specie qualitatis non potest dici figura quia ibi non est quantitas continua. Licet aliqui dicant quod omnis figura etiam forma dici possit et quod sint sicut synonima».
È da escludere che Dante considerasse sinonimi i due termini, chi badi all'intenzionale sottolineatura (sempre a II, 4) dell'accezione data a "forma" («et voco hic "formam" illam quam Phylosophus ponit in quarta specie qualitatis in Predicamentis»): precisazione dovuta, secondo il Boffito,[94] all'entusiasmo di «un giovane ... fresco di studi filosofici», dunque non dantesca. Tale messa a punto dice invece che Dante, proprio mentre unisce, vuole esattamente distinguere: certo in rapporto all'uso meno rigido della predetta terminologia da parte di altrui. Ciò viene confermato dall'esame, in alcuni luoghi strategici, del vocabolario usato dalla trattatistica cosmologica: nei testi, insomma, tenuti presenti dall'Alighieri nel fissare la problematica e nel pensare le soluzioni poi consegnate al trattato. Si veda ad esempio Michele Scoto, nel commento alla Sfera del Sacrobosco (ed. Thorndike cit., pp. 257):
«Queritur primo quam formam sive figuram debeat habere mundusn» pp. 285-6: «... in hac parte intendit determinare de forma mundi …, primo premittit preambulum ad suum propositum ... ; secundo determinat de forma celi sive figura ipsius ... Pars illa in qua determinat de figura sive de forma mundi dividitur in duas»; p. 292: «Hic determinat de forma elementaris regionis, scilicet de forma terre et aque, et dividitur in duas: in prima determinat de forma terre; in secunda de forma aque ... Et nota quod forma sive figura terre demonstratur per propriam eius umbram que apparet per lunam in eclipsi lune». Cecco d'Ascoli, sempre nel commento alla Sfera (ed. cit., p. 366) parla invece semplicemente di "figura": «Postquam auctor in superiori parte docuit figuram superiorum, in ista parte ostendit duo inferiora, scilicet terram et aquam, esse spherice figure. Dividitur ista pars in duas, nam in prima ostendit figuram terre et in secundam figuram aque ...». E compare naturalmente anche l'altro termine (situs), per il quale basterà citare un solo esempio: «Postquam auctor in superiori parte ostendit figuram terre et aque, in ista parte determinat de situ ipsius terre»; e gli esempi, da vari autori, potrebbero moltiplicarsi (un capitolo della Spera di Maestro Campano è intitolato «De naturali forma et situ et ordine elementorum», mentre un commento anonimo alla Sfera del Sacrobosco- riprodotto dal Thorndike, ed. cit., pp. 419-20 - presenta la serialità dei tre termini quali, con diversa sintassi, compaiono in Dante: «Hic determinat de secundo extremo universi, scilicet terra, et primo de figura terre, secundo de situ eius ... Primo adhuc de forma terre, secundo de forma aque ... Item primo de figura ipsius terre in longitudinem, secundo in latitudinem»).
Tanto basta per giudicare pienamente solidali e non semplifica bili (a livello di titolo) i termini messi dall'Alighieri in esponente a II, 4 («de situ et figura sive forma duorum elementorum, aque videlicet et terre»): che probabilmente, preceduti dall'ineliminabile Questio, dovranno salire agli onori del frontespizio dell'Edizione Nazionale. Quanto poi all'esatta individuazione e delimitazione del campo semantico-tecnico di quei termini, rimandiamo alla chiosa apposta a II, 2; paghi in questa sede di avere individuato e sottolineato, sul piano euristico, la loro globale necessità.
Postremo avvertimento per il pazientissimo lettore: dedico questa fatica alla cara memoria di Raffaele Mattioli, pensando a illuminanti incontri fiorentini di anni lontani: con il dolore che quella grata consuetudine abbia ormai un filo d'Arianna soltanto nel ricordare.
Firenze, dicembre 1978
NOTE
[1] La storia della querelle (sino al 1957) fu da me tracciata (muovendo dalla precedente bibliografia, doverosamente richiamata) nell'articolo La «Questio de aqua et terra '', comparso negli «Studi danteschi», XXXIV (1957), pp. 163-204, e poi ripubblicato nei miei Contributi di filologia dantesca[.] Prima serie, Firenze, Sansoni, 1966, pp. 36-79. Tale articolo stimolò le ulteriori riflessioni e ricerche di B. NARDI, La caduta di Lucifero e l'autenticità della «Quaestio de aqua et terra», Torino, Società Editrice Internazionale, 1959, pp. 67 («Lectura Dantis Romana»), cui replicai con Il punto sulla«Questio d e aqua et terra», in «Studi danteschi», XXXIX (1962), pp. 39-84 (poi in Contributi di filologia dantesca, cit., pp. 80-125). Un consuntivo delle varie posizioni fu steso nell'anno centenario da G. PADOAN, La «Questio de aqua et terra», in «Cultura e scuola», IV, 13-14 (gennaio-giugno 1965), pp. 758-67; il quale tornò poi sull'argomento, con osservazioni personali, nell'articolo Cause, struttura e significato del «De situ et figura aque et terre», relazione congressuale pubblicata in «Dante e la cultura veneta[.] Atti del Convegno di Studi organizzato dalla Fondazione "Giorgio Cini" ... Venezia, Padova, Verona, 30 marzo - 5 aprile 1966», Firenze, Olschki, 1966, pp. 347-66; testo confluito (con alcuni ampliamenti e ritocchi) nell'Introduzione alla successiva edizione di D. ALIGHIERI, De situ et forma aque et terre, a cura di G. Padoan, Firenze, Le Monnier, 1968. Un ulteriore esame del dibattito, con sintetica presentazione dei vari problemi, nella attenta voce dedicata alla Questio (da cercare sotto Quaestio) da M. PASTORE STOCCHI nella Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, IV, 1973, pp. 761-5. Recente sguardo d'insieme (senza sostanziali novità) l'introduzione (dal titolo La «Questio»e la sua problematica) premessa dal P. S. RAGAZZINI O.F.M.C. a D. ALIGHIERI, Questio de aqua et terra, a cura di S. Ragazzini e L. Pescasio, Mantova, Editoriale Padus, 1978 (ristampa fotostatica dell'edizione veneziana del 1508; la predetta introduzione alle pp. 17-53).
[2] Cfr. quanto affermato nel cap. XX, 60: «... tractatus presens non est extra materiam naturalem, quia inter ens mobile, scilicet aquam et terram».
[3] E precisamente (cfr. cap. II, 5) «utrum aqua in spera sua, hoc est in sua naturali circumferentia, in aliqua parte esset altior terra que emergit ab aquis et quam comuniter quartam habitabilem appellamus».
[4] Cfr. A. Luzio-R. Renier, Il probabile falsificatore della «Quaestio de aqua et terra», in «Giorn. stor. d. lett. it.», xx (1892), pp. 125-50; La coltura e le relazioni letterarie di Isabella d'Este Gonzaga, ibid., XXIX (1902), pp. 208-17; F. MAZZONI, Contributi, cit., pp. 44-7; G. PADOAN, Moncetti, Giovanni Benedetto, in Enciclopedia dantesca, cit., III, 1971, pp. 1004-5 (con utile bibliografia).
[5] Penso naturalmente alle magistrali pagine di E. MOORE, The Genuineness of the «Quaestio de Aqua et Terra», negli Studies in Dante [.] Second Series, Oxford, At the Clarendon Press, 1899, pp. 303-74 (traduzione italiana : L'autenticità della «Quaestio de aqua et terra», Bologna, Zanichelli, 1899 [«Biblioteca storico-critica della letteratura dantesca diretta da G. L. Passerini e da P. Papa», XII]); ID., The Geography of Dante, negli Studies in Dante [.] Third Series, Oxford, At the Clarendon Press,1903, pp. 109-43 (riassunto in italiano di G. BOFFITO e E. SANESI, La Geografia di Dante secondo E. Moore, traduzione e riassunto . . . riveduto dall'autore, in «Riv. geogr. it.», XII, fasc. II-IV, 1905, pp. 22 dell'estratto) e alle osservazioni dirimenti di E. G. PARODI , La «Quaestio de aqua et terra»e il «Cursus», in «Bull. d. Soc. dant. it.», n. s., XXIV (1917), pp. 168-9 e di P. TOYNBEE, Dante and the «Cursus» : A New Argument in Favour of the Authenticity of the «Quaestio de Aqua et Terra», in «The Mod. Lang. Review», XIII, fasc. 4 (ottobre 1918), pp. 420-30, che obbligavano necessariamente, quanto alla presunta cronologia della falsificazione, a restringere in modo drastico il campo (del «Cursus» si perdono le tracce, come artificio prosastico, già col primo Umanesimo).
[6] Cfr. i miei Contributi, cit., pp. 68-73.
[7] Alludo al "modus operandi" e alla posizione assunta, nell'articolo sopra citato, da Bruno Nardi; per cui vedi, nei miei Contributi, particolarmente le pp. 89-91 e nota 2. Al brano di Pietro è poi toccata di recente un'altra curiosa disavventura: d'essere cioè ripubblicato (dopo quella mia lontana, iterata trascrizione) in una edizione del Commentarium nelle sue tre redazioni, Riccardiana, Ashburnhamiana e Vaticana (per ora limitata alla prima cantica), con errori di lettura e di interpretazione sintattica che lasciano stupefatti e malinconici. Ma di ciò altrove.
[8] Si riveda la nota 2 a p. 693; e poi quanto avremo modo di osservare più diffusamente alle pp. 709 sgg., 728 sgg. di questa Introduzione.
[9] Si veda il materiale raccolto da G. BOFFITO, Intorno alla «Quaestio de aqua et terra»attribuita a Dante. Memoria 1[.] La controversia dell'acqua e della terra prima e dopo di Dante, in «Memorie della R. Ace. delle Scienze di Torino», s. II, tom. LI (1901), pp. 73-159 (che citeremo come Boffito 1); e quanto osserviamo nei Contributi, cit., pp. 81-8, nonché (più approfonditamente) in questa stessa Introduzione, pp. 701-10.
[10] Cfr. BARTHOLOMAEI ANGLICI De genuinis rerum coelestium, terrestrium et inferarum proprietatibus, Libri XVIII, Francoforte, W. Richter, 1601, VIII, cap. I (Quid sit mundus), pp. 367-72; cap. XXIX (De luna), pp. 410-4; XIII, cap. XXI (De mari), pp. 569-75; XIV, cap. i (De terra), pp. 588-94, ecc.
[11] G. PADOAN, ed. cit., Introduzione, p. XXIII, esprime questo giudizio sul trattato: «Di irrilevante importanza filosofico-scientifica, di nessun valore artistico, tuttavia, a saperlo leggere, esso si rivela documento appassionato ed appassionante dell'animo, più ancora che della cultura, di Dante, proprio per quel desiderio vivissimo - che muoveva da precise ragioni - di ostentare dinanzi a tutti salda conoscenza della dottrina aristotelica e dei princìpi della fisica". La migliore replica, sul piano strettamente storico-culturale, a questo giudizio limitativo (che ricerca l'origine del De situ nelle polemiche contro l'autore dell'Inferno e del Purgatorio) è costituita ancor oggi dai tre fitti, documentatissimi capitoli votati alla problematica ripresa da Dante nella Questio da P. DUHEM, Le système du monde [.] Histoire des doctrines cosmologiques de Platon à Copernic, Paris, Hermann, 1958 (ristampa), vol. IX, cap. XV (La théorie des marées), pp. 7-78; cap. XVI (L'équilibre de la terre et des mers. I. Les anciennes théories), pp. 79-170 (della Questio dantesca si discorre alle pp. 155-63); cap. XVII (L'équifibre de la terre et des mers. II. La théorie parisienne), pp. 171-235. E sono pagine in 8° grande.
[12] Sul «genere», e sulla sua evoluzione, si veda: P. GLORIEUX, La littérature quodlibétique de 1260 à 1320, Paris, Vrin, 1924; ID., La littérature quodlibétique, Paris, Vrin, 1935; ID., Où en est la question du Quodlibet?, in «Revue du moyen age latin, 1946, pp. 405-14; M.-D. CHENU, Introduction à l'étude de Saint Thomas d'Aquin, Paris, Vrin, 1950, pp. 71-8, 83; L. MEYER, Les disputes quodlibétiques en dehors des universités, in «Revue d'histoire ecclésiastique», 1958, pp. 401-42; E. BERTOLA, La «quaestio» nella storia del pensiero medievale, in «Divinitas,, 1962, pp. 230-48; ID., La «Quaestio»... Secoli XI e XII, in «Aquinas», 1964, pp. 51-75; A. TOGNOLO, Quaestiones quodlibetales, in Enciclopedia filosofica, Firenze, Sansoni, 1967,vol. v, pp. 449- 50 (con bibliografia); S. VANNI RovrGHI, Le «disputazioni de li filosofanti", qui cit. a p. 775.
[13] Cfr. ONUPHRII PANVINII Antiquitates veronenses, Verona 1668, p. 204, ove del vescovo Tebaldo si dice che «audiebat quotidie disceptantes»; V. BIAGI, La Quaestio de aqua et terra di Dante. Bibliografia - Dissertazione critica sull'autenticità - Testo e commento- Lessigrafia- Facsimili, Modena, Vincenzi, 1907, pp. 49, 62; G. PADOAN, Introduzione cit., p. XX; S. RAGAZZINI, Introduzione cit., p. 35.
[14] Cfr. il lucido referto di S. CARAMELLA, s. v. Metodo, II, 2, in Enciclopedia filosofica, cit., vol. IV, pp. 598-9 : «Le quaestiones nascono in margine alla lectio , che costituisce la vera lezione del maestro, il quale leggeva e commentava, passo passo, un testo antico (metodo di autorità) ... Separandosi poi dalla lectio, la quaestio viene a costituirsi come un genere autonomo nella forma di quaestio disputata. Proposto un argomento, dopo ampie discussioni e obiezioni che venivano fatte in pubblico, veniva estesa la determinazione magistrale, cioè la soluzione del problema fatta dal maestro; tale determinazione costituisce il testo delle questioni disputate che ci è stato tramandato».
[15] Il che avvenne puntualmente anche a Dante, come si desume con certezza dalla testimonianza indiretta di Pietro Alighieri, da noi riportata per esteso in Contributi, cit., p. 90; che parla innanzi tutto di Disputatio («Dantes auctor iste, disputando semel scilicet an terra esset alcior aqua vel econtra "), usa sempre verba dicendi in parte tecnici («sic arguebat ... ita dicendo ... Tamen dicebat») e, soprattutto (quanto al «colloquiale») riferisce come argomento dantesco non il richiamo al teorema relativo ad una sf era intersecata perpendicola rmente da un pia no (benissimo esposto dal poeta a XIX, 52-53), ma l'esperienza, certo non meno dantesca ( Conv., II, iii, 13 : «come può sensibilmente vedere chi volge un pomo, o altra cosa ritonda»), comunque, rispetto al teorema, depotenziata in modo empiricamente didascalico, della mela sospesa in un bacile: «sicut patet in pomo rotundo educto cum aliquo filo de aqua».
[16] Cfr. Ep. XIII , 80-81 : «Et ubi ista invidis non sufficiant, legant Richardum . . . legant Bernardum ... legant Augustinum ... et non invidebunt. Si vero in dispositionem eleva tionis tante propter peccatum loquentis oblatrarent, legant Danielem ...» ecc. Non è questo il luogo per approfondire o ipotizzare gli esatti termini (i contenuti) di quella invidiosa polemica condotta in ambiente veronese (certamente ecclesiastico) nei confronti di Dante, cui Dante replica con termini risentiti e non dissimili da alcune punte della stessa Questio; Padoan (Introduzione cit., pp. XXII-XXIII) ritiene che l'Epistola rispecchi, in quel punto, le «critiche che potevano investire, come in realtà investivano, su un altro piano e per altre e più gravi ragioni, la concezione stessa del poema sacro. "Ma chi è dunque costui che osa impancarsi a scriba Dei?": questo il senso delle critiche che più dovettero inasprire il cuore del poeta in quel tramonto di sua vita, e di cui troviamo ampie attestazioni, dirette ed indirette, nei primi commentatori della Comedia».Per ciò che è dell'Epistola, potremo anche accogliere, sia pure in senso lato, tale ipotesi; ma si dovrà scendere ai particolari, e dire che lo sforzo di Dante, in quei paragrafi dell'Epistola, non mira tanto a difendere contro gli scettici e i superciliosi, sic et simpliciter, una funzione di «scriba Dei» ch'egli non si vuole davvero attribuire (almeno nel senso invalso nella critica da qualche anno a questa parte); né ancor meno la sua opera di poeta (autore per allora delle prime due cantiche), che non doveva suscitare poi troppa meraviglia in chi non poteva ignorare la catabasi di Enea nella chiosa di Fulgenzio o di Bernardo Silvestre o, molto più frugalmente (ma non meno significativamente) testi quali il De Jerusalem celesti e il De Babilonia infernali di Giacomino da Verona, o la letteratura allegorico-visionistica sui novissimi (Raoul de Houdenc) del 200 francese (preceduta dall'Anticlaudianus di Alano da Lilla); quanto reagire vigorosamente e splendidamente contro una invidiosa contestazione di chi negava a priori all'uomo Dante in sta tu viae, dunque hic et nunc, la possibilità d'una personale ascesi che da uno stato di peccato portasse alla conoscenza sperimentale del divino fondata sulla inhabitatio di Dio nella creatura e sulla riconquista di una similitudo ch'è essa stessa principio dell'umano deificarsi, cioè di quel transumanare che, nonostante tutto, l'Alighieri viene significando precisamente e poeticamente per verba; mettendo nello stesso tempo in chiaro, una volta per tutte, che quella polemica fondava grossièrement le proprie obiezioni su un madornale, paradossale equivoco, volutamente obliando la tradizionale polisemia delle scritture e quindi non recependo la fondamentale diversità tra senso letterale e senso allegorico per fermarsi al primo senso e considerare quindi la Comedia frutto d'una personale, effettivamente avvenuta rivelazione (quindi contestabile quanto contestata). In quella sua Profusione al Paradiso Dante vuole insomma sottolineare, per questo punto, come il viaggio del personaggio-poeta che dice «io», dalla "regio dissimilitudinis", della Selva oscura alla «deificatio» del contemplante la Mistica rosa dei beati, altro non è, sul piano allegorico (cioè a dire per ciò che è della «sentenza· allegorica e vera») che la narrazione del progressivo deificarsi di un'anima: esperienza condotta attraverso una ascesi, un itinerarium ad Deum, che tutto si svolge non per le vie della terra o dei cieli ma in interiore homine, e che sempre in interiore homine può, anzi deve essere ripercorso da tutti i viventi (si ricordi Ep. XIII, 39, 5 I; e, a capire conclusivamente, si rilegga Mon., III, XV [xvi], 7-12). Non si dimentichi, inoltre, che Ep. XIII, 77-81 è commento letterale, e soltanto letterale, di Par., I, 4-9.
[17] Mantengo, contro vecchi e recenti tentativi di far scendere d'un paio d'anni la composizione di quel testo, la mia datazione dell'Epistola a Cangrande al 1316; rincalzata dalle lucide osservazioni più volte esposte da G. Petrocchi (vedi da ultimo G. PETROCCHI, L'Inferno di Dante, Milano, Rizzoli, 1978, p. 20). E col Petrocchi ritengo che Dante si sia recato a Ravenna nel 1318, e che la Questio ben si inserisca nel peregrinare di un plenipotenziario che, per dovere d'ufficio, si muovesse, tra il Mencio e il paese ch'Adice e Po riga, nel triangolo Ravenna-Mantova Verona.
[18] Basti il rimando a Conv., IV, ii, 15-16 (qui richiamato nella nota a 1,9-10) e alla quaestio de nobilitate dibattuta in quel libro, IV, ix-xi.
[19] Luogo classico, De coelo et mundo, II, capp. 13-14 (293a-298a).
[20] Cfr. Conv., III, V, 5-7.
[21] Per una meno dettagliata schematizzazione del problema, qui trascesa nell'allargarsi della documentazione e della storicizzazione, si vedano i miei Contributi, cit., pp. 8z sgg. Anche in questa sede non estendo volutamente, altro che per cenni, l'indagine a testi (poniamo della cultura classica e poi araba) che non abbiano influito direttamente sull'orizzonte culturale entro cui Dante ha operato. Ampio sguardo d'insieme, utile comunque pur nel suo disordine, quello di G. BOFFITO, Intorno alla «Quaestio de aqua et terra» ecc., qui cit. alla nota 1 di p. 696.
[22] Ci riferiamo, di qui innanzi, per la Spera del Sacrobosco e per i suoi vari commentatori, all'opera fondamentale di L. THORNDIKE, The Sphere of Sacrobosco and Its Commentators, Chicago, The University of Chicago Press, 1949, da cui di volta in volta citeremo. Cfr., di quel volume, le pp. 78 e 83.
[23] Li livres dou Tresor de Brunetto Latini [.] Édition critique par F.J.CARMODY, Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 1948, pp. 89-90.
[24] Cfr. R. D'AREZZO, La composizione del mondo colle sue cascioni [.] Edizione critica a cura di A. Morino, Firenze, Accademia della Crusca, 1976, pp.113-21. Non dissimile per questo punto la posizione di Pietro d'Abano (per cui vedi i Contributi, cit., pp. 87-8), il quale però, accanto all'azione delle stelle «compescentium mare oceanum ne superinundet terram» propone anche l'ipotesi di una elevatio terrestre e quella del prosciugamento ad opera dei raggi solari.
[25] Cfr. GUILLELMI ALVERNI De Universo. Prima pars principalis, pars I, in Opera, ed. Parigi 1516, vol. II, fol. CXIV, col. d (cit. P. DUHEM, op. cit., vol. IX, pp. 109-10).
[26] Nelle Questiones in Physicam Aristotelis, lib. IV (per cui vedi P. DUHEM, op. cit., vol. IX, pp. 110-3), ove si sostiene che, secondo la natura particolare, la sfera dell'aria dovrebbe inglobare totalmente la superficie della sfera del- l'acqua, mentre ad opera della Natura universale, in vista della generazione degli animali e delle piante, essa sfera dell'aria non è il luogo dell'acqua presa nella sua totalità, essendovi soluzione di continuità che consente l'emersione della terra.
[27] Cfr. MICHELE SCOTO, In Speram, lect. VI (ed. Thorndike cit., p. 296): «Unde queritur quare aqua non ex omni parte continet terram sicut aqua ex omni parte continetur ab aere et aer ab igne ... ltem queritur utrum in aliquo loco mare sit altius terra. Ad hoc dicendum quod tota terra secundum formam debitam elementorum debet contineri ab aqua sicut est in aliis; sed quoniam non esset mundus perfectus, quia non essent animalia sanguinem habentia et plante que salvari non possunt in aqua, ideo discooperta est quedam pars terre ab aqua, ut nobiliora animalia salventur ad perfectionem universi». Superfluo notare la piena coincidenza della questio di Michele con il dettato dantesco a II, 5: «utrum aqua in spera sua ... in aliqua parte esset altior terra». Il passo (senza rilevarne l'importanza) era già stato citato da V. Russo, Per l'autenticità della «Quaestio de aqua et terra», Catania, Giannotta, 1901, p. 8; da G. BOFFITO, Intorno alla «Quaestio de aqua et terra» attribuita a Dante, cit., p. 121; da V. BIAGI, ed. cit., p. 40; indi da B. NARDI, La caduta di Lucifero, cit., pp. 39-40; e poi da me ripreso in Contributi, cit., p. 83.
[28] Nelle inedite Questiones de spera edite a Magistro Bernardo de Trilia (commento alla Sfera del Sacrobosco), studiate da P. DUHEM, op. cit., vol. IX, pp. 135-9.
[29] ALBERTI MAGNI Libri Metheororum, lib. II, tr. III, cap. I (cit. P. DUHEM, op. cit., vol. cit., pp. 121-2).
[30] Cfr. ROBERTI ANGLICI In Speram, ed. Thorndike cit., p. 150: «[della siccitas terre] triplex potest esse ratio. Una voluntas divina propter vitam animalium salvandam. Alia siccitas terre imbibens partes aque, ut habetur in De generatione et corruptione, Nisi terra esset permixta cum aqua, decideret in pulverem. Tertia est infiuentia stellarum, ut coniunctio aliqua super aliquam partem terre efficit ipsam siccam, cuius signum est quoniam loca que solebant esse piena aquis modo sunt desiccata». E cfr. il passo di Pietro d'Abano qui cit. alla nota 3 a p. 703 e riportato nei miei Contributi, cit., pp. 87-8, nota 1.
[31] Si veda quanto osservano in proposito P. DUHEM, op. cit., vol. IX, pp. 129-32; B. NARDI, op. cit., pp. 40-1; nonché i miei Contributi, pp. 83,87-8.
[32] La posizione di Egidio Romano in merito al problema è stata esposta in modo esauriente dal DUHEM , op. cit., vol. IX, pp. 142-5; e ancor prima da G. BOFFITO, Intorno alla «Quaestio de aqua et terra» attribuita a Dante , cit., pp. 152-5 (con riproduzione di testi). I luoghi fondamentali vennero poi riferiti anche da B. NARDI, op. cit., pp. 45-50. E cfr. anche i miei Contributi, cit., pp. 50-1, 87-8.
[33] Cfr. B. NARDI, op. cit., pp. 51-60; e i miei Contributi, cit., pp. 84-6.
[34] Cfr. B. NARDI, op. cit., p. 58; e i miei Contributi, cit., p. 85. In particolare, il Pelacani osservava: «Ideo natura simul construxit speram tere et aque, ex eis unam constituens speram, ita quod in tera ordinavit vacuitates in quibus aqua continebatur; unde et mare oceanum partes habet tere eum circundantes, in quibus continetur; tamen hornines ad illas pervenire non possunt, propterea quod exeuntes per ipsum amitunt polum qui est citra lineam equinocialem, unde nesciunt amplius quo vadant. Ita quod credo quod ultra mare oceanum sit locus habitabilis» (trascrizione Nardi, op. cit., loc. cit.).
[35] Cfr. ROBERTI ANGLICI In Speram, lect. xm (ed. Thorndike cit., pp. 188-93): «Sed nunc gratia predictorum in hac parte possunt hic duo queri.Primum est utrum locus sub equinoctiali possit esse habitabilis. Secunda est utrum il/a pars terre que est sub nobis sit habitabilis vel non», per poi (quanto al secondo punto) concludere, in clausola alla lectio (ed. cit., p. 193) come riportato a testo.
[36] Cfr. per tutti G. BoFFITO, La leggenda degli Antipodi, in Miscellanea … A. Graf, Torino 1904, pp. 583-601; L'eresia degli Antipodi, Firenze 1905 («Pubblicazioni dell'Osservatorio del Collegio alla Querce», serie in -4°, N. 5), pp. 14. Anche Michele Scoto (commento alla Sfera cit., ed. Thorndike, pp. 321-2) escludeva che tra il tropico del Capricorno e l'Antartico vi fosse terra temperata e abitabile: «Dicendum quod secundum veritatem non est habitabilis ab hominibus mortalibus, et concedende sunt rationes que hoc probant, quia esset contra fidem, si ibi essent homines mortales»
[37] Si veda il brano da noi riportato nel commento a VII, 3-4.
[38] Rimandiamo di necessità alle numerose indicazioni fornite nel commento a VII, I -2.
[39] Rinvio, conclusivamente, ai miei Contributi, cit., pp. 87-8 e nota 1; e alle indicazioni qui fornite alle note 1 e 2 di p. 705.
[40] Per Ruggero Bacone, si veda quanto indicato alla nota 1 di p. 704; quanto a Pietro d'Abano, si veda innanzi tutto P. DUHEM, op.cit., vol. IX, pp. 152-3, nonché i miei Contributi, cit., pp. 87-8, nota Ie qui il commento a XVIII, 36-37.
[41] Già il BOFFITO, Intorno alla «Quaestio de aqua et terra»attribuita a Dante, cit., p. 96, riportava un passo del commento di Averroè alle Meteore di Aristotele (Meteor., II, cap. 2) ove il commentatore, postosi il problema (per citare Boffito) «perché la terra era venuta a scoprirsi dalla nostra parte, nella nostra quarta settentrionale, anziché altrove?», accennava alla virtù calorifica delle molte stelle fisse del nostro emisfero combinata all'azione del sole : «... videtur secundum hoc ut non sit habitata ex quatuor quartis terrae nisi haec pars ut sit locus generabilium et corruptibilium, de quorum natura est ut sit super terram iste locus. Et secundum hoc non est causa in esse siccitatis in hac parte Sol tantum, sed cum ilio cum adiungitur ei ex caliditate multitudinis stellarum fixarum in hac parte. Nam maior pars stellarum, ut videtur, est in hac parte quam videmus; et erit in parte meridionali secundum plurimum aqua super ipsam, et similiter quod est sub solstitiis circuitibus, quamvis caliditas sit ibidem fortior. Sed est exsiccatio Solis in parte septentrionali operatio propria Solis cum contemperatur per caliditatem harum stellarum, non secundum quod Sol tantum, scilicet quia fortificatur siccitas eius sicut est dispositio in calore cordis ...». Tale scheda, che tempera indubbiamente altre ipotesi averroistiche care a Nardi, era stata da me riprodotta, abbreviatamente, in Contributi, cit., p. 65; e poi forse un po' frettolosamente minimizzata dallo stesso B. NARDI, La caduta di Lucifero, cit., pp. 35-6, nota 7. E si veda il nostro commento a XXI, 26-28.
[42] Cfr. JOHANNIS DE SACROBOSCO Tractatus de Spera, cap. I (ed. Thorndike cit., pp. 78-9): «Sunt autem elementa corpora simplicia, que in partes diversarum formarum minime dividi possunt, ex quorum commixtione diverse generatorum species fiunt, trium quorum quodlibet terram orbiculariter undique circumdat, nisi quantum siccitas terre humori aque obsistit ad vitam animantium tuendam " ; quanto ad Alberto Magno, si vedano i passi qui riferiti nel commento a XXI, 26-28.
[43] Cfr., per i due autori, le indicazioni date nel commento al luogo appena citato.
[44] Si veda quanto, sulla scia della valutazione complessiva di Padoan da noi riportata nella precedente nota 2 di p. 697, ripete oggi, addirittura verbatim, S. RAGAZZINI, Introduzione cit., p. 29: «[il trattato] ... Di irrilevante importanza filosofico-scientifica, di nessun valore artistico, tuttavia si rivela documento appassionato ed appassionante dell'animo più che della cultura di Dante, proprio per quel desiderio vivissimo di ostentare davanti a tutti salda conoscenza della dottrina aristotelica e dei princìpi della fisica». Nessuno pretende che la Questio sia o equivalga la Comedia; ma a leggerla in filigrana, cioè con adeguato recupero, attraverso il commento, dello sfondo culturale e delle indubbie letture documentate volta in volta dalla pagina dantesca, si allinea perfettamente con altri e più ponderosi capitoli di Dante filosofo, e mostra una capacità di sintesi e una lucida razionalità che rade volte appare in testi paralleli. Dante ha messo nei capitoli della Questio, anche una volta, tutta la sua cultura; che poi questa fosse una delle tipiche connotazioni del suo "animo ", sempre pronto a cercare il fondo delle cose in vista d'una interpretazione sperimentale della realtà, è altro discorso: che nulla toglie al valore oggettivo della Questio entro la storia d'un problema a lungo dibattuto nella tradizione universitaria romanza, particolarmente d'oltralpe.
[45] I passi sono nella mente di tutti (anche di coloro che, nella migliore delle ipotesi, attribuiscono il trattato al Dante "umoroso" anziché all'uomo di scienza e al filosofo); varrà comunque la pena di ricordare, per la teoria dei vapori conversi in pioggia, Rime, C, 14-22; CII, 28-30; Conv., IV, xviii, 4; Purg., v, 109-1 I, 118-20; XXVIII, 97-9; la quale pioggia poi alimenta i fiumi (Purg., V, 115-23; XIV, 34-6; XXVIII, 121-3; Questio, XXIII, 83); che a loro volta scendono verso il mare (Rime, CI, 31; Purg., XIV, 31-6; Par., I, 137-8; X, 89-90; Questio, VIII, 16. E vogliamo dimenticare le lezioni e questioni di Purg., XXV, 19-108 o di Par., II, 52-148 (per restare a contesti scientifici e non, diciamo così, filosofico-teologici)?
[46] Cfr. Par., XXXIII, 133-5.
[47] Cfr. E. MOORE, L'autenticità della «Quaestio de aqua et terra», cit., pp. 25-6, 46 e Studies in Dante, cit., II, pp. 342-4; V. Russo, Per l'autenticità della «Quaestio de aqua et terra», Catania, Giannetta, 1901, pp. 18-9; E. G. PARODI, in pagine sulla «lectura» di P. Papa del canto XXXIV dell'Inferno, nel «Bull. d. Soc. dant. it.», n. s., XXV (1918), p. 19 (e vedi i miei Contributi, cit., pp. 60-1, 93).
[48] Come credo di aver dimostrato (ricorrendo fra l'altro a Mon., III, iv,13-15 e a B. LATINI, Tresor, I. 6. 3-4; 12.2) contro le osservazioni di B. NARDI, La caduta di Lucifero, cit., p. 27, nei miei Contributi, cit.,pp. 124-5, nota 1.
[49] V. Russo, op. cit., loc. cit.
[50] E. G. PARODI, op. cit., loc. cit.
[51] Cfr. J. FRECCERO, Satan's Fall and the «Quaestio de Aqua et Terra», in «Italica», XXXVIII, N° 2 (June 1961), pp. 99-115 (in particolare, per questo punto, vedi p. 110, nonché i miei Contributi, cit., p. 89, nota 2, 93, nota 1).
[52] Cito dai miei Contributi, cit., p. 90.
[53] Cfr. Contributi, cit., pp. 60-1.
[54] B. NARDI, op. cit., particolarmente alle pp. 28-33, 60-7.
[55] Qui citato alla nota 1 di p. 693, e ripubblicato in Contributi, cit., pp. 80-I25; si vedano, per la tipologia di una eventuale «retractatio» dantesca, le pp. 114-22.
[56] Cfr. B. Nardi, La caduta di Lucifero, cit., pp. 8-13.
[57] Si ricordi il passo del commento alle aristoteliche Meteore, II, cap. 2, da noi riportato alla nota 2 di p. 710 e ricordato, oltre che dal Boffito, anche da G. PADOAN, Introduzione cit., p. XXX, nota 4.
[58] Avverto che, salvo diversa indicazione, le citazioni saranno dall'Introduzione all'edizione del De situ (registrata alla nota 1 di p. 693), pp. XXIII-XXXI; che del resto ripetono le pp. 360 sgg. dell'articolo Cause, struttura e significato del «De situ et figura aque et terre» già menzionato.
[59] Introduzione cit., p. XXXI.
[60] Op. cit., pp. XXV-XXVII. La citazione virgolettata, a p. XXVII.
[61] Op. cit., pp. XXVII-XXVIII.
[62] Op. cit., pp. XXIX-XXXI.
[63] Op. cit., p. XXVI: «... la seconda e ancor più la terza redazione del commento di Pietro segnano una involuzione rispetto alla prima … dettate da una cautela assai più marcata nelle questioni che potevano investire l'ortodossia, intesa in senso stretto, e da una continua e preoccupata svalutazione del pensiero paterno, che il commentatore ripropone in termini sostanzialmente diversi, assai più vicini alla nuova mentalità umanistica, nel tentativo di celare l'esistenza di reali punti di attrito tra le concezioni paterne e il pensiero ortodosso più rigoroso, tra la Comedia e le nuove convinzioni culturali».
[64] Cfr. F. MAZZONI, Pietro Alighieri interprete di Dante, in «Studi danteschi», XL (1963), pp. 279-360; cfr. in proposito le pp. 295-332.
[65] Op. cit., p. XXV.
[66] Op. cit., p. XXV, nota 1.
[67] Cfr. Isai., 14, 9-16.
[68] Per semplificazione indichiamo le auctoritates più significative che, per i versi in esame, compaiono nella terza redazione del Commentarium, che assorbe ed amplifica il materiale delle altre due. E, ancora per semplificare, le citiamo nell'ordine in cui compaiono (cod. Vat. Ottoboniano Lat. 2867, cc. 90r.-92v.): Apoc., 12, 9; 20, 1-2; Isai., 14, 12; Ezech., 28, 11-3; Ps., 103, 5-6; Apoc., 12, 12-6; Isai., 14, 16-7. B. NARDI, op. cit., pp. 5-6, oltre «Isaia, XIV, 11-16, integrato con ... Apocalisse, XII, 7-16» aggiunge, quale elemento biblico concorrente alla rappresentazione dantesca, anche il Vangelo «di Luca, X, 18, e di Matteo, XXV, 41». La coincidenza dei riscontri (del resto ovvia, per non dire necessitata) nei due autori dovrebbe far riflettere sulle genuine intenzioni dell'ermeneutica di Pietro; il quale, evidentemente, qui (e altrove) non voleva «celare l'esistenza di reali punti di attrito tra le concezioni paterne e il pensiero ortodosso più rigoroso», ma piuttosto indicare da un lato le «fonti» sacre dell'invenzione dantesca e precisare, dall'altro, i termini di una formulazione strettamente scientifica del problema, cui lo stesso Dante, secondo Pietro, «semel disputando», ebbe non poco a contribuire. Del resto, bene o male, oggi una cognizione cursoria delle tre redazioni del Commentarium è resa possibile, per quel che ci interessa, dalla riproduzione per le stampe; e i testi parlano da sé.
[69] Non ci è possibile, per ovvie ragioni, riportare i testi aristotelico-averroistici cui Nardi rinvia nelle sue fitte note; basti il rimando alle pagine dell'op. cit. da noi indicate nella nota 8 di p. 714.
[70] Cfr. É. GILSON, Les «coaequeva», in Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di Bruno Nardi, Firenze, Sansoni, 1955, I, pp. 375-84.
[71] B. NARDI, La caduta di Lucifero, cit., p. 17; e vedi le precedenti, acute pagine Riassunto della dottrina dantesca sulla derivazione delle cose da Dio, nell'articolo Dante e Pietro d'Abano, ora in Saggi di filosofia dantesca, Firenze, La Nuova Italia, 19672, pp. 42-5.
[72] B. NARDI, op. cit., p. 18.
[73] B. NARDI, Saggi di filosofia dantesca, cit., p. 45.
[74] Cfr. Conv., IV, i, 8; nonché G. BUSNELLI, Un famoso dubbio di Dante intorno alla materia prima, in «Studi danteschi», XIII (1928), pp. 47-60.
[75] Cfr. B. NARDI, Saggi di filosofia dantesca, cit., p. 45. A rettifica del commento di G. Busnelli al cit. luogo del Convivio (Il Convivio ridotto a miglior lezione e commentato da G. B. e G. Vandelli..., II, Firenze, Le Monnier, 1937, p. 12) si vedano, ancora di B. NARDI, i saggi Se la prima materia de li elementi era da Dio intesa, nel vol. Dante e la cultura medievale, Bari, Laterza, 19492, pp. 248-59; «Tutto il frutto ricolto del girar di queste spere», ibid., pp. 318-35; Il tomismo di Dante e il P. Busnelli S. J., ibid., pp. 349-53.
[76] B. NARDI, Saggi di filosofia dantesca, cit., p. 45·
[77] Par., XXIX, 31-6.
[78] Cfr. F. MAZZONI, Saggio di un nuovo commento alla «Divina Commedia"[.] Inferno-Canti I-III, Firenze, Sansoni, 1967, pp. 331-4.
[79] Cfr. Conv., II, i, 10 (che segue dappresso, come nota il Busnelli nel commento cit., vol. I, p. 101, ARISTOTELE, Metaph., VIII, cap. 4 [1044a], lect. IV del commento tomista).
[80] Nonostante le proposte correttive avanzate dal PALETTO nel Dizionario dantesco, Siena, Editrice S. Bernardino, 1887, vol. VI, pp. 326-8; vol. VII, pp. 42-3, la chiosa che ho definito «facilior» ( «suggetto» "terra" che «sotto sta a tutti li elementi», come postilla il Buti citato dal Sapegno) domina nell'esegesi antica e moderna, sorretta (almeno fra i più avvertiti) da alcuni riscontri con ARISTOTELE, De caelo, IV, cap. 4 (311a17); (311b20); (312a3), ove della terra, in rapporto alla definizione di «pesante» e di «leggero», si parla come di «ciò che sta al di sotto di tutti gli altri corpi» (traduzione di O. Longo, Firenze, Sansoni, 1961, p. 277). Ma qui, come s'è visto, si tratta del subiectum elementorum di cui discorre Alberto Magno, e che, in quanto materia prima, ha in potenza le forme sostanziali: cfr. AVERROÈ, De substantia orbis, cap. 1, in ARISTOTELIS Opera cum Averrois . .. Commentariis, Venezia, Giunta, 1562- 1574, vol. IX, c. 3 K: «Natura huius subiecti recipientis substantiales formas, videlicet primae materiae, necesse est ut sit natura potentiae ... hoc autem subiectum est unum entium existentium per se, et elementum unum aeternum existentium per se, quorum substantia est in potentia». Si tratta, insomma (c. 4 F) del «comune subiectum, quod nullam habet propriam formam: sed est potentia recipiens numerum secundum formas diversas in specie». Così intendono, fra gli altri, A. MANCINI, in «Buil. d. Soc. dant. it.», n. s., XIV(1907), p. 211, nota 1; M. BARBI, Problemi di critica dantesca. Prima serie (1893-1918), Firenze, Sansoni, 1975 (ristampa), p. 251; F. ANGELITTI, Sito, forma e dimensioni del "Purgatorio" dantesco ecc., Palermo, Officine Scuola tipografica Colonia Agricola S. Martino, 1906 [ma 1911], pp. 9-10 («In men che non si conti sino a venti, una parte degli angeli, con a capo Lucifero, peccarono di superbia: in quello stesso istante nell'interno della materia prima, non per anco distinta nei quattro elementi, si dovette aprire una immensa voragine, l'inferno, destinato ad ospitare i ribelli e si produsse così un grande turbamento ... Durante dunque la caduta di Lucifero, la materia prima, sotto l'influenza del moto dei cieli, si distinse nei quattro elementi, terra, acqua, aria e fuoco: la terra e l'acqua, naturalmente gravi, si disposero attorno al centro e attorno all'inferno, che formò il loro nucleo ...»); E. G. PARODI, Lingua e letteratura, Venezia, Neri Pozza, 1957, II, p. 398 («credo che suggetto degli elementi per "terra" non possa stare. È piuttosto bensì la "materia", ma in senso speciale; non come "materia informe", ma nella "forma" che precedette alla divisione degli elementi»); Id., recensione cit. alla«lectura» di P. Papa sul canto XXXIV dell'Inferno, in «Bull. d. Soc. dant. it.», n. s., XXV (1918), p. 18: «Che cos'è il suggetto degli elementi? La materia? Ma la materia non ha essere di nessun genere se non formata ... Gli elementi e lor misture? Ma, da una parte, non si può senza nuovi sforzi e nuove sottigliezze, senza urtarsi inoltre contro la teoria delle giornate della creazione, far contemporanea alla caduta di Lucifero la terra già nella sua forma definitiva; dall'altra, il poeta stesso ci dice che nella forma definitiva non era. Può essere che la stessa espressione suggetto degli elementi, pur significando probabilmente materia, sia un'espressione volutamente imprecisa, ma che Dante pensasse a quello stato primordiale e imperfetto degli elementi, non ancora definitivamente ordinato secondo il fine della creazione e nel suo ultimo assetto, quale è stato ammesso pur da San Tommaso, per metter ordine nelle sei giornate della creazione e nell'interpretazione che di esse dà Sant'Agostino».
[81] Si veda ad esempio la glossa dello Pseudo-Tommaso (Expositio D. Thomae Aquinatis in Apocalypsim Beati Iohannis Apostoli, Firenze, Torrentino, 1549) ad Apoc., 12, 9: «Et misit eos in terram, quia propter excellentiam naturalium eius, adhaeserunt ei et ceciderunt in hunc aerem inferiorem propinquum terrae, ut seducerent homines. Vel In terram, id est in infernum, qui est sub terra, et etiam terra vocatur, propter firmitatem, quia semper durabit»; 12: "Vae terrae, quasi dicat: vos boni laetari potestis, sed Vae, id est magnum malum accidet Terrae et Mari, id est universis reprobis. Terra dicuntur falsi Christiani, qui terram amant, licet fidem informem retineant. Mare, sunt infideles, qui sunt in profunditate et amaritudine errorum. Vel Terra sunt obstinati in vitiis, etsi non multa genera vitiorum multiplicent, ut alii multi. Mare, fluentes de vitiis in vitia, ut qui multa genera peccatorum accumulant». Si aggiunga comunque, di TOMMASO, il già citato luogo della Summa theol., I, q. 46, art. 3: «Quatuor enim ponuntur simul creata, scilicet caelum empyreum, materia corporalis, quae nomine TERRAE intelligitur , tempus et natura angelica».
[82] La Bibbia non si pone ovviamente il problema della localizzazione in un emisfero piuttosto che in un altro della caduta di Lucifero, e comunque si riferisce all'emisfero boreale.
[83] Cfr., per il problema, le indicazioni fornite nella nota di p. 713.
[84] Cfr., per Michele Scoto, i miei Contributi, cit., p. 83, e qui la nota 2 di p. 704; per Cecco d'Ascoli, P. DUHEM, op.cit., vol. IX, p. 150; e il seguente passo dal commento alla Spera (ed. Thorndike cit., pp. 358-9): «De tertio, quod queritur quare ista orbicularitas defecit in aqua potius quam in aliis elementis, dico quod natura nihil frustra facit et semper quod est melius operatur. Cum fecit hominem cuius gratia omnia sunt facta, dimisit illam partem terre discopertam, ut homines et animalia conservarentur in esse. De isto passu multe sunt opiniones quas propter brevitatem omitto. Sed istud est veritas, quia Deus per sui potentiam fecit ut scribitur, Congregentur aque que sub celo sunt et terra fiat arida etc.».
[85] Introduzione cit., p. XXX; e cfr. la più estesa citazione del passo, qui da noi riportata a p. 716.
[86] Penso in particolare alle osservazioni mosse da B. NARDI, La caduta di Lucifero, cit. (pp. 24 e nota I, 62-5) a Vincenzo Biagi; il quale d'altronde riteneva (ed è questo un punto assolutamente dirimente) che nel XXXIV dell'Inferno Virgilio descrivesse il passaggio della terra, per la caduta di Lucifero, non dall'emisfero australe a quello boreale, ma dal «quadrante boreo-occidentale . .. al quadrante borea-orientale, rimanendo per tal modo sotto l'influsso delle medesime stelle, e con la sola estensione di I80°», pensando alla dantesca collocazione del Purgatorio agli antipodi di Gerusalemme (V. BIAGI, La Quaestio de aqua et terra di Dante, cit., p. 54). Non sarà inutile trascrivere il passo del De coelo, II, cap. 5 (287b) cui solo accenniamo nella chiosa a XXI, 31-33, servendoci della traduzione di O. Longo, cit., pp. I 29-30: «Poiché poi il moto circolare può aver luogo in due modi, ad esempio, partendo da A, da una parte in direzione di B, dall'altra in direzione di T, che questi due moti dunque non siano contrari, s'è già detto prima. Ma se fra le sostanze eterne non ve n'è nessuna che ammetta di essere come capita , e senz'altra causa che il suo essere di fatto, e il cielo è eterno, e anche il moto circolare, qual'è mai la ragione per cui esso si muove nell'una direzione e non nell'altra? ... Ma forse il tentare di pronunciarsi su alcuni problemi, come anche su tutti, senza lasciarne andare nessuno, facilmente potrebbe apparire indizio o di grande ingenuità o d'esagerato zelo».Si veda del resto (anche quanto al vocabolario) la glossa di Roberto Anglico a un passo della Spera del Sacrobosco (che descrive il moto del Primo mobile da oriente per occidente e menziona, come secondo moto dei cieli planetari, la loro retrogradatio: ed. Thorndike cit., p. 79; la glossa di Roberto a p. 154): «... quadruplex est ratio quare celum continue movetur ... Quarta ratio est injluentia virtutis stellarum in diversas partes terre. Si enim celum staret, tunc stella existens in celo solum injlueret virtutem suam in unam partem terre, et tunc effectus qui esset in una parte terre non esset in alia parte, quod est inconveniens valde. Item movetur diversis motibus ad hoc quod in diversas extensiones terre fiat influentia. Per motum enim quem habet celum ab oriente in occidentem fit influentia in extensionem terre que est ab oriente in occidentem. Per motum contrarium [la retrogradatio] fit influentia virtutum stellarum in illam extensionem terre que est a septentrione in meridiem. Et sic patet ratio quare movetur celum diversis motibus». Ciò quanto al moto delle sfere planetarie; quanto al cielo delle Stelle fisse, si dice che esso ha il solo moto da oriente per occidente, mentre l'altro (da occidente verso oriente, cioè la retrogradatio) «non convenit stellis fixis, quia ilie non habent alium motum a motu spere, sed solum convenit septem planetis» (ibid., p. 153). La contrapposizione dell'influsso delle Stelle fisse in una parte terre piuttosto che in alia parte non può dunque (a stare al Sacrobosco e ai suoi commentatori) che riferirsi al moto celeste da oriente in occidente; mentre, da quanto appare nel § 73, Dante si riferisce esclusivamente alla regio celi soprastante l'emisfero boreale, cui non può dunque non riferirsi l'elevatio emisperialis del § 75.
[87] Errati entrambi quanto al contenuto dell'opera. Il colophon: "Questio fiorulenta ac perutilis de duobus elementis aquae et terrae traetans l nuper reperta que olim Mantuae auspicata, Veronae vero disputata et decisa ac manu propria scripta l a Dante Fiorentino poeta clarissimo ...»; i'intitulatio: «Questio aurea ac perutilis edita per Dantem Alagherium poeta Florentinum clarissimum de natura duorum elementorum, aquae et terrae diserentem».
[88] De forma et situ duorum elementorum aque videlicet et terre.
[89] Ed. cit., p. 2: De situ et figura, sive forma, duorum elementorum, aque videlicet et terre.
[90] Cfr. le indicazioni bibliografiche date alla nota I di p. 698; la citazione seguente, a p. 84.
[91]Cfr. ALBERTI MAGNI De praedicamentis, v, 8 (ed. Jammy, Lione 1651, vol. I, p. 164).
[92] Op. cit., loc. cit.
[93] Citato da G. BOFFITO, Intorno alla «Quaestio de aqua et terra» attribuita a Dante[.] Memoria II[ .] Il trattato dantesco, in «Memorie della R. Ace. delle Scienze di Torino», s. II, tom. LII (1902), pp. 257-342: cfr. p. 279, nota I; nonché, successivamente, da V. BIAGI, ed. cit., p. 85.
[94] G. BOFFITO, op. cit., p. 278.