Dante Alighieri, Opere minori: Vita Nuova - Introduzione
È tra i caratteri certo più significativi dell'opera dantesca, ed elemento costitutivo di essa, la prepotente forza di autoaffermazione che la percorre da capo a fondo, la vocazione, per così dire, di autorità, in cui è compresa e riassunta la stessa vocazione poetica (e profetica). E subito dopo, e indispensabile strumento di quella, l'inesauribile e, come quella, originaria capacità d'intimazione e d'appello a cui s'affida. Le apostrofi, i richiami al lettore che punteggiano la Commedia e la rendono (la vogliono) "leggibile", cominciano da molto lontano, sono addirittura pretesto e condizione e la stessa forma della poesia sin da O voi che per la via d'Amor passate e da Donne ch'avete intelletto d'amore, per non dire da A ciascun'alma presa, primo sonetto della Vita Nuova, e da Se Lippo amico se' tu che mi leggi (e senza ricordare qui la grande lezione, prima che di Cavalcanti, di Guittone). Non si tratta tanto della designazione di un pubblico, quanto di un rapporto essenziale, dello spazio vitale del proprio discorso. Di questa facoltà la Vita Nuova è l'espressione e la testimonianza più discreta, non per questo meno decisa. Direi anzi che non c'è opera più parlante della Vita Nuova (prova ne sia che non c'è opera di Dante che più si sia voluta far parlare, e che anche oggi più si presti all'interpretazione e agli esperimenti d'interpretazione): anche nel senso di una sua intera e inequivoca leggibilità, in atto e assistita in ogni punto e in ogni articolazione (oggi si direbbe ad ogni livello) dell'opera. A questa condizione sembra debba anzitutto corrispondere l'introduttore alla lettura di essa; tanto più nel quadro di una presentazione collettiva e perciò di una ricerca di continuità e contiguità d'informazione che superi o integri l'inevitabile discontinuità e divergenza d'interpretazione; e l'interpretazione avendo già trovato luogo in uno studio a cui è impossibile non rinviare e delle cui ipotesi il commento che segue è la verifica testuale. Ciò che deve prevalere qui, come nelle chiose, è appunto quella base di fatto a cui quell'interpretazione aveva cercato di dare un senso, e che ora essa è richiamata a illuminare, a unificare e a rendere attuale.
Proprio la ricerca, per quanto è concesso, dell'oggettività esige l'immediato rilievo, perfettamente collimante coi termini dell'enunciato iniziale, di due aspetti essenziali, e l'un l'altro integrantisi, dell'oggetto: il suo strenuo autobiografismo, che ne fa il primo capitolo della universale "autobiografia" dantesca e la prima relazione del suo grande viaggio, dagli albori della memoria all'identificazione suprema; e la continua assistenza ed esplicitazione dell'operazione letteraria in corso sia in sede storica (riflessione sulla propria poesia) sia in sede teorica e formale (definizione del libro e dei suoi procedimenti). L'integrazione si realizza nella forma dell'autocommento esercitato anch'esso e a livello delle testimonianze storiche (delle poesie) prodotte a documento dell'esperienza narrata, e a livello del processo mnemonico a cui esse danno di volta in volta luogo, dell'atto riflesso insomma che le descrive al lettore. Il procedimento letterario in cui consiste e attraverso cui si esprime la Vita Nuova è altrettanto verificabile sul piano dei contenuti che su quello delle forme, risultando i primi di carattere essenzialmente poetico e primamente filtrati dalla poesia, ed esplicita essendo la loro distinzione a seconda della funzione sotto cui son visti, di mediazione lirico-evocativa o referenziale (o diciamo la distinzione di significanti e significati); per modo che il libro finisce coll'essere messaggio di sé stesso. Addirittura si potrebbe parlare di scambio di funzioni (al modo che il momento primario della scoperta poetica viene immaginato a posteriori come il riflesso dell'esperienza storica riferita), riconoscendo alla favola e alla rammemorazione il valore di veicolo del messaggio letterario in cui si articola e che costituisce effettivamente l'obbiettivo dell'operazione. E valga la significazione, nel precedere che Vanna fa Beatrice nel capitolo XXIV, del precorrimento cavalcantiano della poesia di Dante, e dell'eccellenza di questa nell'identificazione di Beatrice con la verità. Per cui la Vita Nuova si propone non semplicemente come coscienza e storia della poesia di Dante, ma come una teoria della poesia nella misura stessa che la storia dell'amore di Dante per Beatrice è trascesa in una dottrina d'amore, e coi medesimi caratteri di autosufficienza e assolutezza di questa: la poesia basta a sé stessa come l'amore basta a sé stesso, e il termine d'identificazione è uno, per quella e per questo, la lode dell'oggetto amato partecipata a tutti.
Tutto questo è fin troppo plausibile di un'esperienza che si presenta sin dalle prime battute come "lettura" e dove il «libro», e le «parole» che lo compongono, hanno una loro realtà anche nella dimensione dell'immaginazione, il titolo (come più tardi, capitolo XIX, l'incominciamento della "nuova materia") è una proiezione interiore, i riferimenti storici sono rappresentati da testi anche prima della loro esplicita citazione, e l'esemplarità è continuamente cercata nel confronto, diretto o indiretto, con esempi già costituiti. Si tratta, con la Vita Nuova, della prima e, per i tempi, di gran lunga più imponente convocazione e concentrazione di modelli, e, sotto l'apparenza dimessa, di un'operazione letteraria estremamente ardita e ambiziosa; in nessun'altra la cultura è più significativa del messaggio e della forma, né la letterarietà lo è dei valori poetici proclamati. E tutto questo, senza doverci staccare dal filo del racconto; percepibile, anche senza guardare troppo «sottilmente », a livello della favola. L'organicità biografica è garanzia di quella delle forme.
Possiamo dunque, a un fine di descrizione d'un'opera letteraria, tenerci tranquillamente alla favola, stare al giuoco di Dante. Non ne resterà per questo meno investita la struttura del libro. La stessa indubbia provocazione e suggestione autobiografica (l'ipotesi dell'irripetibilità) ne aiuta la decifrazione. Che si tratti della testimonianza di un'esperienza, passata per giunta attraverso determinate tappe (o gradi) e formalità, ossequiente addirittura a certi riti, invita a porre l'accento sul soggetto di essa, sul personaggio numero uno per cui, e in funzione del quale, anche Beatrice esiste, e la cui sparizione nel coro dei contemplanti e lodanti (dell"'intelligenza d'amore") avviene solo a precise condizioni, ha un valore di scoperta, e senza pregiudizio della continuità della testimonianza («onde io pensando a ciò, volendo ripigliare lo stilo de la sua loda ... », XXVI, 4 - la stessa morte di Beatrice, come viene a sancire irrevocabilmente il distacco, così implica un rinnovato impegno giustificativo e retorico, vede la moltiplicazione delle occasioni esterne, delle "causae scribendi"). Presa anche, come è stata presa fin troppo spesso, nell'accezione più piatta, in servizio dell'anagrafe, non ne era meno rilevato il senso, per il soggetto come per l'oggetto, per Dante come per Beatrice, di modelli da proporre, magari (preraffaellitismo insegni) da riproporre. Nella storia o fuori della storia, alla contemplazione o alla diagnosi, l'appello di un ideale poetico non ha mai mancato di farsi sentire vivissimamente. Diciamo insomma che si tratta di un'esperienza d'amore, ma poetica, fruita e conoscibile attraverso la poesia, della proposta di un concetto (e dell'evoluzione di un concetto) d'amore in quanto poeticamente attivo e attuale. Del resto, più d'una delle situazioni contemplate nel libro appartiene a una tradizione codificata, come ad esempio la «scusa» della ballata del capitolo XII, che è una specifica forma o "genere" letterario, come indicano i «dubbi» relativi appunto alla formula elocutoria; o meglio il «gabbo» (capitolo XIV), soggetto obbligato per la stessa Beatrice, la quale si comporta secondo letteratura, e per cui scatta la prima operazione di ridimensionamento secondo memoria, con restituzione alla poesia della funzione propriamente lirica, sincronica, difatti assolta in assenza d'ogni circostanza storica; o la stessa richiesta di versi, non inconsueto pretesto introduttivo (e basti il celebre attacco di Donna me prega). A partire da Dante, è il caso, anche, della morte di madonna, definitivamente consacrato da Petrarca d'un carattere fatale. E la stessa morte del padre di Beatrice si dà a conoscere per un passaggio topico della tradizione agiografica, e sovrappone alla vicenda amorosa i modelli delle leggende dei santi. Ma i trattati d'amore del Rinascimento (poniamo il De natura de amore di Mario Equicola), che cos'altro sono, ben spesso, se non la descrizione della fenomenologia d'amore presso i poeti? che cosa rivelano in fondo, se non un'esperienza e una cultura anzitutto poetiche? Se la Vita Nuova è, anche, un trattato d'amore (e quello di Andrea Cappellano le è meno estraneo di quanto non sia sempre sembrato), essa risponde (a parte la corresponsione specifica ad analoga richiesta, non è improbabile di un collega di Parnaso, nel sonetto Amor e 'l cor gentil sono una cosa, capitolo XX) alla "questione" che aveva dato materia a più d'una tenzone, a cominciare almeno da quella tra Iacopo Mostacci, Pier della Vigna e il Notaro a suo tempo ricordata in calce al capitolo suddetto, e che ritorna d'attualità, significativamente, nel capitolo teorico-storico del libro, il XXV.
Dante appunto concepisce sì, nella Vita Nuova, come già nelle rime, la vicenda amorosa come una relazione: incontro (e scontro), apparizione, perdita (il saluto concesso e poi negato), perorazione della propria "causa" (già Brunetto Latini, nella Rettorica, aveva sviscerato e svolto i termini letterari di tale "situazione"), giustificazione e contemplazione (parlare e non parlare a madonna), memoria di Beatrice; ma in quanto avente una dimensione letteraria e, per giunta, una dimensione ormai storica. E come tale secondo tale dimensione ce la propone: in quanto letterariamente modellata, in quanto poeticamente realizzata in rime succedentisi nel tempo, e in quanto configurantesi in uno svolgimento, in una vicenda letteraria, e secondo un modello letterario (quello del commento alle poesie). Per Dante, a un certo momento, al momento cioè della Vita Nuova, il rapporto fondamentale è con la propria interpretazione poetica, con la propria poesia, con la propria visione e rappresentazione dell'amore. Che coinvolge tutt'una serie di altri rapporti: col pubblico, coi suoi pari e maggiori, con la tradizione. Già, come prassi, dalla poesia (e valga il primo sonetto del libro, il primo contatto coi «fedeli d'amore»); ma come definitiva e organica coscienza e teoria, nella prosa.
Che il tempo della prosa sia il passato, non costituisce rilievo significativo, in un libro «esemplato» su quello della memoria. Ma le «parole» che in questo si leggono non sono soltanto metaforiche, bensì i "detti" del poeta, di cui interesserà dare soprattutto la «sentenzia», il senso, l'interpretazione, ma per la maggior parte presenti in tutte lettere. Eventi e prodotti poetici convivono strettamente, anzi le circostanze sono rammemorate in grazia (talvolta esclusivamente in grazia) delle poesie che occasionarono, se addirittura in qualche caso, come per le donne-schermo, non sono state create o manipolate per dar fede a una realtà poetica altrimenti sfuggente, e d'altronde ineludibile, comunque autonoma, e per farla confluire nella storia privilegiata di Beatrice. I termini storici dell'esperienza proposta, lasciando stare i margini sottratti alla presa della memoria («quella parte del libro de la memoria dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere», capitolo I) o dell'«intendimento» (l'excessus del capitolo XLI), e comunque a una misura razionale (la prima e l'ultima visione, capitoli II e XLII, a cui ugualmente e diversamente, all'anima o, per il momento, alla fantasia, «mancò possa»), i termini, dicevo, coincidono con quelli dell'esperienza del rimatore e vi trovano riferimento, il primo rapporto non puramente visivo con la beatrice corrisponde abbastanza esattamente al primo inserimento e riconoscimento in una tradizione poetica, i diciott'anni del saluto di lei sono anche quelli dell'incontro con Cavalcanti, e la chiusura del «libro de la memoria» collima col proponimento di «non dire più»: il decennio (I283-I292) preso in considerazione è un decennio di poesia.
La successione degli eventi è spesso (più esattamente dal capitolo XVI, «Appresso ciò che io dissi questo sonetto...», e per cospicui tratti, capitoli XVI-XXI, XXVI, XXXII-XXXIII) quella dell'attività poetica, o comunque rispetto ad essa (XXVIII, I; XLII, I); certe occasioni sono propriamente occasioni poetiche (richieste di versi: xx, I; XXXII, I-2; XLI, I); ovvero d'ordine poetico è la soluzione di certe situazioni (capitoli XII o XXII, o XL). I conti, ad ogni modo, Dante si trova a doverli fare soprattutto, come si è già accennato, con una realtà poetica che non si può ignorare né cancellare (rime per le cosiddette donne-schermo, o per la donna gentile). Si aggiunga che la sospensione degli eventi è talvolta sospensione di attività poetica (capitoli XVII e XXVIII, nonché XLII); che certi momenti decisivi del comportamento del protagonista sono decisioni di comportamento poetico (il rapporto con Beatrice cambia in termini di discorso poetico: capitoli XVII-XVIII, XXVIII, e ancora XLII), fino ad esplicito riflesso nella forma del libro (lo spostamento della «divisione» da dopo a prima della poesia, dal capitolo XXXI in avanti). Parte dell'attenzione, e una parte notevole, fino a individuare specifiche zone testuali, è data a come le cose sono messe e proposte nel libro, e alla giustificazione di questi modi, e all'effetto di ciò che è detto (o riportato) nel libro, nonché, come s'è visto, a questa stessa attenzione. Il rapporto coi testi citati rispecchia precise figure e funzioni letterarie (la «ragione» o spiegazione dell'occasione, il commento in forma di «divisione»; la «dichiarazione» di «dubbi» o obiezioni, la soluzione di contraddizioni); fino ad esplicitarsi e attualizzarsi in rapporto dialettico tra prosa e poesia, dal riconoscimento dell'assoluto valore metaforico di questa e conseguente caduta d'ogni barriera linguistica e storica (capitolo XXV), alla distinzione (e connessione) dei due momenti, della visione comune e della visione poetica, del linguaggio degli eventi e di quello della partecipazione (capitoli XIV, 9-10; XXII, 7-8; XL, 5). E dietro, l'altra dialettica, all'interno della poesia, tra stile e stile, tra poesia come mezzo e poesia come fine, raffigurata nei termini stessi della ricerca del fine supremo, della beatitudine: il modo» che il capitolo XVIII s'incaricherà di sciogliere.
E c'è infine il senso del libro che si viene componendo, non consegnato semplicemente alla metafora (o "mito") iniziale, e delle necessità della sua composizione, e della rispondenza a un «proposito»: un'operazione letteraria che s'innesta su un'opera poetica e la prosegue, e che le dà, più che una dimensione, una qualità nuova: il senso di una storia letteraria non solo rispetto al lavoro altrui, ma immanente al proprio lavoro, la testimonianza, il confronto e la ricapitolazione di esperienze poetiche succedutesi nel tempo. Come se non bastasse, e a conferma di una dinamica che travalica il libro (e non semplicemente identificantesi con la prosecuzione di un'attività poetica), un altro libro, benché a distanza di tempo, nasce in rapporto a questo, probabilmente già a livello della poesia; ed è il Convivio, che ad esso si riferirà al cominciare della trattazione.
Appunto il Convivio, nel capitolo II del II trattato, fornendo le coordinate (negli identici modi, è sintomatico, del II capitolo della Vita Nuova) dell'apparizione della donna gentile (poi allegoricamente interpretata come la Filosofia) menzionata «ne la fine» dell'operetta giovanile, offre gli unici argomenti per una datazione di questa, divenuta estremamente elusiva alla distanza ravvicinata, a partire dall'anniversario della morte di Beatrice, e cioè dal nuovo incontro («Poi per alquanto tempo» ..., XXXV, I), e addirittura precipitante verso la fine (di «alquanti die», XXXIX, 2, è la durata della nuova passione; dopodiché «Dopo questa tribulazione avvenne ... », XL, I, e il «tempo» è una stagione ricorrente; «Poi mandaro due donne gentili ... », XLI, I; «Appresso questo sonetto apparve a me…», XLII, I); anche se il transito dei pellegrini del capitolo XL (se il pretesto poetico esplicitamente denunciato, ivi, § 5, ha un qualche aggancio con la realtà) fa della Pasqua del '92 un probabile terminus post quem. Appunto al 1292-1293 è datata la Vita Nuova da chi, in prima linea il Barbi, si tiene agli indizi interni, e considera l'episodio della Vita Nuova e quello del Convivio come rispondenti alla diversa ispirazione delle due opere, e la gentile dell'una e quella dell'altra come due diverse realtà. Il che è corretto riguardo all'interpretazione autonoma della Vita Nuova (e rispettivamente del Convivio: dove la Vita Nuova e il richiamo ad essa sono evidentemente in funzione di una continuità, dello sfruttamento di una formula fortunata, e insomma del Convivio stesso, al quale «non derogare» alla Vita Nuova serve almeno quanto le donne-schermo servono a Beatrice): per la Vita Nuova, nessuna allegoria è ammissibile, l'operetta essendo costruita tutta all'insegna della "lettera". Dante insomma, nel Convivio, ha in vista la nuova interpretazione, e a questa intende «giovare» (e alla prima, distinguendosene, attraverso questa): non la datazione dell'operetta; per cui sugli argomenti ricavabili dal Convivio a tal diverso riguardo, non può cader sospetto. La donna di cui qui si tratta secondo la «litterale sentenza», è indicata come la stessa del «libello» giovanile, come conferma l'identico svolgimento della situazione; d'altronde i trenta mesi di studio occorsi per cominciare a «sentire de la dolcezza» della Filosofia (Conv., II, xii, 7), come non sono tutti necessari allo scoppio vocale della prima canzone del trattato (da notare, qui Conv., II, xii, 8, «apersi la bocca nel parlare», come prima, 11, ii, 5, «quasi esclamando», l'analogia, ancora una volta, col dono della parola poetica e il moto improvviso della lingua nel XIX della Vita Nuova), non è detto siano da aggiungere alle due rivoluzioni di Venere ( 1168 giorni), tra la morte di Beatrice (8 giugno 1290, cfr. capitolo XXIX) e l'apparizione della nuova donna (intorno all'agosto del 1293), né il primo accostamento («dopo alquanto tempo», ancora una volta!) ai due libri consolatorii di Boezio e di Cicerone (Conv., II, XII, 2-3) implica il riconoscimento della nuova presenza, che sembra piuttosto una suggestione delle nuove frequentazioni.[1] Sono i parametri, non i fatti, che mutano da informazione a informazione. E il nuovo episodio amoroso, contenuto nella Vita Nuova (nel libro dell'amore per Beatrice) nei termini di una «tentazione» respinta col soccorso della memoria di lei (è significativo, di contro all'estrema indeterminatezza di tempi per l'affermazione del nuovo "possesso", l'esplicitarsi di «ragioni»- termine oltre tutto inaugurato proprio in questi capitoli - che nella poesia non sono trasparenti: indizio del notevole sforzo interpretativo da parte della Vita Nuova), nulla vieta che prestasse vita e colori poetici, proprio sulla scorta dell'iniziazione boeziana (e come l'immagine della Filosofia consolatrice ne aveva forniti al colloquio con Amore del primo libro), ai nuovi entusiasmi, traendone allo stesso tempo una più ampia giustificazione nel senso di un confronto tra amore e verità che in Dante non si acquieterà che sulla vetta del Paradiso. Il fatto è che, come la donna della Vita Nuova e quella del Convivio sono "letteralmente" (poeticamente) la stessa donna, una è anche la poesia, differenziandosi solo al momento dell'interpretazione allegorica, identico è il conflitto rappresentato nella Vita Nuova e nella prima canzone del Convivio, e la seconda canzone non fa che riproporre, col più ampio respiro che veniva al canto dalla nuova prospettiva di sapienza, l'alta "dimostrazione" della lode: esiti questi che la Vita Nuova non poteva non sottacere, pena la sua stessa distruzione. La Vita Nuova, anzi, potrebbe essere il tentativo di fissare un'esperienza al momento che i suoi sviluppi apparivano ormai incalcolabili. La data del '93-'94, nel pieno della tempesta di quella crisi, sembra dunque sempre più probabile. [2] E quella della Vita Nuova non era che una delle soluzioni poetiche proponibili a quella data.
Che la Vita Nuova sia il manifesto dello «stil novo» nell'unica accezione storicamente autentica, quella dantesca, e sia pure sotto forma di narrazione di un'esperienza, ossia in termini di fatto compiuto, e insomma sull'equazione (mutuata - e autorizzata - dalla Scrittura) «vita nuova» = «nove rime» = «stil novo» come costitutiva del libro, sembra oggi acquisito il consenso; tanto più se nell'adeguamento al "dettato" d'Amore si veda l'interpretazione - con ripresa del resto della semantica introduttiva del libro giovanile - della lingua docile strumento (il «calamus» del Salmista) di una parola "data" (XIX, 2) proprio per il verso e la canzone inauguranti le «nove rime». D'altra parte quella di una contemporanea (e dialettica) gestione di iniziative diverse è ormai nozione essenziale alla comprensione almeno della situazione culturale fiorentina (se, voglio dire, non è un dato più generale di storia letteraria) e in particolare di Dante, per il quale si traduce in esplicito abito e febbre sperimentale e in "pluralità stilistica"; e la Vita Nuova stessa ne offre un'immagine già nella convivenza di prosa e poesia. Non è escluso che la tenzone con Forese e la prima ufficiale manifestazione comica di Dante, del resto perfettamente ammissibile in pieno clima stilnovistico, si collochi, a complicare la situazione, proprio nel periodo della frequentazione delle «scuole de li religiosi» e delle « disputazioni de li filosofanti» (Conv., n, xii, 7); e ormai il Fiore, simultaneamente alla sua acquisizione al canone dantesco, tende sempre più a spostarsi dalla preistoria del poeta alla sua prima maturità, come un'ipotesi di lavoro diversa, ma non distante dalla Vita Nuova: testimone la Vita Nuova stessa, che accoglie non solo col periferico Cavalcando l'altr'ier, ma col centrale Io mi senti' svegliar dentro a lo core, talune applicazioni della tecnica rappresentativa della corona, e che proprio nella prova fondamentale, la canzone Donne ch'avete intelletto d’amore, ripropone il modulo strofico dei quattordici endecasillabi che costituisce la struttura di quella.
Quali dunque i termini di accostamento e di apprezzamento obiettivo di un'opera che si presenta come sistemazione di un'esperienza e proclamazione di una conquista poetica, come storia e come teoria, al momento stesso che si delineano nuove esperienze e nuove soluzioni e forse un'alternativa di soluzioni (cfr. la nota introduttiva al capitolo XXXV, in particolare p. 218), che addirittura include parte di queste senza escludere, per queste, sviluppi analoghi a quelli già in atto; che evidentemente propone una scelta, privilegia una certa interpretazione, di cui tuttavia proprio la perentorietà e l'assolutezza, l'operazione stessa della memoria, implicano forse il bisogno di fermare la storia, prima che questa cambi e di fronte alla validità di risultati poetici (la possibilità generale, dunque la poetica, dello stile della lode) che vanno al di là di una storia determinata: la liquidazione addirittura e la consegna agli atti di un'esperienza, in modo che non siano consentite "deroghe", ma che già al momento di congedarsene sembra non bastare più, rinunciando alla dimostrazione e riservando le forze a una diversa opera e a una più ardita celebrazione? Uno di questi termini di riferimento è appunto la poesia, che costituisce, presente come assente, la ragione di tutto il discorso, e che dà luogo a una serie di relazioni e di aperture, non ultima, benché consegnata in minimi reperti, quella di uno stato della poesia indipendente dalla (anteriore alla) sistemazione nel libro; e non senza riflessi direttamente sulla prosa. L'altro sta proprio nella relazione tra prosa e poesia, nel modo come si articola questa storia, nella struttura, superficiale e profonda, del libro, di cui la storia, la favola rischia davvero di costituire la forma esterna.
Ma partendo giusto dall'esterno, quella che anche al tempo di Dante si sarebbe detta la «forma del libro» (la locuzione è di Brunetto a proposito della sua stessa Rettorica) è una narrazione inframezzata di poesie o, se si vuole, poesie accompagnate, illustrate, commentate («ragionate» e «divise») dalla prosa, secondo il modello generale e ben collaudato del prosimetrum e una tradizione a capo della quale sta, assieme al De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella, proprio «quello» non poi «troppo non conosciuto da molti» perché non fosse immediatamente riconoscibile «libro di Boezio n, ossia la Consolatio Philosophiae, il primo libro letto da Dante a suo conforto dopo la morte di Beatrice. Solo che in questi, e negli esemplari recenziori che ad essi si rifanno (come il De planctu Naturae di Alano di Lilla e il De mundi universitate di Bernardo Silvestre), il rapporto prosa-verso è d'integrazione («metri» lirici, quasi "arie" o "cori" che sigillano i momenti culminanti del dibattito in Boezio, digressioni e parti interlocutorie di varia forma in Marziano, e in Bernardo Silvestre la prosecuzione e lo sviluppo in prosa della trattazione poetica - e tale era forse il piano di Brunetto per il Tesoretto), l'alternanza o diciamo la variazione, la sostituzione è costitutiva del testo fin dall'origine, e la poesia, per esempio in Boezio, rappresenta un innalzamento di tono, non un mutamento di dimensione. Laddove nella Vita Nuova il rapporto è anzitutto diacronico, le poesie preesistono in linea di massima alla prosa (l'eventuale simultaneità, per esempio per la canzone Donna pietosa, si risolve in - e in sostanza s'induce dal - parallelismo tra i due testi), rappresentano la condizione preliminare del rapporto, e soprattutto individuano un ordine e una dimensione diversa, che la prosa non manca di rilevare, che è suo compito rilevare, definendole e definendosi "in rapporto ad" esse. C'è insomma una "duplicità" non solo formale, ma di funzione, che non si discosta troppo da quella predicata dell'autore (Tullio e il suo «sponitore») sempre da Brunetto della Rettorica, e che può predicarsi di Dante stesso, come poeta e come "ragionatore" di poesia. Appunto la Rettorica brunettiana costituisce il modello prossimo del "commento" dantesco e della relativa problematica, contribuendo all'innesto, nella struttura del prosimetro, della dimensione della "distanza" e del giudizio, come condizione fondamentale del dialogo col proprio testo e dello stesso riconoscimento della "parte", della funzione della prosa. Che questa "parte" emerga in relazione a un testo poetico e addirittura facendosi forza d'esso, va ascritto all'eccezionale capacità di anticipazione (nonché, vedremo, di appropriazione) di Dante, che un atto di ripensamento letterario trasforma in autentica scoperta e un modello antico in qualcosa di assolutamente nuovo. Una riprova indiretta, la testimonianza cioè della percezione di questo fatto, può vedersi nell'abolizione (con riflesso nella tradizione manoscritta) della distinzione (brunettiana) fra «lettera grossa» (per il «testo») e «lettera sottile» (per la «sposizione»), che invece funziona talvolta per la tradizione del Convivio, e pur nell'individuazione (mediante a-capo, lettere di rubrica ecc.) delle rispettive parti (la «lettera sottile» comparirà solo per l'estrapolazione delle «divisioni» perpetrata da Boccaccio in nome di un presunto ripensamento di Dante). La stessa tradizione letteraria che risale alla Vita Nuova, dall'Ameto all'Arcadia, punterà piuttosto sull'unità che sulla distinzione, ossia sull'integrazione poesia-prosa che in sostanza ne risulta; e solo il Comento di Lorenzo, sommando Vita Nuova e Convivio, riscoprirà il valore poetico di questo rapporto di riflessione e di dialogo a diversi livelli tra poesia e prosa.
E qui s'inserisce, come probabile elemento di connessione fra i due già detti, un terzo modello: quello delle vidas dei trovatori e delle razos delle loro poesie (in che consiste la letteratura critica provenzale originale), corredanti un certo numero di canzonieri occitanici (specie se di fabbricazione italiana), ad opera principalmente di un esule in terra di sì (a partire dal 1220), Uc de Saint-Circ: ciò che ne spiega la particolare fortuna fra noi. È probabile anzi che, nella veste in cui ci sono pervenute, fossero compilate a fini divulgativi per uso d'un pubblico non di lingua d'oc, a presentazione dei singoli autori e ad illustrazione delle circostanze storiche e biografiche in cui le poesie furono dettate, spesso deducendole, fino al limite del travestimento romanzesco, dai testi stessi. Dante insomma avrebbe proceduto ad un'analoga riscoperta a posteriori delle proprie poesie, e il suo lavoro consisterebbe nella riunione e integrazione, ad opera dell'autore stesso (così, del resto aveva fatto per sé Uc de Saint-Circ), di «ragioni» e di commento (di tipo genericamente scolastico: per «divisione» alle sue rime in un «prosimetro» (conferendo cioè all'insieme forma e dimensione ben determinate) configurantesi come una "vita", anzi un'autobiografia. È così che rime e prose fanno tutt'uno pur restando storicamente e formalmente distinte. Ma la "vita" è anche, e soprattutto, la raffigurazione e il riconoscimento dell'unità della poesia in quello che in accezione ancora non attuale al tempo di Dante si dirà poi un "canzoniere", inteso cioè non, all'antica, come raccolta di rime di vari autori disposte secondo forme e generi, ma come storia spirituale per exempla poetici. Caratteristica del canzoniere della Vita Nuova è dunque la diacronia non solo tra poesie e «ragioni» sopraggiunte, ma da poesia a poesia: che non sarà, se non in una trasposizione tutta ideale, nemmeno del suo più diretto e illustre discendente, il canzoniere petrarchesco e (scilicet: per conseguenza) di ciascuno dei canzonieri venuti dopo, neanche del Comento. Per cui si può dire che l'esperimento di Dante nasce e muore con lui. E con (e per) la sistemazione cronologica delle rime, la scelta: come reductio ad unum di una pluralità d'esperienze, mediante l'esclusione di altre esperienze, proprie ed altrui, e loro ridimensionamento e funzionalizzazione all'unica esperienza assunta come valida, e mediante un sapiente confronto (e conseguente selezione) degli stessi acquisti adducibili a prova; come sostituzione di esperienza a esperienza, e contrapposizione d'esperienze, di una poesia nuova a una poesia antica, mai, sostanzialmente, con rifiuto della propria storia e della storia.
La Vita Nuova è la storia del riconoscimento di questi nuovi valori poetici e della loro affermazione, di un momento poetico in rapporto ad altri momenti, anche se proposto come momento assoluto; che era anche il riconoscimento di valori poetici affermatisi a Firenze a una certa stagione, di un risultato cioè, e della collaborazione a quel risultato, rappresentata in particolare dall'intesa con Cavalcanti, al livello della poesia come della riflessione sulla poesia; fino alla collocazione di questo risultato in una prospettiva che nel capitolo XXV è quella della poesia volgare d'occidente dopo che in tutto il libro è quella della sua viva esperienza. Importano qui molto, per seguire questa storia, i termini di raffronto esterni, dalle rime scritte per altre donne (e secondo altri modelli) alla canzone Lo doloroso amor in cui il nome della beatitudine è sinonimo di morte, alle prove scartate dei due sonetti in morte del padre di Beatrice (o diciamo per una Beatrice dolente, e comunque d'interrogazione di donne che vengono dal suo cospetto), agli esperimenti dello stile della lode e della contemplazione corale della beatitudine ancora compromessi con gli opposti modi della rappresentazione drammatica degli affetti e della partecipazione personale all'evento mirabile (sonetti Di donne io vidi una gentile schiera e De gli occhi de la mia donna si move); fino alle testimonianze della redazione pre-Vita Nuova di alcune rime del nuovo stile, ossia di una conquista per tempi di questo. Ma più importano, forse, anche alla luce di questi dati, le evidences interne al libro: dello sforzo di giustificazione delle poesie accolte (e talvolta di non accolte), sia riguardo al riferimento a un'occasione, a circostanze non percepibili nel testo poetico, sia riguardo alla distinzione tra evento e occasione lirica, e in ultima analisi tra dimensione narrativa e dimensione poetica; meglio ancora, di un'approssimazione graduale alla soluzione indicata, nell'orizzontalità e contiguità della serie lirica come nella verticalità e variabilità redazionale, o l'integrazione del rifiuto dell'esperienza drammatica cavalcantiana e del ritorno a Guinizelli col più sottile recupero della dimensione stilnovistica del secondo Guido (nel senso della risposta, preliminarmente additata, al primo sonetto del libro piuttosto che nel senso di Donna me prega), e la lettura anche della sua poesia nei termini della storia proposta. Il riaffiorare, all'altezza della Vita Nuova, nella prosa del II capitolo, della scansione della propria esperienza amorosa per età e per facoltà, com'è in un'altra canzone estravagante, E' m'incresce di me si duramente, anch'essa diretta a donne che hanno sentimento (se non intelletto) d'amore, non solo ne compensa in qualche modo l'esclusione e allude forse a una vicinanza addirittura compromettente alla canzone instauratrice dello stile della lode, ma sembra indicare quale potesse essere, in un àmbito di soluzione più immediata, l'equivalente poetico della storia della Vita Nuova. Addirittura, la Vita Nuova apre uno spiraglio sulla preistoria della raccolta. Se non il sonetto Venite a intender li sospiri miei e la doppia stanza Quantunque volte, lasso, mi rimembra, scritti per conto del fratello di Beatrice, comunque puntualmente inclusi nel libro (capitoli XXXII e XXXIII), il manipolo di tre sonetti mandati (capitolo XLI) alle due gentili richiedenti, l'ultimo, Oltre la spera che più larga gira, dettato apposta per loro in "narrazione del suo stato", gli altri due scelti fra le cose già composte, ancora Venite a intender e il più "recente" Deh peregrini che pensosi andate, costituiscono la prima silloge (e l'unica oltre la Vita Nuova) edita da Dante, nonché la prima d'autore a noi pervenuta in lingua di sì.
Ma la scelta, dico quella che la Vita Nuova implica, non resta separata dall'opera a cui dà luogo, ossia questa non ne è semplicemente il prodotto, ma è poeticamente affidata al libro stesso, di cui costituisce la forma profonda, e che ne è la figura e l'interprete. Essa si configura come l'elezione dell'«optima pars», quella di Maria rispetto a quella di Marta, quella della beatitudine rispetto a quella della sollecitudine; di una poesia della beatitudine e della contemplazione di contro a quella della battaglia e della personificazione (in tutti i sensi) della passione: in termini cioè che fanno di una decisione poetica una scelta di «vita». Il termine di ridimensionamento è Beatrice, colei che dà beatitudine (la scoperta del segreto del nome - più di una volta, del resto, termine di contraddizione[3] - prelude sin dalla soglia del libro a quest'altra più vitale scoperta); e proprio il richiamo scritturale (ma la stessa Etica nicomachea confrontava l'assoluta dilettazione dell'atto intellettuale - «actus intellectus» - con le sollecitudini e i turbamenti dell'esercizio delle virtù morali e civili) avvalora l'ipotesi che l'opposizione implichi non tanto una successione storica quanto un diretto confronto. E ad ogni modo la scelta per sé sembra indicare il modello del "vangelo" (di cui affiora in tanti passaggi la struttura) a preferenza di quello del "romanzo" e della stessa "leggenda": non tanto di un"'imitazione", quanto dell'"essemplo" da imitare. La storia, la rammemorazione sembra comporsi secondo i "tempi" di una celebrazione, di una "lectio" se non proprio di una liturgia. La concezione delle «nove rime», la contrapposizione della nuova alla vecchia materia, l'idea della «vita nuova» si fondavano del resto (traendone certezza) sull'affermazione di un lucido concetto retorico, sulla definizione stessa, classica, dello «stile dimostrativo» come stile della lode, ed erano insieme l'individuazione della ragione generale di tale scoperta nella dottrina ciceroniana dell'amicizia, dell'amore disinteressato, che basta a sé stesso: quell'autosufficienza che è la definizione stessa della beatitudine («Felicitas enim in se ipsa completa est, sufficiens est, nullius egens ab extrinseco», come aveva, ancora, Aristotele secondo una lezione accessibile a Dante, e che Brunetto ben conosceva: « Bien par lui est beatitude, ki est nostre fin a quoi nous entendons»). La ricerca della poesia s'identificava colla ricerca di questo bene per sé. E a questo punto è chiaro che il libro della Vita Nuova è il libro di Dante prima che il libro "de Beatrice", e che l'oggetto della celebrazione, senza perdere nulla della sua individualità poetica, della sua forza d'exemplum, è figura del suo celebratore. L'identificazione di Beatrice con Cristo, la sua unicità cristologica non fa che confermare, grazie anche al parallelo Giovanni-Cavalcanti, l'unicità dell'esempio poetico. Significato e significante, in questa prima testimonianza per la poesia, si scambiano continuamente le parti.
La pluralità delle esperienze, la stratificazione e integrazione delle strutture, lo scambio delle funzioni non mettono solo in evidenza la complessità della realizzazione (e, se si vuole, il gusto dell'esibizione e della contaminazione), ma dicono l'ampiezza dell'orizzonte di Dante e, sotto l'apparente umiltà del testimone e dello scriba, l'altezza del suo confronto, lasciano trasparire un movimento e una partecipazione intellettuali più profondi, altri modelli, altre suggestioni, altre prospettive, altre scoperte. Il De amicitia non ci sta solo come auctoritas e fonte di dottrina, ma, giusta l'intenzione con cui fu dapprima letto, come esemplare letterario e poetico; così come la frequentazione dei testi sacri e delle discussioni filosofiche non gli fruttò solo il lustro di una citazione di Aristotele in secundo Metaphysicorum (capitolo XLI, 6), ma una più sottile motivazione delle sue scelte poetiche e delle stesse «ragioni». Cicerone richiama e direi autorizza altre presenze. Che i termini di confronto per l'immaginazione dei poeti volgari siano nel capitolo XXV tutti poeti classici, non è solo per corrispondere a un quadro della tradizione che almeno nel IV dell'Inferno risulta inmutato. Accanto a Cicerone, nel II del Convivio, compariva del resto Boezio, che doveva fornire lo spunto all'interpretazione della « donna gentile». In confronto al Convivio, che stabilisce una volta per tutte, per non tornarvi più sopra, il rapporto tra poesia e «sentenza», il passaggio dal significato letterale all'allegoria, la Vita Nuova è un continuo porsi i problemi relativi al linguaggio poetico e ai suoi rapporti col linguaggio comune (si potrebbe anzi dire che, sia pure acerbamente, se li pone tutti); e ciò non solo dove e in quanto analizza e discute le soluzioni poetiche trovate. Quello della Vita Nuova è, per dirla con Jakobson, tutt'un «discorso semicitato».[4]
E la lettura di Virgilio non fornisce solo un argomento di più in favore della figura della prosopopea, né, fuori del libro, complice ancora una volta Cavalcanti, i primi suggerimenti per una non poi tanto timida appropriazione dell'ecloga bucolica alla poesia volgare. Che colpisce, è che Virgilio funzioni per la prosa, e non per un mero trapianto di moduli. L'eco della IV bucolica proprio a chiusura del libro pone sotto l'augusto segno (nonché sotto la tutela di un preciso topos letterario) la suprema aspirazione del poeta, riconosce nel motivo del vagheggiamento di un'opera più alta il senso di una storica perennità della poesia. E l'essersi mosso, all'inizio, sul passo stesso dell'epopea virgiliana e di una delle sue più tipiche riprese, costituiva su ben altro che occasionali fondamenti questo narrare seguendo il filo della memoria, dandogli subito respiro di annuncio e di celebrazione. La Vita Nuova prima ancora (e più) che a farsi collezione di memorabilia e depositaria di sapienza ambisce alla totalità della parola. La conquista del «bello stile» comincia già di qui, e sotto le figure di un'estrema libertà di scoperta. La scommessa, anche nell'atto del «dire per prosa», era quella della poesia. E della prosa - che potremmo dire ancora sperimentale o pre-sperimentale, tentante di volta in volta, d'occasione in occasione (di capitolo in capitolo) nuove dimensioni, di una "località" che non è certo quella spregiudicatissima delle rime, talvolta arieggiante la poesia, sempre ancella della poesia, anche dove entra in gara con questa, e pur come portata avanti da essa, e in ogni punto così sottilmente intellettuale e didattica - della prosa il fascino, se questa parola è lecita oggi, è proprio la sua allusività. Ogni espressività è puramente casuale, e forse indotta solo dalla nostra lettura. E le componenti più mature di questo stile, di un discorso che cresce sotto i nostri occhi, sono essenzialmente d'ordine concettuale, appartengono, in perfetta coerenza con la funzione riservatasi, e coi caratteri dello «stil novo», al piano dell'intelligibilità.
Firenze, novembre 1973
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Il testo della Vita Nuova riproduce quello dell'edizione critica curata da M. BARBI per l'«Edizione Nazionale delle Opere di Dante» della Società Dantesca Italiana, 1, Firenze, Bemporad, 1932, revisione e aggiornamento, anche se senza vistosi ritocchi, della prima, Milano, Hoepli,1907. Per le altre opere mi attengo di norma al testo canonico pubblicato nel 6° centenario della morte del poeta dalla Società Dantesca Italiana, a cura di M. BARBI, E. G. PARODI, F. PELLEGRINI, E. PISTELLI, P. RAJNA, E. ROSTAGNO, G. VANDELLI, Firenze, Bemporad, I92I, salvo che per la Commedia, per cui mi valgo dell'edizione critica a cura di G. PETROCCHI, Milano, Mondadori, 1966-1967, vol. VII, tomi 2-4 dell' «Edizione Nazionale» citata, e il De vulgari eloquentia, usufruito in quella di P. V. MENGALDO, Padova, Antenore, I 968, e per le Rime tenendo conto all'occasione dell'edizione a cura di G. CONTINI, Torino, Einaudi, 1946. Per la tradizione estravagante di quelle della Vita Nuova, il riferimento è al mio studio su Il canzoniere escorialense e la tradizione "veneziana" delle rime dello stil novo, Supplemento n.° 27 del " Giorn. stor. d. lett. it.», Torino, Loescher-Chiantore, 1954, pp. 22-43, e al suo complemento Sulla tradizione estravagante delle rime della «Vita Nuova», in «Studi danteschi», XLIV (I957), pp. 5-84.
L'edizione del Barbi funge inoltre, per il suo capitolo m, pp. LXXXIX-CXXXIX, da bibliografia di tutte le edizioni dell'operetta fino al I930 (è interessante che, se la prima edizione integrale, peraltro con castigazioni, dettate da scrupoli controriformistici, che eliminano ogni menzione delle persone sacre e persino ogni citazione scritturale, è eseguita nella stamperia di Bartolomeo Sermartelli solo nel 1576, dopodiché si passa d'un salto al I723, la prima apparizione a stampa è quella della nuda serie delle 31 rime, formante il 1 libro della Giuntina di rime antiche del I527: con significativo privilegio dell'antologia poetica e del "canzoniere", e insomma della tradizione delle rime, rispetto al "libro della memoria" e alla "leggenda"); e implicitamente anche della tradizione interpretativa fino alla stessa data: con le illustrazioni e i commenti di P. FRATICELLI (Firenze, Allegrini e Mazzoni, 1839, poi Barbèra, 1857 e 1861), A. TORRI (Livorno, Vannini, 1843), G. GIULIANI (Firenze, Barbèra, 1863, poi Le Monnier, 1868 e 1883), A. D'ANCONA (Pisa, Nistri, I872, poi 1884), K. WITTE (Leipzig, Brockhaus, 1876), A. LuciANI (Roma, Botta, 1883), T. CASINI (Firenze, Sansoni, 1885; e cfr. anche la 3° edizione, 1933, per la prefazione di L. P!ETROBONO), G. L. PASSERINI (Torino ecc., Paravia, 1897, poi Firenze, Sansoni, 1900 e 1922, e Palermo, Sandron, 1919), G. MELODIA (Milano, Vallardi, 1905), H. COCHIN (Paris, Champion, 1909, poi 1914), F. FLAMINI (Livorno, Giusti, 1909), M. ScHERILLO (Milano, Hoepli, 1911, poi 1921), G. A. CESAREO (Messina, Principato, 1914), D. GUERRI (Firenze, Perrella, 1922), K. McKENZIE (Boston-New York-Chicago, Heath,1922), G. R. CERIELLO (Milano, Signorelli, 1925), L. DI BENEDETTO (Torino, U.T.E.T., 1928); lista che va integrata, per gli ultimi decenni, coi commenti di N. SAPEGNO (Firenze, Vallecchi, 193I), D. MATTALIA (Torino, Paravia, I936), A. POLVARA (Torino ecc., S.E.I., I938), A. PEZARD (Paris, Édition UNESCO, 1953), A. DEL MONTE (Milano, Rizzoli, 1960, nella raccolta delle Opere minori), U. LEo (Frankfurt a. M., Fischer, 1964), F. CHIAPPELLI (Milano, Mursia, 1965, in Opere di Dante), M. PAZZAGLIA (Bologna, Zanichelli, 1966, in Dante, Opere a cura di M. PORENA e M. PAZZAGLIA), G. CoNTINI (per la scelta della sua Letteratura italiana delle origini, Firenze, Sansoni, 1970), e con le Bemerkungen zu Dantes «Vita Nuova» di L. SPITZER (Publications de la Faculté des Lettres d'lstanbul, 1937), pp. 162-208, e le integrazioni di A. PÉZARD al proprio stesso commento cit., in «La rotta gonna», I, Firenze, Sansoni Antiquariato, 1967, pp. 15-48. I miei debiti nei confronti di questa imponente tradizione si dichiarano qui in generale, mentre sono denunciati puntualmente, ove occorra, nel corso del commento. D'altra parte, per le ragioni già accennate, tale tradizione non si esaurisce nel lavoro intorno all'operetta. Un posto speciale spetta ai commenti alle rime, che ne rappresentano anzi, a partire da quello dell'edizione di CONTINI già ricordata (Torino, Einaudi, 1939 e 19462 ), la punta avanzata. Dei dedicati alle sole estravaganti, come quello continiano appunto, citerò ancora quello di D. MATTALIA (Torino, Paravia, 1943). Di quelli all'intera serie delle rime, e integranti quelle della Vita Nuova nell'altra produzione lirica dantesca, vanno segnalati specialmente, dopo quello ormai semisecolare di G. ZONTA (Torino, Paravia, 1923), quelli di M. BARBI e F. MAGGINI per le Rime della «Vita Nuova» e della giovinezza (Firenze, Le Monnier, 1956) e di M. BARBI e V. PERNICONE per le Rime della maturità e dell'esilio (Firenze, Le Monnier, 1969), e quello di K. FOSTER e P. BOYDE (Dante's Lyric Poetry, 11, Oxford, at the Clarendon Press, 1967), che ripropone la lettura delle rime sulla base di nuovi ed estesi accertamenti culturali e formali. Vanno da ultimo ricordate le ampie schede dedicate alle singole rime, per lo più a firma di M. PAZZAGLIA, nella recente Enciclopedia dantesca, per la parte finora pubblicata. Né va dimenticato, come importante strumento di lettura e di raffronto, la Concordanza delle opere italiane in prosa e del canzoniere di E. S. SHELDON e A. C. WHITE (Oxford, at the Clarendon Press, 1905).
Dall'imponente bibliografia critica relativa alla Vita Nuova mi limito a estrarre i pezzi capitali (e tuttora validi) per la storia del libro e per quella della sua interpretazione; restando ben inteso che il pezzo (come ogni altra citazione) recante il mio nome è capitale solo per l'interpretazione presente. D'altra parte il rinnovamento degli studi riguardo alla cultura e al linguaggio poetico dugenteschi - e qui non si può non accennare alla cospicua serie di contributi testuali, linguistici e stilistici nel territorio dello stil novo, a cominciare da quelli che fan capo alla sezione riservatagli nell'antologia dei Poeti del Duecento di G. CONTINI- comporta che le citazioni siano particolarmente attuali e angolate, senza disconoscimento con questo del lavoro delle generazioni più lontane, né di tutto l'altro lavoro intorno a Dante. E s'intende che i riferimenti specifici si daranno di volta in volta nel corso del commento.
Il punto di partenza restano comunque le lunghe ricerche di M. BARBI, di cui si ricorda, accanto alla monumentale Introduzione all'edizione citata, lo scritto Razionalismo e misticismo in Dante (1933-1937), in Problemi di critica dantesca, II Serie, Firenze, Sansoni, 194I, pp. 1 -86, e, della I Serie, Firenze, Sansoni, 1934, pp. 99 - 112, La data della «Vita Nuova» e i primi germi della «Commedia» (I902). Su quest'ultimo punto va tenuto conto anche dell'articolo di S. SANTANGELO, La composizione della «Vita Nuova», in Saggi danteschi, Padova, CEDAM, 1959, pp. 21-91; mentre non si ritorna sulla questione della doppia redazione dell'operetta, del resto dibattuta ampiamente nel primo dei due scritti barbiani, e per cui si è già rinviato all'articolo conclusivo del MARTI, se non per dare gli estremi bibliografici delle proposte di L. PIETROBONO, Saggi danteschi, Roma, Signorelli, 1936, pp. 1-137, e di B. NARDI, Dalla prima alla seconda «Vita Nuova», in Nel mondo di Dante, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1944, pp. 1-20, e Dal «Convivio» alla «Commedia». Sei saggi danteschi, Roma, Istituto storico per il Medioevo, 1960, pp. 1-36. È particolarmente significativo che una decisa spinta a una considerazione più aperta dell'opera dantesca sia venuta da studiosi stranieri: dal memorabile capitolo sulla poesia giovanile di Dante dello studio di E. AUERBACH, Dante als Dichter der irdischen Welt, Berlin-Leipzig, de Gruyter, 1929, solo dopo trentacinque anni tradotto in nostra lingua (E. A., Studi su Dante, Milano, Feltrinelli, 1963), e da An Essay on the «Vita Nuova» di CH. S. SINGLETON, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1948, in traduzione italiana, Bologna, Il Mulino, 1968 (sugli Essays on the «Vita Nuova » di J. E. SHAW, Princeton University Press, 1929, cfr. M. BARBI, in «Studi danteschi», XV, 1931, pp. III-6); mentre una particolarmente fruttuosa, ed ininterrotta, linea di scoperta, su più specifici fondamenti filologici e linguistici, è individuata dal lavoro di G. CONTINI, dall'Introduzione all'edizione delle Rime del I1939 già citata, e dall'Esercizio d'interpretazione sopra un sonetto di Dante, ne «L'immagine», v (1947), pp. 289-95, e passando attraverso i contributi al testo e alla lettura degli stilnovisti e le successive «interpretazioni» di Dante, all'introduzione Cavalcanti in Dante all'edizione delle Rime di Guido, Verona, Officina Bodoni, 1966, e a quella all'antologia dell'operetta per la Letteratura italiana delle Origini già ricordata (tutti i pezzi danteschi, meno l'ultimo, ora in Varianti ed altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970). A precedenti ricerche sullo stil novo e sulla tradizione del testo delle Rime, poi estese alla cultura e alla formazione di Dante, si riconnette il mio studio Il libro della «Vita Nuova», Firenze, Sansoni, 1961, e in edizione accresciuta di nuove ricerche, ivi, 1970 (e si aggiunga ora Sulla cultura giovanile di Dante, in «Letture classensi», 4, Ravenna, Longo, 1973, pp. 229-60, ristampato nel volume Carte d'identità, Milano, Il Saggiatore, 1974, pp. 69-102). Si segnalano inoltre, come di particolare importanza: per un'interpretazione parzialmente difforme, il saggio di V. BRANCA, Poetica del rinnovamento e tradizione agiografica nella «Vita Nuova», in Studi in onore di Italo Siciliano, Firenze, Olschki, I967, pp. I23-48, che ripropone in nuovi termini il vecchio tema schiaffiniano della "legenda sanctae Beatricis"; la Nota introduttiva di F. MAZZONI all'edizione dell'operetta per i tipi di A. Tallone, Alpignano,1965; per i rapporti di questa con le istituzioni retoriche vigenti, la relazione di G. NENCIONI, Dante e la retorica, al Congresso «Dante e Bologna nei tempi di Dante», Bologna, Commissione per i Testi di lingua, 1967, pp. 91-112, e !'Introduzione di K. FOSTER al cit. Dante's Lyric Poetry, I, pp. IX-XLIII, nonché la nota Dante's Metric and Versification di P. BOYDE, ivi, pp. XLIV-LV; e per la coscienza storica e teorica di Dante riguardo alla poesia volgare, F. TATEO, «Aprire per prosa». Le premesse critiche della poetica dantesca, in Studi in onore di Antonio Corsano, Manduria, Lacaita, 1970, e La «nuova matera», e la svolta critica della «Vita Nuova», (come promozione all'«intendimenton allegorico del libro), in Studi di filologia romanza offerti a Silvio Pellegrini, Padova, Liviana, 1971 (ora riuniti in Questioni di poetica dantesca, Bari, Adriatica, 1972, pp. 27-75). Quanto alla prosa e alle sue articolazioni, fatto capo ai fondamentali studi di G. Lrsro, L'arte del periodo nelle opere volgari di Dante Alighieri e del secolo XIII, Bologna, Zanichelli, 1902, di A. ScHIAFFINI, Tradizione e poesia nella prosa d'arte italiana dalla latinità medievale a G. Boccaccio, Genova, Degli Orfini, 1934, pp. 121-53, e di C. SEGRE, La sintassi del periodo nei primi prosatori italiani, in Lingua, stile e società, Milano, Feltrinelli, 1963, si vedano i contributi di B. TERRACINI, Analisi dello "stile legato" nella «Vita Nuova», e Analisi dei toni narrativi nella «Vita Nuova», e loro interpretazione, in Pagine e appunti di linguistica storica, Firenze, Le Monnier, 1957, pp. 247-72, e La prosa poetica della «Vita Nuova», in Analisi stilistica, Milano, Feltrinelli, 1966, pp. 207-49, di A. VALLONE, La prosa della «Vita Nuova», Firenze, Le Monnier, 1963, e di C. GRAYSON, Dante e la prosa volgare, in Cinque saggi danteschi, Bologna, Pàtron, 1972, pp. 33-60. A testimonianza infine di quanto la Vita Nuova continui a parlare oltre la sua stessa storia, e sia ancora un libro vivo e interpretabile, ricorderò da ultimo gli studi ad essa dedicati (Introduzione alla « Vita Nuova» Artificio ed escatologia nella «Vita Nuova», Interpretazione del «gabbo») da G. BÀRBERI SQUAROTTI in L'artificio dell'eternità, Verona, Fiorini, 1972, pp. 9-129, e il saggio di R. KLEIN, Spirito peregrino , in La forme et l'intelligible, Paris, Gallimard , 1970, pp. 31-64.
Gli eventuali riferimenti ai commenti sopra citati si fanno, ad locum, con l'indicazione del semplice cognome del commentatore. Le opere di Dante vengono citate in forma abbreviata rispettivamente come Rime e il numero romano corrispondente all'ordinamento canonico del BARBI, 1921, adottato anche in questo volume, e, con i consueti riferimenti organici, come Conv. (Convivio), De vulg. el. (De vulgari eloquentia), Epist. (Epistole) e, per la Commedia, sotto le rispettive cantiche (Inf., Purg., Par.). Le citazioni di rime dugentesche, per incipit, si fanno normalmente, e salvo diversa indicazione, dalla raccolta in due volumi dei Poeti del Duecento di CONTINI, di questa stessa collana di classici. Le poesie di Cino da Pistoia e Dino Frescobaldi non comprese in essa si citano dalla raccolta dei Poeti del Dolce stil nuovo, a cura di M. MARTI, Firenze, Le Monnier, 1969; quelle di Chiaro Davanzati dall'edizione delle Rime a cura di A. MENICRETTI, Bologna, Commissione per i Testi di lingua, 1965; quelle di Dante da Maiano dall'edizione delle Rime a cura di R. BETTARINI, Firenze, Le Monnier, 1969; quelle di Cecco Angiolieri e degli altri "comici" pure non incluse nella silloge continiana, dalla raccolta dei Poeti realistici e giocosi di M. MARTI, Milano, Rizzoli, 1956.
L'intervallo tra il licenziamento di questo commento per la stampa (novembre 1973) e la sua pubblicazione richiede un minimo d'aggiornamento bibliografico.
L'avvenimento fondamentale è l'uscita di due importanti studi sulla poesia dell'età di Dante: Storia dello stil nuovo di M. MARTI, Lecce, MiIella, ottobre 1973, troppo tardi anche per un inizio di discussione, e Inchiesta sul Dolce Stil Nuovo di G. FAVATI, Firenze, Le Monnier, 1975 (ma a me noto in manoscritto). Per una più dinamica nozione dello stil novo dantesco decisivi gli accertamenti di G. GARNI, Lippo amico, in «Studi di filologia italiana» XXXIV (1976), pp. 27-44 (in particolare pp. 31- 4), e «Guido, i' vorrei che tu e Lippo ed io» (sul canone del Dolce Stil Novo), ivi, XXXVI (I978), pp. 21-37: il secondo anche nel senso di aver stimolato mie ulteriori ipotesi sulle relazioni Dante-Cavalcanti e sulla composizione dei sonetti della lode (ivi, pp. 39-65). Tutti abbastanza recenti i contributi di M. GUGLIELMINETTI, La «Vita Nuova» fra memoria e scrittura, primo e significativo paragrafo del cap. II (Dante e il recupero di "parlare di se medesimo") di Memoria e scrittura, Torino, Einaudi, 1977, pp. 42-72 (in forma ridotta anticipato in «Letture classensi», 6, 1977, La «Vita Nuova» come autobiografia, pp. 77-96); di M. PAZZAGLIA, La " Vita Nuova" fra agiografia e letteratura, in "Letture classensi", 6 (1977), pp. 187-210; di M. PREONE, Modelli e struttura nella «Vita nuova»in «Studi e problemi di critica testuale», 15 (ottobre 1977), pp. 50-61, di notevole rilievo metodologico (funzionalità dei modelli letterari all'interpretazione, per effetto della contestualizzazione della propria opera da parte di Dante ai fini di orientarne la lettura e la decifrazione), e con particolare dimostrazione sui sonetti dei capitoli IX e XIII, e Strutture poetiche e strutture prosastiche della «Vita Nuova » in «Modern Language Notes», 97 (1977), pp.117-29, ultimamente rifusi però in «Vita Nuova» e tradizione romanza, Padova, Liviana, 1979; di V. Russo, Strutture innovative delle opere letterarie di Dante nella prospettiva dei generi letterari, in «L'Alighieri», 2 (1979), in particolare pp. 6-9; di M. SANTAGATA, Dal sonetto al Canzoniere, Padova, Liviana, 1979, pp. 103-13 e 134-41, a proposito rispettivamente delle connessioni intratestuali (tra fronte e sirima del sonetto) e intertestuali (fra poesie contigue); e, per la ricerca del significato letterale come caratteristica del libro, di A. A. JANNUCCI, Brunetto Latini: «come l'uom s'etterna» in «NEMLA Italian Studies», I (1979), pp. 17-20. Si aggiunga quanto in seguito uscito di pertinente nell'Enciclopedia dantesca, in particolare l'art. di I. BALDELLI, Lingua e stile nelle opere volgari di Dante, vol. VI. Di tutti questi studi, non ho che da rammaricarmi di non aver potuto tener conto. Ricordo da ultimo che le Bemerkungen di L. SPITZER sono ora in traduzione italiana tra i suoi Studi italiani, a cura di C. SCARPATI, Milano, Vita e pensiero, 1976, pp. 95-146; e che la mia interpretazione del cap. XXII è stata anticipata e sviluppata in Storia della poesia e poesia della propria storia nel XXII della «Vita Nuova» in « Studi danteschi», LI (1978), pp. 153-77·
NOTE
[1] Se lo studio, come l'amore, «vuole tempo e nutrimento di pensieri» (Conv., II, ii, 3), l'inizio di esso «alquanto tempo» dopo l'anniversario di quella morte permetterebbe la maturazione dell'«apparizione» ventiquattro mesi dopo, nell'estate appunto del '93.
[2] È interessante che il Boccaccio, nella prima redazione del suo Trattatello in laude di Dante, assegnasse la Vita Nuova al ventiseiesimo anno d'età del poeta, ma nel successivo Compendio sopprimesse tale precisazione. Quanto all'ipotesi di una doppia redazione, già avanzata dal Pietrobono, e vivacemente riassunta in proprio dal Nardi, per giustificare il salvataggio in extremis di Beatrice di fronte alla gentile vittoriosa e il preteso annuncio finale, profezia post eventum, della Commedia, essa aveva già al primo round trovato solida confutazione, per voce del Barbi, nella sua non necessità e nell'univocità della tradizione manoscritta (ben altrimenti parlante riguardo al rapporto versi-prosa, cioè ai due momenti della diffusione indipendente dei primi e della loro sistemazione nel contesto del libro); ed ha, alla ripresa, ricevuto definitiva sepoltura ad opera del Marti (cfr., anche per letteratura relativa, M. Marti, Vita e morte della presunta doppia redazione della «Vita Nuova», in Studi in onore di Alfredo Schiaffini, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1965, «Rivista di cultura classica e medievale», VII, 1-3), pp. 657-69.
[3] Cfr. Lo doloroso amor, vv. 14, 15-6, Voi, donne, che pietoso atto mostrate, vv. 7-8, Lasso, per forza di molti sospiri, vv. 12-4.
[4] Cfr. R. JAKOBSON, Linguistica e poetica, in Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 1966, p. 209.