ALIGHIERI, Dante
Nacque a Firenze nel 1265, entro il periodo in cui il sole è nella costellazione zodiacale dei Gemelli - come egli stesso ci fa sapere (Par. XXII, vv. 112-117) -, cioè tra il 21 maggio e 21 giugno (più precisamente in maggio, stando alla dichiarazione che l'A. stesso avrebbe fatto sul letto di morte a ser Piero Giardini, riferita dal Boccaccio in Comento, ediz. Guerri, I, p. 128), da Alaghiero degli Alaghieri (tale la grafia più esatta del nome, in base agli antichi documenti; quella moderna prevalse col Boccaccio) e da Bella, di cui ci è stato tramandato il solo nome (Piattoli, 151), non il casato (ma, molto probabilmente, degli Abati). La famiglia apparteneva alla piccola nobiltà cittadina; guelfa di fazione, non compare, però, tra le famiglie guelfe ragguardevoli di Firenze.
Capostipite fu quel Cacciaguida che il poeta incontra nel cielo di Marte, nato circa il 1100 nelle case degli Elisei, come sembra certo dall'ubicazione del "loco" in cui dice esser nati lui e i suoi "antichi" (Par. XVI, vv. 40-42), e appartenente, parrebbe, a una nobilissima famiglia che si vantava di discendere dai Romani fondatori di Firenze: il che giustificherebbe l'analogo vanto dell'A. (Inf. XV, vv. 74-78). Non si sa se egli stesso lasciasse poi la casa in cui nacque; ma un documento del 1189 (Piattoli,1) mostra che i figli Preitenitto e Alaghiero I, pur restando nel sesto di Porta San Piero, avevano le loro case nel popolo di San Martino del Vescovo, confinanti con la proprietà della chiesa stessa, che oggi non esiste più, nel luogo dove oggi si mostra la casa di Dante. Cacciaguida sposò una donna della valle padana, che diede il nome suo, o piuttosto del padre suo - com'era costume - al figlio Alaghiero, donde il casato degli Alaghieri; morì combattendo in Terrasanta (c. 1147), al seguito dell'imperatore Corrado III, che lo aveva fatto cavaliere, nella seconda crociata (Par. XV, vv. 137 ss.). Secondo l'attestazione di Pietro di Dante in una redazione del suo commento a Par. XVI, vv. 97-99, Alaghiero sposò una figlia di quel Bellincion Beni, che Cacciaguida loda, insieme con la moglie, per la nobile semplicità dei costumi (Par. XV, vv. 112-114), ed ebbe due figli, Bellincione e Bello. Di Bellincione sappiamo che partecipò nel 1251 al Consiglio, tenuto in Firenze, in cui fu approvata l'alleanza tra Firenze e Genova; ebbe parecchi figli, tra cui Brunetto, che partecipò all'impresa contro Siena, terminata con la disfatta di Montaperti del 1260 (Piattoli, 31, 32), e Alaghiero II, padre dell'A. Alaghiero, a differenza dei suoi antenati e dei congiunti, non risulta che prendesse parte alla vita pubblica, né che avesse noie dai ghibellini dopo Montaperti, come il cugino Geri, figlio di Bello, posto dall'A. tra i seminatori di discordie (Inf. XXIX, vv. 18-27), la cui casa, invece, fu danneggiata dalla fazione vittoriosa (Piattoli, 35). Se fosse certo che la moglie Bella era figlia di Durante degli Abati, il cui nome sarebbe stato dato al nipote ("Dante" è appunto accorciativo di "Durante"), di famiglia ghibellina, si potrebbe pensate avergli giovato questa parentela. Da un documento risulta aver dato denaro a prestito (Piattoli, 30), ma ciò non prova che praticasse l'usura. Dalla tenzone di Forese Donati con l'A., parrebbe che non fosse persona di particolare riguardo: ogni altra meno generica indicazione che da essa si è voluta trarre (che fosse scomunicato, che morisse ucciso) è arbitraria. S'ignora quando perdette la prima moglie, e quando sposò la seconda, Lapa di Chiarissimo Cialuffi, dalla quale ebbe due figli, Francesco e Tana (accorciativo di Gaetana); un'altra figlia, sposata a un banditore del Comune, Leon Poggi, e madre di Andrea, amico del Boccaccio (Co mento, ediz. cit., II, p. 262), non si sa se fosse del primo letto (come forse è più probabile) o del secondo: e forse è questa la "donna giovane e gentile... di propinquissima sanguinitade congiunta" all'A., cui il poeta accenna in Vita nova XXIII, 11-12. Alaghiero era già morto nel 1283, giacché in quell'anno l'A., diventato maggiorenne, come orfano, a 18 anni, vendette un credito paterno. Nel 1277 aveva provveduto al futuro matrimonio del primogenito, legandolo, secondo un uso del tempo, a una figlioletta di Manetto Donati, Gemma (dello stesso ceppo di Forese, Piccarda e Corso Donati, in vario modo immortalati nella Commedia), cui Manetto assegnava la dote di 200 fiorini piccoli (Piattoli, 42, 146).
Dell'infanzia e adolescenza dell'A. non sappiamo nulla; ma l'essere stato destinato, fin da fanciullo, al matrimonio, basterebbe ad escludere ch'egli fosse stato chiuso quale novizio nel convento francescano di S. Croce, come qualcuno vorrebbe secondo un'antica tradizione. Non si esclude, invece, che possa aver frequentato le scuole inferiori tenute dai religiosi, come pure non può escludersi che possa essere stato suo maestro quel Romano " doctor puerorum populi Sancti Martini", che appare in un documento del 1277. Ma fin da giovinetto dovette studiare soprattutto da sé; e dovette assai presto apprendere "per sé medesimo l'arte del dire parole per rima" (Vita nova III, 9), se a 18 anni si sentì l'ardire di rivolgersi a "molti... famosi trovatori in quello tempo" col sonetto A ciascun'alma presa (ibid.). Che avesse appreso l'arte del di-segno risulta da un passo della Vita nova (XXXIV, 1); non si sa se anche la musica, sebbene sia certo che se ne intendesse e dilettasse assai, e che fosse amico di musicisti e cantori come Casella (Purg. II) e di artefici di strumenti come Belacqua (Purg. IV). Il solo maestro di cui l'A. faccia menzione, con espressioni di grande affetto e gratitudine, è Brunetto Latini. Da lui dichiara solennemente d'aver appreso "ad ora ad ora... come l'uom s'eterna" (Inf. XV, vv. 84-85); ma da queste parole, prescindendo dalla controversa questione se il Latini tenne veramente pubblico insegnamento di retorica, si desume soltanto che il vecchio "dittatore", senza impartirgli un regolare insegnamento, fu largo di occasionali ammaestramenti e incoraggiamenti verso il giovane poeta di cui aveva compreso l'altezza dell'ingegno e l'avidità di sapere e di gloria; e certamente della grande versatilità ed erudizione di Brunetto non poco dovette giovarsi, nella sua formazione, la mente enciclopedica dell'A., una delle più vaste del Medioevo. Un sonetto (Non mi poriano) in cui è un riferimento alla "Garisenda torre", trascritto da un notaio bolognese nei suoi memoriali del 1287, fa ragionevolmente supporre che intorno a quell'anno l'A. dovette essere a Bologna; ma ogni altra ipotesi intorno alla durata e alle ragioni del soggiorno è puramente arbitraria. Se realmente vi fu, ivi poté meglio conoscere e apprezzare la nuova lirica iniziata da Guido Guinizelli con la famosa canzone Al cor gentil; e in quel famoso Studio, dove convenivano scolari da ogni parte d'Italia, poté anche balenargli per la prima volta l'idea di un volgare illustre italico - il fiore delle varie parlate regionali -, che svilupperà più tardi nel De vulgari eloquentia. Certo è che gli studi della sua adolescenza dovettero prevalentemente essere orientati verso la poesia; e anche l'ambiente favoriva l'impulso naturale del giovinetto, giacché nella seconda metà del '200 in nessun'altra regione d'Italia la lirica era coltivata con tanto amore come in Toscana, e specialmente a Firenze. Ma non soltanto egli dovette cercare i poeti volgari - italiani e provenzali -, ma anche, e con tanto maggiore entusiasmo quanto più alta doveva avvertirne la perfezione artistica e maggiore l'utilità all'acquisto del "bello stilo" che doveva fargli onore, i poeti latini, specie Virgilio. I quattro latini (Virgilio, Orazio, Ovidio, Lucano), che con Omero e l'A. stesso formeranno nel IV canto dell'Inferno la "sesta compagnia" di grandi poeti, sono già riuniti nel cap. XXV della Vita nova in opposizione ai "grossi" rimatori volgari. C'è nell'opera dantesca una continuità di studio devoto della lingua e letteratura latina, che si deve far risalire ai primi corsi di grammatica del giovinetto. E questo debito, che non sarà soltanto di stile e di materia, verso la classicità finirà per isolare l'A. maturo dagli altri poeti della sua giovinezza, rimasti entro la tradizione e le esperienze della poesia contemporanea.
Malgrado le condizioni difficili della sua famiglia e l'esser presto rimasto orfano, l'A. poté, dunque, attendere liberamente agli studi verso cui si sentiva portato. Veramente le sue prime rime sono non più che esercitazioni di un tirocinante: il sonetto su citato, composto a diciotto anni, appartiene alla forma e al gusto delle corrispondenze poetiche, d'uso frequente allora, su questioni d'amore; e una corrispondenza poetica ebbe con Dante da Maiano, anch'essa ricalcata, nei concetti, nello stile, nella lingua, sui modelli della tradizione siculo-toscana; e a questi stessi modelli si riallacciano anche i componimenti inseriti nella Vita nova precedenti le "nuove rime", specialmente quelli dei primi dodici paragrafi. E tuttavia qua e là è possibile cogliere un verso, un costrutto, la collocazione di una parola, una movenza, una logica di svolgimento, che fanno presentire lo stile personalissimo dell'Alighieri. Al sonetto A ciascun'alma presa rispose, tra altri, Guido Cavalcanti: "e questo - racconta l'A. con tenerezza e compiacimento - fue quasi lo principio de l'amistà tra lui e me, quando elli seppe che io era quelli che li avea ciò mandato" (Vita nova III, 14). L'influsso esercitato sull'A. dal Cavalcanti, maggiore di lui di circa dieci anni, famoso come poeta e non meno ragguardevole come cittadino (era stato nel 1280, insieme con ser Brunetto, uno dei cittadini delle opposte fazioni firmatari della pace del cardinal Latino), fu certamente notevole, e non solo nei riguardi della poesia, ma anche del pensiero speculativo, e forse anche del costume. Per ciò che riguarda la poesia, sia la maniera più ariosa e leggera delle rime dantesche subentrata alla pesantezza della tradizione siculo-toscana (Guido, i' vorrei; Per una ghirlandetta; Deh, Violetta), sia l'accento drammatico della rappresentazione di un amore doloroso e pauroso (E' m'incresce di me; Lo doloroso amor) si richiamano, pur nell'indipendenza della realizzazione artistica, alla doppia ispirazione della poesia cavalcantiana. Per quel che riguarda la speculazione filosofica - anticipiamo qui, per completezza, una notizia riguardante un periodo posteriore - non è possibile escludere ogni relazione tra l'averroismo professato da Guido e le tracce averroistiche nella filosofia dell'Alighieri. Quanto al costume, è noto che il Cavalcanti fu, come lo descrisse Dino Compagni, "sdegnoso e solitario e intento allo studio"; e tale - come avviene nelle amicizie tra maggiori e minori di età - egli avrebbe voluto fosse il suo più giovane amico, come attesta indubbiamente il rimprovero "Solevanti spiacer persone molte, tuttor fuggivi l'annoiosa gente", ch'egli rivolse all'A. nel noto sonetto I' vegno il giorno a te, quali che siano esattamente le allusioni specifiche. E forse l'esempio di Guido non si cancellò mai dalla memoria dell'A., quando gli anni, le lotte, le sventure resero anche lui, come il "primo de li suoi amici" (Vita nova III, 14), sdegnoso e solitario e solo intento allo studio, come attestano Giovanni Villani e il Boccaccio. Ma nel periodo della piena "adolescenza", che, secondo le sue idee, finiva a venticinque anni, egli non di-sprezzò affatto gli svaghi e le brigate mondane e i corteggiamenti amorosi, tutto ciò, insomma, che appartiene al costume normale di quell'età: la Vita nova, le Rime e la stessa Commedia ci aiutano a formarci un'idea abbastanza esatta di ciò; e del resto la gaiezza e gentilezza della Firenze di allora, che attiravano forestieri da tutta Italia, dovevano favorire anche nell'A. la socievolezza del costume; e a questo periodo deve probabilmente riferirsi la lode di "usanza lieta e conversazione giovanile" datagli da Leonardo Bruni nella Vita Dantis. Le donne dello "schermo" della Vita nova adombrano certo persone realmente da lui corteggiate, talvolta in modo così imprudente da dar esca al pettegolezzo cittadino. Partecipava a feste e lutti di famiglie amiche, a ritrovi mondani in genere, in città e in campagna; scriveva elegantissime rime di galanteria amorosa, e, tra queste, "una pìstola sotto forma di serventese" (Vita nova VI) in menzione di sessanta belle donne fiorentine, nella quale pose al nono posto Beatrice e al trentesimo quella che avrebbe voluto seco nel vasello del buon incantatore, insieme con gli amici Guido e Lapo Gianni e le loro amate (cfr. il sonetto su cit., Guido, i' vorrei, v. 10); ed era conosciuto e guar-dato con curiosità e interesse dalle donne per qualche cosa di singolare che c'era in lui. Era esperto di equitazione (nella battaglia di Campaldino sarà tra i "feditori a cavallo"; e cfr. Vita nova IX, 7), ed anche di caccia (Rime LXI), specialmente - parrebbe - di quella col falcone (Inf. XVII, vv. 127-132; XXII, vv. 130-132; e quasi certamente anche Par. I, v. 51). Le prime due cantiche della Commedia sono piene di echi e memorie di questo periodo della sua vita, che indubbiamente comprovano in lui "l'usanza lieta e conversazione giovanile", una socievolezza che non disdegnava i contatti con nessun genere di persone, per il desiderio istintivo di "divenir del mondo esperto e delli vizi umani e del valore": e questo spiega e giustifica nel poema l'informazione minuta, di piccola cronaca, su tanti personaggi più o meno sconosciuti del suo tempo, che altrimenti sarebbe rimasta appunto cronaca o, peggio, pettegolezzo. Documento particolarmente notevole di questa scioltezza della sua vita giovanile sono i tre sonetti della tenzone con Forese Donati, cominciata probabilmente come scherzo, secondo certo cattivo gusto del tempo, ma trascesa a velenose offese e calunnie, delle quali l'A. volle fare esplicita ammenda in Purg. XXIII, vv. 85-93 e 115-117. Un riferimento, in uno dei sonetti di risposta di Forese, alla morte di Alaghiero come di fatto - così pare -non molto remoto, consiglia di assegnare alla tenzone una data non molto posteriore al 1283.
In mezzo a un'adesione così piena - senza le aristocratiche schifiltosità di Guido - alle varie forme della vita cittadina, fiorisce nell'intimità del cuore dell'A. l'amore per Beatrice, il fatto spirituale più importante della sua vita, perché intorno ad esso, nella singolare evoluzione ch'ebbe col tempo, si aggirerà, come intorno a fermo polo, il mondo ideale, morale e religioso dantesco. La storia di questo amore, un'esile trama - esteriormente - di pochissimi fatti, e per sé stessi insignificanti, è interiormente assai complessa, né in tutto facilmente accessibile alla nostra mentalità: il che spiega i tentativi di interpretazioni varie, intese a renderla in tutto razionalmente coerente. Ma occorre farsi coevi del poeta, e seguire, con la docilità che c'insegnano gli antichi suoi biografi e commentatori della Commedia, il lavorio della sua immaginazione che trasfigura a suo modo la realtà, della sua volontà che trasfigura il sentimento: così, quel che dapprima, in quella sua storia amorosa, sembra irrazionale, apparirà nient'altro che il suo particolare modo di interpretare e rappresentare il mondo esterno e i moti interiori, non disforme dai modi della spiritualità del suo tempo. Il poeta afferma (Vita nova II, 1-2; Purg. XXX, vv. 41-42) d'aver visto per la prima volta a nove anni Beatrice, fanciulla quasi della sua stessa età, e di essere stato immediatamente soggiogato dalla potenza di un amore sovrumano. Il fatto dev'essere sostanzialmente vero; e non deve far difficoltà la precocità di un sentimento così intenso: un sentimento di eccezione in un temperamento di eccezionale ricchezza sentimentale. La fervida immaginazione - egli racconta - spingeva il precoce fanciullo spesse volte a cercare l'amata, e gliela faceva apparire "non figliuola d'uomo mortale, ma di Deo". A diciotto anni Beatrice per la prima volta lo salutò e gli rivolse la parola: per l'A. fu la perfetta "beatitudine". Il suo amore non cercava altro che la vista di lei e il suo saluto. Sgomento e tremore nel sentirla vicina; poi, la felicità sembrava superasse le capacità dell'anima: felicità tutta e soltanto spirituale, perché la perfetta bellezza di Beatrice aveva il potere di purificare, chi la guardasse, da ogni vizio, e ispirare ogni virtù. Qualche tempo dopo, per una leggerezza da parte dell'A., Beatrice gli tolse il saluto. Il rapporto amoroso, già così distaccato e immateriale, s'interiorizza del tutto e si sublima: prima, fonte di beatitudine, ora Beatrice diventa oggetto di venerazione: l'A. incomincia le rime della lode.
La morte precoce della giovane donna (8 giugno 1290) compie il suo processo d'idealizzazione nel cuore del Poeta: viva, pareva cosa venuta "di cielo in terra a miracol mostrare"; morta, egli la vede splendente, fatta segno di onore nell'Empireo, una beata. Questa - schematicamente - la storia del suo amore, secondo il racconto della Vita nova: l'accompagnano, insieme con episodi di vita reale (la morte di un'amica e poi del padre di Beatrice, la scena del "gabbo"), visioni, incubi, sogni presaghi, deliri, che, anche a volerli considerare soltanto come abbellimenti poetici, rivelano un aspetto dell'immaginazione giovanile dell'A., la sua trepidante mobilità fra il reale e l'irreale, che aiuta a comprendere la singolarità di un amore ai confini fra la vita e il sogno, fra il terrestre e
il trascendentale. L'idea o, meglio, il sentimento della donna-angelo ha anzitutto (troppo spesso il dato storico fa dimenticare il lato umano) un fondamento universale nella trasfigurazione delle doti della persona amata che l'illusione amorosa opera nel cuore, specialmente dei giovani innamorati; storicamente, poi, era un dato acquisito, attraverso due secoli circa di elaborazione, dalla spiritualità del tempo in cui sorse e fiorì l'amore di Dante. Già lo spirito cavalleresco, divulgato dai romanzi d'amore, aveva fatto della donna del cuore l'ispiratrice delle imprese gloriose e della virtù; e il culto di Maria, per l'impulso dato ad esso specialmente da Bernardo di Chiaravalle e dai cisterciensi, aveva proposto al sentimento - oltre la sfera religiosa - l'ideale della donna piena di virtù, mediatrice tra il cielo e la terra. La poesia provenzale, pur legata all'ambiente delle corti feudali e al cerimoniale dell'amoroso vassallaggio, era talvolta giunta al concetto del "fino amore", che dai sensi si eleva alla contemplazione pura, disinteressata, della virtuosa bellezza femminile, e a una devozione che ha qualcosa di religioso. Poi la poesia siciliana e, in maggior misura, quella tosco-guittoniana si erano interessate del problema di amore, e ne avevano avvertito anche il lato spirituale e morale, Quando l'A., intorno ai diciott'anni (la data precisa potrà essere stata aggiustata per adattamento alla simbologia del 9), è per la prima volta salutato da Beatrice, era già da parecchi anni apparsa, e probabilmente aveva già avuto i suoi echi a Firenze, nelle rime di Monte Andrea e Chiaro Davanzati, e dello stesso Guido Cavalcanti, la canzone del Guinizelli Al cor gentil, che segna la data ufficiale di nascita, nella letteratura, della donna angelicata, ispiratrice e rivelatrice, per effetto della sua bellezza, dei più alti sensi in un cuore nobile di amante, miracolosa parvenza di Dio sulla terra, tale addirittura, - come lo stesso Guinizelli afferma nel Sonetto Voglio del ver la mia donna laudare - da convertire l'eretico alla fede cristiana, col suo semplice saluto. Nell'interpretazione guinizelliana della bellezza femminile l'A. trovò la rivelazione delle ragioni e dell'essenza del suo amore: una chiarificazione intellettuale e sentimentale, che consacrava il suo amore e lo sublimava. Sicché il processo di angelicazione e beatificazione di Beatrice, quale si svolse nello spirito dell'A. secondo il racconto della Vita nova, è non solo un documento del suo temperamento personale (meglio, di un aspetto del suo temperamento - quello fortemente idealistico -), ma insieme anche un'espressione del clima spirituale del suo tempo. Ma quel processo non si arrestò al punto di arrivo del racconto dell'"amoroso libello": in questo Beatrice beata è ancora la giovane donna fiorentina che il poeta aveva veduta e amata dalla puerizia alla morte, una creatura mortale salita al cielo: non si esce ancora, concettualmente, dalla sfera dell'insegnamento guinizelliano e della poesia che l'A. riconobbe trarre origine da esso e chiamò "dolce stil novo". L'ultimo stadio del suo processo evolutivo si attuerà nella Commedia, dove la donna mortale diventerà addirittura simbolo della teologia. Forse a una trasfigurazione di questo genere l'A. pensava già quando conchiudeva il racconto della Vita nova con la dichiarazione di non voler più dire di Beatrice, finché non potesse "più degnamente trattare di lei"; ma certo Beatrice come simbolo nacque insieme con l'idea della Commedia. E in questa trasfigurazione conclusiva non operò più, o non tanto, il sentimento, quanto piuttosto la volontà. La Beatrice della Vita nova, nella sua perfezione, aveva solo un valore personale: il poeta volle che avesse valore universale. Ne aveva già fatto una beata: volle darle una funzione di fondamentale importanza. Altri avevano glorificato la loro donna angelicata: l'A. volle "dicer di lei quello che mai non fue detto d'alcuna". E se si tiene presente il concetto della donna-angelo e la sua missione catartica e edificante, sia in senso morale sia in senso religioso, non deve parer strano che il Poeta abbia fatto della sua Beatrice, per glorificarla massimamente, la più sapiente mediatrice tra l'uomo e Dio, la maestra delle cose divine, appunto la teologia. È l'estremo punto di arrivo della strada iniziata dal Guinizelli; e non se ne vede altra più naturale, più logicamente coerente. Questa fu la novità dell'A.; e nello stesso tempo la conclusione - certo assai pesante per il nostro gusto - di un processo così interessante della spiritualità medievale in materia d'amore. Ma chi non segua con la necessaria docilità, sulla scorta del poeta stesso e nella temperie spirituale dell'epoca, l'evoluzione di Beatrice, da fanciulla non ancora novenne a simbolo della teologia, crederà di poter meglio risolvere quel che d'irrazionale, a prima vista, appare nella trasformazione di persona viva in un'astrazione, negando l'esistenza reale della persona stessa, e interpretando Beatrice come un mero simbolo fin dall'inizio. I dubbi sulla storicità di Beatrice cominciarono col Filelfo nel '400; ma nessuno dei molteplici tentativi di un'interpretazione simbolica è riuscito a risolvere senza gravi e inaccettabili arbitri tutti i problemi ad essa attinenti. Troppi sono, invece, gli argomenti in favore dell'esistenza storica di Beatrice, troppi gli elementi realistici della storia amorosa narrata dall'A.: e basterebbe il familiare accorciativo "Bice", che appare nel sonetto Io mi senti' svegliar, in Vita nova XXIV, incompatibile con la dignità e il valore di un simbolo. L'esistenza terrena di Beatrice si afferma imperiosamente persino nella Commedia, dove ideologicamente essa dovrebbe essere soltanto puro simbolo, e appare, invece, non diversamente da Virgilio, insieme simbolo e persona storica. Che poi sia stata, come vuole una tradizione non priva di fondamenti, Bice Portinari, figlia di messer Folco, molto ragguardevole cittadino, che abitava poco distante dalle case degli Alighieri, è questione secondaria. Bice Portinari andò sposa, giovanissima, a Simone di Geri de' Bardi; ma ciò non farebbe difficoltà: secondo le teorie del tempo, il matrimonio non costituiva impedimento all'amore estraneo: in sostanza, il "valore" che si celebrava nella donna era qualcosa di assoluto, fuori di ogni rapporto e condizione sociale; e Beatrice, chiunque sia stata, fu per l'A. più un'immagine ideale di bellezza femminile, proiezione del suo sentimento di amore e della sua religiosità, che non la donna che realmente fu. E appunto per ciò, anche dopo morta, anche allo spegnersi dei palpiti giovanili nel cuore dell'A., la memoria di quella bellezza santa, accompagnata da ineffabile gratitudine per le dolcezze di Paradiso gustate per essa, restò inalterati nel suo antico amatore, un punto fermo nella coscienza del poeta, attraverso il mutare delle sue esperienze di vita pratica e spirituale. E quel che di vivo ci sarà nella teologale Beatrice della Commedia sarà appunto il riflesso sentimentale, che illumina la sua figura, di questa costante memoria e gratitudine del poeta maturo.
Per completare il quadro degl'interessi, sentimenti, occupazioni di questo periodo della sua vita, quale abbiamo tracciato sulla scorta degli elementi forniti direttamente dalle sue opere, dobbiamo aggiungere che ben presto - sebbene a questo riguardo gli elementi diretti ci manchino egli dovette interessarsi, e vivamente, della vita pubblica della sua città. Come si è detto, il padre, Alaghiero, era rimasto appartato da essa; ma vi partecipavano ancora certamente gli zii Brunetto (Piattoli, 44) e Geri e Cione del Bello (Piattoli, 44, 45, 46, 61, 62, 70); avrà avuto pressappoco la sua età il cugino Cione di Brunetto, che nel 1306 compare tra i ghibellini tassati per la guerra condotta dal Comune contro di essi a Montaccenico (Piattoli, 97); suoi amici erano Brunetto Latini e Guido Cavalcanti, entrambi ragguardevoli rappresentanti della vita politica fiorentina del tempo, e il primo non solo ufficiale del Comune, ma anche attento trattatista di scienza politica, proclamata da lui "la plus noble et haute science", nell'ultimo libro del suo Trésor. Né è possibile prescindere dall'ambiente cittadino, tutto saturo di fermenti politici. L'A era prossimo ai quindici anni quando, con solenne e spettacolare cerimonia, in piazza di S. Maria Novella, fu giurata la pace, lungamente e tenacemente preparata dal cardinale Latino Malabranca, nipote di Niccolò III Orsini, tra i guelfi e i ghibellini di Firenze (18 febbr. 1280). La pace durò poco, e i ghibellini, oppressi dalla maggioranza guelfa che manteneva la Signoria, uscirono dalla città. Il Comune rinnovò allora le sue istituzioni. Nell'82 furono creati i priori, scelti, uno per ogni sesto, fra i cittadini più ragguardevoli delle Arti maggiori: la loro sede, dalla quale non dovevano muoversi per tutto il bimestre del loro ufficio, fu dapprima presso le case degli Alighieri, nella torre della Castagna; e tra i primi priori fu Folco Portinari. Nell'81 era passata per Firenze, molto festeggiata, come speranza di pace tra potentati avversi, la piccola Clemenza, figlia dell'imperatore Rodolfo d'Asburgo, che andava a Napoli come sposa del novenne Carlo Martello, figlio del primogenito di Carlo d'Angiò. Il quale ultimo vi passò a sua volta nel marzo dell'83, diretto in Francia, dove avrebbe dovuto risolvere, con un duello che non fu mai fatto, la vertenza col re Pietro d'Aragona, per il possesso della Sicilia, da lui perduto dopo l'insurrezione dei Vespri, e tenuto dall'altro. Nell'autunno dello stesso anno vi passò anche il figlio, il futuro Carlo XI il Ciotto, che nell'anno successivo doveva cadere prigioniero degli Aragonesi nella battaglia del golfo di Napoli (Purg. XX, v. 79). Tra l'82 e l'83 era stato capitano del Comune un nobile e gentile signore di Romagna, Paolo Malatesta. Nell'84 Firenze strinse alleanza con Genova e Lucca per abbattere Pisa; ma il conte Ugolino, ch'era podestà di questa, seppe abilmente farla staccare dalla lega, cedendo alcuni castelli (1285). La morte di Carlo I d'Angiò (1285) e la prigionia del suo successore, liberato soltanto quattro anni dopo, facevano intanto decadere il prestigio degli Angioini e risorgere la parte ghibellina. Firenze, anima della lega guelfa, n'era preoccupata. Arezzo, venuta nelle mani dei ghibellini, diventava minacciosa: nell'86 toglieva a Siena Poggio a Santa Cecilia, e Firenze si affrettava ad aiutare i Senesi a riacquistarlo. Si preparava la guerra. Ma anche a Pisa trionfava la parte ghibellina con l'arcivescovo Ruggieni Ubaldini, che dapprima aveva inimicato tra loro il conte Ugolino e suo nipote Nino Visconti, già dal conte associato nel governo, provocando così la cacciata di Nino, poi, il 1º luglio 1288, aveva a tradimento imprigionato il conte stesso con tre figliuoli e due nipoti, facendoli, dopo otto mesi, morire di fame. Nino, accolto ospitalmente a Firenze, era divenuto uno degli organizzatori della guerra ch'essa doveva fare anche contro Pisa. Intanto il 2 maggio dell'89, reduce dalla prigionia, era di nuovo passato per Firenze, per rientrare nel suo regno, Carlo II d'Angiò, accolto con feste grandiose, perché il risorgere degli Angioini dava sicurezza alla città; e vi aveva lasciato come capitano per la guerra un giovane cavaliere dal nome leggendario, Amerigo di Narbona. Una battaglia campale decisiva era desiderata sia dai guelfi grandi fiorentini, che speravano di trarne vantaggi politici, sia dagli Aretini, che avevano con loro il fiore dei ghibellini fuorusciti. E si venne alla battaglia di Campaldino. Sono fatti e personaggi contemporanei all'"adolescenza" dell'A., che rivivono nel mondo della Commedia, come rivivono sia "l'ovra e li onorati nomi" dei Fiorentini dell'età anteriore, da lui ricercati e appresi ad amare e a riverire (Inf. XVI, vv. 58-60), sia l'eco di ricordi ancora più remoti, evidentemente già scoloriti nella memoria stessa dei suoi informatori. E che l'A. dovette molto presto interessarsi alla storia e alla vita politica della sua città, crediamo anche per un'altra ragione, più profonda dell'influenza che poterono esercitare su lui parentele, amicizie, ambiente, avvenimenti: ed è che la passione politica fu congeniale col suo temperamento, una necessità della sua coscienza, non chiusa nell'ambito e nella coltivazione del proprio io, ma aperta a tutte le forme della vita associata, sollecita delle sorti di tutta l'umanità. Le lotte di parte, nelle quali, come vedremo, fu trascinato per qualche tempo, e l'esilio non giustificherebbero abbastanza la natura della sua passione politica, che in lui, superando il fatto personale, assunse la forma pura e disinteressata di una missione universale e l'ardore dei profeti e dei riformatori. Comunque, la prima notizia sicura della sua partecipazione alla vita del Comune si riferisce al suo intervento appunto alla battaglia di Campaldino (11 giugno 1289). La notizia è tramandata da Leonardo Bruni sia nelle sue Historie di Firenze, sia nella Vita Dantis. Il Bruni, segretario della Repubblica fiorentina, trovò nell'archivio del Comune un'epistola dell'A., per noi perduta, nella quale il poeta rammentava, dall'esilio, d'aver preso parte a quella battaglia combattendo a cavallo nella prima schiera, con gravissimo pericolo, avendo avuto dapprima "temenza molta, e nella fine grandissima allegrezza". La "temenza" dovrà riferirsi al fatto che all'inizio della battaglia "i feditori degli Aretini si mossono con grande baldanza a sproni battuti a fedire sopra l'oste de' Fiorentini", "e fu sì forte la percossa che i più de' feditori de' Fiorentini furono scavallati" (G. Villani, VII, 131). Ma i cavalieri aretini, incuneatisi tra le schiere nemiche che rinculavano, rimasero isolati dal resto dei loro: frattanto le due ali della lega guelfa avanzarono, si mosse anche audacemente Corso Donati, che, contravvenendo all'ordine precedentemente ricevuto di non muoversi, coi suoi 200 cavalieri pistoiesi (era allora podestà di Pistoia) assalì i nemici di fianco, e l'iniziale successo degli Aretini si trasformò in una tremenda sconfitta, che segnò il definitivo e assoluto trionfo della parte guelfa in Firenze. Perirono nella battaglia quasi tutti i capi ghibellini, tra i quali il comandante dell'esercito, Buonconte da Montefeltro. Di questo, nella raccolta dei cadaveri per la sepoltura, non si trovò il corpo: e al ricordo delle vane ricerche fatte sul campo evidentemente è legato il noto episodio del Purgatorio (V, vv. 91-129), come pure un ricordo vivo è certamente il racconto del violento temporale seguito alla battaglia (ibid.). Dopo la quale si fecero scorrerie nel territorio aretino, senza risultato positivo; si riprese anche la guerra contro Pisa, e il 16 agosto dello stesso '89 fu costretto alla resa il castello pisano di Caprona. A tutti questi fatti d'arme partecipò sicuramente anche l'A. (Inf. XXII, vv. 4-5; XXI, vv. 94-96). Comandava l'esercito della lega guelfa a Caprona Nino Visconti: la cordialità dell'incontro fra Nino e il poeta, nella val-letta dei principi (Purg. VIII, vv. 52-55), non può non riflettere una reale cordialità di rapporti stabilitasi fra i due, verosimilmente in quella circostanza.
Dalla morte di Beatrice, avvenuta, come si è detto, l'8 giugno 1290, al soggiorno di Carlo Martello a Firenze nel marzo 1294, non si hanno notizie attinenti alla vita pratica del poeta, fuorché quella insignificante della sua presenza quale testimone in un atto notarile del 1291. Anni importantissimi, invece, per la sua vita intellettuale, stando al racconto del Convivio, perché durante questi anni avvenne un ampliamento degl'interessi culturali, quasi un mutamento d'indirizzo nei suoi studi, che ora, dalla poesia, si volgono alla filosofia e alle scienze. Racconta l'A. nel Convivio (II, xii, 1-7) che, perduta Beatrice ("lo primo diletto de la sua anima"), rimase "di tanta tristizia punto, che conforto non gli valea alcuno", finché la sua mente, "che si argomentava di sanare", gli suggerì di ricorrere "al modo che alcuno sconsolato avea tenuto a consolarsi"; "e - così continua - misimi a leggere quello non conosciuto da molti libro di Boezio, nel quale, cattivo e discacciato, consolato s'avea. E udendo ancora che Tullio scritto avea un altro libro, nel quale, trattando de l'amistade, avea toccato parole de la consolazione di Lelio... ne la morte di Scipione amico suo, misimi a leggere quello. E avvegna che duro mi fosse ne la prima entrare ne la loro sentenza, finalmente v'entrai tanto entro, quanto l'arte di gramatica [cioè, la conoscenza del latino] ch'io avea e un poco di mio ingegno potea fare... E sì come essere suole che l'uomo va cercando argento, e fuori de la 'ntezione truova oro..., io, che cercava di consolarme, trovai non solamente a le mie lagrime rimedio, ma vocabuli d'autori e di scienze e di libri: li quali considerando, giudicava bene che la filosofia, che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa... E... cominciai ad andare là dov'ella si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti; sì che in picciol tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire de la sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero". E fu allora così assiduo il suo "studio di leggere" che gli si affaticò la vista tanto "che le stelle gli pareano tutte d'alcuno albore ombrate", e, per rimettersi, fu costretto a "lunga riposanza in luoghi oscuri e freddi" (Conv. III, ix, 15-16). Che l'A. con questo racconto abbia voluto dare all'amore per la filosofia un colorito eroico, per giustificare meglio il distacco dall'amore di Beatrice, non può essere messo in dubbio. Non è verosimile, infatti, che prima della morte di Beatrice l'A. fosse del tutto digiuno di filosofia e di scienze; solo avrà avuto per esse un interesse molto minore che per la poesia: e ciò infatti ammette egli stesso nel luogo citato del Convivio (II, xii, 4), attribuendo al suo ingegno naturale una certa intuizione di quelle discipline: "per lo quale ingegno molte cose, quasi come sognando, già vedea, sì come ne la Vita nova si può vedere". Comunque, si può convenire che tra il '91 e il '95 l'A. dovette dedicarsi, con tutto l'ardore del suo temperamento avido di sempre nuove esperienze intellettuali, ad estendere e approfondire la sua cultura filosofico-scientifica.
Scuole di religiosi famose a Firenze erano allora specialmente quella dei francescani a Santa Croce e lo Studium solemne, poi generale, dei domenicani a S. Maria Novella: nella prima si "leggevano" specialmente s. Agostino, i mistici, s. Bonaventura: vi aveva insegnato dal 1287 al 1289 Pietro di Giovanni Olivi, ardente propugnatore della povertà francescana, del quale era discepolo Ubertino da Casale, che fu capo dei francescani spirituali, allora considerato quasi un profeta e riformatore, ma sfavorevolmente giudicato dall'A. (Par. XII, vv. 124-126); nel secondo s'illustravano le opere di s. Tommaso e di Alberto Magno; vi era stato lettore e vi era poi tornato come predicatore, con grande successo, fra Remigio Girolami, discepolo di s. Tommaso. Quanto alle "disputazioni de li fliosofanti", l'A. alluderà probabilmente a conferenze e dibattiti che si saranno tenuti anche a Firenze, come risulta si tenessero altrove, su questioni scientifiche e filosofiche, e forse anche alle conversazioni e dispute amichevoli tra uomini di scienza, tra i quali ci sarà stato Brunetto Latini, se non anche il solitario e sdegnoso Guido Cavalvanti. Certo è che da quell'epoca l'esigenza speculativa diventò in lui non meno, anzi talvolta più profonda e urgente dell'istinto poetico, che ne rimase non di rado soffocato. Il che non vuol dire che da questi studi e da questa esigenza speculativa sia venuto fuori un pensatore originale, un autentico filosofo o scienziato, paragonabile, magari alla lontana, per grandezza, al poeta. Lo riconosce l'A. stesso, che in Convivio I, 1, 7 e 10, dichiara modestamente di non essere di "quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane de li angeli [cioè, la sapienza] si manuca", ma di raccogliere "a' piedi di coloro che seggiono di quello che da loro cade". E il maggior merito che si deve riconoscere alla sua speculazione e dottrina è ch'esse suggerirono alla sua fantasia e al suo sentimento originali e suggestivi motivi di poesia. Comunque, dagli studi intrapresi e perseguiti con tanto ardore egli venne in possesso di un sapere enciclopedico immenso; e, nei riguardi di questo sapere, si può con sicurezza affermare ch'egli non fu un ripetitore pedissequo del pensiero altrui, e tanto meno di un solo maestro, fosse pure grandissimo come s. Tommaso o Aristotele. Questi due, specie il secondo, esaltato in tutta l'opera dantesca come "il maestro di color che sanno", furono di fatto i suoi maggiori maestri; ma sul saldo tronco aristotelico-tomistico egli ammise innesti di altre dottrine, e persino di opinioni contrarie ai due maestri, perché egli cercò il possesso della verità per tutte le vie, attraverso tutte le dottrine di cui venne a conoscenza, non escluse quelle che rischiavano di allontanarlo dalla stretta ortodossia religiosa. La sua potente personalità, l'ingegno altrettanto potente e di carattere universale, l'immensa avidità di sapere, e anche il modo stesso della sua formazione intellettuale, indipendente da ogni scuola e maestro, diedero al suo intelletto la massima libertà di assorbimento dalle varie fonti della sua cultura, e fecero di lui un pensatore eclettico.
Non abbiamo elementi sufficienti per seguire ordinatamente il progresso dei suoi studi. Agli anni di cui stiamo parlando (1291-95) appartiene la composizione della Vita nova; e in questa egli cita esplicitamente la Metafisica di Aristotele (XLI, 6), Tolomeo (XXIX, 2), e parecchie volte la Bibbia; e ancora, oltre ai quattro grandi poeti latini, Omero (II, 8; XXV, 9). Ma le citazioni fatte dall'A. stesso non sempre derivano da conoscenza diretta delle opere, come l'assenza di citazioni non prova l'ignoranza di altre. Per restare alla Vita nova, le due citazioni di Omero (Iliade XXIV, 259 e Odissea I,1) derivano l'una dall'Etica di Aristotele, che non è citata, l'altra dalla citata Poetica di Orazio: egli non conosceva il greco, e non c'erano allora, secondo la sua stessa attestazione (Convivio I, vii, 15), traduzioni latine dei poemi omerici; e così gli accenni al calendario "secondo l'usanza d'Arabia... e di Siria" (XXIX, 1) provano ch'egli già conoscesse molto bene l'astronomo arabo Alfragano, benché non lo citi (lo citerà, però, nel Convivio, con esplicito riferimento al libro dell'Aggregazioni de le stelle); e così pure non è citato Boezio, che, come si è visto, poco dopo la morte di Beatrice, lo aveva iniziato agli studi filosofici, e gli aveva suggerito, con la mescolanza di prosa e di versi della sua Consolazione, proprio il modello per il suo libretto amoroso.
Così, in tutta la sua opera filosofico-scientifica egli non cita di s. Tommaso (e l'esaltazione fattane nei canti X, XI, XIII, XIV del Paradiso è la prova più eloquente del particolare studio e amore dedicato all'opera sua) se non il commento all'Etica aristotelica e la Summa contra gentiles; ma tutta l'opera stessa dimostra - secondo gli studi più attendibili -ch'egli conobbe assai bene sia l'altra Summa, quella theologica, sia gli altri commenti e ad Aristotele e ai libri della Bibbia, sia opuscoli quali il De regimine principum. Di Alberto Magno, il maestro di Tommaso, cita il commento alle Meteore, i libri De la natura de' luoghi, De le proprietadi de li elementi, De lo intelletto; ma, scrive il Nardi (La filosofia di Dante, in Grande antologia filosofica, IV, Milano 1954, p. 1156) "egli conosce sicuramente anche altri scritti e segnatamente il commento al De somno et vigilia, e il De natura et origine animae, come appare da raffronti sicuri ed evidenti"; e dai commenti aristotelici di Alberto lo stesso studioso crede "derivino quasi tutte le citazioni ch'egli fa di filosofi arabi, e particolarmente quella di Alpetragio" (ibid., p. 1157: dei filosofi e scienziati arabi l'A. cita - oltre Alpetragio - Algazel, Albumasar, Avicenna, Averroè). Ma il filosofo che l'A. cita incomparabilmente più spesso di ogni altro, si può dire continuamente, è Aristotele, e non soltanto dall'Etica e dalla Fisica, che in Inferno XI, vv. 80 e 101, egli proclama addirittura "sue", ma da quasi tutte le altre opere, delle quali esistevano almeno due traduzioni latine; e se si aggiungono le altissime lodi che l'A. fece di lui, chiamandolo non solo "il maestro di color che sanno", ma anche "il mio maestro", il "maestro e duca de la ragione umana" e "de la nostra vita", e definendo la sua dottrina "quasi cattolica opinione", si può affermare che Aristotele fu per l'A. nella sfera del sapere quello che Virgilio fu nella sfera della poesia. Di Platone, invece, non pare avesse conoscenza diretta, fuorché del Timeo. Notissimo gli fu il Liber de causis, già attribuito ad Aristotele (ma non mai dall'A.), riassunto dell'Elementatio theologica del neoplatonico Proclo. Di Cicerone, oltre all'"Amistade" nel luogo su riferito del Convivio, cita il De finibus, il De inventione, il De officiis, i Paradoxa, il De senectute. Di Seneca cita il De benefficiis e le epistole a Ludilio, e a lui attribuisce, come tutti al suo tempo, due opere, De quatuor virtutibus e Remedia fortuitorum, che appartengono, invece, a Martino Dumiense (l'A. non pare conoscesse se non il "Seneca morale": il Seneca tragico è noto invece all'autore dell'epistola a Cangrande). Sono citati, per la scienza medica, i Tegni (cioè la Τέχνή ἰατρική) di Galeno e gli Aforismi di Ippocrate. Degli scrittori ecclesiastici più antichi cita Dionisio Areopagita, s. Agostino, s. Girolamo; degli scolastici, oltre all'Aquinate e ad Alberto Magno, cita Gilberto Porretano e Pietro Lombardo. Da notare l'assenza di citazioni dai mistici (s. Bernardo, Ugo e Riccardo da S. Vittore - quest'ultimo, però, citato nell'epistola a Cangrande Gioacchino da Fiore, s. Bonaventura), autori che senza dubbio dovette conoscere direttamente, e, almeno al tempo della composizione del Paradiso, avere particolarmente familiari. Questa, approssimativamente, la ri-costruzione della biblioteca filosofico-scientifica, e questi gli autori sui quali si formò il mondo dottrinale di Dante. Innanzi ai quali (non sembri superfluo ricordarlo) è da porre la Bibbia - fondamento, guida suprema e norma inderogabile non solo del pensiero teologico, ma di ogni filosofia e di ogni scienza nel Medioevo -, che l'A. possedette interamente come pochi, facendo di essa senza dubbio il nutrimento più sostanziale e del suo intelletto e del suo sentimento.
Ma nel processo formativo del suo mondo dottrinale ci fu un momento, non esattamente precisabile nel tempo, né nei suoi elementi e termini spirituali, in cui la speculazione filosofica rischiò di far deviare l'A. dalla stretta ortodossia religiosa, fino al punto da sembrare, più tardi, al Poeta, rievocando quel periodo, d'essere stato sulla soglia della morte eterna dell'anima. A questa crisi d'ordine intellettuale e religioso sono legati l'allegoria fondamentale della Commedia (smarrimento del poeta nella selva oscura, donde la necessità del viaggio di espiazione e ammaestramento nell'oltremondo) e i rimproveri di Beatrice sulla vetta del Purgatorio: sicché dall'interpretazione e precisazione di essa discende l'interpretazione non soltanto di alcuni accenni del poema ad essa relativi, ma dell'ispirazione fondamentale del poema stesso; e discende anche una valutazione alquanto diversa del mondo interiore e della personalità di Dante. Per il Barbi non si sarebbe trattato di una crisi filosofico-religiosa, ma solo di un traviamento morale in senso lato, comprendente l'errore "di aver curato troppo le cose terrene in confronto dell'amore che si deve al primo Bene", tra le quali la "scienza mondana", considerata "non già una colpa a sé, di orgoglio filosofico", ma una sola colpa con tutti gli altri desideri di vanità mondane; sicché "il rimprovero di Beatrice a Dante per aver seguitato una scuola diversa dalla sua" (Purg. XXXIII, vv. 85-87) ritornerebbe "a quello per la 'pargoletta' e per le 'altre vanità' genericamente designate nel XXXI del Purgatorio" (Razionalismo e misticismo, in Studi danteschi XXI, 1937, pp. 19-34). Noi riteniamo, con altri studiosi, quali il Pietrobono e il Nardi, che, quando Beatrice, che è simbolo della teologia, cioè dell'ortodossia religiosa, parla di una "scuola" e di una "dottrina" seguite dall'A., lontane dalla sua quanto la terra dal Primo Mobile, e induce l'A. a confessare d'essersi "straniato" da lei, e conchiude il suo lungo rimprovero, iniziato nel canto XXX, col ribadire la "colpa" insita in quel suo straniarsi, riteniamo che non si possa dare alle parole di Beatrice il significato generico sostenuto dal Barbi, invece del valore di riferimento preciso a una "scuola" e a una "dottrina" lontane dalla teologia cattolica. Negando la realtà o gravità di un traviamento filosofico-religioso nell'A., e limitando all'eccessiva cura delle cose mondane il dramma spirituale allegorizzato nel suo smarrimento entro la selva, viene indebolito il valore drammatico e il significato ideale del viaggio oltremondano, il quale rappresenta un interiore processo non solo dal vizio alla virtù, ma anche - anzi essenzialmente - dall'ignoranza e dall'errore alla conquista della verità, processo che culmina e si risolve nella conquista della suprema verità che è Dio.
Ma anche se si volesse così impoverire il concetto ispiratore, il dramma ideologico della Commedia, vi sono nell'opera dantesca troppi e troppo gravi indizi per poter mettere in dubbio l'esistenza di un traviamento intellettuale dell'A. in senso religioso, quale che ne sia stata la durata e la gravità; a cominciare dal fondamentale dato strutturale del poema per cui Beatrice è guida necessaria alla redenzione dell'A. dagli errori appunto filosofico-religiosi in cui egli era caduto, come Virgilio nei riguardi delle colpe morali. E se si potesse con sicurezza interpretare il simbolo di Medusa, invocata dalle Furie davanti alle mura della città di Dite (Inf. IX, vv. 52-60), come quello del dubbio pietrificante, avremmo un'allusione molto significativa, di carattere - parrebbe - evidentemente personale, nella premura con cui Virgilio non solo si affretta a comandare al suo alunno di volgersi indietro e chiuder gli occhi, ma lo fa voltare lui stesso, e, non contento che Dante si sia coperto gli occhi con le mani, vi sovrappone le sue. Più sicura e scoperta - quanto è possibile in concezioni criptoformi di questo genere - è l'allusione personale nell'episodio di Cavalcante Cavalcanti nel X dell'Inferno. Attribuendo a Cavalcante l'opinione che pari dovesse essere la sorte del figlio Guido e del suo amico, il poeta doveva avere le sue buone ragioni, che è assurdo pensare limitate alla parità dell'ingegno in fatto di poesia, come dimostra anche la risposta dell'A., la quale è una rettifica di quell'opinione; non più pari la sorte dei due amici, perché egli, a un certo momento, si era posto a seguire Beatrice, e Guido no. Ma, al di là di siffatti indizi allusivi, è lecito, penetrando nel vivo del pensiero filosofico dell'A., precisare intorno a quali problemi metafisici e religiosi si affaticasse la sua mente con un'insistenza e un'inquietudine tali da far vacillare per alcun tempo in lui la fede dogmatica. Uno è quello relativo alla giustizia divina, che - secondo l'ortodossia cattolica - condanna all'Inferno chi, senza colpa, anzi anche osservando tutte le virtù cardinali, non ebbe la fede cristiana perché materialmente non ne ebbe conoscenza (Monarchia II, vii, 4-5; Par. XIX, vv. 67-84). Un altro problema, che dovette essere per l'A. fonte di dubbi insistenti, come dimostrano i molti luoghi in cui egli ne tratta (Conv. IV, xxii, 4-10; Monarchia I, xii, 1-6; Purg. XVI, vv. 67-81, XVII, vv. 91-102, XVIII, vv. 40-75; Par. V, vv. 19-24), è quello del libero arbitrio, fondamento del giudizio morale, e, quindi, della legittimità del premio e castigo nell'oltretomba. Ancora un altro grave e pericoloso problema, che poteva condurre alla negazione dell'immortalità dell'anima individuale, e, quindi, dell'oltretomba, dovette non poco affaticare la mente di Dante: quello sulla natura e funzione dell'intelletto possibile. Esplicitamente, riguardo a questo problema, l'A. accetta un'opinione di Averroè, secondo cui l'intelletto possibile non può essere interamente attuato (e quindi il sapere umano non può essere interamente conquistato) da un solo uomo, ma da tutto insieme il genere umano (Monarchia I, iii, 6-9). Ma il pericolo grave della dottrina averroistica era l'opinione che l'intelletto possibile fosse un'intelligenza unica, universale, che si separava, alla morte dell'uomo singolo, dalla sua anima, a cui era stata congiunta solo per il tempo della vita. A questo pericolo alludono le parole di Stazio a Dante ("quest'é tal punto, che più savio di te fe' già errante", Purg. XXV, vv. 62-63), delle quali non sarebbe giustificata la formulazione, se non implicassero il riferimento a una temporanea caduta dell'A, stesso, esplicitamente chiamato in causa, nell'errore di Averroè. E se si pensa all'alta stima che l'A. dimostra per questo filosofo, di cui accetta più di una opinione, e se si tiene nel debito conto la sua stretta amicizia con Guido Cavalcanti, imbevuto di averroismo, si può a buon diritto concludere, anche per questa via, che per un certo tempo il pensiero filosofico dell'A. non dovette essere lontano da quello del suo amico. Infine, un altro problema sappiamo aver profondamente turbato la sua mente: quello "se la prima materia de li elementi era da Dio intesa". Racconta nel Convivio (IV, 1,8) ch'esso gli parve così arduo da distoglierlo per un poco dagli studi filosofici: la soluzione non ortodossa dell'arduo problema portava a una limitazione o della creazione o dell'onniscienza divina, opinioni contrarie alla fede. Sono, come dicevamo, troppi e troppo gravi tutti questi indizi, allusioni e confessioni di dubbi che hanno attinenza col credo religioso, per non concludere che nel periodo più intenso dei suoi studi filosofici, la presunzione, ch'egli ebbe, di tentare di risolvere con le sole forze dell'intelletto, indipendentemente dalla dottrina rivelata, i più ardui problemi metafisici e religiosi dovette condurlo probabilmente alla soglia del dubbio, e certamente farlo deviare dalla stretta ortodossia cattolica. Perfino più tardi, scrivendo il Paradiso, quei problemi gli si presenteranno ancora nella loro palpitante drammaticità, anche se egli chinerà la fronte in un atto di fede nella imperscrutabile bontà, sapienza e giustizia di Dio. È questo il periodo della sua "follia", per la quale fu sì presso alla morte spirituale che "molto poco tempo a volger era", il periodo in cui "tanto giù cadde, che tutti argomenti alla salute sua eran già corti", come affermano concordemente Virgilio e Beatrice (Purg. I, vv. 59-60; XXX,vv. 136-137). Il suo inizio e la sua durata, come, d'altra parte, il modo del ravvedimento, sono il segreto della vita interiore di Dante. Ma, se si tien conto della confessione del suo smarrimento nella valle, ch'egli fa a Brunetto Latini, morto nel 1294, e della data dell'immaginario viaggio oltre-mondano (1300), sembra giusto collocare la sua crisi filosofico-religiosa entro queste due date. Coloro che questa crisi fanno durare fino all'interruzione del Convivio (1308), o alla composizione della Monarchia (1312-13?) trascurano arbitrariamente e senza alcun motivo la data assegnata dal poeta al suo viaggio di redenzione (L. Pietrobono, B. Nardi). Sarà da ritenere, piuttosto, che la crisi non dovette durare a lungo, e che dovette risolversi in un'epoca più vicina al 1294 che non al 1300. Insieme con quell'insaziabile avidità di sapere, che non lo faceva arrestare davanti ai dubbi più pericolosi, c'era nell'A. un'esigenza non meno ardente di verità assolute e incrollabili: ed egli doveva necessariamente presto riconoscere che solo nella fede era possibile trovarle, non nella scienza mondana, con le sue soluzioni insufficienti e contraddittorie. E forse appunto perché conquistata attraverso il dubbio e la delusione, la sua fede religiosa trasse il carattere di assoluta necessità razionale e di suprema pacificatrice dell'intelletto. Il che non fece affatto dell'A, un mistico, ma solo un credente di granitica fede: il convinto riconoscimento, da parte del credente, dei limiti della ragione a risolvere i problemi ultimi non avvilì mai, agli occhi del pensatore, la nobiltà della mente umana, "fine e preziosissima parte de l'anima che è deitade" (Conv. III, ii, 19). Perfino scrivendo il Paradiso esalterà la potenza dell'umano intelletto, affermando, con la stessa baldanza del Convivio, che, attraverso il dubbio rampollante dalle verità acquisite, l'impulso naturale "al sommo pinge noi di collo in collo", cioè alla vetta del sapere. Tutta, del resto, la Commedia, che dovrebbe riflettere, secondo alcuni critici, l'atteggiamento mistico assunto dall'A. dopo l'esperienza razionalistica, prova, al contrario, ch'egli non rinnegò mai il valore altissimo e l'uso continuo della "più nobile parte" dell'uomo, la ragione, dalla quale chi "si parte... non vive uomo, ma vive bestia" (Conv. II, vii, 3-4). Virgilio, che nel poema simboleggia la ragione umana e la filosofia, è sollecitato da Beatrice a soccorrere Dante, e lo guida per i due terzi del suo viaggio oltremondano. Né l'A. abbandona nel poema la filosofia scolastica per la mistica: perfino facendo a s. Pietro la sua professione di fede, egli non rinunzia alle "prove fisice e metafisice" dell'esistenza di Dio, accanto alle Sacre Scritture; accanto alle quali, ancora una volta, mette i "filosofici argomenti" e "l'intelletto umano", quando è interrogato da s. Giovanni sulla carità. E se, al compimento del suo supremo desiderio, alla visione di Dio, egli è condotto da un mistico, s. Bernardo, con ciò non viene certo rinnegata Beatrice, che alla contemplazione mistica lo ha disposto con la dimostrazione delle verità metafisiche e teologali a cui la mente umana può giungere, "provando e riprovando" scolasticamente. Ma neppure nello svolgersi della stessa suprema visione, nell'ultimo canto del Paradiso, avvertiamo l'anima del mistico, estraniata dai sensi, consunta dalla fiamma dell'amore, annegata nell'immensità di Dio: c'è un intelletto lucidissimo, teso con tutte le sue forze a guardare e comprendere entro l'essenza divina, più inebbriato delle sue progressive conquiste che non sgomento dei misteri che gli si rivelano, tanto da presumere di spiegarsi con argomenti di ragione perfino il supremo mistero dell'Incarnazione, come un matematico che dovesse risolvere un problema. Il preteso misticismo dell'A. si compendia nel comune sentimento e convincimento di ogni sincero credente, che la mente umana non può arrivare a scoprire il mistero dell'universo e di Dio, e perciò solo nella fede è la suprema verità; che la Vita mortale è preparazione all'eternità, e perciò a questa, come a sua meta, l'uomo deve mirare; che solo in Dio, in questa e nell'altra vita, è la pace dell'anima, il bene perfetto, l'immutabile felicità. Il quale convincimento e sentimento non impedisce al credente, come non impedì all'A., di attendere ad ogni forma della vita pratica, o di esercitare l'intelletto in ogni forma di speculazione, che non siano, l'una e l'altra, in contrasto con la fede. Questo il processo della speculazione filosofica dell'A., iniziatosi poco dopo la morte di Beatrice; e questo l'atteggiamento del suo spirito, di fronte alla filosofia e alla scienza, fissatosi entro l'ultimo lustro del '200, dopo un breve traviamento dall'ortodossia religiosa. Questo atteggiamento si riflette invariato, con le sole sfumature che la diversità dell'argomento comporta, in tutte le sue opere successive, dal Convivio alla Commedia: insaziabile, eroico desiderio di conquistare tutta la verità accessibile alla mente umana, e, nello stesso tempo, sicurezza incrollabile, perché derivante dalla consapevolezza dei limiti della nostra mente, nelle verità ultime insegnate dalla fede. E non si tratta, com'è parso a qualcuno, di posizioni spirituali in intimo e sotterraneo conflitto tra loro: come per ogni sincero credente di alto intelletto, filosofia e fede, verità di ragione e dogma furono per l'A. complementari tra loro, come Virgilio è complementare di Beatrice, ed entrambi illuminano e pacificano la sua mente inquieta per avidità di conoscere.
Al tempo in cui con maggior fervore l'A. attendeva agli studi filosofici, giunse a Firenze, nel marzo 1294, Carlo Martello, figlio e luogotenente di Carlo II d'Angiò, per attendervi il padre che tornava di Provenza; e vi "stette più di venti dì,... e da' Fiorentini gli fu fatto grande onore, ed egli mostrò grande amore a' Fiorentini, ond'ebbe molto la grazia di tutti" (Villani, VIII, 13). Probabilmente l'A. fu tra i cavalieri messi dal Comune a disposizione del principe; comunque, Carlo lo conobbe e dovette mostrargli viva simpatia e fargli promesse, e specialmente apprezzarlo come poeta, tanto che nel Paradiso, dove l'A. lo incontrerà, si compiacerà di ricordare una delle sue più originali canzoni d'amore (Voi ch'intendendo). Nell'ottobre dello stesso '94 fu inviata dal Comune a Napoli un'ambasceria per fare omaggio al nuovo pontefice, Celestino V, ospite ivi di Carlo II: che l'A. facesse parte di essa è congettura che non ha nulla d'inverosimile, e potrebbe spiegare, invece, sia il riconoscimento, nell'Antinferno, dell'"ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto" (Inf. III, vv. 59-60), sia la citazione fatta, a titolo di onore, della famiglia "Piscitelli da Napoli" in Conv. IV, xxix, 3. La canzone Voi ch'intendendo, già, dunque, composta nel marzo del '94, ma probabilmente da poco (è verosimile che l'A. abbia fatto conoscere al principe le sue novità), riflettendo il conflitto, narrato nei capp. XXXV-XXXIX della Vita nova, tra il ricordo di Beatrice morta e l'amore per una "gentile donna, giovane e bella molto", potrebbe indicare l'epoca tra la fine del '93 e il principio del '94 come termine indietro al quale non si dovrebbe far risalire la composizione dell'amoroso libello. E poiché in Conv. I, 1, 17, l'A. dice di averlo scritto "a l'entrata de la gioventute", cioè poco dopo i ventisei anni, non sembra legittimo protrarre il terminus ad quem della composizione dell'operetta giovanile oltre il 1295 circa. E chi sa che una spinta alla composizione di essa non gli sia venuta anche dal desiderio di comparire meglio, con un'opera così originale, agli occhi del principe amico, quale "autore di arte cosciente" (Barbi). Ch'egli volesse fare un'opera d'arte dotta è dimostrato non solo dalle pesanti divisioni retoriche delle poesie inserite, ma più ancora dalle frequenti espressiqni latine nei momenti più solenni del racconto, dalle citazioni erudite, di cui si è detto più su, dagli accenni a problemi di arte e di stile (tutto il cap. XXV è una disquisizione sui confini e diritti della poesia volgare rispetto alla poesia latina). Né si può escludere ch'egli, intorno ai trenta anni, molto probabilmente già marito e padre, volesse allontanare da sé quella taccia di leggerezza in fatto di amori, di cui si preoccuperà esplicitamente nel Convivio, facendo apparire altri amori (le donne dello "schermo") come finzioni per nascondere l'amore vero, e mostrando che anche quello per la "donna gentile", in cui aveva cominciato realmente a "consentire", era stato presto stroncato dall'amore unico per Beatrice. Vero è che, quali che siano state le ragioni immediate della composizione, il libro venne fuori come una meditazione e chiarificazione interiore, come un'interpretazione religiosa del suo amore per Beatrice. Il che appare non nelle poesie, scritte attraverso un decennio, con ispirazioni diverse, e non tutte felicemente scelte e inserite nel racconto prosastico, ma appunto in questo, scritto certamente senza interruzione di tempo, si direbbe di getto, tanto unitaria e coerente è la sua ispirazione e tonalità. Fu un altare innalzato all'"angiola giovanissima" della sua puerizia, alla "gloriosa donna della sua mente"; ma fu anche un'alta professione di fede in sé stesso, un impegno di superiore vita spirituale. La trasfigurazione angelica di Beatrice era anche la sua spirituale trasfigurazione. In virtù di quell'amore egli si sentì un predestinato, un eletto: bisognava rendersi degno di quell'angelica creatura. Il mondo etico-religioso dell'A., su cui essenzialmente si fonda la sua personalità di uomo e di scrittore, comincia come atto di amore, e la sua prima e fondamentale manifestazione è il romanzo della Vita nova. E poiché esso conchiude la varia esperienza sentimentale dell'età "fervida e passionata" del poeta con un'affermazione di pura, trascendente spiritualità, non sembrano concepibili sbandamenti posteriori, non solo amorosi, ma neppure morali o intellettuali. E pertanto, nella mancanza di dati che ci consentano di seguire con sicurezza il processo della biografia spirituale dell'A., sembra ragionevole considerare l'epoca della composizione della Vita nova, che, per le ragioni esposte, crediamo debba aggirarsi intorno al 1295, come il momento più importante, decisivo, di quel processo, il momento in cui avvenne il superamento della crisi intellettuale-religiosa e il consolidamento della sua concezione della vita umana come una continua ascesa spirituale fino a Dio.
Il romanzo, poi, non ha solo un valore di ideale autobiografia: riuscì anche un'originalissinia opera di poesia, trepidante della memoria di quella giovanile esaltazione, dominata dal senso del divino che gli si era rivelato nel sentimento terreno dell'amore, trasfigurando la realtà. Tutto, infatti - luoghi, persone, paesaggi, avvenimenti, incontri, colloqui -, risulta trasportato ai confini tra la realtà e l'irrealtà, fino all'allucinazione; i moti stessi dell'anima diventano spiriti che parlano misteriosamente al poeta, quasi uno sdoppiamento della sua coscienza. Certo, non tutto, in questa rarefazione e trasfigurazione della realtà, è poeticamente felice: specialmente nella prima parte si avverte la volontà del poeta di una ricerca di invenzioni sottili e di una forma preziosa: è manierato e involuto; e, in generale, l'apparente primitività non nasconde la raffinatezza del letterato.
Sotto questo aspetto la Vita nova è anche la prima grande prosa d'arte italiana, pausata e clausolata musicalmente (talvolta con troppa e compiaciuta mollezza), in una lingua scelta, nobile, armoniosa.
Contemporaneo a questa definitiva sistemazione spirituale è l'inizio della sua partecipazione alla vita politica del Comune: è l'ultimo lustro del '200, durante il quale, "tolta donna, e vivendo civilmente ed onesta e studiosa vita, fu adoperato nella repubblica assai", come scrisse Leonardo Bruni. Veramente, quando si effettuasse il matrimonio dell'A. con Gemma Donati, combinato, come si è già detto, dai rispettivi genitori nel 1277, non si sa. Se fosse certo che quel Giovanni, figlio Dantis Alagherii de Florentia, che compare come testimone in un atto notarile lucchese del 21 ott. 1308 (Piattoli, Appendice II,1), fosse figlio dell'A. (bandito da Firenze, come figlio di ribelle, secondo una dura disposizione del giugno 1302, ribadita e aggravata da un'altra del gennaio 1303, appena raggiunti i 14 anni), si potrebbe stabilire che nel 1294 il poeta era già padre. Al riguardo, sappiamo solo che prima dell'esilio egli aveva certamente tre figli, Pietro, Iacopo, Antonia; giacché sembra che quest'ultima si debba identificare con quella suor Beatrice del monastero di S. Stefano degli Ulivi a Ravenna, alla quale il Boccaccio portò nel 1350 dieci fiorini d'oro per incarico della Compagnia d'Orsanmichele (Piattoli, 196). È probabile che la sua partecipazione alle cariche comunali avesse inizio in conseguenza di una provvisione (così si chiamavano le deliberazioni degli organi legislativi del Comune) del luglio 1295, con la quale erano ammessi ad esse tutti coloro che fossero iscritti "in libro seu matricula alicuius artis civitatis Florentie", anche se di fatto non esercitavano. La provvisione era una limitata concessione fatta ai cittadini dopo la caduta, nel febbraio di quell'anno, di Giano della Bella, il principale promotore dei severi Ordinamenti di giustizia emanati il 15 genn. 1293 in difesa del popolo e del Comune, contro i soprusi e i misfatti dei grandi o magnati, che venivano esclusi dal governo. Gli Alighieri non erano dei grandi, ma appartenevano alla nobiltà, che le corporazioni, in cui era raccolto il popolo che lavorava e produceva, dai banchieri agli artigiani, e nelle cui mani era il governo, avevano cura di tener lontana dalla cosa pubblica: sembra, infatti, che non bastasse essere immatricolati nelle arti, per adire le cariche, ma si dovesse esercitarle. Non sappiamo se l'A. fosse già iscritto, o si iscrivesse in seguito a quella provvisione, alla sesta delle arti maggiori, quella dei medici e speziali, probabilmente da lui scelta per l'affinità allora esistente tra gli studi di medicina e quelli di filosofia. Comunque, egli risulta consigliere nel Consiglio speciale del capitano del popolo per il semestre 1 nov. -30 apr. 1296; e il 14 dicembre prese parte, certo in qualità di "savio", al Consiglio delle capitudini (consoli) delle dodici arti maggiori e dei savi di ciascun sesto, convocato per stabilire le modalità per l'elezione dei futuri priori. Dalla fine di maggio alla fine di settembre del '96 appartenne al Consiglio dei Cento, subentrando a un consigliere mancante, giacché il semestre di carica di questo Consiglio aveva inizio il 1º aprile, quando egli era ancora nel Consiglio speciale del capitano del popolo, né si poteva nello stesso tempo appartenere a due Consigli. Il fatto d'esser stato assunto nel Consiglio dei Cento, che doveva essere composto "de melioribus et fidelioribus artificibus aliisque plebeis sextuum civitatis", - appena uscito di carica dall'altro Consiglio, è prova della stima e fiducia di cui doveva godere. Sappiamo che durante questa carica intervenne alla discussione su alcune proposte di legge presentate nella seduta del 5 giugno, due delle quali particolarmente importanti: l'A. ne sostenne l'approvazione.
L'una riguardava i banditi del Comune di Pistoia, i quali si rifugiavano a Firenze, dove trovavano facile ospitalità tra i grandi, il che doveva sembrare al governo un pericolo per la quiete pubblica, aumentando la tensione e le rivalità esistenti tra le famiglie cittadine: il Consiglio deliberò ch'essi non fossero accolti né nella città né nel contado. L'altra proposta dava piena autorità ai priori e al gonfaloniere di giustizia di provvedere contro chiunque, "et maxime magnates", offendesse un popolano per atti da lui compiuti nell'esercizio di qualche ufficio del Comune.
Sempre torbida e funestata da fatti di sangue era stata la vita di Firenze, specialmente dopo la divisione delle famiglie in guelfi e ghibellini a causa dell'uccisione di Buondelmonte dei Buondelmonti (1216). L'alterno prevalere ora degli uni ora degli altri, con le uccisioni, le distruzioni di case, le confische dei beni, gli esili che ne seguivano, avevano profondamente diviso la cittadinanza. Né la pacificazione tentata dal cardinal Latino, né la definitiva vittoria della parte guelfa dopo Campaldino erano valse a instaurare la concordia e dar pace alla città. Il rapido arricchirsi di "gente nova", venuta dal contado, dedita alle industrie e ai commerci, aveva provocato la progressiva decadenza dei nobili, esclusi a mano a mano dal governo, tenuto dalle arti. Invidia e rancore spingevano perciò i nobili a continue prepotenze, e l'intervento dell'autorità contro di essi dava luogo, a sua volta, alle vendette del popolo, che, a un cenno del podestà, correva a guastare o disfare, come si diceva, le loro case, quando erano mandati in bando. Ambizioni e rivalità dividevano tra loro anche i nobili stessi e le loro consorterie, e perfino i membri di una stessa famiglia; gli odi personali erano rinfocolati dal diffuso malcostume della maldicenza cittadina e giullaresca; rigorosamente osservata, pena l'infamia pubblica, la legge della vendetta privata, diritto e dovere di tutta la parentela dell'offeso. Ma in quegli anni la situazione generale si era venuta aggravando per l'inimicizia determinatasi tra le due potenti famiglie dei Cerchi e dei Donati, intorno alle quali finirono col dividersi quasi tutti i grandi e il popolo stesso; perfino, scrive il Compagni (I 22), "i religiosi non si poterono difendere che con l'animo non si dessero alle dette parti, chi a una chi a un'altra.. Più vasta di aderenze, ben vista dal popolo, la famiglia dei Cerchi, che, venuta dalla canipagna, aveva accumulato grandi ricchezze col banco e coi commerci; ma il suo capo, Vieri, era pavido, esitante e di corte vedute. Minore di fortune e clientele, ma audace e violenta, la famiglia dei Donati, di antica nobiltà; capo era quel Corso, che a Dino Compagni (II, 20) sembrava somigliante a "Catellina romano, ma più crudele di lui..., con l'animo sempre intento a mal fare, col quale molti masnadieri si raunavano, e gran séguito avea". L'inimicizia tra le due famiglie si era talmente inasprita, dopo la morte di una dei Cerchi, moglie di Corso, che si disse anche da lui avvelenata, che il 16 dicembre di quell'anno 1296, stando i Donati e i Cerchi seduti per terra, come era usanza, a un mortorio, gli uni di fronte agli altri, essendosi uno di essi alzato per una ragione banale, gli altri, per sospetto di essere aggrediti, si alzarono tutti mettendo mano alle spade. Un'altra volta Guido Cavalcanti, che parteggiava per i Cerchi, aveva tentato di uccidere Corso con un dardo, ma non era stato seguito dagli altri. Più grave l'aggressione da parte dei Donati a una brigata dei Cerchi, che assistevano alle danze in piazza Santa Trinita, la sera del calendimaggio del 1300, durante la quale fu tagliato il naso per sfregio - barbarie solita a quel tempo - a uno dei Cerchi. Accrescevano la tensione degli animi, a causa delle molte amicizie e parentele che legavano le famiglie delle due città alleate, le lotte civili di Pistoia, dove due rami rivali della famiglia Cancellieri, i Neri e i Bianchi, avevano determinato un'analoga scissione della città in due parti. Il danno che ne venne a Firenze fu enorme, quando, nel settembre dello stesso '96, i Pistoiesi, non riuscendo a formare un governo, chiesero a Firenze i loro reggitori per 5 anni. Allora - scrive Leonardo Bruni - "essendo già divisa tutta Pistoia, per porvi rimedio fu ordinato da' Fiorentini che i capi di queste sette ne venissero a Firenze, acciocché là non facessero maggiore turbazione. Questo rimedio fu tale, che non tanto di bene fece a' Pistolesi, per levarli i capi, quanto di male fece a' Fiorentini, per tirare a sé questa pestilenza". E poiché i Bianchi trovarono ospitalità tra i Cerchi, i Neri tra i Donati, il nome di Bianchi e Neri passò rispettivamente alle due parti avverse fiorentine.
Quanto da queste feroci lotte dovesse essere angosciato e preoccupato l'A., di-mostrano alcune canzoni, "sì d'amore che di virtù materiate", composte in questo periodo: quella dottrinale sulla nobiltà, Le dolci rime d'amor ch'i' solia, che inserirà poi nel Convivio, per affermare che "è gentilezza", cioè nobiltà, "dovunqu' è vertute, ma non vertute ov'ella"; l'altra sulla leggiadria, vale a dire finezza d'animo e di costumi, Poscia ch'amor del tutto m'ha lasciato, che si chiude con una sentenza cupa di totale pessimismo, "Color che vivon fanno tutti contra", che fa presentire gli accenti più squallidi di disillusione civile e morale della Commedia; e quella di amore allegorico, probabilmente per la Verità filosofica, Io sento sì d'amor la gran possanza, indirizzata "a tre men rei di nostra terra", per esortare uno di essi a uscir "fuor di mala setta" (vano, naturalmente, è cercare identificazioni), perché "'l buon col buon non prende guerra, prima che co' malvagi vincer prove". Quale la sua partecipazione politica in questo periodo non sappiamo, per la mancanza delle consulte, cioè dei verbali delle sedute, del primo semestre del '97 e di quelle dal luglio del '98 al febbraio del 1301. Sappiamo, però, che nel '97 arringò in uno dei Consigli (non risulta quale); ma è verosimile che la sua attività non subisse interruzioni per il prestigio che gli dovevano conferire la sua dottrina e la sua rettitudine: lo provano l'ambasceria a San Gimignano e la sua elezione al priorato, entrambe del 1300. A San Gimignano fu inviato per sollecitare quel Comune ad inviare sindaci in un'adunanza di tutti i Comuni della Taglia o lega guelfa di Toscana per l'elezione del capitano di essa (Piattoli, 73). Firenze si preoccupava in quel momento di rinsaldare la lega per la sua e la comune indipendenza dalle mire ormai scoperte di Bonifazio VIII. Salito al soglio pontificio dopo la rinunzia di Celestino V, Bonifazio meditava di estendere alla Toscana il dominio della Chiesa. Già nel '96, sollecitato dai grandi, aveva scritto alla Signoria di Firenze minacciando la scomunica, ove fosse avvenuto il richiamo di Giano della Bella, da molti desiderato. Nel '97 vi aveva mandato il cardinale Matteo d'Acquasparta per ottenere aiuti nella crociata contro la famiglia Colonna, potente e prepotente in Roma e nel Lazio, sua nemica. Nel '98, eletto imperatore Alberto d'Asburgo, aveva da lui preteso la rinunzia ai suoi diritti sulla Toscana, "ad ius et proprietatem Ecclesiae". Avutone un rifiuto, non aveva riconosciuto la sua elezione e, considerando vacante l'Impero, se ne era arrogato il vicariato e la piena podestà sulla Toscana. Nell'aprile del 1300 un'ambasceria fiorentina inviata a Roma aveva scoperto una congiura per consegnare Firenze al papa. La denunzia e l'immediata condanna dei congiurati (18 aprile) aveva provocato l'ira di Bonifazio, che esigeva l'annullamento della condanna stessa. Cade in questo delicato momento (7 maggio) l'ambasceria dell'A., che viene perciò ad acquistare maggiore importanza che non avrebbe per sé stessa. La Signoria, intanto, senza lasciarsi intimidire, si opponeva apertamente, con una provvisione, all'ingerenza pontificia nella giurisdizione cittadina. Il 14 giugno l'A. era eletto tra i nuovi priori per il bimestre 16 giugno - 15 agosto; "e poiché volta per volta si stabiliva come dovesse farsi l'elezione di quell'ufficio, è certo che tutto fu predisposto perché riuscissero quelle persone che il bisogno richiedeva" (Barbi, Dante, p. 18). Pochi giorni prima (verosimilmente in previsione dell'elezione e per provvedere ai bisogni della famiglia, giacché i priori non potevano lasciare né notte né giorno la dimora dell'ufficio, che ora era il palazzo della Signoria), l'11 giugno, l'A. aveva contratto un debito verso il fratello Francesco di 90 fiorini d'oro, che veniva ad aggiungersi ad un altro di 125, contratto, sempre verso il fratello, il 14 marzo (Piattoli, 71 e 75). La partecipazione alla cosa pubblica evidentemente non fruttava all'A. vantaggi economici. D'altra parte, le condizioni economiche degli Alighieri dovevano aver subito, negli ultimi anni, un peggioramento, se Dante e il fratello Francesco, il 23 dic. 1297, erano stati costretti a contrarre un grosso debito di 480 fiorini d'oro, dopo un altro di 227 dell'11 aprile dello stesso anno, a meno che quello posteriore non fosse anche servito al saldo del precedente (Piattoli, 57 e 58). Francesco (così parrebbe) aveva potuto presto migliorare le sue condizioni, se tre anni dopo era in grado di fare un notevole prestito al fratello; non così Dante,quali che ne fossero le cagioni. Il giorno stesso in cui i nuovi priori assunsero la carica, presero atto della condanna dei congiurati firmata dalla precedente Signoria: era la dimostrazione ch'essi intendevano continuare l'opposizione all'intromissione del papa e la difesa dell'indipendenza del Comune, tanto più che Bonifazio aveva di nuovo mandato, come suo legato, a Firenze, col pretesto di metter pace tra i Cerchi e i Donati, ma in realtà per attuare i suoi intenti, appoggiandosi ai Donati, il fido cardinale d'Acquasparta. Bonifazio aveva cercato in un primo tempo di trarre a sè i Cerchi, e aveva mandato a chiamare Vieri, invitandolo a far pace con Corso Donati e la sua parte, e "promettendogli di metter lui e' suoi in grande e buono stato, e di fargli grazie spirituali, come sapesse domandare"; ma Vieri aveva rifiutato le offerte del papa, dicendo "che non aveva guerre con niuno; onde si tornò in Firenze, e il papa rimase molto sdegnato contro a lui e contro a sua parte" (Villani, VIII, 39); e Bonifazio si volse ai Donati, non volendo "perdere gli uomini per le femminelle" (Compagni, II, 11). Pochi giorni dopo l'inizio del nuovo priorato, il 23 giugno, la vigilia di S. Giovanni, andando, come d'uso, i consoli delle arti a recare l'offerta al santo patrono, furono malmenati da alcuni dei grandi di parte nera, i quali rinfacciavano loro: "Noi siamo quelli che demmo la sconfitta in Campaldino; e voi ci avete rimossi dagli uffici e onori della nostra città" (Compagni, I, 21). L'altra parte, per reazione, corse ad armarsi. La Signoria volle dimostrare la sua imparzialità e autorità, condannando al confino otto dei caporioni di ambo le parti. Tra quelli di parte bianca era Guido Cavalcanti, che, al confino di Sarzana nella Lunigiana, s'ammalò di malaria, e richiamato dalla nuova Signoria, insieme con gli altri di parte bianca, nella seconda metà di agosto, fece appena in tempo a tornare a Firenze per morirvi. Il 27 giugno il cardinale chiese la balìa, cioè i pieni poteri, per pacificare la città: la Signoria rispose eludendo la richiesta, pur assicurandogli tutto il suo appoggio nell'opera di pacificazione. Irritato da questa resistenza, Bonifazio in una lettera del 22 luglio sollecitava il cardinale ad agire contro tutti i reggitori, scomunicandoli, sospendendoli dagli uffici, confiscandone i beni; ma solo alla fine di settembre il cardinale, sdegnato di non riuscire a ottenere nulla di positivo, lanciò l'interdetto e lasciò la città. L'A. era uscito di carica il 15 agosto. La Signoria, della quale era stato il membro più autorevole, aveva assolto il suo difficile compito con grande abilità e con grande fermezza, tutelando insieme la giustizia e l'indipendenza del Comune. Più tardi, dall'esilio, in una lettera, per noi perduta, dirà, come attesta Leonardo Bruni, che ne tramandò, tradotto, il passo relativo: "Tutti li mali e tutti l'inconvenienti miei dalli infausti comizi del mio priorato ebbono cagione e principio". E Brunetto Latini gli dirà nell'Inferno che l'ingrato popolo fiorentino "gli si farà, per suo ben far, nimico". Nel novembre una solenne ambasceria fu mandata da Firenze al papa per implorarlo di togliere, l'interdetto. Non è improbabile che di quell'ambasceria facesse parte anche l'A.; comunque, è certo che in quell'anno, "l'anno del giubileo" solennemente istituito da Bonifazio, egli fu a Roma: lo attesta inequivocabilmente il ricordo preciso del modo escogitato dai Romani, che gli dovette parere utile e ingegnoso, per disciplinare il passaggio del ponte di Castel S. Angelo, data la moltitudine di pellegrini che si recavano
alla basilica di S. Pietro e ne tornavano (Inf. XVIII, vv. 28-33).
Quali sentimenti dovette provare visitando la città, può immaginare chiunque sappia che cosa rappresentasse nella fantasia e nella coscienza anche dell'uomo comune del Medioevo Roma antica e cristiana: un immenso, sacro reliquiario di gloria, di grandezza, di fede religiosa. L'A. dirà nel Convivio (IV, v, 20): "certo di ferma sono oppinione che le pietre che ne le mura sue stanno siano degne di reverenzia, e lo suolo dov'ella siede sia degno oltre quello che per li uomini è predicato e approvato".
Nulla sappiamo della sua attività pubblica dalla fine del priorato all'aprile dell'anno seguente, per la mancanza, come si è detto, delle consulte. Il 2 marzo 1301 compare, insieme col fratello Francesco e altra persona (Piattoli, 78), mallevadore di un mutuo di 50 fiorini contratto dal giudice Durante degli Abati (suo probabile avo), ch'era stato, a sua volta, uno dei mallevadori del debito contratto dai due fratelli il 23 dic. 1297. È da ritenere che la malleveria dell'A., più che altro, avesse valore morale, anche come contraccambio di quella a lui precedentemente data, accanto a quella, più solida, del fratello e dell'altro mallevadore, non già che sia indice di mutate condizioni che gli conferissero credito economico. Per il semestre 1 aprile - 30 settembre appartenne ancora al Consiglio dei Cento. Durante quest'ufficio ebbe anche altri incarichi: il 14 aprile fu chiamato nel Consiglio delle capitudini delle dodici arti maggiori e dei savi per fissare il modo dell'elezione dei nuovi priori e quello del nuovo gonfaloniere: interloquì su entrambi, e per l'elezione del gonfaloniere fu il solo a parlare (Piattoli, 81 e 82). "Una delle proposte avanzate dal legato pontificio era che fossero eletti a sorte fra i designati delle due parti; e l'interesse della città esigeva invece che non potessero esser nominati uomini di dubbia fede o favorevoli alla politica della curia romana" (Barbi, Dante, p. 20). Si stabilì che il Consiglio facesse i nomi - quattro per ciascun sesto per i priori, uno per il gonfaloniere - e indi si sorteggiasse, secondo la proposta dell'A.: il che prova ancora una volta l'autorità di cui godeva. Il 28 aprile fu eletto incaricato e soprastante, "officialis et superstes", con l'assistenza di un notaio, ai lavori di rettificazione e sistemazione della via di S. Procolo, che si stendeva verso il borgo della Piagentina fino al torrente Affrico, dei quali s'indicava l'opportunità nel fatto che la via "est multum utilis et necessaria hominibus et personis civitatis Florentie, maxime propter vittualium copiam habendam, et maxime eo quod populares comitatus absque strepitu et briga magnatum et potentum possunt secure venire per eandem ad dominos priores et vexilliferum iustitie, cum expedit. (Piattoli, 80). Sebbene l'A. avesse interesse alla sistemazione della strada per avere terreni da quelle parti, la sua designazione era una prova di fiducia nella sua accortezza e onestà. L'incarico era dato "sine aliquo salario", e doveva durare due mesi. Ma ben altra importanza ha il suo intervento alle discussioni del 19 giugno, prima nell'assemblea riunita del Consiglio dei Cento, di quello generale e speciale del capitano, di quello delle capitudini, poi nel solo Consiglio dei Cento. Nell'assemblea riunita, il capitano lesse la lettera del cardinale d'Acquasparta, ch'era stato rimandato da Bonifazio a Firenze dopo aver tolto l'interdetto, nella quale si chiedeva che fosse prolungato il servizio dei cento soldati inviati due mesi prima dal Comune nella guerra che Bonifazio aveva ingaggiato in Maremma, per togliere a Margherita Aldobrandeschi i suoi feudi, a favore dei suoi nipoti Caetani. Dei quattro consiglieri che presero la parola, due proposero l'accoglimento; Dante "consuluit quod de servitio faciendo domino pape nichil fiat"; il quarto propose che si sospendesse la deliberazione (Piattoli, 83). Fu approvata la proposta di sospensiva. Nello stesso giorno la questione fu portata al ristretto Consiglio dei Cento. Qui i priori proposero l'accoglimento della richiesta del papà, con la clausola che il servizio non dovesse prolungarsi oltre il 1° settembre: benché presentata in questa nuova forma, l'A. si pronunciò ancora contro la richiesta papale (la consulta riassunse il discorso dell'A, con la stessa formula di quello precedente), un altro consigliere in favore (Piattoli, 84). Fatta la votazione segreta, la proposta fu approvata con 49 voti favorevoli, 32 contrari: era prevalso il partito di non disgustarsi di nuovo il pontefice, ma esisteva una forte minoranza di opposizione, della quale evidentemente l'A. era esponente autorevole. Poiché le consulte sono schematici appunti delle conclusioni essenziali, non sappiamo quali fossero le ragioni da lui addotte: ma certo egli pensava che non fosse il momento di distogliere armi e danaro per favorire il papa, quando stava per giungere in Italia Carlo di Valois, chiamato da Bonifazio per sistemare le cose di Toscana (oltre che per riconquistare la Sicilia), e i Neri, che già avevano tentato d'impadronirsi della città con la recentissima congiura di S. Trinita (e Leonardo Bruni, fondandosi su una lettera del poeta, attribuisce all'A, una parte importante nella sollevazione del popolo contro i congiurati), ne aspettavano l'arrivo. Il 13 settembre, quando già il Valois, giunto il 2 ad Anagni, era stato proclamato da Bonifazio ufficialmente "paciaro" di Toscana, in un'adunanza generale di tutti i Consigli ("una di quelle adunanze che si solevano fare quando alla città sovrastavano gravi avvenimenti ed era necessario dar pieni poteri alla Signoria", Barbi, Dante, p. 21), il podestà chiese "quid sit providendum et faciendum super conservatione ordinamentorum iustitie et statutorum populi". La solennità della richiesta rispecchiava la gravità della situazione politica. Primo parlò l'A.; ma il notaio della consulta lasciò in bianco, quale che ne sia stata la ragione, lo spazio di tre righe che doveva accogliere il parere da lui espresso. Il secondo e ultimo oratore propose che tutti i provvedimenti suggeriti dall'A. ("predicta omnia") rimanessero a cura e giudizio degli uomini del governo (Piattoli, 86). Il 20 settembre l'A. parlò a favore del permesso di transito delle granaglie, chiesto dai Bolognesi, dalla marina di Pisa attraverso il territorio fiorentino: i legami tra Firenze e Bologna erano stati sempre buoni e si erano rinsaldati negli ultimi anni con l'appoggio dato da Firenze a Bologna nella lotta contro Azzo VIII d'Este; e nel novembre dell'anno precedente ambasciatori bolognesi si erano uniti ai Fiorentini nel supplicare Bonifazio di liberare Firenze dall'interdetto. Alla vigilia della cessazione della carica, il 28 settembre, l'A. parlò per l'ultima volta nel Consiglio dei Cento (Piattoli, 88), sostenendo alcuni provvedimenti eccezionali proposti per estendere i poteri discrezionali dei priori e del podestà, l'assoldamento di cento "berrovieri" a servizio dei priori e del gonfaloniere, un risarcimento in favore di Neri di Gherardino Diodati, il quale, sfuggito con la fuga alla condanna a morte pronunziata nel '98 dal podestà Cante de' Gabrielli da Gubbio per compiacere ai Donati, era stato poi riconosciuto innocente. Ma ormai il "paciaro" Valois era ai confini della Toscana e, mentre protestava a tutti i Comuni il rispetto della loro libertà, raccoglieva milizie, trescando a Castel della Pieve con i Neri fiorentini, ch'erano lì confinati. Il governo, che evidentemente non si sentiva abbastanza forte per sostenere un'eventuale opposizione armata (tra l'altro, il 15 ottobre dovevano subentrare i nuovi priori), deliberò d'inviare un'ambasceria a Bonifazio per cercare di esplorarne le intenzioni, chiedendo, anche questa volta, l'appoggio dei Bolognesi. Questi ne accolsero volentieri, anche per il proprio interesse, la richiesta, e inviarono i loro ambasciatori a Firenze per procedere, insieme con i colleghi fiorentini, verso Roma. I messi fiorentini erano Maso Minerbetti, Corazza Ubaldini e l'A. (Compagni, II, 4, 11, 25). In quell'occasione, secondo il Boccaccio, restando l'A. perplesso alla notizia della sua nomina, richiestone della ragione, avrebbe risposto: "Penso: se io vo, chi rimane?, e se io rimango, chi va?" (Vita XXV, Compendio XXI, ediz. Guerri). L'ambasceria si mosse da Firenze circa la seconda metà di ottobre, e non approdò a nulla. Bonifazio, che doveva essere ad Anagni, rimandò gli altri due messi fiorentini con l'incarico di assicurare i concittadini ch'egli non aveva "altra intenzione che di loro pace" (Compagni, II, 4) e trattenne Dante. Perché lo trattenesse è uno dei punti più oscuri della vita dell'A.; ma qualcosa di preciso dovette esserci, per cui l'A. si formò la convinzione di essere stato oggetto di una particolare animosità del papa contro di lui personalmente: espliciti sono a questo riguardo i vv. 46-51 di Par. XVII. Intanto a Firenze la Signoria, di cui era magna pars l'onesto, ma troppo ingenuo e alquanto vano Dino Compagni, chieste e ottenute dal Valois "lettere bollate" (Compagni, II, 7) di non abbattere le magistrature della città e non offendere le leggi municipali, il 1° novembre lasciava entrare in Firenze il novello Giuda (cfr. Purg. XX, vv. 73-75). La dappocaggine dei Bianchi, che pure tenevano il governo, la viltà dei Cerchi, rintanati nelle loro case, l'audacia dei Neri fecero il resto. Rientrarono trionfanti Corso Donati e gli altri Neri banditi; e per alcuni giorni, nella città e nel contado, si abbandonarono a saccheggi e incendi, a uccisioni e a ogni altra sorta di violenze, quali poteva dettare l'odio e la sete di vendetta. La casa dell'A. fu devastata. Il 7 novembre furono deposti i recenti, imbelli priori bianchi, ed eletti i nuovi di parte nera; tornarono al governo i magnati, tornò come podestà Cante de' Gabrielli. Racconta Dino che il "mal fare durò sei giorni": dopo di che la vendetta di parte assunse, come suole avvenire in simili casi, la farsesca ipocrisia delle forme legali. Una legge speciale diede al podestà l'incarico di riaprire un 'inchiesta sull'operato dei priori degli anni 1300 e 1301 - gli anni in cui il governo era stato nelle mani dei Bianchi e aveva ostacolato le mire del papa -, sebbene essi fossero stati già assolti nell'inchiesta che per legge si faceva a carico di essi, appena cessavano dall'ufficio. L'A. verosimilmente non era rientrato a Firenze dall'ambasceria a Bonifazio: la notizia del trionfo dei Neri lo aveva raggiunto probabilmente mentre tornava da Roma e aveva dovuto sconsigliarlo di metter piede nel territorio fiorentino. Secondo il Bruni, a Siena intese "più chiaramente la sua calamità", cioè la propria condanna. Nella prima metà del gennaio 1302 egli era stato citato a comparire davanti al podestà, entro tempo determinato, per difendersi e scusarsi delle accuse mossegli dalla curia podestarile; e poiché non si era presentato, il 27 dello stesso mese, ritenuto confesso per la sua contumacia, fu condannato a 5.000 fiorini piccoli da pagare entro tre giorni, pena l'espropriazione, il guasto e l'incameramento dei beni da parte del Comune, a due anni di confino, all'esclusione perpetua da qualunque ufficio. La sentenza, che è stesa in comune contro di lui e contro altri tre priori di priorati diversi, non reca alcuna prova delle accuse e si fonda solo su asserite notizie pervenute alle orecchie del podestà e del suo ufficio, "fama publica referente"; non fa discriminazione fra l'uno e l'altro degli imputati, mentre con la formula vaga "ipsi vel ipsorum aliquis" ammette che possa esserci una discriminazione di colpa nei riguardi dei singoli imputati nei singoli capi d'accusa. I quali sono: che, durante gli anni soggetti all'inchiesta, essendo o no nell'ufficio di priori, "commiserunt, per se vel alium, baractarias, lucra illicita, iniquas extorsiones in pecunia vel in rebus"; che avevano ricevuto denaro per elezione di magistrati e ufficiali del Comune, per fare o no stanziamenti, riforme, ordinamenti; che avevano frodato per sé l'erario pubblico, o se ne erano serviti "contra summum pontificem et dominum Karolum pro resistencia sui adventus vel contra statum pacificum civitatis Florentie et partis guelforum"; che avevano provocato la scissione di Pistoia, prima unita, avevano ordinato l'espulsione da essa "eorum qui dicuntur Nigri, fidelium de-votorum sancte Romane ecclesie", avevano staccato la città "ab unione et voluntate civitatis Florentie et subiectione sancte Romane ecclesie vel domini Karoli in Tuscia paciari". Le accuse inerenti ai fatti di Pistoia erano realmente fondate nei riguardi di due degli altri tre imputati; ma giovava mettere tutti in un fascio e non fare distinzioni. Nei riguardi dell'A., a parte quella comune e generica di baratteria, ecc., di cui certamente gli inquisitori non possedevano la minima prova (infatti, la prima parte della sentenza riguarda un quinto imputato, contro cui l'accusa di baratteria, sebbene certamente falsa, è circostanziata), resta l'imputazione di opposizione a Bonifazio e al Valois, manifestata pubblicamente almeno, per quel che a noi risulta, nei due Consigli del 19 giugno 1301, e certamente - osiamo dire - in quello del 13 settembre, deducendolo dalla conclusione del secondo oratore, che fa intuire la gravità delle cose dette precedentemente dall'Alighieri. Non essendosi presentato a pagare né a scusarsi, con altra sentenza dello stesso Cante de' Gabrielli, il 10 marzo era condannato, insieme con altri quattordici priori, processati prima o dopo di lui e parimenti contumaci, "ut si... in fortiam Comunis pervenerit..., igne comburatur sic quod moriatur".
Secondo Leonardo Bruni, in una lettera in cui giustificava il suo operato, l'A. si diceva "uomo senza parte": e tale realmente si era dimostrato durante la sua attività politica, almeno per quello che ne sappiamo: aveva servito semplicemente la patria, aveva difeso quelli che a lui sembravano gl'interessi del Comune, non di una fazione. Appartenente alla nobiltà, amico di magnati, quale Guido Cavalcanti, aveva difeso il popolo contro le soperchierie dei grandi. Guelfo e di famiglia e tradizioni guelfe non mai rinnegate, si era opposto alle ingerenze del papa, secondo la più schietta tradizione guelfa italiana, ch'era sempre stata di cura gelosa dell'indipendenza cittadina, pur nell'ossequio alla somma autorità della Chiesa. Nella scissione della città era stato con la parte dei Cerchi, forse perché più umani, alieni da prepotenze e ingiurie (Compagni, I, 20), sebbene, peraltro, non avesse, dei membri della famiglia, alcuna stima (cfr. Par. XVI, vv. 65 e 94-96). Priore, aveva sottoscritto l'invio al confino del suo amico Guido Cavalcanti. Quell'ideale, che animerà e illuminerà la Commedia, di una vita civile ordinata e saggia, fondata sulla giustizia e sui valori morali, intesa al bene comune e alle belle opere di pace, era già ben chiaro e saldo nella sua coscienza, almeno fin dal tempo delle rime morali e allegoriche, di cui si è detto più su, contemporanee alla sua partecipazione alla vita politica; e l'uomo politico non smentì il poeta. Già fin d'allora la politica era per lui un fatto morale. Piuttosto dovremmo domandarci s'egli possedesse le doti per fare il politico militante: vogliamo dire intuito politico, non la mera abilità di destreggiarsi del politicante. Anche qui non abbiamo elementi per un giudizio sufficientemente fondato, anche perché non pochi sono i punti controversi della caotica situazione di Firenze in quel periodo. Quel che tuttavia sembra potersi fondatamente affermare è che, senza contare la destrezza e fermezza del suo priorato, la stessa coraggiosa politica di opposizione a Bonifazio e al Valois era nello stesso tempo lungiminante e non inattuabile: la prova della possibilità di una resistenza vittoriosa fu data da Pistoia, che, rimasta in potere dei Bianchi, fu invano cinta d'assedio per un mese dal Valois, primo della serie degli insuccessi di quel principe.
L'esilio accomunò i Bianchi con i ghibellini fuorusciti, nel tentativo di rientrare in Firenze con le armi. Quell'anno stesso (sembra l'8 giugno) l'A. compare insieme con altri diciassette Fiorentini, bianchi (tra gli altri, tre dei Cerchi) e ghibellini (quattro degli Uberti, ecc.), convenuti nella chiesa di S. Godenzo nel Mugello, per dar garanzie agli Ubaldini di risarcirli dei danni che potessero venir loro dalla guerra in corso o da farsi nelle loro terre contro Firenze. Sembra ch'egli allora fosse uno dei dodici consiglieri (L. Bruni) dell'"Università della parte dei Bianchi della città e del contado di Firenze", presto costituitasi tra i banditi. Nell'agosto dello stesso anno (1302) si combatté al castello di Monte Accianico, possesso degli Ubaldini, tra Neri e Bianchi, con la vittoria di questi ultimi: non sappiamo se a questo fatto d'arme prendesse parte anche l'Alighieri. Ma nel settembre Moroello Malaspina, al comando dei Neri, costringeva alla resa, dopo 4 mesi di assedio, la fortezza di Serravalle nell'agro pistoiese, che si diceva Campo Piceno: molto probabilmente l'A. partecipò alla difesa di essa, se a questa sconfitta dei Bianchi, per opera del Malaspina, allude la predizione di Vanni Fucci (Inf. XXIV, vv. 145-150), come ci sembra preferibile ritenere. Vero è, infatti, che il Malaspina continuò la guerra contro Pistoia fino alla resa della città nell'aprile del 1306, il che segnò la definitiva catastrofe dei Bianchi: e a questo fatto - certo più importante - altri credono debba riferirsi l'allusione di Vanni. Senonché in quell'epoca l'A., come vedremo, si era da un pezzo staccato sdegnosamente dagli altri fuorusciti; anzi, nell'ottobre dello stesso 1306, sarà ospite appunto dei Malaspina: e poiché la profezia di Vanni è intesa a procurare un vivo dolore all'A., essa si riferirà a un fatto in cui egli doveva essere personalmente, direttamente impegnato, e quindi piuttosto all'epoca in cui era ancora nella mischia e si faceva illusioni sulle possibilità di vittoria della parte in cui militava. Nel 1303 egli era a Forlì, presso Scarpetta Ordelaffi, ch'era stato nominato capitano dei Bianchi: ch'egli aiutasse il suo segretario, Peregrino Calvi, a dettar le lettere, secondo l'attestazione di Flavio Biondo (Decades II, 9), è possibile, ma non certo (dovremo riparlare del Calvi per una sicura mistificazione); e forse da Forlì si recò per la prima volta a Verona presso Bartolomeo della Scala, per chiederne l'aiuto. E quivi è molto probabile che si fermasse fino alla morte di quel signore (7 marzo 1394), per le ragioni che diremo tra poco. Nel manzo del 1303 l'Ordelaffi, entrato nel Mugello, si spinse fino a Castel Puliciano, a otto chilometri da Firenze, e lo espugnò; ma la sua vittoria si trasformò in una sanguinosa sconfitta per il sopraggiungere immediato del podestà di Firenze, il terribile Fulcieri da Calboli (cfr. Purg. XIV, vv. 58-66): l'Ordelaffi dovette ritirarsi; molti i morti e i prigionieri: di questi, condotti a Firenze, alcuni furono esposti al ludibrio del popolo e impiccati. In seguito a questa grave disfatta "i Bianchi e i Ghibellini usciti rimasero rotti e sciarrati" (Villani, VIII, 60): la guerra dei Bianchi si dimostrava tutto un seguito di errori e d'insuccessi: come avviene in questi casi, gli uni avranno addossato la colpa agli altri; e forse ha inizio da questo momento il contrasto tra l'A. e i suoi compagni di esilio. Il 12 ott. 1303, poco dopo l'oltraggio di Anagni, era morto Bonifazio VIII. Il nuovo pontefice, Benedetto XI, uomo di santa vita e di pie intenzioni, sinceramente desideroso di metter pace nella travagliatissima città, mandò a Firenze come paciere, il 10 marzo del 1304, il cardinale Niccolò da Prato. Ottenuta la balìa, cioè i pieni poteri, il cardinale mandò un confratello presso il Consiglio dell'Università della parte dei Bianchi per ottenere da questi la promessa di cessare subito dalle armi e di rimettersi in tutto nelle sue mani. Dalla maggior parte degli studiosi si ritiene che la lettera ufficiale di risposta, a nome del capitano dei Bianchi, A[ghinolfo?] da Romena e del Consilium et Universitas partis Alborum de Florentia, sia stata scritta dall'A., ma non esiste nessuna prova decisiva né pro né contro l'attribuzione: nè si deve tacere che tra i fuorusciti non c'era il solo A. in grado di dettare un'epistola siffatta. Essa esprime tutta la letizia da cui dovettero esser presi i fuorusciti, nella speranza di poter tornare pacificamente in patria. Il loro sogno - dice la lettera - era la salute della patria; e se avevano preso le armi in una guerra civile, a nient'altro miravano che a costringere al rispetto della legge e della pace coloro che avevano abbattuto i diritti dei cittadini; perciò, con spontanea e sincera volontà, protestavano, per il loro stesso amor di patria, di esser pronti a ubbidire a tutti gli ordini del cardinale. Questi, ch'era uomo di grande animo, ottenne che si nominasse un sindaco per ciascuna parte, ciascuno assistito da un notaio (e quello di parte bianca fu il padre di Francesco Petrarca, amico dell'A., e come lui esiliato), per tutelare gli accordi per la pace. E il 26 aprile la pace fu giurata in piazza S. Maria Novella: effimera pace, che durò un mese. I Neri, e in specie Corso Donati, non potevano rinunciare al loro predominio: provocarono tumulti e combattimenti; uno spaventoso incendio, appiccato alle case dei Cavalcanti, distrusse il centro della città.
Il 10 giugno il cardinale fu costretto a fuggire; il 7 luglio moriva improvvisamente - si disse, avvelenato - Benedetto XI, a Perugia, il giorno dopo l'arrivo di Corso Donati, ch'egli aveva chiamato a scusarsi; e i Bianchi ripresero le armi. Il 20 luglio si venne alla giornata della Lastra, che, per la disorganizzazione dell'esercito, benché una schiera isolata fosse già penetrata in Firenze, si risolse in una completa disfatta.
Dove fosse l'A. durante questi avvenimenti, tra il marzo e il luglio 1304, non sappiamo. Se fosse sicuramente sua l'epistola al cardinal da Prato, potremmo argomentare ch'egli fosse ad Arezzo, dove sembra fosse tornato il Consiglio dei Bianchi, dopo la cacciata di Uguccione della Faggiuola, ad essi ostile. Un documento del 13 maggio prova che il fratello Francesco, anch'egli esiliato (quando non si sa; ma nel 1309 risulta già rientrato a Firenze), era ad Arezzo (Piattoli, 94), dove contraeva un mutuo di 12 fiorini: ma ciò non prova che fosse con lui Dante; anzi, la relativa esiguità del mutuo farebbe pensare ch'esso servisse alle necessità del solo Francesco. D'altra parte, i vv. 61-69 di Par. XVII, nei quali l'A. accenna al suo dissenso con gli altri sbanditi, all'essere stati gli altri, e non lui, danneggiati dagli errori commessi, sicché per lui era stato bello aversi fatta parte per sé stesso, sembrano piuttosto alludere a una rottura molto presto determinatasi tra lui e "la compagnia malvagia e scempia" fattasi tutta ingrata, tutta matta ed empia contro di lui: così presto ch'egli non restò coinvolto nelle successive "bestialità" dei Bianchi. L'Ottimo scrive - veramente in modo poco chiaro che la rottura avvenne "quando elli si oppose, che la detta parte bianca, cacciata di Firenze e già guerreggiante, non richiedesse l'amico, il verno, di gente, mostrando le ragioni del piccolo frutto, onde poi, venuta la state, non troyarono l'amico com'elli era disposto il verno; onde molto odio ed ira ne portarono a Dante; di che elli si partì da loro". E il postillatore del Fram. Pal. (Scartazzini, Comment. lips., III, p. 465) scrive che pressappoco per la stessa ragione "suspectus factus est Dantes et existimatus quod a Florentinis corruptus fuisset". Ma dobbiamo confessare che i motivi specifici del dissidio ci sfuggono completamente; e, d'altra parte, non basta a spiegarlo "il carattere di Dante", che "non era tale da acconciarsi facilmente al sentimento e ai disegni di una moltitudine di faziosi mossa da tanti e così diversi interessi come quella con cui si trovava a vivere e ad agire" (Barbi, Dante, p. 23). Sappiamo solo che l'animosità dei Bianchi contro di lui, quali che fossero precisamente le colpe che gl'imputavano, fu così violenta da volerne addirittura la morte, non meno dei Neri: Brunetto Latini gli predirà che l'una parte e l'altra avrà fame di lui, ma egli si salverà tenendosi lontano da esse (Inf. XV, vv. 70-72). E poiché egli ci fa sapere che il suo "primo refugio, il primo ostello", fu presso uno Scaligero, di cui tesse alte lodi, e questo non può essere se non Bartolomeo, che morì il 7 marzo 1304, giacché del successore Alboino, in. Conv. IV, xvi, 6, egli dà un giudizio sprezzante, parrebbe doversi concludere che la rottura tra l'A. e i suoi compagni di sventura fosse già avvenuta prima della fine del 1303: e questo porterebbe ad escludere l'attribuzione a lui dell'epistola al cardinal da Prato.
Dalla prima dimora veronese (1303-marzo 1304) all'ottobre 1306 non sappiamo nulla di preciso delle sue peregrinazioni. È da credere che dopo la morte di Bartolomeo l'A. lasciasse Verona; ed è probabile che passasse a Padova, dove Giotto lavorava (1304-05) nella cappella degli Scrovegni, e dove poté ritrovare Ildebrandino Mezzabati, già capitano del popolo a Firenze nel 1291-92, ch'egli ricorda in De vulgari eloquentia I, xiv, 7 come l'unico poeta tra i Veneti che cercasse di allontanarsi dal volgare materno e tendesse a quello curiale, e col quale scambiò il sonetto allegorico di Lisetta respinta nella sua pretesa di amore (Per quella via che la bellezza corre). Certo fu in questo tempo a Treviso, presso Gherardo da Camino, che morì nel marzo del 1306, del quale egli esalta la grande nobiltà in Conv. IV, xiv, 12 (cfr. anche Purg. XVI, vv. 121-124); e forse di lì a Venezia, di cui ricordò più tardi l'operosità dell'arsenale in Inf. XXI, vv. 7 ss. E potrebbe essere stato allora anche a Reggio presso Guido da Castello, anch'egli lodato in Purg. XVI, vv. 125-126. Sono questi gli anni in cui egli andò "per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, ...mostrando contro sua voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata", come "legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade", apparendo "a li occhi a molti che forseché per alcuna fama in altra forma lo aveano imaginato, nel conspetto de' quali non solamente la sua persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera sì già fatta, come quella che fosse a fare. (Conv. I, iii, 4-5). Sono gli anni in cui, appunto perché il nome suo ancora non sonava molto, più amaramente provò "come sa di sale lo pane altrui e come è duro calle lo scendere e 'l salir per l'altrui scale", e più di una volta, forse "si condusse a tremar per ogni vena", costretto a mendicare l'ospitalità altrui (cfr. Par. XVII, vv. 58-60; Purg. XI, vv. 138-141). E sono anche gli anni in cui, come attesta il Bruni, "ridussesi tutto umiltà, cercando con le buone opere e con buoni portamenti riacquistar la grazia di poter tornare in Firenze per ispontanea revocazione di chi reggeva la terra; e sopra questa parte s'affaticò assai, e scrisse più volte non solamente a privati cittadini del reggimento, ma anche al popolo, ed intra l'altre una epistola assai lunga, la quale comincia Popule mee, quid feci tibi?" Questa epistola si è perduta: ma probabilmente ad essa appartengono i brani che il Bruni riferisce o a cui fa cenno nella Vita, riguardanti la sua partecipazione alla battaglia di Campaldino e la giustificazione dell'opera sua durante il priorato. Ma un'esplicita domanda di perdono abbiamo nel secondo congedo della Canzone della Drittura, Tre donne intorno al cor mi son venute: in esso il poeta esorta la canzone, che è, sì, la canzone di un bianco, un'"uccella con le bianche penne", ad accompagnarsi "con li neri veltri", che, egli dice, "fuggir mi convenne, ma far mi poterian di pace dono. Però nol fan che non san quel che sono: camera di perdon savio uom non serra, ché 'l perdonare è bel vincer di guerra". Alle quali parole rispondono le altre del Convivio I, iii, 4, scritte certamente durante questo stesso periodo di tempo, e dettategli da questo stesso stato d'animo: "Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno, nel quale nato e nudrito fui in fino al colmo de la vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo cuore di riposare l'animo stancato e terminare lo tempo che m'è dato...". E per dimostrare alla patria chi fosse il figlio ch'essa aveva bandito, non meno che per riscattare agli occhi dei signori che l'ospitavano la sua umiliante condizione di peregrino e mendico, egli mise mano a due opere di alto impegno, il Convivio, appunto, e il De vulgari eloquentia. "La condizione di Dante - ha bene sintetizzato il Barbi -, staccatosi dai suoi compagni, fu presso a poco quella dell'uomo di corte: accorrere qua e là dov'eran signori in fama di liberalità verso gli uomini d'ingegno e di dottrina oppur d'indole piacevole, tanto da doversene una corte onorare e servirsene per affari d'importanza, o avere sollazzo nella vita quotidiana; vivere quindi in una mescolanza di gente che andava e veniva, di varia natura, con gusti e intendimenti diversissimi, dalle persone di scienza ed esperienza politica ai buffoni; e generalmente non eran questi ultimi i meno graditi e i meno liberalmente donati o che prima dovessero sgombrare" (Barbi, Dante, p. 24).
Gli aneddoti dei grossolani scherzi giocatigli da qualche signore o cortigiano, anche se probabilmente inventati, valgono tuttavia a rispecchiare questa triste condizione. Cecco Angiolieri, che, al tempo della Vita nova, aveva mostrato verso il poeta di Beatrice un certo riguardo (Dante Allaghier, Cecco, 'l tu' servo e amico), non ne dimostra nessuno e lo tratta con arroganza provocatoria, giudicandolo alla sua stessa stregua, all'epoca in cui l'A. peregrinava per le corti lombarde, attribuendo la comune sorte di servire in case altrui non solo a "sventura", ma anche a "poco senno" (Dante Alighier, s'i' son bon begolardo).
Vero è che non dovettero mancare all'A., anche in questo periodo della sua maggior miseria, attestazioni di stima e di simpatia. Al grossolano sonetto ora citato di Cecco rispose messer Guelfo Taviani di Pisa, trattandolo da matto a voler contendere con l'A., di cui esaltava l'ingegno e il sapere filosofico. Ma non poco dovette confortarlo, più che ogni altra, l'amicizia, contratta molto probabilmente al tempo della Vita nova, con Cino da Pistoia (cfr. la canzone consolatoria di Cino per la morte di Beatrice, Avegna ched el m'aggia), il quale, cacciato in esilio, come nero, nell'estate del 1301, al tempo del predominio dei Bianchi nella sua travagliata patria, si era recato a Bologna a ultimare gli studi di legge, conseguendone, intorno al 1304, il relativo grado accademico. E poiché l'esilio di Cino finì con la caduta di Pistoia in mano dei Neri (aprile 1306), entro questi termini sorse l'amicizia tra i due poeti e si svolse la loro corrispondenza epistolare e poetica. Sebbene di parte avversa, erano entrambi superiori alle parti, alle quali avevano aderito per motivi contingenti, entrambi disgustati delle lotte faziose. Non è tutto esercizio di letterati la corrispondenza tra i due amici poeti: ci sono, nei sonetti di Cino all'A., espressioni che attestano un affetto e una stima sinceri, quasi da discepolo a maestro. Cino propone questioni di amore, e l'A. risponde da conoscitore provetto della materia. Particolare interesse ha la risposta alla questione postagli da Cino nel sonetto Dante, quando per caso s'abbandona, perché essa segna un momento del processo del pensiero dantesco intorno all'amore. Cino chiedeva all'A. se, come a lui sembrava, un nuovo amore può impadronirsi di un' anima, quando il primo è spento. L'A. col sonetto Io sono stato con Amore insieme conferma l'opinione dell'amico, adducendo la sua personale esperienza, che invano contro la potenza dell'amore si cerca opporre "agione o virtù": "nel cerchio de la sua palestra - egli dice - liber arbitrio già mai non fu franco, sì che consiglio in van vi si balestra". Il Nardi (Filosofia dell'amore ..., in Dante e la cultura medievale) ha messo in luce come la dottrina guinizelliana che "amore e cor gentil sono una cosa", accettata dall'A. nella Vita nova, portasse alla concezione della fatalità dell'amore, nella quale non c'era posto per l'esercizio della virtù. Quando l'A. rispose a Cino, era dunque pervenuto non solo per esperienza, ma anche filosoficamente, a questa scoperta: lo comprova la breve epistola con cui accompagnò il sonetto stesso, nella quale dava la dimostrazione dottrinale dell'ineluttabile subentrare di un nuovo amore, quando la potenza dell'anima è a ciò sollecitata. A distanza, però, probabilmente solo di qualche anno, allo stesso Cino rimprovererà la volubilità del suo cuore (Io mi credea del tutto esser partito) e lo inviterà a correggerla "con vertù"; finché, approfondendo ulteriormente il suo pensiero, non gli fu chiaro che, posto che "di necessitate surga ogni amor" che s'accende nel cuore degli uomini, c'è però in essi appunto il "libero arbitrio" che dà la potestà di ritenerlo o scacciarlo (Purg. XVIII, vv. 70-74). La lettera, che ha per titolo, al posto dei nomi del destinatario e del mandante, due perifrasi (Exulanti pistoriensi - florentinus exul immeritus), ma è indubbiamente dell'A. (l'espressione florentinus et exul immeritus è apposizione costante del suo nome nei titoli delle epistole sicuramente sue), contiene un accenno a una delicata attenzione di Cino, il quale - dice l'A. - sebbene potesse risolvere la questione per bocca propria, volle che ne fosse lui l'autore per diffondere il suo nome con la sua dichiarazione di cosa tanto controversa. E che Cino confortasse l'A. a lavorare senza avvilirsi per le tristi condizioni del momento, è provato dal sonetto Dante, i' non so in qual' albergo soni, dove si leggono le affettuosissime parole: "Diletto frate mio, di pene involto, mercé per quella donna che tu miri, d'opra non star". Nelle quali parole sembra evidente l'allusione al Convivio: la donna che l'A. mira non può essere che la filosofia, la "donna gentile" dell'opera dottrinale, a cui l'A. attendeva in questi anni, e che Cino pensava, forse, che procedesse troppo lentamente. Nè è improbabile, stante l'amicizia del pistoiese con Moroello Malaspina, che sia stato proprio Cino a introdurre l'A. presso quella nobile famiglia. Quando con precisione si recasse presso i Malaspina, non sappiamo; ma doveva già da qualche tempo essere ospite di Franceschino, cugino di Moroello, in Lunigiana, se il 6 ott. 1306 il marchese lo costituì "suum legitimum procuratorem, actorem, factorem et nuncium specialem" per stipulare la pace, le cui trattative - verosimilmente con la partecipazione dell'A. - dovevano essere state precedentemente avviate e condotte a termine, con il vescovo conte di Luni: il trattato di pace, che chiudeva un lungo periodo di guerre, rapine, incendi, violenze d'ogni sorta dall'una e dall'altra parte, fu firmato lo stesso giorno "in ora tercia". Questa nomina è di per sé dimostrazione della stima che l'A. godette presso la famiglia: e verosimilmente ne sperimentò per un periodo non di pochi mesi la cortesia e liberalità, passando dalla corte di uno a quella di un altro dei membri della nobile casa. Certo, oltre che presso Franceschino, fu anche presso lo stesso Moroello, come provano un sonetto (Degno fa voi trovare ogni tesoro), scritto dall'A, a nome del marchese in risposta ad altro di Cina, e una letterina con la quale accompagnava l'invio a Moroello della canzone Amor, da che convien pur ch'io mi doglia. Del resto, le lodi di Purg. VIII, vv. 121-132, paragonabili per altezza e cordialità soltanto con quelle a Cangrande in Par. XVII, vv. 76-90, sono rivolte a tutta la casa, e non a un solo membro. Il fatto, poi, ch'egli fosse ospite del capitano della lega guelfa che aveva dato ai Bianchi il colpo di grazia con la presa di Pistoia non deve far meraviglia, né può essere interpretato come calcolo opportunistico: l'A. aveva presto ripudiato nettamente le parti, e come tale poteva rivolgersi ai reggitori neri di Firenze per esser richiamato in patria, legarsi d'amicizia con Cino, nero, gradire l'ospitalità di Franceschino Malaspina, ch'era stato capitano della Lega guelfa nel 1304, e quella dello stesso Moroello, che aveva doti non comuni di capitano e di gentiluomo, e di cui la moglie, Alagia dei Fieschi, meritò dall'A. speciale lode di bontà e pudicizia (Purg. XIX, vv. 142-145). Se appartenga a questa stessa epoca la lettera e la canzone cui si è accennato, come alcuni ritengono, o ad epoca posteriore, non è possibile accertare. In essa l'A. racconta che, partito dalla corte (par bene, del marchese stesso), e giunto presso l'Arno, una donna bellissima, improvvisamente apparsagli, l'aveva fatto ricadere nelle pene d'amore - dal quale si era allontanato - distogliendolo dalle sue assidue meditazioni del cielo e della terra. E le terribili pene per una donna insensibile all'amore e spietata sono il tema della canzone stessa. Parrebbe trattarsi di un amore reale del poeta più che quarantenne (il Boccaccio, in Compendio VI, dice per un'alpigiana molto bella, altri pensano a una fanciulla dei conti Guidi nel Casentino); ma non si può escludere che si tratti, invece, di un amore allegorico, come credono altri studiosi, sebbene manchi qualunque fondamento per un'interpretazione dell'allegoria. Quello solo che si può dire con quasi certezza (la stessa autenticità della lettera è stata oggetto di discussioni) è che la canzone, dal poeta stesso detta "montanina" e scritta in mezzo all'Alpi nella valle dell'Arno, dovette realmente essere composta durante una dimora dell'A, nel Casentino presso i conti Guidi, dove parrebbe si fosse recato, lasciando Moroello, e dove tornò al tempo dell'impresa di Arrigo VII.
Pur peregrinando da una regione all'altra e di corte in corte, l'A. attendeva, in questo periodo, tra il 1304 ed il 1307, alle due opere che avrebbero dovuto, per l'ingegno e la dottrina in esse profusi, innalzarlo agli occhi di coloro presso i quali era costretto a cercare ospitalità. Le due opere furono concepite quasi contemporaneamente; ma al De vulgari eloquentia egli accenna sul principio del Convivio (I, v, 10), dove, dopo aver osservato che le parlate volgari si trasmutano anche in piccol tempo, e dopo molto tempo diventano irriconoscibili, e invece il latino è perpetuo e non corruttibile, così continua: "Di questo si parlerà altrove più compiutamente in uno libello, ch'io intendo di fare, Dio concedente, di Volgare eloquenza". Non si può escludere che l'opera potesse in realtà essere già iniziata, quando scriveva queste parole: che è opinione di molti; tuttavia sembra più ragionevole pensare che il proposito di scriverla sorgesse in lui proprio dall'aver dovuto affrontare, iniziando il Convivio, la questione del rapporto tra il volgare e il latino. La quale nel Convivio è risolta con l'affermazione della superiorità del latino rispetto al volgare "per nobiltà e per virtù e per bellezza": opinione, invece, rettificata nel De vulgari eloquentia, dove la locutio vulgaris, in quanto è prodotto di natura, è detta più nobile del latino, che, secondo l'A., era una lingua artificiale, trovata dai grammatici per ovviare alle perpetue trasformazioni dei volgari. Sicché si potrebbe addirittura argomentare che il trattatello retorico debba essere stato iniziato dopo il I libro del Convivio, rispetto al quale rappresenta un progresso del suo pensiero. E poiché il I libro del De vulgari eloquentia fu scritto prima della morte di Giovanni I, marchese di Monferrato (febbraio 1305), a cui si accenna (cap. XII, 5) come a vivente, l'inizio del Convivio dovrà porsi nei primi mesi del 1304 (ad anticiparlo alla fine del 1303 si oppone la sua dichiarazione, per quanto certamente esagerata, al principio stesso del libro, di aver già peregrinato per quasi tutte le parti d'Italia), e l'inizio del De vulgari eloquentia qualche mese dopo quello del Convivio e comunque non più tardi della fine del 1304.
Il trattatello retorico costituì una breve parentesi nella stesura del Convivio: scritti di getto, come pare, il primo libro e il principio del secondo, esaurita, cioè, la parte generale e teorica, più ampiamente speculativa, quando, col cap. V del II libro, l'A. passò alla parte propriamente retorica e normativa, è probabile che fosse preso dal fastidio di una trattazione troppo angusta; e s'interruppe al cap. XIV: tra l'inizio e l'interruzione non dovettero trascorrere che pochi mesi. Il trattato fu concepito "come una organica arte del dire in volgare, fondata su principî di filosofia, di poetica e di retorica universali, tali da valere anche per una lingua di popolo che assurga ad espressione d'arte. La impostazione si mantiene su questo vasto piano nei primi dieci capitoli del primo libro e nei primi quattro del secondo; che se il poeta finisce per restringersi nelle altre parti (come ve lo inducevano passione di patria e diretta esperienza d'artista) al suo volgare, la specifica trattazione entra sempre dialetticamente nel piano dell'opera come concreta e particolareggiata esemplificazione di una dottrina d'arte e di un problema storico di carattere universale" (A. Marigo, De vulg. eloq., p. 2). In questo consiste la novità dell'opera, di cui l'A. si vanta nelle prime parole del proemio: e sotto questo aspetto il trattato dantesco s'innalza assai su tutti gli altri trattati di retorica volgare (che, del resto, l'A. dovette aver presenti, non meno della Poetica di Orazio, del De inventione di Cicerone e della Rhetorica ad Herennium), dalle Razos de trobar di Raimon Vidal al III libro del Tresor di Brunetto Latini, dedicato alla retorica, alle varie Poetrie d'uso nelle scuole, come quella di Giovanni Vinsauf e di Giovanni di Garlandia, senza parlare delle Summae artis dictaminis, che riguardavano la prosa d'arte in genere e più particolarmente l'epistolografia. Però, più che per questo aspetto che interessa la storia della trattatistica retorica medievale, l'opera ha per noi importanza come documento del grande studio che l'A. scrittore pose - il che non si suole sospettare - nella ricerca e nell'uso attento e consapevole della lingua e dello stile. I capitoli VI e VII del II libro, in cui egli tratta della costruzione della frase e della scelta dei vocaboli nella canzone, rivelano con quanta attenzione e finezza indagasse i mezzi espressivi e i risultati formali. La stessa ricerca ch'egli fa di una lingua "illustre, cardinale, aulica, curiale", e l'esame e la condanna delle varie parlate municipali sono sostanzialmente la dimostrazione delle profonde esigenze ,di un artista che vuole conseguire un alto ideale d'arte. E infatti qui, alla fine del cap. IV del II libro, afferma che "giammai, senza tenace forza d'ingegno e assiduo studio dell'arte e abito delle scienze" si può scrivere alta poesia: dove è delineata la figura ideale del grande poeta, "aquila che vola alle stelle", con "arte e scienza", e non "confidando nelle sole disposizioni naturali". È questa la parte più viva e positiva dell'opera; e in questo senso - cioè, come ricerca personale della sua propria lingua d'arte - va giudicata la validità della sua concezione del volgare illustre italico, ch'egli non trovava in nessuna parlata regionale o municipale, benché in tutte ne avvertisse - in quale più, in quale meno - il manifestarsi: concezione che in nessun modo può aspirare ad avere validità teorica, e praticamente inattuabile, o attuabile solo secondo il gusto personale di ogni artista, che è pressappoco la stessa cosa. Appaiono anche notevoli, nel trattato, la chiarezza del concetto della naturale evoluzione delle lingue; il tentativo dì aggruppamento delle lingue europee in tre grandi famiglie - nordica, sud-orientale, sud-occidentale -, l'ultima delle quali egli vedeva suddivisa in un "ydioma trifarium", cioè nelle tre lingue romanze d'oc, d'oïl e di sì, di cui intuiva esattamente l'unità, ma non la genesi; la divisione delle regioni linguistiche d'Italia segnata dallo spartiacque appenninico; l'ideale di una superiore unità linguistica d'Italia, accompagnato dal sentimento della potenziale unità spirituale d'Italia, ove fosse esistita un'aula e una curia, cioè una reggia e un senato, in cui si sarebbero raccolti i più eccellenti degli Italiani. Il resto, quasi tutta la parte filosofica e biblica (differenza tra gli angeli e gli uomini nel comunicare tra loro; la lingua ebraica data da Dio ad Adamo rimasta inalterata [opinione che rettificherà in Par. XXVI, vv. 124-127]; l'origine della diversità dei linguaggi dalla confusione babelica; l'invenzione delle lingue "grammatiche", inalterabili per diversità di tempi e di luoghi) è cosa morta con le idee e cognizioni del tempo.
Interrotto il De vulgari eloquentia, l'A. tornò al Convivio; ma anche questo interruppe, certamente dopo il marzo 1306, data della morte di Gherardo da Camino, che in IV, xiv, 12, è menzionato appunto come morto, ma prima della elezione di Arrigo di Lussemburgo (27 nov. 1308), perché in IV, iii, 6, è ricordato il suo predecessore, Alberto d'Asburgo, come ultimo imperatore eletto. Oltre che dallo scopo - che forse fu il più urgente e immediato -, dichiarato esplicitamente nei capp. III e IV del I libro, di riscattare, con la dimostrazione della sua dottrina, l'invilimento che l'esilio aveva procurato alla sua persona e alle sue opere, l'A. afferma di essere stato mosso a scrivere il Convivio da altre due ragioni: il proposito di purgarsi della "infamia", cioè del biasimo di "levezza d'animo" per aver cantato con passione altri amori dopo la morte di Beatrice, e il "desiderio di dottrina dare". La prima di queste due ragioni gli suggerì la forma esterna dell'opera: un commento alle stesse canzoni amorose, col quale avrebbe mostrato "che non passione ma virtù" era stata l'ispiratrice di esse, spiegandone "la vera sentenza... nascosta sotto figura di allegoria". E, riallacciandosi al racconto della Vita nova, del suo "consentire " all'amore per la "donna gentile" così si giustifica: "la donna di cu' io innamorai appresso lo primo amore fu la bellissima e onestissima figlia de lo imperadore de lo universo, a la quale Pittagora pose nome Filosofia". Vita nova e Convivio vengono così ad integrarsi, dimostrando che l'unico amore terreno del poeta era stato ed era ancora Beatrice ("quella Beatrice beata che vive in cielo con li angeli, e in terra con la mia anima", Conv. II, ii, 1); ed in questo senso egli poteva benissimo affermare che non intendeva col Convivio "in parte alcuna derogare" alla Vita nova. Tuttavia esiste nelle due opere contraddizione circa l'esito dell'amore per la donna gentile: questo nella Vita nova è presto scacciato dal ricordo di Beatrice, mentre nel Convivio Beatrice è vinta dalla Filosofia, la quale è esaltata come maggiore beneficatrice. Per eliminare la contraddizione, il Pietrobono, cui ha aderito il Nardi, ha sostenuto l'ipotesi di una prima redazione perduta della Vita nova, che doveva concludersi col trionfo, appunto, dell'amore per la donna gentile, mentre quella che possediamo sarebbe un rimaneggiamento compiuto dopo l'interruzione del Convivio, per conformarla allo spirito della Commedia, alla quale l'A. stava per porre mano. Senonché non esiste in tutta la tradizione manoscritta, né per altra via, alcun indizio di una redazione della Vita nova diversa da quella che abbiamo; l'opera invece dovette essere presto largamente divulgata (un documento bolognese del 15 giugno 1306, quando probabilmente l'A. non aveva ancora finito l'ultimo trattato compiuto del Convivio, ci fa conoscere il reclamo per il furto di "unum librum qui vocatur Vita nova scriptum in cartis pecudinis"), sicché sarebbe stato impossibile all'A. modificarne - e tanto sensibilmente! - il contenuto, ch'era ormai di dominio pubblico; senza dire, poi, della fondamentale difficoltà, implicita nell'ipotesi del Pietrobono, che un libro scritto, come lo stesso critico ammette, in lode di Beatrice terminasse col trionfo di un'altra donna. All'A, dovette sembrare sufficiente che le due opere concordassero sul motivo del contrasto tra il vecchio e nuovo amore, sul quale insiste l'intero libro II del Convivio (anzi su questo la concordanza è talvolta addirittura letterale), nonché sulla persistenza incrollabile, ribadita nel Convivio, dell'amore per Beatrice. E non si curò di fare accomodamenti; sicché la contraddizione tra le due opere rimase, ed è ineliminabile a fil di logica, come, del resto, sono alcune contraddizioni tra l'una e l'altra parte della stessa Commedia. In questi casi bisogna rassegnarsi ad accettare con discrezione le cose così come stanno, tenendo presente a volta a volta la particolare situazione, o il fine che l'A. si proponeva di raggiungere, nonché quel tanto di arbitrario nelle saldature delle composizioni medievali, che anche l'A. più di una volta si permise, con grande disinvoltura, nella stessa Commedia. Ma più che per purgarsi della taccia di leggerezza amorosa, il commento allegorico alle canzoni dovette apparire all'A. un mezzo, nello stesso tempo, nuovo, utile e dilettevole per imbandire senza eccessiva pesantezza il suo banchetto di sapere; giacché egli si rivolgeva non ai dotti, ma a tutti coloro che o per pigrizia, o perché distratti da cure familiari e civili, non si erano dedicati agli studi, e in particolare, come gli suggeriva l'esperienza del suo peregrinare di corte in corte, ai nobili, "principi, baroni, cavalieri, e molt'altra nobile gente, non solamente maschi, ma femmine, che sono molti e molte", ai quali sarebbe stato utile il beneficio del sapere, perché da essi specialmente dipendevano i costumi e il benessere della società. E dunque si può affermare che un apostolato di scienza fu l'intimo motivo ispiratore dell'opera, quello che diede ad essa l'entusiasmo di un'opera di fede. Il suo tono fondamentale, difatti, è di un inno al sapere, giacché "la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade. (Conv. I, i, 1). Facciamo nostro il giudizio sintetico, bene aderente, del Barbi (Introduzione al Convivio, ediz. Busnelli-Vandelli, p. LVI): "Opere più dotte se ne hanno in gran numero nel Medioevo, ma non opere in cui vibri tanto sentimento e riluca un così alto ideale umano. Accanto quindi alle parti puramente dottrinali, anch'esse notevoli per chiarezza e vigore di trattazione, si hanno pagine vive, calde, colorite...; e non occorre ricordare le pagine in cui si discorre dell'esilio, quelle in difesa del volgare, e quelle in cui vien rappresentata la nobiltà della vita umana nelle sue varie età. Né si parli di trattazione farraginosa: c'è qualche volta intenzione palese di mostrar dottrina, e si può desiderare che certe trattazioni fossero contenute in più brevi limiti, ma farraginoso il procedimento non è mai; sono come lezioni o conversazioni in cui le digressioni, le parentesi, gli episodi, gli sfoghi cadono di per sé naturali, e che, contenuti in giusti limiti, piuttosto che ingenerare confusione, danno bella varietà e servono a mettere in più frequente contatto con la vita e a destar maggiore interesse". Aggiungiamo che quel che distingue il Convivio dalle affini opere enciclopediche medievali è che qui il banchetto di sapienza è imbandito da un poeta. Fantasia e sentimento qui investono il sapere, fanno appassionante la ricerca, trasformano le cognizioni in immagini e palpiti di umanità. L'indagine dottrinale si fonde continuamente con l'indagine quanto mai varia del cuore umano e con l'estro della fantasia; e infatti non poche immagini e considerazioni di varia umanità son passate dal Convivio alla Commedia. Si può dire, anzi, che il Convivio anticipi degnamente la poesia del pensiero, che è tanta parte della poesia del Paradiso; e sotto questo riguardo, ha particolare importanza il terzo trattato, commento alla canzone Amor che ne la mente mi ragiona. Esso è tutto un'esaltazione della mente umana, della nobiltà della natura "vera umana o, meglio dicendo, angelica, cioè razionale". ("è da porre e da credere fermamente, che sia alcuno tanto nobile e di sì alta condizione che quasi non sia altro che angelo"), della filosofia, mediante la quale "l'umana perfezione s'acquista, cioè la perfezione della ragione,... tanto che l'uomo, in quanto ello è uomo, vede terminato ogni desiderio, e così è beato". È anche il trattato che meglio chiarisce la posizione definitiva del pensiero dell'A. quanto al rapporto tra filosofia e fede quale abbiamo delineato più su: fede saldissima, ma nessuna rinunzia all'attività della ragione, cioè alla speculazione filosofica, considerata, anzi, come aiuto alla fede (Conv. III, xiv, 14), precisamente come nella Commedia, dove Virgilio è aiuto e preparazione a Beatrice. Torna qui opportuno ripetere che non c'è differenza, quanto all'atteggiamento speculativo, tra il Convivio e la Commedia: anche nel Convivio la teologia è celebrata come la colomba di Salomone, la perfetta fra tutte le scienze, quella che "piena è di tutta pace, la quale non soffera lite alcuna d'oppinioni o di sofistici argomenti, per la eccellentissima certezza del suo subietto, lo quale è Dio", quella che "perfettamente ne fa il vero vedere, nel quale si cheta l'anima nostra" (Conv. II, xiv, 19-20). E, del resto, lo stesso amore per la donna gentile, in quanto amore i "la veritade e a la vertude", è, in ultima analisi, amore a Dio: la maggiore insistenza sull'eccellenza della ragione nel Convivio, sui suoi limiti, invece, nella Commedia, specie nel Paradiso, è inerente alla differenza di materia e d'intenti nelle due opere. Anche la materia dottrinale - scientifica, filosofica, teologica - non subisce, dal Convivio alla Commedia, se non qualche insignificante rettifica. E per la prima volta si manifesta il pensiero politico dantesco; e non già in via di elaborazione, ma nella sua forma definitiva, quale sarà più ampiamente sviluppato nella Monarchia e ribadito nella Commedia: il che implica un precedente processo di maturazione, che peraltro non siamo in grado di seguire. È da credere che l'A. cominciasse a riflettere sulle rispettive giurisdizioni del papato e del potere laico all'epoca del suo priorato, quando Bonifazio VIII pretendeva la revoca della condanna dei Fiorentini che avevano congiurato a suo favore, sostenendo essere stata data da Dio al suo vicario la potestatis plenitudo, e il suo legato, Matteo d'Acquasparta, armeggiava in Firenze per attuare le mire temporali del pontefice. Quanto alla potestà imperiale, non solo, come guelfo, allora non ne ammetteva l'ingerenza (ed aveva assistito alla fiera opposizione del Comune ai tentativi di Rodolfo d'Asburgo e dei suoi vicari, Loddo d'Alemagna, nel 1281, e Percivalle Fieschi, nel 1286, dì menomarne l'indipendenza), ma sappiamo anche, da un accenno ch'egli fa in Conv. IV, iv, 8, e dall'esplicita dichiarazione di Mon. II, i, 2-3, ch'egli allora seguiva l'opinione "che la romana potenzia non per ragione né per decreto di convento universale fu acquistata, ma per forza", il che implicava il disconoscimento dello stesso fondamento morale e giuridico dell'Impero. Poi l'esorbitanza delle pretese di Bonifazio, consacrate solennemente nella bolla Unam sanctam, che faceva del pontefice il sovrano temporale, oltre che spirituale, del mondo e tutti soggetti al suo cenno; la violenta polemica sorta intorno ad essa nel conflitto tra Bonifazio VIII e il re di Francia; la decadenza morale di tutta la Chiesa, da una parte, e la visione, dall'altra, del disordine civile, delle violenze e guerre in ogni parte d'Italia, tra le mura di una stessa città, a cui la Chiesa non era in grado di porre rimedio; tutto ciò, se non vogliamo aggiungere anche lo sdegno personale contro Bonifazio e i contatti con ghibellini quali Bartolomeo della Scala, dovette presto, nell'esilio, allargare l'orizzonte del suo pensiero politico, prima ristretto alle tradizioni guelfe e alle istituzioni e agli interessi del suo Comune. Ma non meno che da queste contingenze storiche e personali, a concretare il suo pensiero politico l'A. dovette essere spinto da quella sua intima esigenza di trovare principî universali, e di non acquietarsi se non in verità assolute e inderogabili. Certo, quando scrisse i capp. IV e V del IV libro del Convivio, il suo pensiero era pienamente definito; e schematicamente è questo: l'umanità è ordinata alla felicità, che non può essere raggiunta se non mediante la vita associata (famiglia, quartiere, città, regno); ma poiché la cupidigia dell'uomo è infrenabile, inevitabili sono discordie e guerre che, togliendo la pace, impediscono il raggiungimento del fine dell'umanità. "A queste guerre e le loro cagioni torre via, conviene di necessitade tutta la terra... essere monarchia, cioè uno solo principato e uno prencipe avere; lo quale, tutto possedendo e più desiderare non possendo", tenga tutti dentro l'ordine dovuto, sì che regni la pace, e ciascuno, avuto ciò di cui ha bisogno, sia felice. Sono concetti di Aristotele, che l'A. cita due volte nello stesso capitolo IV. Virgilio, la storia romana e la Bibbia completano il pensiero politico dantesco; al popolo romano spetta l'elezione del monarca universale, perché Dio, come afferma Virgilio, aveva dato ai Romani l'impero del mondo: e ciò perché tutta la terra fosse, per la venuta di Cristo, nella sua ottima disposizione, il che non poteva avvenire se non nella pace, che solo la monarchia unica poteva attuare e fu attuata difatti sotto Augusto, come testimonia Luca evangelista; di questa missione da Dio affidata a Roma sono prove la contemporaneità della fondazione di Roma e della nascita di David, da cui doveva nascere Maria, l'intervento soprannaturale negli eventi fortunosi della storia di Roma, le straordinarie virtù degli antichi Romani. Queste argomentazioni valgono quel che valgono; ma importa notare che l'A., affermando che l'Impero romano era stato voluto da Dio, e l'elezione del monarca affidata direttamente al popolo romano, implicitamente veniva ad escludere ogni diritto del papato a ingerirsi in ciò che concerneva l'Impero. La dimostrazione di questo concetto sarà lo scopo della Monarchia; qui l'A. non aveva ragione di essere più esplicito. Come nei riguardi del pensiero filosofico-teologico, così del pensiero politico, l'atteggiamento dell'A. nel Convivio non differisce da quello della Commedia; anche in questo l'assenza del supremo potere civile è lamentata come la causa dei mali "ne la misera Italia, che sanza mezzo alcuno a la sua governazione è rimasa" (Conv. IV, ix, 10). E ancora è da notare come l'atteggiamento fermo di giudice ch'egli assume, nell'ultimo trattato, di fronte a sovrani e signori vivi e morti, ben diverso da quello compassionevole con cui nel primo libro aveva lamentato la miseria del suo stato, preluda anch'esso alla Commedia. E infine, quale sublime coscienza della potenziale nobiltà dell'uomo, in questo quarto trattato, che commenta appunto la canzone della nobiltà, Le dolci rime d'amor ch'i' solia!. L'A. arriva ad accettare l'opinione - che "se tutte le... vertudi s'accordassero sovra la produzione d'un'anima ne la loro ottima disposizione, ...tanto discenderebbe in quella de la deitade, che quasi sarebbe un altro Iddio incarnato" (Conv. IV, xxi, 10). Il mondo era privo di virtù, e l'A. lo popolava delle figure eroiche di Roma antica, e vedeva addirittura in Catone Uticense l'uomo "più degno di significare Iddio" (IV, xxviii, 15). Il sentimento della vita eroica, nella sfera del pensiero e dell'azione, che accompagna di mondo in mondo il pellegrino della Commedia, investe già le pagine di questo libro: e in ciò è la sua maggiore importanza. Ma particolare importanza ha anche come opera di grande impegno stilistico. Accingendosi a scrivere un'opera di scienza in volgare invece che in latino, a beneficio dei moltissimi "non litterati" (il Convivio è il primo trattato scientifico in volgare italiano), egli s'impegnava di dimostrare non solo com'esso volgare non fosse inferiore ai volgari d'oltralpe, ch'era accusa di molti "malvagi uomini d'Italia" che dispregiavano esso e commendavano gli altri (I, x, 10-11, xi, 1), ma - cosa ancor più importante - come si potessero "per esso altissimi e novissimi concetti convenevolmente, sufficientemente e acconciamente, quasi come per esso latino, manifestare" (I, x, 12), tanto da presagire che l'uso del volgare, in luogo del latino, "sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l'usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade, per lo usato sole che a loro non luce" (I, xiii, 12). Rispetto alla prosa della Vita nova, in cui il lirismo sognante del libretto sembra talvolta indulgere troppo a ondeggiamenti, ripetizioni, morbidezze musicali, la prosa del Convivio ha una robustezza e una precisione, che rivelano nell'autore il pieno dominio della forma. Qui la forza e maturità del pensiero, l'ardore così della speculazione come del sentimento, l'altezza della coscienza morale si riflettono in uno stile nudo e incisivo, appassionato e convincente: un esempio pratico di alta prosa in quel volgare illustre che vagheggiava teoricamente.
Dopo l'ospitalità dei Malaspina, e, probabilmente, dei conti Guidi nel Casentino, si suppone ch'egli passasse a Lucca. A un suo soggiorno in questa città accenna l'A. stesso; e ci fa sapere che gli riuscì gradito per la cortesia di una gentildonna di nome Gentucca (si pensa a una Morla o a una Fondora di questo nome, che nel 1300 dovevano essere giovanissime, e quindi non portavano "ancor benda": cfr. Purg. XXIV, vv. 37-45). Sappiamo anche di lagnanze dei Fiorentini per l'ospitalità che in essa trovavano, tra il 1308 e il 1309, esuli e sbanditi dalla nuova guerra civile scoppiata in Firenze tra i Neri stessi, nella quale perì Corso Donati, tanto che il Comune di Lucca si decise a interdire ad essi il soggiorno, con un editto del 31 marzo 1309. E già si è detto del documento lucchese del 21 ott. 1308, in cui compare un "Iohannes filius Dantis Alagherii de Florentia". Sicché è molto probabile che appunto al 1308 debba assegnarsi la dimora dell'A. nella città di Gentucca. Sulle sue peregrinazioni tra la fine del 1308 e la fine del 1310 non abbiamo elementi neppure per formulare qualche congettura. C'è, però, l'affermazione di Giovanni Villani, ripetuta insistentemente dal Boccaccio, di un viaggio dell'A. a Parigi, per studiare in quella celebre università, donde sarebbe tornato dopo la discesa in Italia di Arrigo VII. Dirigendosi oltralpe, secondo il Boccaccio, si sarebbe fermato al monastero di S. Croce del Corvo, presso Lerici; e qui, secondo la lettera di un frate Ilario, trascritta dal Boccaccio stesso nel suo Zibaldone dantesco (cod. Laurenz. XXIX, 8), egli avrebbe dato al frate una copia dell'Inferno con sue chiose, invitandolo ad aggiungervi le proprie, e inviare poi l'opera a Uguccione della Faggiuola. Ma la lettera è tutta un'assurdità, e pertanto non prova nulla. Né valore probativo hanno gl'indizi indiretti di un viaggio in Francia, che si son voluti trovare nella Commedia, dei quali i più rilevanti sarebbero la menzione (in Par. X, v. 137) del " vico delli strami", la parigina Rue de Fouarre, dove erano le scuole di filosofia, e la descrizione dell'esame del baccelliere in Par. XXIV, vv. 46-48, giacché il vicus straminum era ben noto per fama, e a esami del genere l'A. certo avrà assistito negli Studi di Firenze e di Bologna. E infine, aveva l'A. la possibilità di mantenersi a Parigi? o di chi sarebbe stato ospite?
Frattanto si preparavano eventi, che dovevano lasciare nel cuore e nell'opera dell'A. impronte indelebili. Il 27 nov. 1308 era stato eletto Imperatore Arrigo VII, conte di Lussemburgo; e il 20 luglio del 1309 papa Clemente V, il "guasco", successo nel 1305 a Benedetto XI, da Avignone, dove aveva trasferito la Curia papale, comunicava con un'enciclica alla cristianità di averlo riconosciuto re dei Romani ("carissimum fllium nostrum Henricum,... denunciavimus et declaravimus regem Romanorum"), promettendo d'incoronarlo nella basilica di S. Pietro. I rapporti tra le due supreme autorità erano ottimi: Clemente nel 1307 aveva nominato Baldovino, fratello di Arrigo, arcivescovo di Treviri, per cui questi era diventato uno dei grandi elettori tedeschi; e di Arrigo aveva favorito l'elezione. Arrigo, da parte sua, nel chiedere al pontefice la consacrazione, lo aveva riconosciuto come "luminare maius", aveva proclamato il suo amore della pace e la volontà d'instaurarla, aveva affermato il proposito di liberare il Santo Sepolcro: tutto ciò che stava a cuore al pontefice. La terra dell'Impero dove bisognava imporre la pace era l'Italia. Fuorusciti, ghibellini, e guelfi fattisi ghibellini, mandavano all'imperatore ambascerie, invocandone l'intervento, con doni e assicurazioni di aiuti. Nell'agosto del 1309, a Spira, la spedizione in Italia fu decisa; e intanto, tra la primavera e l'estate del 1310, ambasciatori imperiali furono inviati alle città italiane, per richiedere l'omaggio all'imperatore e la sospensione delle guerre in corso. Tra la generale riguardosa accoglienza che ad essi venne fatta, Firenze fece sentire una nota meno rispettosa. Narra il Compagni (III, 35) che nel Consiglio in cui i messi esposero i mandati imperiali, si levò primo a parlare Betto Brunelleschi, affermando "che mai per niuno signore i Fiorentini non inchinarono le corna". Secondo Flavio Biondo, l'A. avrebbe dimorato allora (luglio 1310) a Forlì presso Scarpetta Ordelaffi, e avrebbe scritto, a questo riguardo, una lettera a Cangrande, a nome della parte bianca degli esuli e suo, deplorando la cecità dei Fiorentini. Il Biondo aveva sott'occhio la lettera, lasciata scritta da Peregrino Calvi, il segretario dell'Ordelaffi, di cui già si è detto, e vi prestò fede; ma essa era certamente una mistificazione del Calvi, a provar la quale basta il fatto che l'A. da molti anni aveva troncato ogni rapporto coi Bianchi (Barbi, Sulla dimora di D. a Forlì, in Problemi s. 1 [1934], pp. 189-195). Finalmente, attraverso gli stati del conte Amedeo di Savoia, suo cognato, il 23 ott. 1310 Arrigo entrò in Italia a Susa, con piccolo esercito. Ne aveva preannunziata la venuta Clemente V, il 1º settembre, con una calorosa epistola in cui lo proclamava il "re pacifico innalzato fra le genti dalla grazia divina..., frutto di questa grazia", che avrebbe restaurato la giustizia senza parteggiare per gli uni o per gli altri, e invitava tutti ad accoglierlo con onore. Questa amorevole concordia delle due supreme autorità del mondo cattolico, da secoli in lotta tra loro, per attuare così alto programma di pace e di giustizia, dovette sembrare un miracolo. Non poche, infatti, sono le testimonianze della commozione che si diffuse in Italia, quasi si aprisse una nuova era. S'erano perfino visti presagi celesti della venuta di Arrigo: una notte era apparso in aria "uno grandissimo fuoco.., correndo dalla parte d'Aquilone verso il meriggio con grande chiarore, sicché quasi per tutta Italia fu veduto, e fu tenuto a grande maraviglia; e per gli più si disse che fu segno della venuta dello 'mperadore" (Villani, VIII, 109). Entrato Arrigo in Italia, da Torino a Milano fu quasi tutto un trionfo: egli aveva dichiarato di aborrire le parti, e guelfi e ghibellini s'inchinavano a lui parimenti; gli esuli tornavano nelle città, dove vicari imperiali erano posti a garantire l'imparzialità della giustizia; città rivali giuravano tra loro pace. Parve un miracolo il passaggio del Ticino, avvenuto senza bisogno di navi.
Bisogna tener presente l'atmosfera di fervore quasi religioso, che sembrava avesse invaso gli animi lacerati dalle passate discordie, per meglio comprendere e giustificare il tono dell'epistola che l'A. rivolse a tutti i regnanti, i signori, i Comuni d'Italia e i senatori di Roma, quando l'imperatore stava per passare le Alpi. Poiché nella chiusa di questa epistola l'A. si riferisce esplicitamente all'enciclica di Clemente del 1º settembre, e, poco dopo il principio, dice, rivolgendosi all'Italia, "sponsus tuus, mundi solatium et gloria plebis tue, clementissimus Henricus, divus et Augustus et Cesar, ad nuptias properat", è evidente che essa fu scritta dopo che l'enciclica fu conosciuta e prima dell'entrata in Italia dell'imperatore. Dove fu scritta non sappiamo: alcuni pensano a Forlì, dando, in questo, parziale credito alla notizia, più su riferita, di Flavio Biondo. L'epistola comincia con le squillanti parole di Paolo ai Corinzi (II, vi, 2) "Ecce nunc tempus acceptabile", ed è tutta intessuta di espressioni del Vecchio e del Nuovo Testamento, non, però, senza qualche eco di Virgilio e qualche riferimento alla storia di Roma, l'altro Testamento della fede politica dell'Alighieri. Arrigo è detto un altro Mosè che strapperà il suo popolo dalla servitù degli Egiziani, il pastore discendente da Ettore, il predestinato da Dio a portare consolazione e pace alla misera Italia, il sole che farà di nuovo risplendere la giustizia. Tutti s'inchinino a lui: egli punirà gli empi e i malvagi, ma avrà misericordia di quelli che si saranno pentiti, perché la sua autorità sgorga da Dio, fonte di pietà. E perciò gli oppressori si liberino dalla barbarie longobardica da essi acquisita, e non resistano a lui, che varrebbe quanto resistere a Dio; e gli oppressi, coloro che, come l'A., sono stati ingiustamente colpiti, riprendano animo, e perdonino a loro volta. Dio ha mandato l'imperatore, e il vicario di Dio esorta ad onorarlo. È questo, di tutti gli scritti danteschi di politica militante, quello in cui più alto, più puro si manifesta il suo sentimento: uno scritto, si direbbe, religioso più che politico, perché la sua ispirazione fondamentale è l'immensa fiducia dell'A, nella provvidenza divina; la polemica generale e personale è tutta disciolta in questo sentimento della presenza di Dio nello straordinario evento: Arrigo, più che l'imperatore, è il Messia, e l'A. si sente il suo profeta. Due concetti in essa crediamo opportuno segnalare, sebbene si tratti di un semplice accenno: uno, che da Dio "velut a puncto biffurcatur Petri Cesarisque potestas"; l'altro, che i sudditi dell'imperatore sono non solo riservati al suo comando, ma, come uomini liberi, al governo da lui regolato ("non solum sibi ad imperium, sed, ut liberi, ad regimen reservati"): sono due concetti importantissimi, che verranno sviluppati rispettivamente nel III e I libro della Monarchia.
Ignoriamo dove e quando l'A. rese il suo omaggio all'imperatore: probabilmente egli non dovette tardare a corrergli incontro; forse ancor prima che cingesse la corona di ferro a Milano (epifania 1311). Comunque, al fatto accenna nella lettera, di cui diremo tra poco, all'imperatore stesso, del 17 aprile, nella quale ricorda il giorno memorabile in cui lo vide e lo udì, e gli si prostrò ai piedi: "Tunc - egli dice addirittura coi testi sacri (Luca I, 47; Giovanni I, 29) - exultavit in te spiritus meus cum tacitus dixi mecum `Ecce Agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi'": nessuna meraviglia che alla esaltazione del momento l'A. non trovasse espressione adeguata se non nelle parole del Precursore al Messia. Ma all'impresa pacificatrice di Arrigo, così felicemente iniziata, sorsero ben presto i primi ostacoli: le paci si rivelarono effimero frutto di una momentanea generale commozione, non di convinzione e di buona volontà, come tante altre volte era avvenuto, in seguito all'intervento di papi o alla predicazione di religiosi e di santi, nella storia del nostro Medioevo. Una situazione così tesa e così complessa qual'era quella allora dei Comuni e delle larvate Signorie d'Italia non poteva essere appianata d'un tratto, senza provocare prima o poi la reazione dei potenti, menomati nei loro interessi particolari dall'intervento dell'imperatore. Anche il ritorno dei fuorusciti, provvedimento - teoricamente - di somma giustizia, non sempre risultava politicamente opportuno o senza pericoli. Né la forza militare dell'imperatore era tale da tenere a freno e intimidire i più irrequieti e i più decisi. La scintilla della rivolta fu data da Guido Della Torre, ch'era stato signore di Milano, e che aveva dapprima accolto senza resistenza il monarca nella città; la rivolta fu soffocata nel sangue e le truppe si abbandonarono al saccheggio. L'astro del re pacifico si oscurava. Rifugiatosi a Cremona, il Della Torre sollevò anche questa città contro l'imperatore. Seguì la ribellione di Brescia, caduta in mano dei guelfi: minori focolai di rivolta si accendevano per tutta la Lombardia. Firenze intanto apertamente si preparava in tutti i modi alla lotta: costruiva alacremente mura, fossi, steccati intorno alla città; stringeva una lega fra le città guelfe toscane, alla quale aderì Bologna; aiutava col denaro le città ribelli lombarde, sollecitava l'appoggio del re Roberto di Napoli, tramava contro Arrigo alla corte di Avignone. All'A. tutto ciò sembrò follia ed empietà a un tempo; e il 31 marzo 1311 si rivolse direttamente "agli scelleratissimi Fiorentini di dentro", con un'epistola in cui lo sdegno è senza dubbio assai più forte della carità di figlio che, prevedendo la rovina sicura della patria, cerchi persuadere i suoi concittadini ad evitarla.
Ma l'A., quando le sue convinzioni ne provocano lo sdegno, è terribile ccme i profeti d'Israele. I Fiorentini sono trasgressori delle leggi divine e umane, disposti per la loro terribile cupidigia ad ogni nefandezza, sciocchi come gli edificatori di Babele, privi del fondamento stesso della sapienza che è il timor di Dio, insolenti, arroganti, superbissimi, i più boriosi dei Toscani, per natura e per vizio insensati, miserrima discendenza dei Piesolani. Gli argomenti polemici sono gli stessi delle precedenti scritture: la ragione, la Bibbia, la storia dimostrano che Dio dispose l'impero romano a governare le cose umane ai fini della pace e del viver civile: vacante l'Impero, tutto il mondo travia, anche la navicella di Pietro. Né c'è prescrizione all'autorità dell'Impero, né esso può essere sostituito da altra autorità, precisamente come per l'autorità della Chiesa. E neppure il sottomettersi alla giustizia legittima è servitù, ma anzi è la somma libertà. "Che altro, infatti - egli dice -, è la libertà, se non il libero attuarsi della volontà, che le leggi facilitano a coloro che s'inchinano ad esse?": definizione che sarà ripetuta, con qualche variazione di forma, non disostanza, in Monarchia I, xii, 2. E Arrigo ha affrontato le più ardue difficoltà non per un suo vantaggio, ma per il bene del mondo, novello Cristo. Si pentano, dunque, amaramente e presto, i Fiorentini, della loro superbia, perché la loro punizione, se il pentimento tarderà, sarà senza misericordia.
La lettera porta, oltre alla data, l'indicazione del luogo: "in finibus Tuscie, sub fontem Sarni", cioè nel Casentino: quasi certamente l'A. era lì ospite del conte Guido di Battifolle nel castello di Poppi. La stessa indicazione porta anche la lettera che solo due settimane dopo, il 17 aprile, l'A. indirizzò non soltanto a nome suo, ma di "tutti quanti i Toscani che desiderano la pace", allo stesso "sanctissimo, gloriosissimo, atque felicissimo triumphatori et domino singulari domino Henrico divina providentia Romanorum regi et semper Augusto". Il luogo da cui fu scritta illumina - noi crediamo - a intendere l'espressione "omnes Tusci qui pacem desiderant": questi non possono essere i ghibellini, e tanto meno i Bianchi fiorentini fuorusciti, coi quali l'A. si fosse nuovamente accordato. La lettera dovette essere ispirata dalle trepidazioni di tutti i Toscani di buona volontà, che avevano reso omaggio all'imperatore, ma, intimoriti dai preparativi di guerra da parte dei Fiorentini, erano impazienti della lunga sosta dell'imperatore in Lombardia, e quasi dubitavano (così parrebbe) ch'egli avesse in animo di rinunziare a intervenire nella situazione di Toscana; e non è improbabile ch'essa fosse sollecitata dagli stessi conti Guidi, presso cui l'A. dimorava, e che più tardi, infatti, si piegarono alle ingiunzioni di Firenze e si schierarono contro l'imperatore. Dopo un lungo esordio, in cui ricorda l'esultanza e le speranze d'Italia, quando l'imperatore aveva passato le Alpi, e le perplessità ora sopraggiunte per la sua dimora in Lombardia, come se l'Impero fosse lì circo-scritto, la lettera insiste poi tutta sulla necessità di rompere gl'indugi e venire in Toscana ad estirpare la radice stessa dell'opposizione, Firenze. Questa egli dice - è la vipera che si rivolge contro il seno della propria madre, Roma; è la pecora infetta che contagia le greggi vicine; è la scellerata ed empia Mirra che cerca l'amplesso del padre, il sommo pontefice; è Amata ribelle al volere del fato, che si oppone alle nozze legittime e cerca le illegittime (allusione al re di Napoli, Roberto d'Angiò). Anche concedendo alla retorica epistolare i suoi diritti, qui la violenza dell'atteggiamento dell'A. contro Firenze oltrepassa di molto il fierissimo sdegno dell'epistola ai Fiorentini: non c'è neppure un accento di quella "carità del natio loco", che non manca quasi mai in mezzo alle sue collere più tempestose: c'è solo l'odio biblico contro gl'idolatri, e furore di sterminio. Quanto tempo egli dimorasse ancora nel Casentino non sappiamo; ma vi era ancora il 18 maggio, e precisamente nel castello di Poppi, come indica la data della terza delle tre letterine, che a buon diritto si ritengono scritte da lui a nome della contessa toscana palatina G[herardesca] di Battifolle, moglie del conte Guido, e indirizzate all'imperatrice. Sono tre ornatissime letterine di ringraziamento e di ossequio, e di auguri per la felice riuscita dell'impresa di Arrigo, in risposta alle lettere dell'imperatrice; ma s'insinua in esse così evidente la personalità dell'A., con i suoi concetti e i suoi sentimenti (il principe unico voluto dalla provvidenza per il consorzio umano; la speranza che Arrigo riformi in meglio la società traviata), che non parrebbe giustificato il dubbio sulla loro attribuzione all'Alighieri. Il 15 giugno Arrigo prese finalmente Cremona, e pose subito l'assedio a Brescia; ma la città non si arrese che nel settembre; e nei quattro mesi di assedio le perdite dell'esercito imperiale, anche per il flagello della peste, furono tali che Arrigo, prima di recarsi a Roma per l'incoronazione, decise di sostare a Genova per raccogliere nuove forze (ottobre 1311-febbraio 1312). Qui il 10 dic. 1311, dopo aver invano mandato a Firenze nuovi ambasciatori, i quali furono addirittura costretti a fuggire, mise Firenze al bando dell'Impero, dopo regolare processo, al quale furono chiamati molti testimoni. Non sappiamo se l'A. fosse tra questi; ma non è improbabile che, allontanatosi dal conte Guido, quando questi cominciava a tergiversare tra l'ossequio dato all'imperatore e le ingiunzioni di Firenze, alle quali infine, come si è detto, ubbidì, l'A. passasse a Genova al seguito dell'imperatore. Il 2 sett. 1311 egli era stato escluso dall'amnistia concessa da Firenze a molti dei guelfi cacciati in bando, con la cosiddetta Riforma di Baldo d'Aguglione. Era questi il principale dei priori allora in carica, abilissimo e disonesto uomo di leggi, verso cui l'A. non nascose il suo disprezzo (Par. XVI, vv. 55-57), già condannato per aver raso da un atto notarile una testimonianza sfavorevole a un suo cliente (Purg. XII, v. 105). Ma la Riforma era atto di grande avvedutezza. Il nome dell'A. appare tra gli esclusi del sesto di Porta S. Pietro, insieme con i figli di messer Cione del Bello, suoi cugini (Piattoli, 106). Da Genova Arrigo sbarcò a Pisa il 6 marzo 1312; e potrebbe darsi che vi fosse anche l'A., se in questo periodo (marzo-aprile 1312) avvenne l'incontro tra lui e Francesco Petrarca bambino, che a Pisa aveva compiuto il suo settimo anno (Famil. XXI, xv, 7; I, 1, 24). Da Pisa Arrigo il 19 aprile mosse verso Roma. Qui le milizie di Roberto d'Angiò, insieme con quelle inviate da Filippo il Bello, al comando del fratello Giovanni, avevano occupato il Campidoglio, il Vaticano e Castel Sant'Angelo; ed erano dalla loro parte le famiglie degli Orsini e dei Caetani. Dalla parte dell'imperatore si schierarono i Colonna. Il papa, che aveva mandato cardinali legati per incoronare l'imperatore in sua vece, ormai schiavo della volontà del re di Francia, non si mosse in suo favore, dimostrando di tollerare l'opposizione angioina. Arrigo s'insediò in Laterano, mentre per le vie si combatteva. Nella confusione della situazione, espugnato con le armi il Campidoglio, Arrigo vi convocò il popolo di Roma; e questo impose al cardinal legato Niccolò da Prato l'incoronazione dell'imperatore. La quale avvenne solennemente nella festa dei santi Pietro e Paolo, il 29 giugno 1312, nella basilica di S. Giovanni in Laterano, e non in quella di S. Pietro, come in luogo più sicuro. Sebbene in pratica non valesse se non la forza delle armi, l'atto aveva un'importanza ideale riconosciuta anche da coloro che di fatto non ne tenevano conto: per questo Roberto d'Angiò, Filippo il Bello, i Fiorentini avevano cercato d'impedirlo; esso perfezionava e consacrava la legittimità dell'autorità imperiale: il crisma religioso conferiva alla persona stessa dell'imperatore un carattere sacro. Era un mito, come l'universalità dell'Impero; ma affascinava le menti e commoveva gli animi. E che la mente e l'animo di Arrigo stesso, malgrado la dura lezione della realtà, fossero pieni di questi miti, prova l'epistola - quale avrebbe potuto scrivere l'A. stesso - da lui inviata ai sovrani d'Europa per comunicare l'avvenuta consacrazione (Monumenta Germ. Hist., Constitutiones et Acta publica, IV, 2, pp. 801-804): il che fa dello sfortunato imperatore, che nella spedizione d'Italia perdette prima un fratello, poi la moglie, e infine la vita, un personaggio, diremmo, "romantico", l'ultimo, nella storia del Medioevo, sincero credente nel sogno della restaurazione di una autorità universale, a somiglianza di quella dell'Impero romano. Ma non era passato un mese dall'incoronazione, che a Tivoli, dove stava passando l'estate, gli giunsero lettere di Clemente V, che gl'imponeva di uscire dalle terre della Chiesa, e di far tregua con Roberto d'Angiò. Rispose l'imperatore il 6 agosto, affermando l'indipendenza dell'autorità imperiale da quella del pontefice, e il diritto di risiedere nella capitale dell'Impero. Poco dopo lasciò effettivamente lo Stato della Chiesa, e, raccogliendo milizie attraverso l'Umbria e la Toscana, giunse il 19 settembre davanti a Firenze. L'assedio, che durò quaranta giorni, fu del tutto vano: l'imperatore era malato; le truppe imperiali, inferiori di numero, non riuscivano neppure a cingere per intero la città; nessun fatto d'arme di qualche rilievo; solo esso diede occasione ad ogni sorta di violenze, da parte di ghibellini e guelfi fuorusciti, assetati di vendetta. L'A., che un anno e mezzo prima aveva sollecitato Arrigo ad estirpare Firenze, radice dei mali, non fu con lui nell'assedio. Il Bruni conobbe una sua lettera, per noi perduta, in cui scriveva che "il tenne tanto la riverenza della patria, che, venendo lo imperadore contra Firenze, e ponendosi a campo presso la porta, non vi volle essere,... con tutto che confortator fosse stato di sua venuta". Il suo nome, infatti, non compare nella condanna emanata da Firenze il 7 marzo del 1313 contro i fuorusciti presenti nel campo dell'imperatore. Questi il 1º novembre tolse l'assedio della città e passò l'inverno a Poggibonsi in attesa dell'esercito che aveva mandato a raccogliere in Germania. La sua intenzione era di muover guerra a re Roberto, che, citato a comparire al suo giudizio, il 26 apr. 1313 fu processato in contumacia e messo al bando dell'Impero. Re Roberto, a sua volta, si appellava al papa, dichiarando decaduto l'Impero e reclamando i diritti della sua Casa, mentre i suoi giuristi affermavano che, con la donazione di Costantino, tutti i diritti imperiali erano stati trasferiti al pontefice. Il 12 giugno Clemente V lanciava la minaccia di scomunica all'imperatore, se fosse entrato nel Regno di Napoli: ormai era palese l'inganno del Guasco (Par. XVII, v. 82), che prima aveva caldeggiato l'intervento di Arrigo nelle cose d'Italia, ed ora serviva gl'interessi franco-angioini. Riteniamo che in questo periodo, tra le prime ostilità del papa, subito dopo l'incoronazione, e la minaccia della scomunica, l'A. debba aver posto mano alla composizione della Monarchia. Nessun'altra ipotesi - da quella, oggi in verità abbandonata, di una redazione totale o parziale prima dell'esilio, durante le controversie giurisdizionali tra Firenze e Bonifazio VIII, a quelle che l'assegnano al tempo in cui re Roberto fu nominato dal papa vicario imperiale (marzo 1314), o all'epoca del contrasto tra Giovanni XXII e Cangrande, ch'era stato confermato da Federico d'Austria vicario imperiale ed era in guerra contro Padova e Treviso (gennaio-giugno 1317) - ha per sé altrettanti argomenti di probabilità. Giustamente G. Vinay (Monarchia, Firenze 1950, pp. XXXIV ss.) ha richiamato l'attenzione sul seguente passo del libro II, cap. I: "Quand'ebbi ficcato a fondo gli occhi della mente e riconobbi per evidentissimi segni che la Provvidenza aveva fatto ciò (che il popolo romano si facesse signore del mondo], cessò la mia meraviglia e subentrò derisione e di-sprezzo, sapendo di popoli che sono insorti contro la preminenza del popolo romano, quando vedo popoli che vaneggiano, come facevo io un tempo (cum videam populos vana meditantes, ut ipse solebam), quando, inoltre, mi dolgo di re e principi concordi solo in questo, nell'avversare il loro signore, il loro unto, l'imperatore romano (cum insuper doleam reges et principes in hoc unico concordantes ut adversentur Domino suo, ecc.). Perciò con derisione, ma non senza dolore, posso gridare (clamare possum) per il glorioso popolo romano e per Cesare, insieme con colui che gridava per il principe del cielo: 'Perché sono insorte le genti e i popoli hanno vaneggiato?' ". Dalle quali parole non pare possa esser messo in dubbio che, mentre l'A. le scriveva, c'era una grande opposizione in atto contro l'imperatore; e, scrive il Vinay, "durante la sua vita, una generale sollevazione degli animi contro l'imperatore e una vasta lega di principi per una guerra antimperiale, c'è stata una volta sola, ed è stato al tempo di Enrico VII" (loc. cit.).
Scrivendo la Monarchia, l'A. scendeva anch'egli in campo a sostenere la causa di Arrigo, ma senza mescolarsi con la trista compagnia dei fuorusciti, animati solo da rancori personali, nel modo più confacente alla sua qualità di uomo di studio, al suo carattere, alla superiore idealità delle sue convinzioni. L'opera riprende sia le idee già espresse nei capp. IV e V del libro IV del Convivio, sia quelle accennate nelle tre epistole politiche; ora l'A. dà ad esse una sistemazione organica e uno sviluppo completo entro le linee di una trattazione di tipo prettamente scolastico: proposti i quesiti, procede alla discussione, dimostrando l'esattezza o l'errore di ciascuno degli argomenti relativi, e deducendone le singole conclusioni, ai fini della soluzione dei quesiti stessi: una pesante impalcatura. I quesiti proposti, a ciascuno dei quali è dedicato un libro, sono: primo, se la monarchia (cioè il principato unico, detto Impero) "sia necessaria al benessere del mondo"; secondo, "se il popolo romano si sia attribuito per diritto l'ufficio del monarca"; terzo, "se l'autorità del monarca dipenda immediatamente da Dio, oppure da un suo ministro o vicario". Il secondo e, soprattutto, il terzo problema erano oggetto della polemica in atto tra i sostenitori della tesi guelfa - variamente atteggiata, secondo che fosse propugnata nell'interesse del re di Francia o dell'Angioino o del pontefice - e i ghibellini. L'A. si propose di sottoporre tutta la materia controversa a un'indagine rigorosa ed esauriente, perché gli sembrava che non si fosse fino allora riusciti a veder bene la verità, e invece si trattava di questione della massima importanza per la società umana: e forse per questo aspetto diricerca totale, organica, scientifica della sua opera credette di potersi vantare di "intemptatas ab allis ostendere veritates" (I, 1, 3), sebbene siano poche le idee che non si possano rintracciare nella trattatistica precedente - da Aristotele ai suoi contemporanei -, della quale, del resto, non sappiamo fino a che punto egli fosse a conoscenza. Comunque, l'A. improntò tutto della chiarezza del suo pensiero e del vigore del suo sentimento. La materia del primo e del secondo libro, con le relative soluzioni dei due quesiti, è in nuce nei due capitoli citati del Convivio; ma qui è sviscerata con tutte le possibili argomentazioni e sottigliezze - metafisiche, morali, storiche, scritturali, poetiche -. E, come già nel Convivio (cap. IV), l'A. comincia col porre come fondamento alla dimostrazione della sua tesi una verità assiomatica, che qui è filosoficamente determinata: il fine dell'umanità è di attuare la potenza intera dell'intelletto possibile, che non può essere attuata - egli afferma avvalendosi dell'autorità di Averroè - da un uomo solo: di qui la necessità della convivenza sociale, e quindi della pace universale, perché senza questa la società non può svolgere l'opera cui è destinata; e a tutelare e imporre la pace, la sola istituzione efficiente è la monarchia universale. Ma all'A. non sfuggiva l'esistenza di "nazioni, regni, città" diversi, con caratteristiche proprie, che occorreva regolare con leggi diverse; e nel cap. XIV del primo libro spiega come il principato unico non escluda questa coesistenza e questa diversità, così come non è chiamato a intervenire nelle minime questioni di qualunque municipio; quel che per l'A. resta fermo è che "il genere umano deve essere regolato dal monarca secondo i principî universali che riguardano tutti, e indirizzato alla pace con norma comune; e questa norma o legge i singoli capi di stato devono ricevere da lui": solo così si veniva a togliere "ogni confusione nei principi universali". C'è in questo fondamentale capitolo quanto basta per poter affermare che l'A. aveva abbastanza chiaro il concetto dei rapporti pratici tra la suprema potestà temporale e i singoli reggimenti, ch'egli ammetteva liberi nella sfera delle loro competenze: qui reca infatti l'esempio di Mosè, che aveva lasciato ai capi delle tribù d'Israele le deliberazioni minori, riserbando a sé quelle maggiori e d'interesse comune, che poi i capi applicavano alle proprie tribù, e nel cap. XII del II libro l'esempio di Erode, avente autorità limitata, in quanto re di un regno singolo, e Pilato, avente autorità universale, in quanto vicario dell'imperatore. Non è questa, dunque, una teoria astratta, fuori della possibile realizzazione pratica. Anzi, non bisogna aver paura d'essere accusati di anacronismo, affermando che, spogliata della veste inerente alla concezione dell'imperatore romano-germanico, essa risponde a una necessità pratica, riconosciuta ormai dalla coscienza di tutti i popoli civili, la necessità di un'autorità politica universale, che, pur rispettando le autorità e gli interessi particolari dei singoli stati, imponga leggi a tutti nell'interesse generale di tutta l'umanità e per la pace nel mondo. Giacché, quando si parla di utopia politica dantesca, e della Monarchia come di un'opera del tutto astratta, bisogna distinguere. Certo, la mentalità scientifica dell'A. è quella del suo tempo. Non solo per l'incertezza e l'ignoranza dei dati storici e giuridici, ma per l'abito stesso mentale dell'uomo del Medioevo, i trattatisti politici ragionavano prescindendo dalle condizioni di fatto, e basandosi, invece, sul principio ideale e assoluto di una condizione di diritto, vera o presunta che fosse. L'A. dissertava di monarchia universale, come se esistessero ancora o potessero rinnovarsi le condizioni storiche dell'antico Impero romano, e questo fosse stato realmente signore di tutta la terra; laddove l'imperatore germanico, che diventava romano per il diritto acquisito dal popolo di Roma, non solo non dominava il mondo, ma non era in grado di esercitare effettivamente la sua giurisdizione neppure sulle terre dell'Europa centrale e d'Italia, che ancora gliene riconoscevano teoricamente il diritto: una istituzione anacronistica, che, del resto, sopravvisse ancora parecchi secoli, tanta era la forza ideale dell'antica tradizione. Ora, l'opera dantesca, in quanto vuole dimostrare (anche con le più strane e talvolta addirittura, per noi, ridicole argomentazioni) la validità razionale, storica, giuridica e religiosa di questa istituzione, è senza dubbio astratta, e anacronistica più che utopistica, legata alla polemica e alle idee del tempo e morta con esse. Ma l'A. non era un puro teorico; egli aveva ben chiara la coscienza e vivo il sentimento dei problemi concreti, che sono, poi, sempre gli stessi, dell'humana civilitas - ordine, pace, libertà, giustizia, progresso -: e tutto ciò che nel trattato nasce direttamente da questa coscienza e da questo sentimento ed è in qualche modo separabile dalla concezione anacronistica e dall'impalcatura scolastica, non è astratto e utopistico, ma ha generalmente la sua validità sentimentale e razionale, e, ove è il caso, anche di soluzione pratica. Così ha piena validità razionale il suo concetto della libertà e dei rapporti tra le leggi e il cittadino, illustrato nel cap. XII del I libro: il cittadino è libero quando è cagione di sé e non d'altri, laddove le demagogie, le oligarchie, le tirannidi lo costringono al loro servizio; e le leggi sono ordinate per il cittadino, non già questo è lo strumento del legislatore. Parimenti, alto valore umano e religioso ha il suo concetto della giustizia inseparabile dall'amore verso gli uomini, anzi potenziata da esso (I, xi, 13-14), e quello del diritto, identificato, nell'essenza, con la volontà di Dio, definito conformità con la volontà di Dio nelle cose umane, e avente per fine il bene comune, lo stesso fine dell'amore (II, ii, 4-5; v, 2). Non sono - beninteso - concetti nuovi, ma importa notarli, non solo perché costituiscono la parte non caduca del trattato, ma anche perché contribuiscono a illuminare le sorgenti profonde del sentimento politico dell'A., che sono di natura morale-religiosa, e le ragioni per cui gl'interessi politici dovevano necessariamente occupare tanta parte del suo spirito e della sua opera. E piena validità sentimentale ha la celebrazione ch'egli fa, specialmente nel cap. V del II libro, delle virtù e degli eroi dell'antica Roma, come alto vagheggiamento di un ideale di perfezione morale, da conquistarsi anche col sacrificio della vita, a servizio della patria e dell'umanità; e poco importa ch'essa propriamente stia a dimostrare la tesi che il popolo romano si assunse di diritto autorità imperiale: la tesi è per noi cosa morta, ma quella celebrazione ha vita imperitura, perché nasce dalla profonda coscienza civile dell'A., diversamente da analoghe esaltazioni umanistiche di stampo letterario. Ma quel che soprattutto si deve rilevare è che proprio il punto d'arrivo della faticosa trattazione, la soluzione, anch'essa peraltro non nuova, del problema dei rapporti tra Papato e Impero, ch'era lo scopo ultimo dell'opera (netta separazione delle attribuzioni dei due poteri; piena indipendenza e sovranità, nel campo proprio, dì ciascuno di essi), è soluzione così pratica e per nulla utopistica, che proprio sulla base di essa si sono effettivamente fondati i rapporti tra Chiesa e Stato nella storia moderna. L'A. vi arriva partendo dalla dimostrazione filosofico-teologica della diretta dipendenza da Dio dei due poteri (concetto che abbiamo visto già espresso incidentalmente nell'epistola ai reggitori d'Italia), costituiti da Dio per guidare, rispettivamente, l'uomo a ciascuno dei suoi due fini supremi (duo ultima; III, xvi, 6), rispondenti alla duplice natura umana, corruttibile quanto al corpo, incorruttibile quanto all'anima: "Propter quod opus fuit homini duplici directivo, secundum duplicem finem: scilicet summo Pontifice, qui secundum revelata huwanum genus perduceret ad vitam eternam, et Imperatore, qui secundum phylosophica documenta genus humanum ad temporalem felicitatem dirigeret" (ibid., 10). All'A. non poteva, però, sfuggire, da buon cristiano, che "mortalis ista felicitas quodam modo ad immortalem felicitatem ordinetur" (ibid., 17); sicché anch'egli riconosceva che dei "due soli ", dei "duo luminaria magna" (III, 1, 5), il pontefice fosse luminare maius, e l'imperatore minus (si veda già la chiusa dell'epistola V: "ubi radius spiritualis non sufficit, ibi splendor minoris luminaris illustret"). Ma non ne deduceva la rigorosa conseguenza logica, che, essendo la felicità terrestre subordinata alla celeste, la guida alla prima doveva essere subordinata all'altra guida. La visione del traviamento del mondo, generato, secondo lui, dall'interferenza del potere ecclesiastico nelle cose temporali, risalente all'infausta e illegittima (Monarchia II, xii, 8; III, x) donazione di Costantino, faceva in lui prevalere al rigore logico il senso pratico del solo rimedio ch'egli riteneva efficace; e si limitava a riconoscere la soggezione dell'imperatore al papa solo nel rapporto della "reverenza che il primogenito deve avere verso il padre, perché, illuminato dalla luce della paterna grazia, più virtuosamente illumini la terra, della quale è stato messo a capo da colui solo che governa tutte le cose, spirituali e temporali" (sono le parole con cui si chiude il trattato). E ancora una volta bisogna riconoscere, malgrado l'astrattezza e la fragilità dell'argomentare, la chiara visione e la validità della soluzione pratica: soluzione di equilibrio e di compromesso, che, appunto perché priva di fondamento rigorosamente logico, la storia insegna quante volte sia stata accettata e violata.
Frattanto Arrigo, benché malato, senza aspettare l'arrivo dell'esercito già raccolto in Germania, e senza tener conto della scomunica minacciata, ai primi d'agosto si mosse da Pisa per la guerra contro re Roberto. Già si cantava la vittoria dell'imperatore, e tanto era il timore della parte guelfa che Firenze, che aveva tanto lottato per la sua indipendenza, accettò la signoria dell'Angioino, esercitatavi mediante un suo vicario. Ma il 24 ag. 1313 a Buonconvento, non lontano da Siena, Arrigo morì. Corse voce che fosse stato avvelenato dal suo confessore con l'ostia consacrata; ma il male di Arrigo era cominciato all'assedio di Brescia; e l'A., che raccolse la voce dell'avvelenamento di s. Tommaso per mandato di Carlo I d'Angiò (Purg. XX, v. 69), non raccolse questa, riconoscendola falsa. Grande e sincero fu il compianto, e non soltanto da parte dei suoi fautori, perché grande era stata la fama delle sue virtù, che lo avevano posto al di sopra delle parti: Cino da Pistoia, guelfo nero, ma suo sostenitore, in una delle due canzoni scritte in quell'occasione, così ne pianse la morte: "L'ha Dio chiamato, perché 'l vide degno d'esser cogli altri nel beato regno". L'A., come pare, tacque: conosciamo la sua esultanza e le sue speranze nella venuta di Arrigo, non il dolore per la sua fine; ma gli preparava un seggio in Paradiso, e la vendetta contro il papa che l'aveva tradito (Par. XXX, vv. 133-148). L'impresa di "drizzare l'Italia" era fallita; ma l'A. non perdette la speranza che un giorno qualcuno l'avrebbe felicemente compiuta. Arrigo, secondo lui, era venuto prima che Italia fosse a ciò disposta: era stato il Precursore, sarebbe venuto il Redentore: l'A. non poteva dubitarne, come non dubitava dell'occulta provvidenza di Dio.
Otto mesi dopo la morte di Arrigo, il 20 apr. 1314 morì Clemente V, vituperato e condannato da tutti. Probabilmente sull'inizio del lungo conclave, terminato solo il 7 ag. 1316 con l'elezione del "caorsino" Giovanni XXII, e prima del tentativo di uccisione dei cardinali italiani, da parte dei guasconi, a Carpentras (24 luglio 1314), l'A. indirizzò un'epistola ai cardinali e in particolare a quelli italiani: il titolo conservatoci nello Zibaldone del Boccaccio in cui essa si trova, "Cardinali-bus ytalicis D. de Florentia etc.", è un'abbreviazione forse inesatta, giacché l'epistola solo verso la fine si rivolge espressamente a questi ultimi.
L'epistola comincia con il lamento di Geremia sulla profetata rovina di Gerusalemme, particolarmente caro all'A. (cfr. Vita nova XXX, 1): "Quomodo sola sedet civitas plena populo! facta est quasi vidua domina gentium". L'A. piange l'abbandono di Roma, "cui Cristo confermò con le parole e coi fatti l'impero del mondo, e che Pietro e Paolo consacrarono col loro sangue a sede apostolica". E questa lacrimevole situazione si era determinata non per influsso di astri o per altra ragione, ma solo per il cattivo uso del libero arbitrio, nel passato conclave, da parte dei cardinali, "Ecclesie militantis... primi prepositi pii", i quali, avendo sposato la cupidigia in luogo della carità e della giustizia, si erano accordati col re di Francia per l'elezione del suo candidato, e avevano così portato il carro della Chiesa fuori della sua strada, e gettato nel precipizio il gregge ad essi affidato. E non gli si apponga a temerità o presunzione, se egli, una delle ultime pecorelle dì Cristo, osa parlare in difesa della Chiesa pericolante, perché la verità cara a Dio già risonò sulla bocca dei lattanti e il cieco nato la proclamò, mentre i farisei la tacevano o cercavano di travisarla. Essi, dunque, si vergognino che quella di un semplice privato, come lui, sia la sola voce, sola pia, che si faccia sentire nell'ora mortale, quasi, della madre Chiesa; ma egli è l'interprete di tutti i cristiani, perché tutti mormorano o pensano o sentono confusamente le cose ch'egli rimprovera loro, anche se non lo manifestano apertamente. Si vergognino e si pentano, e tengano fissi gli occhi all'immagine di Roma, priva di entrambi i suoi lumi, e specialmente i cardinali romani, i quali più degli altri italiani dovrebbero onorare la capitale del Lazio, che per gli altri è principio comune della loro civiltà, per essi principio della loro stessa vita. E qui l'A. si rivolge apertamente, prima al cardinale Napoleone Orsini, che aveva sostenuto la candidatura di Clemente V e nulla aveva fatto perché fosse ridato il titolo ai due cardinali Colonna degradati da Bonifazio VIII, poi al cardinalFrancesco Caetani, più nemico dei Colonna per odio ereditato dallo zio, che non devoto a Roma. Dopo questa digressione a patrocinio dei Colonna, alquanto strana in un'epistola di così alti interessi generali, anche se la può giustificare il pensiero sottinteso che il ripristino dei due cardinali avrebbe rafforzato l'elemento italiano nel sacro collegio, l'A. conchiude esortando tutti i cardinali italiani ch'erano stati cagione del traviamento, a combattere unanimi "per la sposa di Cristo, per la sede della Sposa che è Roma, per l'Italia nostra, e, per dire più compiutamente, per tutta la società umana peregrinante sulla terra", in modo che restino con eterna vergogna i Guasconi, che con tanta avidità cercano usurpare ancora la gloria degli Italiani. Come nell'epistola per la venuta di Arrigo, così anche in questa, Roma, l'Italia, il mondo ispirano unitariamente il pensiero e il sentimento dell'Alighieri. E come dal punto di vista politico, così dal punto di vista religioso le cagioni del traviamento generale sono le stesse (il mondo ideologico dantesco è, nel suo schematismo, d'una compattezza assoluta, in tutta la sua opera): anzitutto la cupidigia, "madre d'empietà e d'ingiustizia", e, subordinatamente, l'assenza della luce che dovrebbe da Roma illuminare l'umanità, così nel campo temporale come in quello spirituale. Ma ciò che in questa epistola va rilevato è la coscienza ch'egli ha, e arditamente manifesta, di essersi assunto, sia per misteriosa ispirazione. divina, come i lattanti e il cieco nato, sia per dovere morale ("Habeo... preceptorem Philosophum, qui, cuncta moralia dogmatizans, amicia omnibus veritatem docuit preferendam "), la missione, non scevra di pericoli, di dire coraggiosamente le più crude verità, anche nei riguardi delle cose della Chiesa. In tutti gli scritti precedenti di rado s'incontra qualche prudente accenno alla corruzione dei prelati e al traviamento della Chiesa, venuta meno al suo compito; qui le accuse sono così precise e decise, e il tono è così sicuro e severo da far pensare a un atteggiamento non già assunto in questa occasione, ma maturatosi da tempo e ormai ben saldo nella coscienza di Dante. Questo tono, nonché parallelismi di concetti e di espressioni, ritroveremo nella Commedia, particolarmente nel XIX e XXVII canto dell'Inferno, e nel XVI e XXXII del Purgatorio. Comunque, quale che fosse il punto a cui era giunta la composizione del poema quando scriveva l'epistola, in questa, per la prima volta, ma con tutto il vigore della sua coscienza, l'A. si presenta e si professa anche apostolo della restaurazione religiosa: il terzo apostolato, dopo quello dell'elevazione intellettuale e morale dell'individuo nel Convivio, e quello della restaurazione politica nella Monarchia: triplice apostolato, che informa la materia e lo spirito della Commedia.
Dove fosse FA. in questo tempo non sappiamo; potrebbe essere rimasto in Toscana presso Moroello Malaspina, che non aveva tradito Arrigo VII, e che morì nel 1315; o potrebbe essersi recato alla corte di Cangrande, e aver seguita da vicino la sanguinosa sconfitta che questi inflisse sotto Vicenza ai Padovani nel dicembre del '14, e che il poeta volle ricordare, - come crediamo preferibile intendere - in Par. IX, vv. 46-48. Assai poco probabile è, invece, ch'egli fosse ospite e seguisse i successi di Uguccione della Faggiuola, il quale, fatto quasi signore di Pisa subito dopo la morte di Arrigo VII, nel giugno del 1314 s'era impadronito di Lucca ed era diventato il terrore dei guelfi toscani e della stessa Firenze. Per quanto si sia favoleggiato di calda amicizia tra Dante e Uguccione, fino a veder questo adombrato nel "Veltro" del canto I dell'Inferno (C. Troya), non c'è un solo documento attendibile che la comprovi; e invece sta di fatto che nell'opera dell'A, né compare il suo nome, né c'è un'allusione alle sue gesta. Forse l'A. non dimenticava che, nella primavera del 1303, per compiacere a Bonifazio, Uguccione, benché ghibellino, aveva costretto l'Università dei guelfi bianchi fuorusciti a lasciare Arezzo; e probabilmente, malgrado le sue indubbie qualità di ardimento e valore, lo giudicava soltanto il degno suocero di Corso Donati, un ambizioso senza scrupoli. Con i successi di Uguccione ha indirettamente attinenza la terza condanna di Dante. Nel maggio del 1315 Uguccione aveva posto l'assedio a San Miniato: il pericolo per Firenze era grave; e, come già nel caso analogo della minaccia di Arrigo VII, su proposta del vicario angioino Ranieri di Zaccaria, il 19 maggio fu concessa una larga amnistia ai condannati e sbanditi, alla condizione del pagamento di una piccola somma e dell'offrirsi a s. Giovanni nel giorno della sua festa. Non abbiamo la provvisione relativa; ma nell'amnistia dovette certamente essere incluso anche l'A., come si desume dalla nobilissima lettera, cosiddetta "all'amico fiorentino" (il titolo manca), anch'essa contenuta nello Zibaldone del Boccaccio. Da questo amico - un religioso, giacché l'A. gli si rivolge con l'appellativo "Pater" -, da un suo nipote, che si suppone Niccolò di Foresino Donati, fratello di Gemma, il quale curava gl'interessi della famiglia dell'A., e da altri amici gli era stata comunicata l'ordinanza di Firenze, e alcuni avevano insistito perché accettasse le condizioni dell'amnistia. Sebbene sempre viva fosse in lui la nostalgia amara del suo "bell'ovile", che lo accompagnerà fino alla morte (cfr. Par. XXV, vv. 1-6; Ecl. I, vv. 42-44), la coscienza della sua innocenza e il sentimento della sua dignità non potevano indurlo a un'umiliazione, sia pure formale: e rifiutò. Mette conto riferire le parole nobilissime della sua lettera: "È dunque codesta la grazia con cui Dante Alaghieri è richiamato in patria, dopo aver patito quasi per tre lustri l'esilio? Questo ha meritato la sua innocenza manifesta a tutti? Questo il sudore e il lavoro continuato negli studi ?... Non è questa, Padre mio, la via per ritornare in patria; ma se altra se ne troverà.., che non deroghi alla fama e all'onore di Dante, l'accetterò subito; ché se per nessun'altra si entra in Firenze, giammai in Firenze entrerò. E che? non vedrò io dovunque la spera del sole e degli astri? Non potrò considerare sotto qualunque cielo le dolcissime verità?... Né mancherà certo il pane". Qualche mese dopo, in seguito alla grave sconfitta data da Uguccione ai Fiorentini, il 29 ag. 1315, a Montecatini, nella quale furono uccisi anche un fratello e un nipote di re Roberto, il Comune fiorentino emise altri provvedimenti, con i quali commutava per molti fuorusciti la pena capitale in quella del confino, purché si presentassero a dare la garanzia in danaro de eundo et stando ad confinia. L'A. non si presentò; e poiché ai contumaci era assegnata la pena di morte, il 15 ottobre una sentenza, di cui resta una copia relativamente ad alcuni condannati del sesto di S. Pancrazio (Piattoli, 114), e che è ricordata nell'atto di restituzione a Iacopo (9 genn. 1343: cfr. Piattoli, 183) di un podere incamerato dal Comune, l'A. e i figli erano condannati a morte, come "ghibellini e ribelli del Comune di Firenze", salvo che non si fossero presentati quel giorno o il giorno seguente. Il 6 novembre, non essendosi presentati, fu confermata la sentenza di decapitazione: "si quo tempore ipsi... in nostram vel comunis Florentie fortiam devenerint,... ducantur ad locum iustitie, et ibi eisdem caput a spatulis amputetur, ita quod penitus moriantur". Sebbene questa volta non ci fosse la condizione umiliante dell'offerta al patrono, c'era tuttavia l'obbligo di pagare e di accettare il confino, il che era moralmente un riconoscimento di colpa: né era ancora il ritorno a Firenze; e anche questa volta l'A. non si piegò a un'ingiusta umiliazione. Molto probabilmente egli era allora, con i figli, presso Cangrande, a Verona, dove bisogna ritenere che dimorasse a lungo: quattro anni, secondo Filippo Villani. Un aneddoto raccontato dal Boccaccio (Vita XX, Comp. XVI) lo farebbe conosciuto persino dalle donnette veronesi, che, vedendolo passare, sussurravano tra loro: "Vedete colui che va nell'Inferno, e torna quando gli piace, e quassù reca novelle di coloro che laggiù sono?". La liberale ospitalità e munificenza di quel valoroso signore "allora consolazione e rifugio comune degli afflitti", come lo chiamò il Petrarca (Rerum memor. II, 83), è celebrata da storici, cronisti, giullari, novellieri: il Boccaccio (Decam. I, 7) lo disse "uno de' più notabili e de' più magnifici signori che dallo imperadore Federigo secondo in qua si sapesse in Italia". Quanto lungo dovette essere il soggiorno dell'A. presso di lui, e quanto grandi dovettero essere i benefici che da lui ricevettero l'A. e i suoi figli, si può arguire dall'immensa gratitudine espressa nelle note terzine del Paradiso (XVII, vv. 85-90). Ma la munificenza del signore e lo splendore della sua corte non bastano a spiegare il lungo soggiorno veronese e, più ancora, la straordinaria esaltazione che l'A. fece di lui. Cangrande era considerato il continuatore della missione di Arrigo VII in Italia: tale lo proclamava per testamento dell'imperatore una leggenda contemporanea in versi latini rimati: "Disponit testamentum Constituens vicarium Fidelem commissarium Canem de Verona". Ma l'A. dovette vedere in lui qualcosa di più del paladino dell'Impero: dovette vedervi per lo meno il fondatore di un vasto e potente principato nell'Italia settentrionale, tale da far da arbitro nella politica italiana, se non addirittura il restauratore delle sorti di tutta l'Italia, il "re d'Italia", come il trevisano Niccolò de' Rossi temeva ch'egli sarebbe presto diventato. Non si può attribuire valore più ristretto alle parole che seguono alle terzine ora citate, nelle quali profetizza di lui "cose incredibili" a quelli che pure le avrebbero viste coi loro occhi, se non si vuole ch'esse suonino come un'adulazione vuota di contenuto. E a tanto Cangrande sembrava realmente destinato: la sua abilità politica era pari alla prodezza nelle armi; e nell'uno e nell'altro campo infaticabile la sua attività, continui i successi; e non ambigua la sua linea di condotta, intesa, sì, a costituire per sé un forte stato, ma senza tentennamenti e compromessi con la parte guelfa: re Roberto, che tentò di accordarsi con lui, ne ricevette un netto rifiuto. Alleatosi con Matteo Visconti, signore di Milano, e con Passerino de' Bonacolsi, signore di Mantova, era l'anima di quella lega lombarda ghibellina, di cui fu nominato capitano generale il 18 nov. 1318, e che da Genova, dove erano tornati i ghibellini Spinola, a Ferrara, che si era ribellata al papa e aveva trucidato le milizie di re Roberto e richiamato gli Estensi, era in grado di tenere in scacco il vicario imperiale di nomina pontificia (tale era il paradosso giuridico della situazione), Roberto d'Angiò. Il che tuttavia non crediamo che basti a far identificare in Cangrande il "Veltro" o il "Cinquecento diece e cinque" della Commedia, pur riconoscendo che, tra le varie ipotesi relative a quegli enigmi, questa possa forse essere sostenuta meglio delle altre. Quali particolari servigi (ambascerie, consigli, corrispondenza) l'A. abbia reso a Cangrande, non sappiamo; ma non possiamo pensare che l'A. non abbia avuto qualche parte nella resistenza di Cangrande a Giovanni XXII, che gli aveva ingiunto di deporre il titolo di vicario imperiale e di desistere dalla guerra contro Padova. Tuttavia dobbiamo supporre che Cangrande gli lasciasse molto agio per attendere alla Commedia soprattutto. Quando e perché lasciasse la corte scaligera per passare a Ravenna non sappiamo con precisione. Il Petrarca, certo raccogliendo una tradizione esistente ancora al suo tempo a Verona, racconta che l'A., dapprima tenuto in grande onore, perdette a poco a poco la grazia di Cangrande per la sua alterigia e la sua libertà di parola; e a questo riguardo narra due aneddoti, entrambi, però, d'origine novellistica (uno si trova in Novellino XLIV), e pertanto non probatori. Tuttavia la cosa non è inverosimile; e può essere questa la ragione dell'abbandono di Verona. Se fosse sicura l'autenticità della Quaestio de aqua et terra, che in testa e in fine ostenta il nome di Dante come autore del trattato, avremmo la certezza che egli fosse ancora a Verona il 20 genn. 1320, nel qual giorno - così afferma l'autore - egli avrebbe definito, alla presenza di tutto il clero veronese, nella chiesa di Sant'Elena, una questione che aveva sentito dibattuta, ma non terminata, a Mantova; e potremmo anche pensare che a Mantova si fosse recato per commissione di Cangrande presso il suo alleato Passerino, presumibilmente sulla fine del 1319. La questione disputata, che avrebbe dato luogo all'opuscolo De forma et situ duorum elementorum, aque videlicet et terre, o semplicemente Quaestio de aqua et terra, era se "l'acqua nella sua sfera, cioè nella sua naturale circonferenza, fosse in qualche parte più alta della terra emersa" (II, 5).
In sostegno della tesi affermativa si adducevano parecchie ragioni; l'autore del trattato si limita a considerarne cinque, che gli sembrano avere qualche apparenza di fondamento; e le confuta tutte, dimostrando insostenibile la tesi. Il metodo, gli argomenti e il linguaggio di cui si serve per la dimostrazione appartengono alla comune scienza del tempo; ma non sarebbe sconvenevole a Dante il calore della discussione, l'entusiasmo che l'autore mette nella ricerca della verità, la dichiarazione di essere stato "in amore veritatis a pueritia... continue... nutritus", pur professandosi "inter vere philosophantes minimus"; amore della verità, però, ben diverso dalla stoltezza e presunzione di chi vuole indagare cose che superano il nostro intelletto; sul quale concetto, che troviamo tante volte ribadito nella Commedia, l'autore insiste vivacemente sulla fine del paragrafo XXI e specialmente nel paragrafo XXII.
Senonché recentemente B. Nardi, il più competente tra i dantisti non soltanto odierni per ciò che riguarda il pensiero filosofico e scientifico dantesco, ha rimesso in discussione l'autenticità del trattato, che sembrava ormai ammessa da tutti, e portato ad essa un duro colpo, dimostrando in un serrato studio sopra La caduta di Lucifero e l'autenticitd della "Quaestio "... (Torino... 1959) che la teoria cosmografica fondamentale sostenuta nell'opuscolo è in parte estranea, in parte contraria al pensiero dantesco espresso nel Convivio e nella Commedia. Tuttavia, ammesso che la Quaestio sia una falsificazione, compiuta, secondo il Nardi, qualche decennio dopo la morte del poeta, non sembra irragionevole pensare che, essendo ancora vivo il figlio Pietro, il falsificatore avrà curato di accertarsi che Dante fosse effettivamente a Verona - almeno molto approssimativamente - alla data in cui dichiara avvenuta la disputa.
A una sua presenza a Piacenza sulla fine di maggio o ai primi di giugno del 1320 si riferirebbe una strana deposizione fatta alla curia di Avignone da un chierico milanese in fama di mago, Bartolomeo Cagnolati. Questi, secondo la sua denunzia, sarebbe stato invitato a Piacenza da Galeazzo Visconti, figlio di Matteo, a operare un sortilegio per far morire Giovanni XXII, il nemico dei ghibellini; e per meglio indurlo all'opera, stimolandone la gelosia di mestiere, il Visconti avrebbe detto: "Sappi, Bartolomeo, che per questo affare di che ti prego, ho fatto venire a me maestro Dante Aleguiro di Fiorenza", aggiungendo, peraltro, che per nessuna ragione al mondo avrebbe tollerato che questo Dante Aleguiro mettesse mano nella faccenda, perché la sua fiducia era nel Cagnolati (G. Biscaro, D. A. e i sortilegi di Matteo e Galeazzo Visconti contro la vita di Giovanni XXII, in Arch. stor. lombardo, XLVII [1920], pp. 446-81). Che si tratti dell'A, non pare si possa dubitare; e può essere che il Visconti, avendo una vaga notizia del racconto dell'A. di un viaggio nell'oltretomba (le due prime cantiche della Commedia erano già note), pensasse di potergli attribuire virtù di mago, per fare colpo sul Cagnolati; ma può anche darsi che non ci fosse nulla di vero in tutta la denunzia, e che in particolare il nome dell'A. fosse fatto nella curia avignonese per odio e per calunnia contro l'autore della Monarchia. Sebbene, come si è detto, la data della dissertazione veronese (20 genn. 1320) non possa assumersi con sicurezza come prova che Dante soggiornasse ancora a Verona, tuttavia è verosimile che egli non prima di quell'epoca, o pochissimo prima, si trasferisse a Ravenna, giacché altrimenti risulterebbe troppo breve il soggiorno veronese. Ed è probabile che a Ravenna fosse stato inviato da Cangrande per guadagnare amici in Romagna, terra soggetta alla Chiesa, nel momento in cui il pontefice inviava in Italia il cardinale legato Bertrando del Poggetto e Filippo di Vabis, per rialzare le sorti della parte guelfa. Era signore di Ravenna, col titolo di podestà, dall'ottobre del 1316, Guido Novello da Polenta, figlio di Ostasio, uno dei fratelli di Francesca; ed era non solo signore prudente e valoroso, ma anche poeta gentile, come dimostrano alcune ballate che di lui ci rimangono. Politicamente guelfo, ma non nemico di Cangrande; e nel 1314 aveva difeso Cesena, dove era podestà, da un vicario di re Roberto; e che non fosse ligio alla politica papale dimostra il fatto che nel 1322 gli fu tolto da un cugino il potere, con l'assenso del vicario del papa, sicché fu costretto ad andare in esilio. All'A. la sua corte dovette sembrare, rispetto alla dinamica ed eterogenea corte scaligera, oasi di pace, ove avrebbe potuto terminare quel che gli restava da scrivere del Paradiso; e accettò l'invito del signore di trattenersi a Ravenna. Probabilmente, almeno per qualche tempo, furono con lui anche i figli: c'era quasi certamente la figlia che si rese monaca - non sappiamo se prima o dopo la morte del padre -, col nome di suor Beatrice, appunto nel monastero ravennate di S. Stefano degli Ulivi, dove morì dopo il 1350; e Pietro risulta rettore di due chiese ravennati, che ora non esistono più, in un documento del 4 genn. 1321, in cui dal vicario arcivescovile è citato a pagare, sotto minaccia di scomunica, insieme con alcuni ecclesiastici parimenti morosi, l'imposta di procurazione dovuta al cardinale legato Bertrando del Poggetto. Nessuna congettura, invece,. possiamo fare circa la presenza della moglie Gemma. La dimora dell'A. a Ravenna non dovette interrompere i suoi buoni rapporti con Cangrande: da lui Pietro e Iacopo avevano avuto i mezzi per studiare; Pietro, laureatosi in legge, si stabilì a Verona, dove esercitò l'ufficio di giudice; Iacopo ebbe a Verona un canonicato ed altri benefici in terre veronesi, conservati anche dopo essersi stabilito a Firenze.
Che l'A. tenesse a Ravenna pubblico insegnamento è opinione di parecchi studiosi, ma non c'è in proposito alcun indizio veramente attendibile; e, d'altra parte, troppo grande sarebbe stato per la città il vanto di averlo avuto professore, perché non ne restasse notizia. L'informazione del Boccaccio, nella redazione ultima della Vita ("quivi [in Ravenna] a molti dimostrò la ragione del dire in rima, la quale maravigliosamente esaltò"; e poco diversamente nella prima redazione), è del tutto generica. Anche l'interpretazione ch'egli dà delle "caprette" nella prima egloga (vv. 3 e 46) dell'A. in risposta a un carme di Giovanni del Virgilio (se, come pare, è lui l'autore delle chiose che accompagnano il testo in due codici), le quali significherebbero gli scolari del poeta, è del tutto arbitraria: le caprette sono ovviamente l'appannaggio di ogni pastore in ogni carme bucolico. E quanto grande fosse allora la fama dell'A. dimostra appunto il carme ora citato. Giovanni, detto "del Virgilio" dall'autore preferito che commentava, era professore di grammatica nello Studio di Bologna dal 1319. Quando gl'inviò il suo carme latino, conosceva dell'A. non solo le prime due cantiche, ma anche - noi crediamo - almeno i primi quattro canti del Paradiso: il v. 14 del carme (""non parlo per costoro [cioè per gl'ignoranti], ma per gli esperti negli studi" tu dici") è, infatti, una delle parafrasi o allusioni, in esso a bella posta inserite, di luoghi precisi della Commedia, e non può riferirsi se non a Par. II, vv. 1-15; e allo stesso modo ci sembra che il v. 11 ("i segreti del cielo appena tentati da Platone") non possa riferirsi che a Par. IV, vv. 49-60. L'ammirazione dell'ottimo professore per il poeta si dimostra grandissima: lo chiama "Pyeridum vox alma", "magister", il solo poeta capace di immortalare i gravi avvenimenti di storia contemporanea, ch'egli gli suggerisce di cantare in latino. Giacché Giovanni, anticipando le riserve che saranno fatte dagli umanisti sulla Commedia, mentre riconosce le grandi e serie e belle cose che l'A. ha in essa cantato, appunto questo lamenta, ch'egli si sia rivolto al volgo e non ai dotti, scrivendo in volgare invece che in latino: ciò - gli rimprovera - non ha fatto nessuno dei poeti nella cui schiera sei sesto (v. 17: cfr. Inf. IV, v. 102).. Scriva ora, invece, in latino un poema sulla spedizione di Arrigo VII, o sulle vittorie di Uguccione sui Fiorentini, o di Cangrande sui Padovani, o la guerra di Genova; e allora, se l'A. glielo consentirà, egli lo presenterà allo Studio bolognese con le tempie coronate di alloro. Un dettaglio nell'allusione alla lunga ed aspra guerra di Genova, cominciata nel marzo del 1318 e durata fino al 1322, inerente a una memorabile tempesta che nell'inverno del 1319-1320 rovinò la flotta che bloccava per mare la città, determina - sembra bene - il terminus post quem della composizione del carme, che non può essere anteriore a quel periodo.
Al carme di Giovanni l'A. rispose con un'egloga in latino, modellata su quelle del loro comune maestro, Virgilio, assumendo per sé il nome di Titiro, dando a Giovanni quello di Mopso, e raccontando il suo colloquio con un altro pastore, più giovane ma poco istruito, Melibeo (che, secondo le antiche chiose, sarebbe il fiorentino ser Dino Perini), appunto intorno al carme di Mopso ch'egli ha ricevuto e su cui Melibeo vuol essere informato. Ricambia altamente le lodi per Mopso, che, mentre gli altri si danno alle leggi, solo coltiva in Bologna le Muse, tanto che i suoi canti hanno il potere di far scendere placati dal monte i leoni; non nasconde la sua aspirazione all'alloro poetico, ma teme "i balzi e i campi che ignorano gli Dei" (allusione a Bologna), e dichiara che preferisce coronarsi sulle rive dell'Arno; della qual cosa crede che, malgrado il disdegno di Mopso per la lingua volgare, quando avrà finito il Paradiso, sarà giudicato degno; anzi, per farlo ricredere, gli manderà dieci scodelle di latte munte dalla sua pecora più cara (probabilmente, dieci nuovi canti della terza cantica). Giovanni, entusiasta dell'invenzione bucolica dell'A., rispose anche lui con un'egloga, in cui ancora più vive sono le espressioni di venerazione e di amore (qui chiama l'A., con eco virgiliana ampliata, "divine senex"), e più pressanti e lusinghevoli le insistenze perché accetti l'invito di recarsi Bologna. L'A. replicò con una seconda egloga, ricca di movimento scenico, tutta palpitante di affetti gentili, nella quale egli, sebbene commosso dall'affettuosa insistenza di Giovanni, si manifesta assai più legato agli ammiratori e amici carissimi ch'egli ha a Ravenna e che trepidano per il timore di perderlo (Alfesibeo, che chiama più che metà dell'anima sua, e in cui sarebbe da riconoscere, secondo l'antico chiosatore, il medico certaldese Fiduccio dei Miotti, imparentato con Guido da Polenta; Iolla, che sarebbe lo stesso Guido; e ancora Melibeo), e alla dolce terra dove trascorre una vita serena; andrebbe a Bologna solo per vedere l'amico, ma colà teme il terribile Polifemo, "assuetum rictus humano sanguine tingui", avvezzo a immergere il grifo nel sangue umano. A quale personaggio e a quali fatti storici l'A. alluda col nome e la descrizione terrificante di Polifemo, non è possibile stabilire. Tra le varie ipotesi seduce particolarmente quella che sia da vedere, in Polifemo, Fulcieri da Calboli, già esecrato in Purg. XIV, vv. 58 ss. (dove specialmente colpisce, per l'affinità con quello dell'egloga, il verso "Sanguinoso esce de la trista selva"), che nel maggio 1321 era stato nominato capitano del popolo a Bologna: sicché la composizione dell'egloga cadrebbe negli ultimi mesi della vita dell'Alighieri. Ciò risulta anche da un'egloga di Giovanni ad Albertino Mussato, in cui dice che l'A. tardò un anno a scrivere la risposta, e che morì prima di fargliela avere: il che fu fatto dal figlio. Quel che stupisce è la perenne creatività del genio dell'A., il rinnovarsi, fino all'estremo della vita, dei suoi interessi artistici e dei mezzi di espressione. Sul punto dì compiere un'opera in cui attuava le più disparate esperienze d'arte, egli ne tenta altre nuove e vi riesce splendidamente. L'egloga virgiliana, sebbene ammiratissima nel Medioevo, non aveva avuto cultori: l'A. rinnovò quel genere letterario, adombrando, in ambiente e sotto nomi pastorali, fatti e personaggi della sua vita e di quella contemporanea, seguito, a breve distanza di tempo, dal Petrarca e dal Boccaccio, e da non pochi altri letterati, via via nei secoli seguenti. E malgrado l'imitazione del modello virgiliano e l'artificio allegorico, riuscì, specialmente nella seconda egloga, così vivo rinnovatore della classicità, da doverlo considerare, per questi componimenti (c'è un abisso tra la loro eleganza quasi classica e il latino medievale degli altri suoi scritti), anche dal punto di vista formale, uno dei primi umanisti.
Nell'agosto del 1321 era avvenuta la rottura dei rapporti - sempre tesi, a cagione delle saline e della navigazione costiera - tra Venezia e Ravenna, in seguito alla cattura di navi veneziane, probabilmente per rappresaglia, da parte dei Ravennati; e si profilava la minaccia di una guerra. Fu allora mandata dal signore di Ravenna un'ambasceria a Venezia per tentare un accordo. Di questa ambasceria sembra facesse parte l'A., secondo la notizia tramandata da Giovanni Villani ("nel detto anno 1321... morì Dante Alighieri... nella città di Ravenna..., essendo tornato di ambasceria da Venezia in servizio dei signori da Polenta, con cui dimorava", IX, 136), e ampliata con molti fronzoli da Filippo Villani. Di essa, però, non parlano né il Boccaccio né Leonardo Bruni; e inoltre, gli ambasciatori erano ancora a Venezia il 20 ott. 1321; sicché dovrebbe supporsi che l'A., ammalatosi nel viaggio, fosse tornato prima degli altri a Ravenna; e sarebbe morto pochi giorni dopo il ritorno.
La data della morte oscilla fra il 13 e il 14 settembre: il Boccaccio dà la data del "dì che la esaltazione della Santa Croce si celebra dalla Chiesa", cioè il 14; ma i due epitaffi latini, di Giovanni del Virgilio ("Theologus Dantes, nullius dogmatis expers") e di Menghino Mezzani, ravennate amico e studioso dell'A. ("Inclita fama cuius universum penetrat orbem"), danno quella delle idi di settembre, cioè il 13.
Nella seconda egloga a Giovanni del Virgilio, Alfesibeo, supplicando Titiro di non lasciarsi sedurre dall'invito dell'incoronazione a Bologna, aggiunge: "(a questo illustre capo) già lo sfrondatore si affretta a scegliere sul nobile albero della vergine (Dafne) le fronde perpetue". Parrebbe doversi desumere da queste parole che Guido Novello pensasse all'incoronazione poetica dell'A., come Padova aveva fatto, con grandi feste, per Albertino Mussato nel 1315, Bologna per Taddeo Pepoli nel 1320. Comunque, l'onore che il signore da Polenta avrebbe voluto rendere al poeta vivo, certamente rese, e in maniera grandiosa, alla salma; e se ne dovette spargere la fama, se l'autore dell'Ottimo commento, al v. 94 del XVII del Paradiso, parla addirittura di "singulare onore a nullo fatto più da Ottaviano Cesare in qua". Vestito "in abito di poeta e di grande filosofo" (Villani, loc. cit.), accompagnato da una "moltitudine di dottori di scienza" (Ottimo, loc. cit.), portato "sopra gli omeri dei cittadini più solenni infino al luogo dei frati minori di Ravenna" (Boccaccio, Vita XV), fu quivi sepolto in un'arca "lapidea" (Boccaccio), posta in una cappelletta esterna, addossata al muro del convento, in un portico laterale a sinistra della chiesa di S. Pier Maggiore, poi detta di S. Francesco. Narra il Boccaccio (loc. cit.) che Guido Novello, dopo la sepoltura, tornato nella casa dell'A., "esso medesimo, sì a commendazione dell'alta scienza e della virtù del defunto, e sì a consolazione de' suoi amici, i quali aveva in amarissima vita lasciati, fece uno ornato e lungo sermone". Guido aveva in animo di erigergli un mausoleo; l'esilio, cui fu costretto nell'anno seguente, glielo impedì. Nel 1483 Bernardo Bembo, padre di Pietro, pretore in Ravenna della Repubblica veneta, sotto il cui dominio fin dal 1441 la città era passata, grande ammiratore dell'A., trovò il sepolcro in tale stato di abbandono e squallore, che fece ricostruire la cappelletta (a sue spese, come tenne a far sapere in una lapide apposta a una parete) dall'architetto Pietro Lombardi. Questi rivestì di marmi almeno la parete su cui poggiava l'arca, in modo che la parete, mediante le due fasce verticali, ai lati, di marmi scuri e bianchi sorreggenti un arco, rendesse l'immagine di una cappelletta, nello stile del tempo, e l'arca avesse la funzione architettonica dell'altare; e sopra l'arca, entro un riquadro di marmo scuro, scolpì, come pala d'altare, un bassorilievo raffigurante il poeta intento a leggere, davanti a un tavolo con scaffali, ma col viso pensoso girato a sinistra e poggiato sulla mano sinistra, un libro aperto su un leggio. C. Ricci (Cogliendo biada o loglio, Firenze 1923, p. 208) ritiene che il Lombardi abbia conservato e lavorato l'arca originale, e che il termine "lapidea" usato dal Boccaccio debba essere considerato come generico, in luogo di "marmorea", giacché l'arca attuale è di marmo di Proconneso. Comunque, quale che fosse l'arca, fu allora scolpito in caratteri romani, sulla faccia antistante di essa, il seguente epitaffio di sei esametri rimati, già dettato - sembra - da Bernardo Canaccio, un rimatore che doveva aver conosciuto l'A. alla corte di Cangrande: "Iura Monarchie, Superos, Phlegetonta, lacusque Lustrando cecini, voluerunt fata quousque. Sed quia para cessit melioribus hospita castris, Auctoremque suum petiit felicior astris, Hic claudor Dantes patriis extorris ab oris, Quem genuit parvi Florentia mater amoris" (Indagai e cantai i diritti della Monarchia, i Beati, l'Inferno, i lavacri [del Purgatorio] fin dove vollero i fati. Ma, poiché la parte ospitata [nel mio corpo, l'anima] passò a terre migliori, e più felice cercò in cielo il suo creatore, qui son rinchiuso io, Dante, esule dalla patria terra, generato da Firenze, madre di poco amore). Sopra l'epitaffio sono incise le iniziali "S.V.F.", di cui sono state proposte varie spiegazioni, tra cui le più accreditate sono "Sibi Vivens Fecit" (si sarebbe supposto autore dell'epitaffio l'A. stesso), e "Senator Venetus Fecit" (sarebbe ancora una sigla del Bembo). Dentro l'arco, nella lunetta, è scolpito, chiuso in circolo da un ramo d'alloro e uno di quercia (simboli della poesia e della vittoria) il motto di Bernardo Bembo "Virtuti et honori", evidentemente adattato dal senatore veneziano ad esaltazione dell'Alighieri.
Ritocchi, poi, più o meno sensibili furono fatti a varie riprese, tra i quali - sembra -nel 1660 l'orientamento della cappella a settentrione, come è oggi, invece che a ponente, come era in origine. Completamente restaurata nel 1692 dal cardinale Domenico Maria Corsi, fu poi trasformata nel 1780 nel tempietto odierno con la cupoletta dall'architetto Camillo Morigia, per incarico del cardinale Luigi Valenti Gonzaga, che appose anch'egli la sua brava lapide di fronte a quella del Bembo, a ricordo della propria benemerenza, e il suo stemma sulla porta: piccola fiera di vanità in quello che dovrebbe essere il tempio di un dio. Nel 1846 dal gonfaloniere della città, marchese Ignazio Guiccioli, furono apposte, a riparo dell'ingresso, quattro colonnine, legate tra loro da sbarre di ferro e da una catena. Molti abbellimenti interni, per opera dell'architetto Ambrogio Annoni, e l'aggiunta, dietro al tempietto, di una torricella dove fu collocata la campana donata dai Comuni d'Italia, furono fatti nel 1921; ma non si può dire che il "Dantis poetae sepulcrum", come sta scritto sulla porta - quasi un'informazione turistica -, ispiri per sé stesso una vera commozione. Ha scritto C. Ricci (L'ultimo rifugio, Milano 1921, p. 380) che "sembrerebbe il sepolcro di qualche arcade mellifluo e cortigiano,… e starebbe meglio… sulla riva di un laghetto solcato dai cigni, fra i mirti e i salici piangenti". - Le ossa, poi, non ebbero sorte migliore del sacello: una vicenda romanzesca, non del tutto chiara. Più volte (1396, 1428, 1476) Firenze le aveva richieste a Ravenna; invano. E quando finalmente, essendo Ravenna tornata sotto il governo pontificio, i Fiorentini ottennero dal papa loro concittadino, Leone X, nel 1519, il consenso alla traslazione di esse (e nella supplica al papa, Michelangelo, oltre a sottoscriversi, si offerse "al divin poeta fare sepoltura sua chondecente e in locho onorevole" in Firenze), i messi inviati a rilevarle trovarono il sepolcro vuoto. E vuoto fu trovato anche nella verifica fatta nella solenne inaugurazione del mausoleo dopo i lavori del 7780, come risulta da testimonianze certe, sebbene la relazione ufficiale allora redatta si esprimesse ambiguamente in modo da nascondere al pubblico la verità. Finalmente, nel 1865, nell'abbattere un tratto di muro prossimo alla cappella detta di Braccioforte, fu trovata una cassetta dì legno, sul cui coperchio era scritto "Dantis ossa a me Fra Antonio Santi hic posita anno 1677 die 18 octobris", e sul fondo "Dantis ossa a me denuper revisa die 3 junii 1677". Fu allora aperta ufficialmente l'arca, nella quale non furono trovate se non "tre piccole falangi, che si riscontrarono appartenere allo scheletro della cassetta"; e nel lato postico superiore dell'arca fu scoperto un foro attraverso il quale si conchiuse "che benissimo si erano potute estrarre le ossa racchiuse, compreso il cranio" (Sulla scoperta delle ossa di Dante, Relazione con documenti, per cura del municipio di Ravenna, Ravenna 1870). Il foro, come più tardi si poté determinare esattamente, era stato praticato rompendo la parete a ponente, alla quale, come si è detto, era dapprima appoggiata l'arca, dopo aver rotto il muro del chiostro del convento, al quale quella parete era addossata mediante un'intercapedine, come tuttora si vede. Sicché non si può dubitare che un trafugamento delle ossa da parte dei frati francescani ci sia stato; e verosimilmente esso avvenne sotto la minaccia della loro traslazione a Firenze nel 1519. Resta inspiegato come i messi fiorentini allora inviati non si accorgessero del foro dell'arca, o, accortisene, non si procedesse a un'indagine per far luce sul trafugamento. I frati dovettero diligentemente custodirle, forse in attesa di un'occasione propizia per ricollocarle nell'arca, senza incorrere in punizioni. Si può supporre che, di quando in quando, forse nel trapasso di consegna del prezioso possesso dall'uno all'altro frate responsabile della sua custodia, si facesse la ricognizione delle ossa: così potrebbe spiegarsi quella fatta dal padre Santi nel 1677. Quando e perché la cassetta sia stata murata nel luogo ove è stata scoperta, e che oggi è indicato da una lapide, non sappiamo con certezza; ma per varie buone ragioni si suppone che ciò sia avvenuto soltanto all'epoca napoleonica. Pensare a una mistificazione, e dubitare anche dell'accertamento che le tre falangi rimaste nell'arca appartengano allo scheletro della cassetta, sarebbe scetticismo del tutto ingiustificato. Le ossa sono quasi complete (Ricognizione delle ossa di Dante fatta nei giorni 28-31 ottobre 1921, Memoria, in Atti d. R. Acc. dei Lincei, XVII, 1923).
Dell'aspetto esteriore dell'A. è celebre la descrizione lasciataci dal Boccaccio (Comp. XVI): "Fu il nostro poeta di mediocre statura, ed ebbe il volto lungo e il naso aquilino, le mascelle grandi, e il labbro di sotto proteso tanto, che alquanto quel di sopra avanzava; nelle spalle alquanto curvo, e gli occhi anzi grossi che piccoli, e.il color bruno, e i capelli e la barba crespi e neri, e sempre malinconico e pensoso". Che dall'espressione "i capelli e la barba crespi" non si desuma necessariamente che l'A. portasse la barba, può essere sostenuto; senonché, subito dopo, il Boccaccio narra l'aneddoto delle donnette veronesi, nel quale non si parla dei capelli, nascosti dalla copertura del capo, secondo la foggia fiorentina, ma solo, e in maniera che sembra inequivocabile, di vera e propria barba ("non vedi tu com'egli ha la barba crespa e il color bruno?"). Sicché parrebbe che il Boccaccio si sia raffigurato e ci abbia. descritto l'A. maturo barbuto: il che è in contrasto con tutta la tradizione iconografica, anche se i fondamenti di questa siano tutt'altro che sicuri. Che sia barbuto in qualche raro codice illustrato della Commedia non vuol dir nulla. Bisogna rassegnarci a considerare come incerto anche questo insignificante dettaglio della persona del poeta. Il solo ritratto sicuro è quello famoso, compiuto da Giotto fra il 1334 e il 1337, nella cappella del palazzo del podestà a Firenze (il Bargello), che rappresenta l'A. nel fiore dell'adolescenza, di profilo, con un libro sotto il braccio sinistro e un ramicello con tre fiori e tre pomi nella destra. Il ritratto, coperto da successive imbiancature della cappella, venne alla luce nel 1840; guastato dal restauratore e ridipinto (la tunica da verde diventò color cioccolata), ci è stato conservato qual'era al momento della scoperta da due lucidi tratti dall'inglese Seymour Kirkup, uno degli scopritori, e da Perseo Faltoni. Benché privo dell'occhio, forato sciagurata-mente da un chiodo, il ritratto è assai bello: è il ritratto di un delicato adolescente, puro e sognatore, rapito, si direbbe, in visioni angeliche: probabilmente un A. giovane, molto idealizzato. L'immagine vulgata, invece, sembra ricalcata, dal più al meno, sulla descrizione lasciata dal Boccaccio, tolta la barba: l'A. maturo, austero e disdegnoso; ma nessuna delle effigi tramandateci, che sono tutte posteriori al sec. XIV, risulta storicamente riferibile a un ritratto sicuro. Di esse le più famose sono: una miniatura del cod. Palat. 320 della Biblioteca Nazionale di Firenze, che si ritiene possa derivare da un dipinto di Taddeo Gaddi ch'era nella chiesa di S. Croce, e fu poi distrutto (il Gaddi poteva aver conosciuto l'A. a Ravenna); un'altra del cod. Riccardiano 1040, molto apprezzata da alcuni studiosi; un quadretto posseduto dal principe Trivulzio, già attribuito all'Orcagna; la tavola notissima di Domenico di Michelino in S. Maria del Fiore; il busto di bronzo del Museo di Napoli, di fattura, si è detto, donatelliana, e quello affine, in gesso colorato, della Galleria degli Uffizi. E affini alla testa di questi due busti sono le cosiddette "maschere di Dante", tra cui notissima la maschera Kirkup, ora in Palazzo Vecchio. Si pensa che le maschere possano derivare da una testa dell'A., in marmo o in terracotta, che, secondo una notizia fornita dall'antiquario, medico e artista Giovanni Cinelli (La Toscana illustrata, manoscritto nella Biblioteca Nazionale di Firenze, t. I, p. 340: cfr. C. Ricci, Cogliendo... pp. 162-63), si trovava sul sepolcro di Ravenna e, donata dall'arcivescovo della città a Gian Bologna, era poi servita, per la sua bellezza anatomica, come modello agli scolari del suo scolaro ed erede, Pietro Tacca: e questo spiegherebbe le differenze tra le varie "maschere", che sono una trentina. In tutte è evidente, nell'incisività del segno, la mano dell'artista. Che una maschera .sia stata cavata col gesso sul cadavere dell'A. è da escludere: anzitutto, una notizia di tal genere non sarebbe rimasta ignota; inoltre, quest'uso non era praticato nel Medioevo; e, infine, sarebbe per lo meno strano il calco anche dell'orlo del berretto e delle bandelle laterali, come si vede in tutte le "maschere".
Il ritratto del suo io interiore ha lasciato invece egli stesso, tale che non potremmo desiderarlo più vivo, preciso, completo, sincero, nell'insieme delle sue opere successive all'adolescenza, ma specialmente nella Commedia, cui davvero, sotto questo aspetto, meglio calzerebbe l'appellativo datole di "Danteide". Tutti i tratti personali, in parte desumibili anche dalle opere minori e dalle poche notizie biografiche certe, nella Commedia si dispiegano, infatti, nella loro interezza, e si compongono in una figura tra le più definite, persuasive, e immediatamente accessibili. Questa immediata accessibilità e comunicatività deriva dall'assoluta sincerità con cui il poeta si è descritto, e che, a sua volta, risponde all'assoluta schiettezza della sua natura, non soffocata o deformata dai casi della vita e dalla cultura, senza ombre ambigue, senza capziosità o sovrastrutture di nessun genere, senza infingimenti volontari o inconsapevoli, complessa per la grande ricchezza di motivi umani, ma non complicata o contorta, e, nella complessità dei motivi, sostanzialmente limpida e lineare. È per questo che i lineamenti più caratteristici della fisionomia dantesca emergono dalla Commedia a prima vista: in breve, una straordinaria energia nel volere e nel sentire, e una coscienza straordinariamente austera ed elevata, dalla sfera affettiva a quella etica, intellettuale, religiosa. L'aggettivo dell'uso comune "dantesco" compendia ed isola appunto questi lineamenti energici e solenni, che appaiono essenziali dell'io interiore dell'Alighieri. Il poeta stesso si fa proclamare da Virgilio "alma sdegnosa": sdegnosa di tutta la viltà e corruzione e stoltezza di cui è pieno il mondo. Ma lo sdegno esprime solo la pugnace reazione del poeta al disordine generale dell'umanità: la sostanza della sua anima è eroica. Come il suo Ulisse, egli sentì il dovere categorico di seguire, con tutte le sue forze, "virtute e conoscenza", lottando, con incrollabile volontà e indomito cuore, contro ogni impedimento della natura, contro ogni avversità della vita, mirando costantemente a quella totale perfezione dell'essere, che egli credette fermissimamente potersi raggiungere dall'uomo per le mirabili doti largitegli da Dio, e per la quale l'uomo diviene - diremo con parole sue - "quasi un altro Iddio incarnato". Questi i lineamenti eroici dell'anima dell'A., quali sono nettamente scolpiti nella Commedia; è questa la concezione eroica della vita umana, in cui consiste l'altissimo valore ideologico del poema, la sublime parola di fede nelle forze ideali e nel destino dell'umanità, che l'A. ha trasmesso alle età successive. Né si creda che la sua salda fede religiosa limiti o condizioni la sostanza eroica della sua anima e della sua concezione della vita. Per l'A., quel Dio che mandò in terra il suo Figliuolo per far conoscere all'uomo la Verità, non solo non umilia e non limita l'individuo per affermare la propria onnipotenza, ma, al contrario, sollecita la piena estrinsecazione, il massimo potenziamento di tutte le sue forze morali e intellettuali, lo stimola alla conquista del Cielo, fa di lui non uno schiavo, ma un titano. E sarebbe parimenti errore considerare l'anelito dell'A. alla conquista di Dio, come estrema perfezione, limitato dai termini dogmatico cattolici in cui formalmente il suo Dio si concreta: quell'anelito risponde a una posizione dello spirito eterna, universale e incoercibile, la posizione da cui promanano i grandi sistemi di filosofia spiritualistica e le più alte religioni storicamente costituite, e che trascende i termini contingenti in cui a volta a volta si configura il concetto dell'Essere assoluto e perfetto. Se ci fermassimo alle forme dogmatiche in cui si concreta il Dio dell'A., ci sfuggirebbe il senso sublime e universale di quel suo anelito alla conquista di Dio, quel senso titanico-religioso che costituisce l'afflato e l'essenza della Commedia. L'aspetto fondamentale della fisionomia dantesca è, dunque, di apostolo ed eroe dell'ideale elevazione umana.
Ma gli altri lineamenti che concorrono a comporre il ritratto ci fanno vedere, nell'eroe, l'uomo, non solo con la sua ferma volontà di continua ascesa spirituale, ma anche con i suoi istinti immediati, con i suoi atteggiamenti di più comune umanità, con i suoi limiti, con i suoi difetti. L'immagine ideale resta intatta; anzi, forse, gli effetti d'ombra, che alcuni lineamenti determinano nel ritratto, le tolgono quel che di rigido e di astratto potrebbe avvertirsi in essa, e la rendono più umanamente ammirevole e persuasiva, perché rivelano il comune sostrato umano, sopra il quale il poeta ha saputo così nobilmente elevarsi. Un'ombra insistente sul ritratto ideale è proiettata, anzitutto, dalla violenza, che bisogna pur dire spietata e barbarica, in cui più di una volta trascende il suo sdegno sempre giusto e normalmente magnanimo. Il confronto, che si può invocare, col furore biblico può valere a farcelo comprendere, e in parte a giustificarlo. Il Boccaccio (Vita XXV) afferma come "pubblichissima cosa in Romagna" che "ogni femminella, ogni piccol fanciullo ragionante di parte e dannante la ghibellina, l'avrebbe a tanta insania mosso, che a gettare le pietre l'avrebbe condotto, non avendo taciuto". Questa voce raccolta dal Boccaccio era certamente creata ad arte, perché l'A. fu convinto assertore della necessità dell'autorità imperiale, ma non un fazioso e fanatico sostenitore della parte ghibellina, come troppo spesso è stato frainteso: questa sua posizione superiore alle parti è dimostrata e ribadita continuamente nella Commedia (e basti ricordare i vv. 103-105 di Par. VI); ma la voce poté benissimo accreditarsi per la violenza con cui Dante professava le sue convinzioni. Nel Convivio (IV, xiv, 11), contro i sostenitori di un'opinione erronea intorno alla nobiltà egli ha scritto che "rispondere si vorrebbe non con le parole, ma col coltello, a tanta bestialitade". E, senza citare il noto passo della canzone "petrosa" Così nel mio parlar, vv. 66-73, in cui l'espressione della brutale vendetta amorosa probabilmente è soltanto di natura letteraria (sebbene anche i compiacimenti letterari siano indici di un temperamento), troppe volte la Commedia riflette un atteggiamento così violento e vendicativo, da doversi convenire ch'esso era del carattere istintivo dell'uomo Dante. Si pensi alle sue terribili imprecazioni: contro Pisa, che vorrebbe sommersa nell'Arno con tutti gli abitanti (Inf. XXXIII, vv. 79-84), contro Pistoia, che vorrebbe ridotta in un mucchio di cenere (Inf. XXV, vv. 10-12), contro i Genovesi, che vorrebbe cancellati dalla faccia della terra (Inf. XXXIII, vv. 151-153); si pensi al desiderio e alla gioia crudele di veder fare strazio di Filippo Argenti (Inf. VIII, vv. 52-60), alla ferocia con cui strappa i capelli a Bocca degli Abati (Inf. XXXII, vv. 97-105). Occorre dir subito che nel poema la violenza vendicativa di Dante non appare mai, anche dove entra certamente il risentimento personale (ad esempio nell'odio e disprezzo contro Bonifazio VIII e Filippo Argenti), come sfogo, che sarebbe ripugnante, di astio e vendetta personale, ma come sacrosanta reazione del sentimento di giustizia offeso, anche se talvolta l'eccesso non bene giustificato della reazione susciti nel lettore qualche perplessità. Comunque, questo lato negativo del suo carattere risulta innegabile: fattosi giudice e giustiziere, dimostrò di possedere più la violenza dell'odio biblico che non la misericordia evangelica; e si può dire che ignorò la virtù del perdono. Un altro dei lineamenti propriamente non encomiabili che si rivelano più scopertamente nel poema è la superbia per la consapevolezza della sua "altezza d'ingegno" e dottrina ed eccellenza poetica, e, compagno di questa consapevolezza, un indomabile desiderio di gloria. E non occorre la testimonianza del Villani ("Questo Dante per lo suo savere fu alquanto presuntuoso e schifo e isdegnoso, e, quasi a guisa di filosofo mal grazioso, non bene sapeva conversare co' laici", IX, 136), né del Boccaccio ("Molto... presunse di sé, né gli parve meno valere... che el valesse", Vita XXV): la sua superbia confessò egli stesso in Purg. XIII, vv. 136-138: l'unico dei peccati mortali ch'egli esplicitamente confessò: il che forse fu ancora un atto di superbia e non di contrizione. Tuttavia anche qui, indipendentemente dalla considerazione che forse non vi è stata mai superbia, diremo parafrasando Orazio, quaesita tantis meritis, si deve riconoscere ch'essa nel poema non appare mai come presunzione e iattanza; e anzi l'insistenza insolita con cui, nel canto XI del Purgatorio, egli si fa ribadire da Oderisi da Gubbio la vanità della gloria terrena e perfino la caducità delle stesse opere dell'ingegno, mostra quanto profondamente egli cercasse, con la ragione e la religione, di mortificarla in sé. E, d'altra parte, quest'uomo così orgoglioso del suo ingegno, del suo sapere, insomma, della sua altezza intellettuale e morale, era, poi, pronto e magnanimo nel riconoscere e ammirare ed esaltare l'ingegno e, comunque, i meriti altrui, malgrado i vizi da cui eventualmente fossero accompagnati, tanto alto era in lui il concetto e il rispetto della personalità umana, che sappia in qualche modo affermare la sua nobiltà nella sua missione terrena. Da questa disposizione concettuale e sentimentale, che continuamente si rivela nel poema, e che può sembrare - a chi non intenda bene l'anima dell'A. - in contraddizione con l'aspetto religioso del poema stesso, ha origine, tra l'altro, la creazione eterodossa del luminoso castello nel Limbo, dove sono accolti gli "spiriti magni" non solo dell'antichità pagana, ma anche -il che è più grave dal punto di vista dell'ortodossia cattolica - della civiltà arabo-musulmana. Anzi talvolta il rispetto e l'ammirazione del valore altrui giunge fino a fargli assumere addirittura un atteggiamento commosso di schietta umiltà: così nei riguardi dei tre grandi fiorentini in Inf. XVI, di Manfredi in Purg. III (e si tratta di peccatori gravi), di Guido Guinizelli in Purg. XXVI. E non meno pronto, aperto e magnanimo era nel riconoscere i benefici ricevuti, come attestano le nobilissime espressioni di gratitudine verso Brunetto Latini, i Malaspina, gli Scaligeri. E infine, pur compiacendosi istintivamente della sua "nobiltà di sangue", come prova la sua esplicita confessione (Par. XVI, 1-6), seppe tuttavia sorridere di questa sua debolezza, ben sapendo quanto poca cosa fosse per sé stessa la nobiltà dei natali. A questo riguardo è opportuno chiarire che l'A., pur tenendo ben fermo il principio, ch'egli aveva direttamente ereditato dal Guinizelli e ampiamente dimostrato nel IV del Convivio, che non c'è nobiltà se non dove c'è virtù, e che questo "divino seme non cade in ischiatta,..., ma cade ne le singulari persone", sicché "la stirpe non fa le singulari persone nobili, ma le singulari persone fanno nobile la stirpe" (Conv. IV, xix, 3-4; xx, 5), tuttavia non pensò mai di negare o sopprimere il valore relativo della nobiltà dei natali, e la nobiltà come classe sociale; all'ideale classe nobiliare, che unisse la virtù all'antichità del sangue, egli riconosceva un alto compito, quello di guida e di autorevole esempio per la società. Alla sua superbia bisognerà in gran parte ascrivere anche una certa dose di permalosità, che doveva essere nel suo carattere, e che nel poema si scopre almeno nel sùbito adombrarsi per una risposta di Virgilio da lui giudicata un po' secca (Inf. III, vv. 76-81; X, vv. 19-21), e nell'acre reazione al vanto di Farinata di aver disperso i suoi maggiori. Ma se si pensa quali terribili segrete angosce - appena accennate in Purg. XI, vv. 140-141; Par. XVII, vv. 58-60 - dovette soffrire un uomo dal carattere così fatto, costretto a mendicare il tetto e il pane, tanto più mirabile apparirà la forza d'animo con cui egli resistette e reagì al suo destino, opponendo alle avversità e alle umiliazioni la sdegnosa dirittura della sua coscienza morale, la sua meta altissima di scienza e di poesia.
Accanto a questi lineamenti più risentiti - in senso positivo, e, in parte, anche negativo -, che sono certo i più costanti e più propri (i più "danteschi", se così si vuol dire) della fisionomia del poeta, vi è poi una grande ricchezza di lineamenti e sfumature più comuni, rispondenti alla straordinaria ricchezza della sua vita interiore, alla sua natura veramente "trasmutabile per tutte guise", aperta ad accogliere qualunque sollecitazione del sentimento. Il poeta non avrebbe potuto illuminare d'un lampo, come ha saputo fare, i più diversi moti dell'animo umano, se non fosse penetrato in essi bene addentro, per la forza e ricchezza della sua propria umanità. E anzitutto dovremo dire che quella coscienza così energica, tesa ad ideali così alti e severi, fondamentalmente eroica, era anche dotata di una profonda, schietta delicatezza e gentilezza di sentire. Lo provano le innumerevoli note rispondenti appunto a queste qualità della sua anima, profuse incidentalmente un po' da per tutto nel poema, e specialmente nel Purgatorio, sia che si riferiscano ad aspetti della natura (marine, cielo, fontane, foreste, fiori, albe, tramonti), sia alla vita degli animali (greggi e uccelli), sia - soprattutto - alla vita e agli affetti umani (madri, bimbi, vergini, mendichi, pastori, viandanti, pudori, nostalgie, trepidazioni, ecc.). Del resto, a dimostrare la profondità di queste doti della sua anima basterebbero le figure della Pia, di Francesca, di Piccarda, creature tra le più delicate e gentili della poesia di ogni tempo. Questo aspetto della sua anima si rivela anche nella tenerezza con cui dimostra di aver sentito il vincolo dell'amicizia: affettuosissimo con Casella, Nino Visconti, Oderisi, ser Brunetto, è di una particolare delicatezza con Forese Donati, per ammenda degli attriti creatisi, in un certo momento, tra lui e l'amico. E, mentre era così spietato con i vili, i perfidi, i malvagi, sapeva anche essere comprensivo e indulgente delle debolezze umane, quando fossero senza malizia, conseguenza di un giudizio fallace o della fragilità della carne. Questa comprensività e indulgenza arriva, per un verso, fino alla pietà (Francesca, Pier delle Vigne) e, per un altro, al sorriso malizioso o bonario (Capocchio, Belacqua, Sapia). A quest'ultimo riguardo bisogna aggiungere che c'era nel temperamento dell'A. una disposizione non trascurabile a cogliere e sottolineare con divertita intelligenza momenti comici e umoristici della vita: disposizione che diede luogo, nel poema, ora alla battuta arguta, ora alla caricatura maliziosa, ora alla canzonatura leggermente maligna. Anzi bisognerà anche ammettere che l'uomo così sapiente e disdegnoso non sempre deve aver saputo rinunziare al divertimento grossolano dei diverbi mordaci, anche volgari. Lo provano, anche tenendo conto di quelle che possono essere state la ragioni dell'arte, la giovanile tenzone con Forese Donati e parecchi luoghi delle Malebolge; ed è certamente una coraggiosa confessione e automortificazione l'attenzione ch'egli presta all'alterco tra Sinone e maestro Adamo, che provoca lo sdegnoso rimprovero di Virgilio (Inf. XXX, vv. 100 ss.). Troppe volte, sia tra i concittadini litigiosi e linguacciuti per natura, sia nella compagnia eterogenea delle corti frequentate nella esilio, "fortuna" dovette farlo trovare ( e l'avvertimento di Virgilio è significativo) "dove eran genti in simigliante piato", e più di una volta non solo si sarà divertito ad ascoltare, ma sarà intervenuto con qualcuna di quelle sue brevi stoccate, precise e trafiggenti, che la leggenda gli attribuisce, e che, anche se forse tutte inventate, dovevano rispondere alla memoria, che si era conservata, del suo stile. Attestano, infatti, il Boccaccio e il Bruni ch'egli era "parlatore rado e tardo" e "rade volte, se non domandato, parlava", ma che era "nelle sue risposte molto sottile". Comunque, anche questo suo difetto egli riconobbe con molta vergogna; e, sincero come sempre, non tolse al suo autoritratto questa nota negativa. Del resto, un'A. tutto sublime, tutto "dantesco", è un'astrazione dei feticisti, che, tra l'altro, non dispone a intender bene tutta la sua varia e complessa umanità. Stentiamo, invece, ad ammettere la taccia di lussuria datagli dal Boccaccio ("e non solamente ne' giovani anni, ma ancora ne' maturi", Vita XXV) e da qualche commentatore antico. La taccia non pare abbia altro fondamento che un'interpretazione, secondo noi, del tutto arbitraria dei molteplici amori cantati dal poeta. La facilità a crearsi fantasmi di amore, che certamente fu in lui, è cosa ben diversa dalla lussuria. Sta di fatto che in tutta la sua opera (l'eccezione della canzone "petrosa" su citata non ha peso) non c'è il minimo indizio di un temperamento sensuale, e neppure di una segreta lotta interiore, vinta dalla ragione e dalla volontà, contro la prepotenza dei sensi. Si direbbe piuttosto ch'egli sentisse l'amore carnale come cosa bestiale e disgustosa: si pensi al canto dei ruffiani e seduttori (Inf. XVIII), al puzzo del ventre della femmina balba (Purg. XIX), al costante disprezzo di ogni forma di cupidigia carnale nei rarissimi casi in cui ce ne sia un accenno, alla ferma e costante condanna del sommettere la ragione al talento, seguendo come bestie l'appetito; e si pensi anche alla freddezza scientifica con cui è descritta la funzione fecondativa in Purg. XXV, vv. 42-45. Né il peccato di Francesca, la maggiore delle sue creature amorose, è di ordine sensuale, né la pietà del poeta per lei implica altro che una partecipazione sentimentale e forse anche un ripensamento ideologico. Si vuol vedere una confessione personale nella resistenza ch'egli oppone ad entrare nella fiamma in cui sono puniti i lussuriosi, nell'ultima cornice del Purgatorio; ma essa è imposta dall'esigenza scenica. Anche il rimprovero di Beatrice per essersi lasciato allettare, dopo la sua morte, dall'amore per una "pargoletta" non può essere considerato se non come accusa di aver egli idoleggiato, quasi alla pari del "sommo piacere" di Beatrice stessa, un'altra bellezza femminile, che non era altro che "vanità con sì breve uso" (Purg. XXXI, vv. 49-60): un errore di valutazione, un miraggio. Se l'A. sentì veramente l'assillo della carne, bisogna dire (e ciò pare alquanto forte) ch'egli è riuscito nell'opera sua a dissimularlo completamente, simulando, invece, non solo il pieno dominio su di essa, ma una profonda, assoluta castità interiore. Sicché, sebbene in questo campo sia forse più difficile che in ogni altro, ove manchi il sussidio di dati esterni, penetrare nel segreto individuale, riteniamo che non ci sia ragione per credere più al Boccaccio, in questa materia piuttosto sospetto, che non all'A. stesso, che si dipinse sempre qual'era, senza infingimenti. Ci persuade di più Leonardo Bruni, in polemica col Boccaccio: "Fu usante, in giovanezza sua, con giovani innamorati, e lui ancora di simile passione occupato, non per libidine, ma per gentilezza di cuore". In questi termini non abbiamo difficoltà ad ammettere che l'eterno femminino, le "giovani donne", di cui così delicatamente in gioventù aveva cantato "gli occhi di bellezze ornati e la mente d'amor vinta e pensosa", abbiano potuto suscitare nell'anima dell'A., anche negli anni maturi, palpiti d'amore.
Già si è detto che il mondo ideologico delle rime dottrinali-allegoriche, del Convivio, delle Epistole, della Monarchia ritorna invariato nella Commedia (qualche rara rettifica marginale è del tutto insignificante), sicché questa nulla aggiunge di veramente sostanziale alla conoscenza di esso. Ma giova insistere su alcuni suoi aspetti più esplicitamente espressi nella Commedia, perché valgono a illuminare ancora meglio alcuni aspetti spirituali del poeta, e a meglio precisarne la particolare posizione, di fronte a quel mondo, ch'egli ebbe in comune con l'età sua. Specialmente importa chiarir bene, per eliminare vari fraintendimenti a cui il poema ha potuto dar luogo, il carattere della sua religiosità e cattolicità. Già si è accennato al particolare accento della sua religiosità, più affine a quella del Vecchio che non del Nuovo Testamento. Egli sentì profondissimamente Dio come Dio di giustizia infallibile e d'inebbriante verità, pochissimo come Dio di amore. Quest'ultimo aspetto egli ben riconobbe in tutte le operazioni divine che da esso procedono, a cominciare dalla creazione, che fu appunto un atto di amore; ma la conoscenza intellettuale non tolse che quest'aspetto di Dio restasse assai poco operante nel suo sentimento. Il suo stesso amore di Dio fu essenzialmente "amor Dei intellectualis"; e nella visione del "Vero in che si queta ogni intelletto", e non nell'atto di amare Dio, che è atto posteriore, egli, come s. Tommaso, fece consistere la beatitudine celeste (Par. XXVIII, vv. 106-111): il che - diciamo incidentalmente - dimenticano coloro che a tutti i costi vogliono fare dell'A. della Commedia un mistico. Si veda nel canto VII del Paradiso come è rappresentato il misericordioso sacrificio del Figlio, voluto da Dio Padre per la redenzione degli uomini: un grandioso processo di somma giustizia e di magnificenza divina, un grandioso mistero teologico, insomma, da ammirare ed esaltare intellettualmente; ma l'aspetto umano di quella magnificenza e di quel sacrificio è del tutto trascurato dal poeta. Qui e altrove egli celebrò altamente la sapienza e potenza del Padre; non mai l'umanità del Figlio. Dell'Incarnazione non vide e sentì se non il valore teologico e il mistero. La religiosità dell'A. restò lontana sia dall'ardore dei mistici, che più fortemente si accende proprio nella contemplazione del Cristo crocifisso, sia da quel confidente abbandono in Dio, in cui i comuni credenti trovano la quotidiana pace dell'anima e il maggior conforto nelle traversie della vita. Perfino nel suo culto di Maria, ch'egli ebbe straordinariamente vivo e profondo, le note umane e affettuose hanno un rilievo di gran lunga minore di quelle che ne celebrano il merito teologico, la grandezza, la magnificenza, la regalità, il valore, il trionfo: si pensi all'orazione di s. Bernardo, splendido panegirico ed inno da recitarsi ad alta voce, non preghiera che salga dall'intimità e umiltà del cuore. La Vergine-Madre dell'A, è ben diversa da quella delle devote, affettuose, ingenue leggende medievali e delle laude del tempo: essenzialmente è il "termine fisso d'eterno consiglio", la provvidenziale tutrice dell'umanità, la regina della gloria, la regina dell'Empireo; e dove il poeta narra episodi della sua vita, ricalcando, talvolta alla lettera, i Vangeli, ne sciupa la semplicità. Non c'è in tutto il poema che un verso e mezzo che esprima la sua devozione di Maria con ingenuo, umile, pieno abbandono sentimentale: "il nome del bel fior ch'io sempre invoco e mane e sera" (Par. XXIII, vv. 88-89). Per il resto, in tutta la sua opera non invoca mai l'aiuto del Cielo, come fanno i comuni mortali nei frangenti della loro vita, né cerca nella fede, non diciamo la santa accettazione delle sue personali disgrazie, ma neppure il conforto della rassegnazione. All'ingiusta sorte sua non si rassegnò mai; conforto cercò nella coscienza della sua rettitudine (e, mettiamo pure nell'orgoglio e nella vendetta), e soprattutto nella poesia; aiuto solo nel suo ingegno; e invocò il Cielo solo perché mettesse riparo al male e alla rovina di tutta l'umanità. Questo carattere eminentemente intellettuale e teologico, e scarsamente sentimentale, della sua religiosità impedì all'A. di comprendere e sentire il contenuto e valore umano e sociale dei Vangeli e del cristianesimo. Cristo fu per lui il redentore teologico dell'umanità dal peccato di Adamo, del quale egli, come s. Agostino, sentì fortissimamente la gravità umanamente irreparabile; ma del suo verbo, che rinnovava i fondamenti della società, solo l'esaltazione della povertà trovò un'eco viva in lui, e soprattutto in funzione polemica contro gli ecclesiastici. D'altra parte, appunto per questo carattere la sua fede fu così alta, ferma e pura, immune da qualunque forma più o meno larvata di superstizione, debolezza, piccineria, da tutte le ambiguità e insidie così spesso latenti nella fede, non soltanto del volgo. E appunto perché tale fu la sua fede, l'A., benché così profondamente ossequente alla Chiesa cattolica, in quanto istituzione divina, da sentire "la reverenza delle somme chiavi" perfino di fronte a un papa dannato nell'Inferno, fu tanto libero dal formalismo dell'ossequio, da distinguere l'autorità divina della Chiesa dall'esercizio fattone dai papi, la provvidenza divina dalla sentenza ecclesiastica. E pertanto, non solo non risparmiò nella sua condanna ecclesiastici e papi colpevoli, ma anche, con larghezza di vedute in una questione teologica delicata e non ben definita, concepì come possibile la salvazione di pagani quali Catone uticense e Rifeo troiano, ammise una particolare benignità di Dio verso gli spiriti magni pagani e infedeli, creando per essi una sorta di Elisio, che gli sarà rimproverato da s. Antonino come contrario alla fede cattolica (Summa, III, tit. XXI, cap. V, 2), e infine, con audacia maggiore, non esitò, contro la condanna ecclesiastica, a salvare Manfredi scomunicato, e a dannare, invece, Guido da Montefeltro assolto dal papa. Diciamo, però, subito che questo suo appellarsi direttamente a Dio, scavalcando opinioni e decreti della Chiesa, non autorizza a far di lui un eretico occulto. Se è innegabile che nel pensiero e nel sentimento dell'A. fossero gli stessi fermenti profondi donde allora traevano origine i vari moti religiosi, in parte assorbiti, in parte combattuti come ereticali dalla Chiesa, e ch'erano destinati a esplodere più tardi in una grande rivoluzione, tuttavia quella sua relativa libertà di atteggiamenti in materia religiosa, anche prescindendo dalla considerazione che il dogma cattolico non era allora così rigido e definito come dopo il concilio di Trento, non infirma la sua incrollabile cattolicità, fondata sulla ferma fede dell'istituzione divina della Chiesa, della santità e indispensabilità del suo insegnamento, dell'obbligo del credente di attenersi ad esso. L'A. ammetteva e non aveva paura di condannare errori e cattivo uso dell'autorità della Chiesa da parte dei suoi ministri, ma non mise mai in dubbio l'autorità trascendentale dell'istituzione stessa, la validità della tradizione da essa accolta e confermata, della dottrina da essa professata; e gli errori materiali e la decadenza della Chiesa del suo tempo combattè col coraggio e l'ardore di un apostolo, appunto perché essa non tradisse la sua missione divina di guida spirituale dell'umanità, il suo Sposo, Cristo. Egli aveva, sì, la tempra dei riformatori religiosi, e negli ultimi anni, assistendo all'obbrobrio in cui era caduta la Chiesa e angosciato dal danno che ne veniva all'umanità, se ne assunse anche la veste; ma da paladino della Chiesa come s. Francesco e s. Domenico, non da eversore come Lutero. L'A. non ebbe la mentalità di un ribelle, ma di un battagliero restauratore e conservatore di istituzioni idealmente concepite, di cui credeva ancora viva, anzi eterna, la funzione storica. Questo è l'atteggiamento nuovo dell'A, nella Commedia, che non ha riscontro nelle altre sue opere, se non, come si è visto, nell'epistola ai cardinali, contemporanea alla composizione del poema. Giacché la Commedia non è solo espressione della speranza dell'A. nella restaurazione dell'Impero - come, per un errato preconcetto, troppo spesso è stata interpretata -, ma anche, e non meno, della sua speranza nella restaurazione della Chiesa. Per l'A. l'una e l'altra guida - sostanzialmente, se non formalmente - mancava all'umanità; e perciò, dell'una e dell'altra, entrambe inviate da "l'alta providenza", egli sperava, profetava l'avvento: di un "cinquecento diece e cinque" (Purg. XXXIII, vv. 37-45), erede dell'aquila imperiale, per la restaurazione politica, del "Veltro" (Inf. I, vv. 94-111), cacciatore della lupa infernale, nutrito solo delle virtù che sono attributo della Trinità, per la rigenerazione spirituale dell'umanità, che è ufficio della Chiesa, il che importava una restaurazione della Chiesa stessa. Sebbene la profezia del Veltro, dettata dall'A. all'inizio del poema, quando naturalmente non poco di esso doveva essere ancora definito, sia assai oscura, a differenza di quella chiarissima del "cinquecento diece e cinque", tuttavia riteniamo che non sia possibile fare, come generalmente è stato fatto, di queste due profezie una sola, e dei due personaggi, così distintamente profetati, una sola persona, e precisamente il restauratore dell'Impero: è un'evidente assurdità, derivata dal preconcetto d'interpretazione politica, cui abbiamo accennato. Si dimentica che la profezia di un prossimo rigeneratore della Chiesa è esplicita nelle parole di s. Pietro (Par. XXVII, vv. 61-63): e in questa previsione l'A. concordava col "calavrese abate Giovacchino" (F. Tocco, L'eresia nel medio evo, Firenze 1884, p. 404), chiunque, poi, dovesse essere colui per opera del quale questa rigenerazione sarebbe avvenuta. Aggiungiamo che lo spettacolo della decadenza di tutta la Chiesa, a cominciare dai suoi capi e compresi gli Ordini monastici, desta nel poeta della Commedia assai maggiore sdegno e dolore che non la carenza dell'autorità imperiale; indubbiamente egli considerava maggiore il danno che dalla mancanza della guida spirituale derivava all'umanità. Causa della decadenza - lo si è già visto nell'epistola ai cardinali - la cupidigia delle ricchezze: nel poema, l'A. non solo ribadisce continuamente questo concetto, ma risale a quella che, secondo lui, esattamente come secondo i catari e i valdesi (F. Tocco, L'eresia..., pp. 84, 140 s.), era stata l'origine prima della rovina della madre Chiesa: la donazione di Costantino, ch'egli non metteva in dubbio, pur giudicandola, in quanto Costantino non aveva facoltà di alienare parte dell'Impero, contraria al diritto, e, in quanto accettata dalla Chiesa, contraria al precetto di Cristo che aveva vietato ai suoi discepoli (Matteo X, 9) di possedere beni temporali. Questo concetto, già in embrione in Monarchia II, xii, 8 e III, x 14-17, è martellato in tutte e tre le cantiche (Inf. XIX, vv. 115-117; Purg. XXXII, vv. 124-147; Par. XX, vv. 55-60). A questa causa prima del traviamento della Chiesa e del mondo l'A. nella Commedia aggiunge l'aggravante che, durante la vacanza dell'Impero, ch'egli calcolava dalla morte di Federico II all'elezione di Arrigo VII, la Chiesa si era arrogata le funzioni della potestà laica, senza aver la forza per esercitarle, e trascurando necessariamente la propria missione. Storicamente il pensiero dell'A. era senza fondamento; e neppure era ben definito in sé stesso. Egli vagheggiava un'epoca in cui Roma, secondo lui, aveva fatto buono il mondo, perché aveva i "due soli... che l'una e l'altra strada facean vedere, e del mondo e di Deo" (Purg. XVI, vv. 106-108); ma quest'epoca, che naturalmente non può essere anteriore alla conversione di Costantino, a rigore non potrebbe essere neanche troppo posteriore, se la fatale donazione di Roma al papa era stata l'inizio della corruzione della Chiesa. Probabilmente l'A. pensava a un periodo più o meno lungo di tempo dopo la donazione di Costantino, in cui la Chiesa non fosse stata ancora tutta presa dall'avidità delle ricchezze: vago idoleggiamento di un passato di cui egli e il suo tempo non avevano che scarsissime e inesatte cognizioni. In compenso, ancora una volta dobbiamo notare che, nonostante le inesattezze nella sfera speculativa, il pensiero dell'A., nella Commedia, sul rimedio pratico ai mali della Chiesa è ben chiaro e preciso, e rappresenta, rispetto al pensiero espresso nella Monarchia, una più esplicita e netta presa di posizione. Non solo, come nel trattato politico, l'A. ribadisce nel poema la necessità della netta separazione dei due sommi poteri e la piena indipendenza e sovranità del potere temporale nel proprio campo, ma combatte anche - apertamente e coraggiosamente - qualunque dominio temporale da parte della Chiesa, dimostrando che il possesso e la cura dei beni materiali la corrompono, e il "malo esemplo" che èdato per ciò da essa è funesto per tutta l'umanità: il che, pur essendo implicito, era prudentemente sorvolato nella Monarchia, date le circostanze e la finalità dell'opera. Nessuno prima dell'A, aveva assunto una posizione così netta e ragionata contro il dominio e potere temporale della Chiesa, senza giungere a proposizioni eretiche, o comunque ad atteggiamenti di ribellione all'autorità soprannaturale di cui l'A. riconosceva investita la cattedra romana, e alla gerarchia ecclesiastica.
Anche il suo atteggiamento di fronte al mondo classico risulta nella Commedia interamente illuminato, sicché è possibile stabilirne più chiaramente i rapporti sia con l'atteggiamento medievale, sia con quello degli umanisti e dell'età moderna. Si è già accennato al culto (si ricordi "'l lungo studio e 'l grande amore", ecc., Inf. I, vv. 83 s.) dell'A. per la poesia virgiliana fin dai primi suoi studi, all'esaltazione della storia di Roma antica e dei grandi Romani antichi nel Convivio e nella Monarchia, alla felice imitazione del modello latino nelle sue due egloghe. La Commedia dà in pieno la misura del suo lungo e amoroso studio dell'antichità classica, e del sostanziale nutrimento che ne trasse il suo intelletto, la sua coscienza, la sua arte. Quel mondo - nei limiti della conoscenza che se ne aveva ai suoi tempi (basti pensare che quasi certamente l'A. ignorava le Georgiche del suo Virgilio) - è presente, come linfa vitale, per tutto il poema, dal primo canto, in cui appare Virgilio, all'ultimo, in cui, a illustrare la sua visione di Dio, il poeta non crede indegni i ricordi pagani della Sibilla virgiliana e del mito degli Argonauti. L'idea stessa del viaggio oltremondano, anche se inseparabile dalla tradizione medievale di analoghi viaggi e visioni, ha un'unica fonte certamente diretta nel VI libro dell'Eneide. Interi episodi, innumerevoli notizie, personaggi - storici, leggendari, mitici -, situazioni poetiche, similitudini, concetti, vocaboli, forme stilistiche, derivano dal mondo classico e propriamente dalla letteratura latina, giacché quella greca, fuorché - in parte - per i filosofi tradotti in latino, era ignorata. "Certo - mi sia consentito ripetere quel che ho detto altrove - anche nella Commedia l'antichità pagana è filtrata attraverso il medio evo, e liberamente messa dal poeta a servigio dell'architettura del suo poema cristiano. Minosse conserva nell'Inferno dantesco la sua funzione di giudice; ma qui un ringhio crudele deforma il solenne quaesitor virgiliano, e la coda appiccatagli dal poeta, mediante la quale sentenzia, 'ne completa la degradazione nel senso della demonologia popolare del medioevo cristiano' (Pagliaro, Il canto V dell'Inferno, Roma 1952). Così, divinità e mostri della mitologia pagana, trasformati in demoni, trovarono largo impiego nella funzione di guardiani e tormentatori dei dannati (Caronte, Cerbero, Pluto, Flegiàs, il Minotauro, i Centauri, le Arpie), o diventarono figure simboliche di categorie di peccati (le Furie, Medusa, Gerione). I quattro fiumi dell'Inferno dantesco sono gli stessi della mitologia pagana; ma derivano dalle lagrime della statua allegorica del Veglio, che Dante tolse da Daniele: statua, che poi egli collocò nell'isola di Creta, dove era stata la prima età dell'oro, fondendo così la Bibbia con la leggenda di Saturno. L'imperatore Traiano è celebrato due volte nel poema (Purg. X e Par. XX) per la sua giustizia; ma tutte e due le volte non in riferimento a fatti storici, bensì a una diffusa leggenda medievale, quella della vedovella cui rese giustizia in circostanze eccezionali; e Dante non solo accolse la leggenda della sua salvazione, ma ne trasse ispirazione per crearne, per conto suo, un'altra affine, cioè la salvazione del pagano Rifeo, personaggio creato da Virgilio, che lo aveva chiamato `iustissimus unus qui fuit in Teucris et amantissimus aequi'. La salvazione di Stazio ha attinenze con l'interpretazione medievale della IV egloga di Virgilio, e vuol essere un reverente omaggio di Dante al dolce maestro quale inconsapevole profeta di Cristo... Virgilio stesso appare senza dubbio anch'egli in parte trasfigurato dalla tradizione medievale: è mosso da Beatrice per la sua parola ornata e perché egli sa quel ch'è mestieri al campare di Dante: cioè, per la sua eloquenza e la sua saggezza, doti che dimostrerà pienamente in tutto il viaggio. E, come tale, incarna, come si è detto, il simbolo della ragione umana, la quale, presa per guida, conduce l'uomo, mediante gl'insegnamenti filosofici, alla perfezione nell'ordine morale, e quindi alla beatitudine terrestre". Questa contaminazione di pagano e cristiano, di classico e medievale, è continua nella Commedia, né sempre con felici risultati: Virgilio talvolta discetta come un teologo cristiano; il messo celeste, in Inf. XI, rampogna i diavoli, adducendo l'autorità di un mito pagano; Cristo è invocato "sommo Giove che fosti in terra per noi crocifisso", e così via. Per questo riguardo l'A. resta ancora nello spirito e nei modi del Medioevo, che fu, rispetto al mondo pagano, tanto disinvolto e prepotente deformatore di esso, quanto privo di senso critico nell'accoglierne la tradizione. E gli umanisti non avranno tutti i torti ad arricciare il naso. Ma questo aspetto medievale dell'atteggiamento dell'A. verso la classicità è di gran lunga soverchiato dalla sua profonda aderenza agli ideali umani del mondo classico, rispondente alle fortissime esigenze laiche del suo spirito, e dalla reverente, costante ammirazione di quel mondo, non solo come esemplare nelle virtù civili, ma anche come fonte di dottrina e di poesia. E pertanto la medievale concezione della salvazione di Stazio dà luogo a una nuova esaltazione della poesia virgiliana, nutrice di mille poeti, tra cui è l'A. stesso, e perfino al riconoscimento, potremmo dire, critico della stretta dipendenza di Stazio da Virgilio. E così Virgilio, se nella struttura del racconto ha la funzione medievale di guida di un viaggio concepito secondo il gusto del tempo, più intimamente incarna un ideale perenne di saggezza e di perfezione umana, vagheggiato dall'A. sulle pagine del mantovano stesso e degli altri antichi autori. Così, Catone uticense, non meno che come medievale custode e simbolo del regno in cui si compie la liberazione dello spirito mediante il sacrifizio materiale del corpo fittizio, vive poeticamente nell'ammirazione del poeta verso l'eroe cui fu si cara la libertà - la civile libertà, per cui l'uomo è cittadino e non servo -, da preferire di morir con essa, anziché vivere senza. Anch'egli incarna un alto e perenne ideale umano che il poeta cristiano vedeva risplendere nel mondo antico; e, contro la normale dottrina della Chiesa, ne santificò il suicidio. E occorre appena, dopo ciò che ne abbiamo detto ad altro proposito, riparlare del luminoso castello nel Limbo: se qualcosa di medievale può avvertirsi nel simbolismo - frequente nella letteratura didattico-romanzesca francese e italiana delle origini - di analoghi recinti, creati come dimora di qualche personaggio allegorico, esso è compensato e superato non tanto dall'ardimento della concezione teologicamente eterodossa, quanto dall'atteggiamento di ammirazione e venerazione di tutta l'anima dell'A., senza alcuna riserva, verso quei grandi che nobilitarono, col sapere o con l'azione, l'umanità. Quei grandi appartengono quasi tutti al mondo classico: ancora una volta, in quel mondo l'A. trovava i maggiori rappresentanti dell'ideale nobiltà umana; e la rassegna di quei grandi può ben dirsi un vasto e solenne affresco umanistico, anche se soltanto abbozzato, e talora con mano un po' pesante. L'affresco attenderà i colori di Raffaello, in una stanza del Vaticano, per tramandare più compiutamente e splendidamente l'immagine della città ideale della sapienza antica; ma spetta alla fantasia e al sentimento dell'A. averla vagheggiata due secoli prima, per affermare e celebrare, superando le angustie dello spirito medievale, i valori imperituri della scienza, dell'arte, della virtù, al di sopra di ogni professione di fede. E ancora nel mondo classico, sebbene non direttamente dai poemi omerici, che non conobbe, egli trovò il personaggio che sentì più simile a sé stesso, e in cui come in nessun altro proiettò il lato eroico fondamentale della sua stessa coscienza, facendone il più alto rappresentante dell'anelito umano alla nobiltà nell'azione e alla conquista della verità. Non occorre ripetere che il suo viaggio oltremondano muove dalle stesse esigenze e dallo stesso ardore di Ulisse. Diciamo piuttosto che la concezione dell'eroe che, ormai vecchio e tardo e logorato da una lunga esperienza di lotte e di dolori, rinunzia alle gioie tranquille del focolare domestico, per "seguir virtute e conoscenza" fino alla morte, supera non solo lo spirito del Medioevo, ma si accampa tra le espressioni più significative dello spirito moderno. E sotto un certo aspetto l'A. supera anche le pregiudiziali dell'uomo del Rinascimento. Giacché l'uomo del Rinascimento accolse mirabilmente dal mondo classico sia la lezione di bellezza formale, sia la celebrazione della vita terrena per sé stessa, sia l'esaltazione del valore dell'individuo come artefice del suo destino, traendone modelli d'arte e di vita; ma non accolse ugualmente (s'intende che queste linee non possono tener conto se non dei caratteri generali) la lezione di larga, profonda umanità, di serietà civile e morale, di sostanziale religiosità del senso della vita. È innegabile che generalmente, nel Quattro e Cinquecento, il culto della bella forma, risolto nel canone dell'imitazione classica, sostituì l'approfondimento della vita interiore, soppresse i contatti con la realtà viva, determinando una frattura, destinata purtroppo a perpetuarsi, tra la letteratura e la vita della nazione, e diede luogo fondamentalmente a un edonismo estetico, che, propagandosi dalla sfera artistica alla vita pratica, si tradusse in materiale epicureismo. E, d'altro lato, l'indifferenza religiosa e l'assenza di freno morale trasformarono l'esaltazione della natura e volontà umana in esaltazione dell'individuo, praticamente in calcolo ed egoismo, con sostanziale ripudio di ogni solidarietà o preoccupazione civile e sociale. Questi i limiti della splendida avventura vissuta dall'anima italiana nei secoli XV e XVI, nel vagheggiamento di un ritorno a un passato grandioso, ma irrepetibile. L'A., nonostante il bagaglio dell'eredità medievale cui si è accennato, non ebbe tali limiti spirituali: accolse dal mondo classico l'una e l'altra lezione; ebbe il culto del bello stile, materiato, però, di profonda sostanza umana e di vivi interessi sociali; imitò Virgilio, Ovidio, Lucano, gareggiando talora apertamente con essi, ma senza fare della loro imitazione un canone esclusivo e una servitù, imprimendo liberamente, anche nell'imitazione, il sigillo della sua personalità artistica, formatasi anche attraverso lo stil novo, i provenzali, e quella grandissima opera di poesia che è la Bibbia; celebrò la vita attiva in tutte le sue operazioni, l'eccellenza della natura umana, l'onnipotenza della volontà, ma sempre mirando al bene come missione individuale e sociale, e alla virtù come mezzo per attuarlo, sempre anteponendo la patria e l'umanità all'individuo, la retta volontà all'istinto, l'onesto all'utile, il dovere al piacere, sempre, insomma, facendo della legge morale, che sola rende l'uomo veramente umano, la regola della vita; e in questo bisogna riconoscere che l'adesione dell'A. alla lezione di umanità degli antichi era ben più profonda di quella dell'uomo del Rinascimento.
Ancora alla tradizione e lezione degli antichi poeti si allaccia la maggiore novità della Commedia, il ritorno, dopo più di dieci secoli, per la prima volta, all'osservazione e rappresentazione diretta e disimpegnata dell'uomo e della società, nelle sue più svariate forme, a scopo d'arte. Non che nel Medioevo l'indagine della personalità e della vita umana fosse ignorata; ma essa o era astratta e generica, come negli scritti a fine religioso e morale, o tra rudimentale e artificiosa, come nei racconti, in prosa o in verso, di qualunque genere, quando non era addirittura sacrificata nella veste dell'allegoria. L'A. dall'osservazione diretta della società e dalla profonda e immediata penetrazione del cuore umano trasse sulla scena della Commedia un'immensa varietà di aspetti della vita reale e di personaggi di ogni ceto ed indole, individuando concretamente gli uni e gli altri nei loro segni caratteristici, e rappresentandoli quali gli apparivano per sé stessi, non facendone tipi o astrazioni, non subordinando l'autonomia della loro vita artistica al fine di edificazione o di polemica morale, religiosa, politica, che il poema pure si propose. Il De Sanctis vedeva le grandi figure dantesche, "sul loro piedistallo rigide ed epiche come statue", attendere "l'artista che le prenda per mano e le getti nel tumulto della vita e le faccia esseri drammatici"; e questo artista trovava in Shakespeare. Certo, data la natura del poema, che è racconto di cose viste e udite durante un rapido viaggio, i precedenti e i particolari delle azioni rappresentate e il processo degli stati d'animo dei personaggi in azione sono appena accennati, quanto basta per creare l'atmosfera; e il dramma si riduce a pochissime scene o anche a una sola, la scena madre. Ma in quelle pochissime, in quell'unica scena, l'A. ha saputo miracolosamente condensare tutto un dramma; e i protagonisti non sono affatto irrigiditi in un atteggiamento statuario, ma sono articolati quanto occorre allo svolgimento del dramma, nella mobilità dei loro sentimenti e nella dialettica dell'azione, dall'inizio all'epilogo. Basti ricordare Paolo e Francesca nella lettura del fatale libro, Ulisse nella sua ultima impresa, Bonifazio a colloquio col Montefeltrano, Ugolino e i figli nella torre della fame. Sono così vivi e in atto, cioè "esseri drammatici ", nella fantasia creatrice del poeta, i suoi personaggi, che la loro personalità di solito continua ad attuarsi sulla scena oltremondana, a complemento di quella terrena: il che arricchisce di motivi umani e di movimento scenico la loro rappresentazione. Qualche volta il personaggio si muove solo su una delle due scene; e non è minore - poeticamente - la sua realtà umana, se si muove solo sulla scena oltremondana, giacché questa ha gli stessi caratteri di verità della scena mondana. Di quel ch'era stato Belacqua nella vita terrena, per esempio, l'A. ci dà appena una notizia indiretta: ci fa sapere che il suo "modo usato" era la pigrizia; ma la rappresentazione che fa di lui nell'altra vita (quel suo stare accoccolato all'ombra dietro uno scoglio reggendosi le ginocchia; il suo interloquire per canzonare la smania di solerzia di Virgilio, la smania di scienza dell'A.) è rappresentazione di un personaggio vivo e di una scena di vita terrena trasferita sul palcoscenico del Purgatorio. Sulla scena obbligata e, in certo modo, immobile dell'oltretomba, un'azione drammatica si sviluppa sempre, e nei modi più vari - almeno, e, certo, più viva, nelle due prime cantiche - dalle reazioni dei personaggi nell'incontro con l'A.: e ciascuno si svela nell'intimità della sua anima, nelle peculiarità del suo carattere, nella concretezza della sua vita vissuta, sicché, nell'identità della situazione esterna, ciascuno attua la sua distinta personalità, col suo carico di passioni e di esperienza personale, come avrebbe fatto, in analoghe circostanze, sulla scena reale della vita terrena. Per rendersi conto dell'abisso che, nella rappresentazione viva della realtà umana, separa il poema dell'A. dalla letteratura medievale, si faccia il confronto non dico con le precedenti analoghe descrizioni dell'oltretomba - scritti rozzi e primitivi, dalla Visio Pauli a quelle di Alberico di Montecassino iunior, di Tundalo, dell'abate Gioacchino, dalla Navigatio sancti Brandani al Purgatorio di S. Patrizio, dai due poemetti di Giacomino da Verona al Libro delle tre scritture di Bonvesin da Riva, per citare solo i più noti -, ma con la stessa più o meno colta e raffinata letteratura sia didattico-allegorica, sia epico-romanzesca, dal Roman de la rose alla Chanson de Roland, dall'Intelligenza al romanzo di Tristano o di Lancillotto, e così via. Nessuna opera medievale si può neppur lontanamente paragonare, per la ricchezza, varietà, immediatezza della rappresentazione artistica della realtà umana, con la Commedia: sotto questo aspetto, l'appellativo di "commedia umana", prima che al Decamerone, cui è stato dato, spetta già di diritto al poema di Dante. La piena e assoluta libertà con cui si muove il personaggio umano (primo tra tutti, l'A. stesso) ed è atteggiata la vita reale nella Commedia non consente che si possa parlare, nel modo come si è fatto, di poema allegorico: l'allegoria, infatti, necessariamente limita e condiziona ai concetti che si vogliono adombrare la libertà della concezione e rappresentazione artistica. Anzitutto, non è affatto allegorico il viaggio oltremondano: è soltanto un "viaggio fantastico", che l'A. immagina di aver realmente compiuto in carne ed ossa e in pieni sentimenti, attraverso luoghi tradizionalmente e comunemente favoleggiati e da lui creduti - come sembra - fisicamente esistenti, comunque, poi, la sua fantasia e la sua scienza abbiano insieme collaborato a configurarli: un viaggio come tanti altri suggeriti alla fantasia di altri romanzieri per terre più o meno sconosciute o del tutto immaginarie. E non èaffatto un personaggio allegorico, né è in alcun modo condizionato a un determinato concetto allegorico il viandante che compie quel viaggio: egli è sempre e soltanto il fiorentino Dante Alighieri, poeta ed erudito, uomo pubblico cacciato in esilio, col suo carico effettivo e assolutamente personale di esperienza di vita e di pensiero, di dolori, passioni, speranze, ideologie, difetti e virtù. E non sono affatto allegorici gli amici e nemici, le persone, in genere, ch'egli incontra nel suo viaggio, né i fatti e le persone di cui discorrono lui e i suoi interlocutori. Insomma, né la concezione fondamentale del racconto, né la massima parte della materia del poema sono allegoria. Che, poi, in quel viaggio e in quei luoghi così oggettivamente visti e descritti, in quel viandante così storicamente individuato possa scoprirsi un significato generale, e di tutto ciò possa darsi (e l'A. stesso certamente pensava e voleva che si desse) anche un'interpretazione astratta, diciamo pure un'interpretazione allegorica, è cosa su cui non può cadere discussione. Ad ogni fatto e figura - non solo creati dalla fantasia, ma anche reali, come, per fare un esempio ben noto, il fatto storico dell'uscita degli Ebrei dall'Egitto - si può dare un 'interpretazione allegorica: procedimento non ignoto al mondo pagano, ma caratteristico e consueto del Medioevo cristiano, imposto dalla necessità di comporre le discordanze e giustificare tanti episodi sconcertanti delle Sacre Scritture, ed esteso alla moralizzazione dei classici. Così, il viandante e il suo viaggio oltremondano possono raffigurare l'uomo, che, caduto nel peccato, ne contempla la bruttura, e, con l'aiuto della ragione e della Fede, si ravvede, si redime, fino a farsi man mano degno del Cielo. È questo il significato generale che si può dedurre facilmente dalla lettera del poema (un concetto molto elementare, che non richiede nessuno sforzo di ermeneutica), "il sugo di tutta la storia" potremmo dire col Manzoni, il quale, deducendo dalle vicende dei suoi promessi sposi appunto un'interpretazione generale, un concetto sui rapporti tra la divina provvidenza e le vicende umane, diede, del suo romanzo, un'interpretazione che ben può dirsi allegorica. Ma altro è interpretazione allegorica, altro concezione allegorica: la prima è come un'etichetta che si attacca a posteriori dall'esterno all'opera compiuta in sé e vivente di vita propria; e può essere diversa a seconda dei diversi interpreti; la seconda è intrinseca all'opera stessa, la determina e configura a priori, in modo che adombri un concetto stabilito, e la spiega e giustifica, poi, nella sua essenza fondamentale e nei particolari, e non è suscettibile di diversità d'interpretazioni, se non in quanto sia riuscita difettosa o oscura la rispondenza tra i concetti adombrati e la realizzazione concreta. L'A. concepì il suo viaggio come Virgilio la discesa di Enea all'Averno, come il Manzoni le peregrinazioni dei suoi promessi, cioè come una realtà fantastica vivente in sé e per sé stessa, non già come un'astrazione che la fantasia dovesse ingegnarsi a rivestire di forme concrete; che è, invece, il procedimento proprio delle opere concepite allegoricamente, quali il Roman de la rose e l'Intelligenza citati più su. E qui crediamo opportuno aggiungere che la mente dell'A, non dimostra una disposizione particolarmente felice per l'allegoria. Le parti della Commedia concepite allegoricamente, anche se la loro importanza concettuale è grande, sono tra le più pesanti del poema, le più povere di poesia, artisticamente inferiori, per esempio, generalmente, a tante parti delle due opere allegoriche ora ricordate. Si vedano i due primi pesanti canti iniziali dell'Inferno, in cui è l'impostazione allegorica delle ragioni del viaggio oltremondano; e si noti che, se il secondo canto, in parte, si salva poeticamente, ciò avviene perché, a un certo punto, al calcolo della concezione allegorica subentra il calore immediato dell'ispirazione sentimentale, che trasforma la rigida Beatrice allegorica - quella che se ne sta tranquillamente seduta con l'antica Rachele senza accorgersi del pericolo mortale del suo amato, perché non deve muoversi se non dietro le sollecitazioni di Lucia - nella giovane donna della Vita nova, luminosa di bellezza e gioventù, ora tutta trepidante d'amore e di paura fino alle lagrime, la qual cosa spezza l'allegoria, e non sembra conveniente alla condizione di Beatrice e al simbolo che incarna. E si vedano anche i faticosissimi e oscuri ultimi canti del Purgatorio (processione mistica e trasformazioni del carro della Chiesa), in cui l'A. ambì sintetizzare la storia dell'umanità e quella della Chiesa, dalla creazione di Adamo ai suoi giorni, per trarne motivo di affermare la sua fede in una prossima rigenerazione del mondo. E anche qui si noti come, a un certo punto, specialmente nel canto XXX, una parentesi di poesia, che scaturisce dalla stessa ispirazione sentimentale che abbiamo visto riscattare in parte il canto XI dell'Inferno, spezzi parimenti - e qui con più grave disorientamento concettuale - la concezione allegorica. La donna che ricorda i suoi occhi giovanetti, la sua carne, le belle membra in cui era stata rinchiusa, e che ora sono in terra sparte, l'amore di cui, al tempo della sua dimora in terra, era stata oggetto da parte dell'A. - si noti bene - fin dalla puerizia, e poi la sua precoce dipartita, e l'abbandono e il tradimento da parte di lui, proprio quando ella era diventata puro spirito, "spirital bellezza grande", come il poeta aveva già detto nella Vita nova, questa donna si identifica perfettamente con la giovane fiorentina dell'amoroso libello, ma non può identificarsi con la donna allegorica apparsa quasi auriga sul carro della Chiesa, la quale non può ammettere in sé né determinazioni ed evoluzioni temporali, né distinzioni tra parti caduche e parti immortali, tra terra e cielo, ma è solo e sempre l'aspetto eterno e immutabile, reso accessibile agli uomini, della divina sapienza. Tutti gli acrobatismi degli allegoristi di tutti i tempi non hanno potuto eliminare l'incongruenza concettuale. Queste sono le maggiori - e per estensione e per importanza di significato - allegorie della Commedia. Altri particolari allegorici sono qua e là nelle prime due cantiche; nel Paradiso l'allegoria è assente: il rozzo dettaglio allegorico delle nozze di s. Francesco con la Povertà non appartiene alla struttura del poema, né è invenzione dantesca, ma è tolto dalla letteratura francescana. Certo all'allegorismo lo portavano le sue teorie poetiche, ch'erano quelle del tempo: anch'egli riteneva la poesia una fictio rhetorica, una bella forma in cui si esprimesse una particella della sapienza; e alla sapienza, come scopo, teoricamente mirava poetando. Ma contro le teorie e il gusto tradizionali c'erano il suo istinto di grande poeta e il suo lungo studio e grande amore dei poeti classici. Al procedimento allegorico ricorse, quando lo credette opportuno, ma in misura assai limitata e in maniera più o meno maldestra. Altre erano le qualità del suo temperamento artistico: esso era alimentato da passioni impetuose e da un pensiero vivo e fremente, che mal si adattavano ad esser compressi dal calcolo freddo e paziente che quel procedimento richiede, inserendosi tra l'urgenza del sentimento e la sua espressione. Discorso non molto diverso deve farsi riguardo ai simboli nella Commedia. Tra allegoria e simbolo la parentela è strettissima, e le interferenze normali. Simboli entrano di solito nelle concezioni allegoriche, ed elementi allegorici nei simboli; sicché assai spesso è difficile e discutibile distinguere in una figurazione la sfera dell'allegoria da quella del simbolo. Tuttavia esiste tra loro una differenza genetica fondamentale: l'allegoria è un'astrazione tradotta in forme concrete ad essa fedelmente rispondenti; il simbolo è una forma concreta autonoma, vivente di vita propria, da cui scaturisce un significato astratto. Generalmente, poi, l'allegoria si sviluppa in un'azione o composizione più o meno ampia, e il simbolo, invece, è espresso da un'azione breve o anche solo da figure. La mente e l'anima dell'A. erano per natura più atte a ravvisare in figure e azioni concrete, trasfigurandole per impeto ideale, valori universali, che non a rivestire cerebralmente di forme concrete le astrazioni. Basterebbe a dimostrarlo la scelta delle sue due guide, suggeritagli non da uno sforzo cerebrale, ma da un impeto sentimentale: due personaggi della vita reale, ciascuno con la sua personalità storica, scelti per amore e gratitudine, perché erano stati, nella formazione della sua vita spirituale, i suoi maggiori, i suoi ideali maestri, l'uno di poesia e di sapienza, l'altro di elevazione religiosa: Virgilio e Beatrice. Prima che nella Commedia, egli li aveva già trasfigurati ed elevati nella sua anima a simboli di quella perfezione di vita morale e religiosa cui anelava. Di simboli è pieno il poema, specialmente nelle due prime cantiche, dalle "tre donne benedette" a Medusa, a Gerione, dagli stessi custodi demoniaci o angelici dell'Inferno o del Purgatorio a Catone, a Matelda (chiunque sia la donna così chiamata dall'A.), dalla Croce del cielo di Marte all'Aquila del cielo di Giove. Spesso i simboli servono o s'intrecciano a concezioni o elementi allegorici: così le "tre donne benedette" e Medusa servono a concezioni allegoriche; funzioni allegoriche hanno Matelda e gli stessi Virgilio e Beatrice; la luce che si riflette dalle quattro stelle sul viso di Catone è un elemento allegorico. Ma, sebbene alcuni di questi simboli vivano in tutto o in parte di un'intensa vita poetica, non crediamo che le qualità artistiche maggiori e migliori e più proprie della mente dell'A. risiedano nella facoltà di scoprire continui rapporti simbolici e analogici tra il reale e l'idea, come par che credano critici moderni quali Th. S. Eliot e M. Apollonio. Oseremmo dire più vive, più interiori, più profonde le disposizioni simbolistiche nella forma mentis complicata dei moderni che non in quella dell'Alighieri. Simbolismo e allegorismo, in tutta l'opera dell'A., sono soprattutto il tributo, generalmente piuttosto pesante, che il dotto e il poeta pagarono alla tradizione culturale di tutto il Medioevo cristiano; e costituiscono certo uno degli elementi che più fortemente legano la Commedia al Medioevo, alla stessa stregua della materia scientifica, filosofica, teologica che vi è accolta enciclopedisticamente, secondo l'uso del tempo. Ma, come si è detto più su, quelle passioni impetuose, quel pensiero vivo e fremente, sempre perfettamente definiti e senza ondeggiamenti, non negli ambigui velami della tradizione allegorico-simbolistica medievale, bensì nella luminosa chiarezza dell'arte dei classici, del suo Virgilio anzitutto, trovarono la loro più adeguata forma di espressione. L'arte dell'A. non ammette altre suggestioni ed allusioni emblematiche se non quelle che sono intrinseche alla forma e al contenuto di ogni discorso, specialmente poetico: la sua caratteristica propria è, invece, la mirabile concretezza d'intuizione e rappresentazione delle cose, pari - e talvolta anche maggiore per potenza di rilievo -a quella di Omero e di Virgilio. Non di "metodo allegorico" (l'espressione è dell'Eliot) bisognerà parlare a proposito dell'arte dell'A., se non si vuol fraintendere la vera, la grande poesia dantesca: fraintendimento molto affine a quello degli antichi interpreti allegoristi, quali Pietro Alighieri o Cristoforo Landino e gli altri che si sono ingegnati di scoprire in ogni gesto, in ogni espressione del poema il significato astratto che, secondo essi, l'A. vi aveva riposto. Bisognerà, se mai, parlare di "metodo classico", perché dell'arte classica è l'incisiva precisione, la luminosa nitidezza con cui l'A. vide e rappresentò qualunque lato del suo vastissimo mondo, reale o fantastico, passionale o intellettuale, oggetti, figure, azioni, sentimenti, pensieri. Il trascolorare di un'immagine in un'altra, lo sfumare del particolare nell'universale, del concreto nell'astratto non appartengono alla maggiore poesia della Commedia, e sono, del resto, in essa, momenti assai rari. L'A. aveva piena coscienza di aver fatto sua l'arte dei classici, quando parlava di "bello stile" tolto "solo" da Virgilio, e si collocava sesto tra i grandi poeti antichi. Quel suo pensiero sempre limpidissimo, gli atteggiamenti del suo sentimento sempre perfettamente definiti, la sua aderenza viva e immediata a tutta la realtà del mondo esterno, specialmente dell'umano, il suo sovrano equilibrio tra il reale e l'ideale, tra la terra e il cielo, tra l'uomo e Dio, sono le stesse caratteristiche più eminenti del mondo spirituale greco-latino; alle quali, sul piano dell'arte, per l'inscindibile unità di contenuto e forma, non poteva rispondere se non appunto quella forma espressiva, per se stessa eterna e universale, che, per l'esemplarità che essa assunse nell'arte greco-latina, diciamo classica. La precisione e l'equilibrio, nonché una straordinaria potenza di sintesi, improntano sempre lo stile di Dante: sicché, anche se non tutto nella Commedia è poesia, sempre mirabile appare il magistero stilistico.
Linguisticamente, la Commedia, insieme con le Rime del Petrarca e il Decamerone del Boccaccio, fece sì che il volgare fiorentino illustre (giacché questo, e non già il volgare in cui "et muliercule comunicant", come scrive l'autore dell'epistola a Cangrande, è la lingua della Commedia) diventasse di fatto la lingua nazionale italiana, prima ancora che il Bembo nel '500 gliene sancisse il diritto. I vocaboli dialettali, non soltanto fiorentini, e quelli da lui poco felicemente coniati sono pochissimi, una parte infinitesima del gran corpo della lingua della Commedia, vivente nella lingua italiana. Con la Commedia egli risolveva praticamente la questione linguistica affrontata teoricamente, con qualche incertezza, nel Convivio e nel De vulgari eloquentia, dimostrando sia la capacità del volgare italico a trattare di qualunque più eccelso argomento, sia quale esso fosse e come dovesse essere adoperato: una lingua fondamentalmente frutto di dottrina e di studio, ma viva, varia, aderente alla varietà degli argomenti e perciò senza pregiudiziali. Anche sotto questo aspetto, la Commedia riflette e conchiude tutta l'esperienza linguistica dell'Alighieri. E ancora una volta si rivela il mirabile equilibrio e il felicissimo intuito dell'artista, nell'aver adottato come mezzo di espressione quel dialetto che, purgato delle forme plebee condannate nel De vulgari eloquentia, egli avvertì come il più idoneo, per armonia di suoni e di forme, tra tutti i dialetti della penisola, a diventare l'ideale volgare italico dei dotti, degli uomini della curia e della reggia, ai quali specialmente intese rivolgersi con la Commedia.
Per tutto ciò che si è detto, anche se l'A. non fosse stato il poeta sommo che fu, l'importanza dell'opera sua nella storia della civiltà umana, e italiana in particolare, resterebbe grandissima. L'altezza della sua coscienza morale e religiosa, la chiarezza e l'equilibrio della mente, l'universalità degl'interessi spirituali, la vastità del sapere farebbero di lui sempre uno degli uomini più rappresentativi della più alta civiltà di tutti i tempi. Per quel che riguarda l'Italia, fu il primo che sentisse con così profonda coscienza, in tutta la sua pienezza, il valore della tradizione latina, la continuità ideale di Roma, e, quindi, l'unità spirituale di una nuova nazione ("Ahi serva Italia ! ..."). Di questa unità avvertì sostanzialmente, sia pure in termini destinati ad essere superati, i problemi, le esigenze, le speranze; di essa si fece interprete e profeta; ad essa diede il fondamento primo, che è la lingua. La storia della civiltà italiana senza l'A. sarebbe priva di uno dei suoi simboli più luminosi e significativi, di una delle forze più nobilmente operanti nello spirito della nazione. Ma all'Italia e al mondo egli diede, con la Commedia, qualche cosa di più: perché tutto ciò che costituisce la grandezza della sua personalità egli seppe anche, per miracolo di natura, tradurre in potenza d'immaginazione e fantasia creatrice, cioè in espressione poetica. Ciò che, infatti, distingue la personalità poetica dell'A. da quella dei pochi altri sommi, ch'ebbero, mettiamo pure, al pari di lui il dono della creazione artistica, è l'aver dato voce poetica così schietta e potente appunto a una vastità, intensità, profondità di motivi umani, quale non si trova in nessun'altra opera d'arte. Non si esagera dicendo che quasi tutta l'esperienza del cuore e della mente, l'infinita varietà delle indoli umane e dei casi della vita, ciò che la natura presenta e la fantasia si raffigura, siano diventati oggetto di poesia. Per questo la poesia della Commedia appare inesauribile: alla sua ispirazione concorsero veramente "e cielo e terra".
Opere: L'edizione completa delle Opere di importanza fondamentale è rappresentata da quella a cura della Società dantesca ital.: Le Opere di Dante, Firenze 1921; 2 ediz., ibid. 1960. In essa M. Barbi ha curato la Vita Nuova e le Rime, E. G. Parodi e F. Pellegrini il Convivio, P. Rajna il De Vulgari Eloquentia, E. Rostagno il De Monarchia, E. Pistelli le Epistole, le Egloghe, la Questio de Aqua et Terra, G. Vandelli la Commedia. Ottima anche l'ediz. oxoniense di E. Moore, riveduta dal Toynbee nella quarta ristampa, Oxford 1924, Tutte le Opere di Dante Alighieri, assai utile anche per i raffronti con le concordanze approntate dallo stesso Toynbee, che fa riferimento ad essa nelle citazioni (cfr. Bibliografia generale...). Utile repertorio per le edizioni dantesche (a tutto il 1930) è rappresentato da G. Mambelli, Gli annali delle edizioni dantesche, Bologna 1931. Della Nuova edizione migliorata nel testo e largamente commentata, promossa da M. Barbi, sono usciti a tutt'oggi Il Convivio, a cura di G. Busnelli e G. Vandelli, Firenze 1934-37, 2 voll., 2 edizione, ibid. 1954; il De Vulgari Eloquentia, a cura di A. Marigo, Firenze 1938, 3 edizione, ibid. 1957; Rime della "Vita Nuova " e della giovinezza, a cura di M. Barbi e F. Maggini, Firenze 1956. Dell'edizione nazionale delle Opere di Dante è apparso solo il primo volume, La Vita Nuova, a cura di M. Barbi, Firenze 1932. Di edizioni di singole opere non si farà qui menzione se non per quella delle Epistolae, a cura del Toynbee, per il suo carattere conclusivo per il testo, che ne fa uno strumento indispensabile al pari del testo della Società dantesca e dell'edizione oxoniense: Dantis Alagherii Epistolae, edizione critica, con introduzione, versione inglese, commento e indici a cura di P. Toynbee, Oxford 1920. Per altre edizioni di singole opere si rimanda alla Bibliografia critica, alle singole voci.
Fonti e Bibl.: Per agevolarne la consultazione, la Bibliografia è stata compilata in ordine sistematico, secondo lo schema: Bibliografia generale, periodici danteschi, repertori - Biografia - Vita Nuova - Rime - Convivio - De Vulgari Eloquentia - Epistole - Monarchia - Egloghe - Quaestio de Aqua et Terra - Commedia - Fortuna di Dante.
Bibliografia generale , periodici danteschi, repertori: P. Colomb de Batines, Bibliografia dantesca, 2 voll., Prato 1845-1846; Indice generale (della stessa), a cura di A. Bacchi della Lega, Bologna 1883; Giunte e correzioni (alla stessa), a cura di G. Biagi, Firenze 1888; T. W. Koch, Catalogue of the Dante Collection, della Cornell University Library, Ithaca-New York 1898-1900; Additions 1898-1920 (allo stesso), a cura di M. Fowler, Ithaca 1921. Indici del Bullett. d. Soc. dantesca ital.: per gli anni 1889-1893, Bibliografia ragionata, a cura di M. Barbi; per gli anni 1893-1903, Indice decennale, a cura di F. Pintor (pubbl. 1912); per gli anni 1904-1921, Indice, a cura di G. Sgrilli (pubbl. 1951); Indici de L'Alighieri e del Giorn. dantesco, dal 1889 al 1910, a cura di G. Boffito; del Giorn. dantesco, dal 1911 al 1927, a cura di L. Pietrobono (pubbl. 1931); Bibliografia dantesca (1920-1930), a cura di N. D. Evola, suppl. a Giorn. dantesco XXXIII (1930), Firenze 1932; H. Wieruszowski, Bibliografia dantesca, 1931-39, in Giorn. dantesco, XXXIX (1936) e XLI (1938); Indici del Giorn. stor. d. letter. ital., voll. I-C (1883-1932), a cura di C. Dionisotti, Torino 1948, sub voce Alighieri Dante. Importanti orient. bibliografici sono quelli forniti da M. Barbi alla voce Dante dell'Encicl. Ital., XII (1931), pp. 346-347 e Id., Dante, Firenze 1940; S. A. Chimenz, Rassegna critica degli studi danteschi in Italia dal 1940 al 1945, in Orientamenti culturali, II (1946), III (1947); U. Cosmo, Guida a Dante, Torino 1947; C. Cordié, sub voce Dante, Bibliografia spec. d. letter. ital., in Notizie introduttive e sussidi bibl., Milano 1948; F. Maggini, La critica dantesca dal '300 ai nostri giorni, in Questioni e correnti di storia letteraria, Milano 1949; A. Vallone, Gli studi danteschi dal 7940 al 1949, Firenze 1950; Id., La critica dantesca contemporanea, Pisa 1953; D. Mattalia, Dante, in I classici italiani nella storia della critica, I, Firenze 1954; L. Caretti, Guida a Dante, in Studi Urbinati, XXVI, n.s. (1952), pp. 181-195; A. Vallone, La critica dantesca nell'Ottocento, Firenze 1958; S. A. Chimenz, Dante, Milano [1956]. Tra i periodici dedicati a Dante, particolare importanza hanno anche per la bibliografia: L'Alighieri, I-IV (1889-1893), seguito da Il Giorn. dantesco, I-XXX (1894-1927), diretto sino al volume XXIII (1915) da G. L. Passerini; poi, dal volume XXIV (1921) al volume XXX (1927), da L. Pietrobono e G. Vitaletti; L. Pietrobono diresse anche la "nuova serie" dello stesso Giorn. dantesco dal I (1928) al XIII volume (1940): per gli Indici v. quanto è stato detto più in alto. Il Passerini diresse dal 1917 al 1921 Il Nuovo Giorn. dantesco, che non continuò oltre il quinto volume. A cura della Soc. dantesca ital. si pubblicò dal 1890 al 1921 il Bullett. d. Soc. dantesca ital., 1-15 (1890-1893); n.s. I (1893-94) - XXVIII (1921), continuato dagli Studi danteschi, diretti sino al 1942 da M. Barbi, poi da M. Ossella (1949-1956) ed ora da G. Contini. In queste riviste, oltre alle bibliografie generali degli scritti apparsi, contenute negli Indici succitati, si trovano bibliografie periodiche - importante l'Indice dei primi venti volumi degli Studi danteschi, apparso negli stessi Studi, XX (1937), a cura di A. Gigli-G. Vandelli - recensioni, schede, annunzi bibliografici, ecc.: tra le recenti bibliografie parziali vanno ricordate: P. G. Ricci, Bibliografia dantesca del 1950, in Studi danteschi, XXX (1951); Id., Bibliografia dantesca del 1951, ibid., XXXI, 2 (1953); Id.,. Bibliografia dantesca del 1952, 1953, 1954, ibid., XXXIV (1957), XXXV (1958); D. De Robertis, F. Mazzoni, ecc., Bibliografia dantesca ragionata per gli anni 1956-57, ibid., XXXVI (1959). Recentissima (1960) l'apparizione di un periodico, diretto da B. Nardi e A. Vallone, che sotto un titolo antico, L'Alighieri, raccoglie saggi e schede bibliografiche, con prevalenti intendimenti critico-eruditi, sul mondo dantesco. Tra le riviste non specializzate, bibliografie importanti si possono trovare in Giornale stor. d. letter. ital., - di cui si è ricordato l'Indice più in alto -, La Rassegna d. letter. ital., che dedica una sua sezione agli studi su Dante, e Lettere ital., periodico apparso nel 1949 e contenente una speciale rassegna per Dante. Tra le pubblicazioni straniere periodiche specializzate: gli Annual Reports of the Dante Society di Cambridge, Mass., dal 1882, con numerosi Indici periodici, la Jahrbuch der deutschen Dante-Gesellschaft (I-IV, 1867-77), ripreso col titolo Deutsches Dante-Jahrbuch (V-IX, 1920-25, e n.s., 1928 sgg.) ed il Bulletin de la Societé d'études dantesques du Centre universitaire méditerranéen. Tra le monografie dedicate a Dante, di cui sarà fatta menzione sotto Biografia, quella di M. Apollonio, Dante. Storia della "Commedia", 2 voll., Milano 1951, contiene una bibliografia ragionata e abbondante.
Repertori danteschi ancora in qualche modo utili sono quelli del Blanc, Vocabolario dantesco..., Firenze 1859, del Poletto, Dizionario dantesco di quanto si contiene nelle opere di Dante Allighieri..., Siena 1885-87, 7 voll.; dello Scartazzini, Enciclopedia dantesca..., Milano 1896-99, 2 voll.; del Fiammazzo, Vocabolario-concordanza delle opere latine e italiane, Milano 1905; ma soprattutto di P. Toynbee, A Dictionary of Proper Names and Notable Matters in the Works of Dante, Oxford 1898, che ha avuto un'edizione ridotta in Concise Dictionary of Proper Names..., ibid. 1914; di E. A. Fay, Concordance of the Divina Commedia, Boston and London 1888; di E. S. Sheldon-A. O. White, Concordanza delle opere italiane in prosa e del canzoniere di Dante A., Oxford 1905; di E. K. Rand-E. H. Wilkins-A. C. White, Dantis Alagherii Operum latinorum Concordantiae, Oxford 1912; e l'Indice dei nomi e delle cose curato da M. Casella, per l'edizione delle Opere della Società dantesca italiana. Utile anche, sia pur limitatamente alla Divina Commedia, G. Siebzehner-Vivanti, Dizionario della Divina Commedia, Firenze 1954; si può consultare inoltre l'Indice dei nomi e delle cose, che è stato curato da F. Mazzoni, in Appendice all'ediz. di N. Sapegno della Divina Commedia, Milano-Napoli 1957. Di utilità notevole altresì il Rimario perfezionato della Divina Commedia, annesso all'edizione Scartazzini-Vandelli (16 ediz., Milano 1955) della Divina Commedia.
Biografia: Indispensabile per la ricostruzione della vita di Dante e della sua parentela il materiale docum. raccolto da R. Piattoli, Codice diplomatico dantesco, 2 ediz., Firenze 1950, sulla cui scorta vanno ricontrollate tutte le antiche biogr. dell'A., riunite nel vol. di A. Solerti, Le vite di Dante, Petrarca e Boccaccio scritte fino al sec. XVI, Milano [1904]; G. I. Passerini, Le vite di Dante scritte da Giovanni e Filippo Villani, da G. Boccaccio, Leonardo Aretino e G. Manetti, Firenze 1918 (ma per la Vita del Boccaccio v. anche, sotto Fortuna di Dante, l'edizione Guerri del Comento alla Divina Commedia); tra le biografie scritte da moderni si vedano quelle di P. Fraticelli, Storia della vita di Dante A., Firenze 1861; A. Bartoli, Storia della letter. ital., V, Firenze 1884, pp. 307-323 per un esame delle biografie dantesche scritte all'epoca del Bartoli. Da consultare sempre le opere d'insieme del Kraus, Dante, Berlin 1897; N. Zingarelli, Dante, Milano 1899-1903, 2 ediz., La vita, i tempi e le opere di Dante, ibid. 1931; M. Barbi, Dante: vita, opere e fortuna, Firenze 1940; F. Schneider, Dante: sein Leben und sein Werk, Weimar 1947; M. Apollonio, Dante. Storia della "Commedia", Milano 1951, 2 voll.; S. A. Chimenz, Dante, Milano [1956]. Sul piano dell'inquadramento generale del periodo in cui Dante visse è indispensabile rifarsi alle classiche opere di I. Del Lungo, Dante ne' tempi di Dante, Bologna 1888; Dal secolo e dal poema di Dante, Bologna 1898 e, soprattutto, alle sue note all'edizione della Cronica di D. Compagni, in Rer. Italic. Script., 2 ediz., IX, 2, preparata dai 3 voll. di Dino Compagni e la sua Cronica, Firenze 1879-1887; di J. Ch. Huck, Ubertin von Casale, Freiburg i. Br. 1903; del Davidsohn, Firenze ai tempi di Dante (IV volume della Geschichte von Florenz) Firenze 1929, tradotto da E. Dupré Theseider; del Salvemini, Magnati e popolani in Firenze, Firenze 1899; dell'Ottokar, Il Comune di Firenze alla fine del Dugento, Firenze 1926. Studi su singoli aspetti della vita e del pensiero di Dante sono contenuti nei volumi di E. Moore, Studies in Dante, I, II, III, IV series, Oxford 1896-1917; P. Toynbee, Dante Studies and Researches, London 1902; M. Barbi, Problemi di critica dantesca, 1 e 2 serie, Firenze 1934-1941 (comprendenti articoli vari e non soltanto relativi alle questioni biografiche dantesche: nella 1 serie, importanti per la biografia, L'ordinamento della repubblica fiorentina e la vita politica di Dante; La condizione economica di Dante e della sua famiglia; Sulla dimora di Dante a Forlì; nella 2 serie Per un passo dell'epistola all'amico fiorentino e per la parentela di Dante; Nuovi accertamenti sulla parentela di Dante; Un altro figlio di Dante?; Guido Cavalcanti e Dante di fronte al governo popolare; L'ufficio di Dante per i lavori di via S. Procolo); M. Scherillo, Alcuni capitoli della biografia di Dante, Torino 1896; e nel volume miscell. Dante. La vita, Le opere. Le grandi città dantesche, Milano 1921. Particolare importanza hanno assunto le ricerche sugli studi compiuti da Dante e sulla sua formazione, per i quali si rimanda alla bibliografia relativa al Convivio; si vedano inoltre: P. Chistoni, La seconda fase del pensiero dantesco, Livorno 1903 (ma vedi recensione di M. Barbi ristampata in Problemi, cit., 1 s., pp. 87-97); G. Salvadori, Sulla vita giovanile di Dante, Roma 1906 (ma v. le riserve espresse da S. A. Chimenz in Dante, cit., p. 92); E. G. Parodi, Il canto di Brunetto Latini, in Poesia e storia nella Divina Commedia, Napoli 1920; A. Pézard, Dante sous la pluie de feu, Paris 1950. Per le questioni inerenti alle donne dantesche, riassuntivo delle opinioni degli studiosi è il lavoro di D. Mattalia, La "quaestio de mulieribus", in La critica dantesca, Firenze 1950; per Beatrice si rimanda alla bibliografia sotto la voce Vita Nuova. Per la questione del "traviamento" filosofico, oltre che ai vecchi lavori dello Scrocca, Il Peccato di Dante, Roma 1900 (v. però quanto ne dice il Barbi, in Problemi, cit., 1 s., pp. 134-139), e del Menzio, Il traviamento intellettuale di D. A., Livorno 1903, si rimanda alla bibliografia specifica sotto la voce Convivio. Sulla legazione a Bonifacio VIII v. riepilogo degli argomenti "pro" e "contro" la tesi in O. Zenatti, Dante e Firenze, Firenze (s. d. ma 1903), pp. 133-148, nota. Sulla presenza (ed i rapporti) di Dante nelle varie città italiane, oltre all'opera del Bassermann, Dantes Spuren in Italien, Heidelberg 1897 (trad. ital. della 2 ediz. tedesca München u. Leipzig 1898, Orme di Dante in Italia, Bologna 1902, a cura di E. Gorra), importanti sono le opere: Dante e Padova, misc., Padova 1865 (sulla permanenza dell'A, in questa città v. anche Belloni, Nuove osservazioni sulla dimora di Dante in Padova, in Nuovo Arch. veneto, XLI [1921]); Dante e Firenze, dello Zenatti, cit.; Dante e la Lunigiana, misc., Milano 1909; Dante, suoi primi cultori, sua gente in Bologna, di G. Livi, Bologna 1918, e dello stesso Dante e Bologna, Bologna [1921]; i volumi miscellanei Dante e Verona, Verona 1921; Dante e Bologna, Bologna 1922; Dante e il Piemonte, Torino 1922; Dante e Arezzo, Arezzo 1922; Dante e Prato, Prato 1922, tutti apparsi in occasione del VI centenario della morte dell'A.; e inoltre Dante e la Liguria, misc., Milano 1925; Dante e Perugia, di F. Guardabassi, Perugia [1934]. Per la "lettera di frate Ilario", oltre a P. Raina, Testo della lettera di frate Ilario e osservazioni sul suo valore storico, in Dante e la Lunigiana, cit., cfr. G. Billanovich, La leggenda dantesca del Boccaccio. Dalla Lettera di Ilario al Trattatello in laude di Dante, in Prime ricerche dantesche, Roma 1947, e poi in Studi danteschi, XXVIII (1949), pp. 45-144. Sugli anni ravennati, C. Ricci, L'ultimo rifugio di D., Milano 1921; G. Biscaro, Dante a Ravenna, in Bullett. d. Ist. stor. ital., XLI (1921), pp. 1-142; per Dante maestro a Ravenna, oltre alle opere citate dello Zenatti e del Ricci, F. Filippini, L'insegnamento di Dante in Ravenna, in Studi danteschi a cura d. R. Deput. di storia patria per le prov. di Romagna, Bologna 1921, pp. 89-119, e dello stesso Dante scolaro e maestro, Genève 1929.
Vita Nuova: I problemi del testo sono discussi nello studio di M. Barbi premesso alle edizioni dell'opera, Firenze 1907 e 1932; da ricordare anche le edizioni con commento di A. d'Ancona, Pisa 1872; di G. Melodia, Milano 1905 (e rec. di E. G. Parodi in Bullett. d. Soc. dantesca ital., XIV [1907], pp. 17-25); di D. Guerri, Firenze 1921; di G. Manacorda, Firenze 1928; di N. Sapegno, Firenze 1932; di T. Casini - L. Pietrobono, Firenze 1932; di D. Mattalia, Torino 1936. Sulla datazione dell'opera - tra il 1292 ed il 1300 - da vedere: P. Raina, Per la data della Vita Nuova, in Giorn. stor. d. letter. ital., VI (1885), pp. 113-156; G. Federzoni, Studi e diporti danteschi, Bologna 1902; G. A. Cesareo, nell'Introduzione all'edizione dell'opera, Messina 1914. L'interpretazione di Beatrice-donna reale, donna angelicata, donna-simbolo - per cui v. E. Moore, Studies in Dante, II series, cit. - ha dato luogo ad una vastissima letteratura, della quale sono da ricordare come opere principali dei vari indirizzi: P. Mandonnet, Dante le théologien, Paris 1935 (Beatrice = Teologia), al quale rispose polemicamente, dimostrando l'assurdità della tesi, E. Gilson, Dante et la philosophie, Paris 1939, 2 ediz. 1953 (su cui vedi B. Nardi, Dante e la filosofia, nel vol. Nel mondo di Dante, Roma 1944); B. Nardi, Dante e la cultura medievale, Bari 1949, capitolo Filosofia dell'amore nei rimatori italiani. Per i rapporti tra Dante e la poesia del "dolce stil nuovo": L. F. Mott, The System of Courtly Love, studied as an Introduction to the Vita Nuova, Boston 1896; G. A. Cesareo, Amor mi spira..., in Miscellanea di studi critici in onore di A. Graf, Bergamo 1903; K. Vossler, Die philosophischen Grundlagen zum "süssen neuen Stil", Heidelberg 1904; R. De Gourmont, Dante, Béatrice et la poésie amoureuse: essai sur l'idéal féminin en Italie à la fin du XIIIe siècle, Paris 1908; per la cultura - e per la "donna gentile" - nella Vita Nuova si rimanda alla bibliografia del Convivio; qui si ricorderà tuttavia il lavoro di A. Marigo, Mistica e scenza nella Vita Nuova di Dante, Padova 1914 (rec. di E. G. Parodi in Bullett. d. Soc. dantesca ital., XXVI [1919], pp. 1-34). Per i problemi di stile e di lingua cfr. A. Schiaffini, Lo stil nuovo e la "Vita Nuova", in Tradizione e poesia nella prosa d'arte italiana dalla latinità medievale al Boccaccio, Roma 1943; Id., Lingua e tecnica nella poesia d'amore dai Provenzali al Petrarca, in Cultura neolatina, III (1943), pp. 149-156.
Rime: Oltre alle ediz. in Opere, a cura d. Soc. dantesca ital., cit., curata come si è detto da M. Barbi, e in Nuova ediz. migliorata, cit., a cura di M. Barbi e F. Maggini, sono da ricordare le edizioni di G. Contini, Torino 1939 e di D. Mattalia, ibid. 1943. Fondamentale di M. Barbi, Studi sul Canzoniere di Dante, Firenze 1915, per tutti i problemi relativi al testo; per interpretazioni e discussioni su singoli componimenti (o gruppi di componimenti) indispensabili i saggi del Barbi ora raccolti in Problemi, cit., s. 2: La tenzone di Dante con Forese; Ancora della tenzone di Dante con Forese; La questione di Lisetta; Per chi e quando sia composta la canzone "E' m'incresce di me"; Per l'interpretazione della canzone "Tre donne"; A proposito delle cinque canzoni del Vat. 3793 attribuite a Dante; e le osservazioni sulle rime "pietrose" contenute nell'articolo Un altro figlio di Dante?, titoli tutti che indicano i punti d'indagine sui quali si è affissa maggiormente la critica a proposito del Canzoniere dantesco: sui quali punti sarà da tener presente quanto è detto al proposito da D. Mattalia, La critica dantesca, Firenze 1950. Menzione distinta meritano per la canzone "Tre donne intorno al cor" le osservazioni del Carducci, in Opere, X dell'edizione naz.; del Torraca, La canzone delle tre donne, in Nuovi studi danteschi, Napoli 1921; del Cosmo, in La Cultura, X (1931) e XII (1933); del Casella, Interpretazioni. Tre donne…, In Studi danteschi, XXX (1951), pp. 5-22; del Foster, Dante's canzone "Tre donne", in Italian Studies, IX (1954), pp. 56-68. Per l'interpretazione delle "pietrose" cfr. A. Abruzzese, Su le rime pietrose, in Giorn. dantesco, XI (1903), pp. 97-135; L. Valli, in Il linguaggio segreto di Dante e dei "Fedeli d'Amore", Roma 1928, pp. 340-355 (interpretazione, come tutte quelle del Valli, inficiata da abnormi "scoperte allegoriche ", per cui nelle "pietrose" non si dovrebbe vedere una poesia d'amore, ma di odio contro la dilagante corruzione della Chiesa e degli ecclesiastici); dell'Angelitti (relativamente alla data di composizione delle rime "pietrose"), Sulle principali apparenze del pianeta Venere... dal 1290 al 1309 e sugli accenni ad esse nelle Opere di Dante, in Atti d. R. Accademia di Palermo, s. 3, VI (1900-1901). Al di fuori di un'attenzione a singoli problemi o a singole composizioni, mirando a fornire una presentazione complessiva del Canzoniere dantesco e dei suoi valori, sono da ricordare, finalmente, G. Zonta, La lirica di Dante, in Giorn. stor. d. letter. ital., suppl. XIX-XXI (1921-1922), pp. 45-204; N. Sapegno, Le rime di Dante, in La Cultura, IX (1930); F. Maggini, Dalle "Rime" alla lirica del "Paradiso" dantesco, Firenze 1938; P. Caligaris, Astrazioni morali nelle Rime di Dante, in Lettere italiane, II (1950), pp. 164-167.
Convivio: Sui problemi, complessi e parzialmente insoluti, offerti dal testo del Convivio, cfr. E. Moore, Textual criticism of the Convivio, in Studies in Dante, IV series, cit.; l'Introduzione all'ediz. cit. del Busnelli e Vandelli; M. Casella, Per il testo critico del Convivio e della Commedia, in Studi di filologia ital., VII (1944), pp. 29-64; V. Pernicone, Per il testo critico del Convivio, in Studi danteschi, XXVIII (1949), pp. 145-182; M. S. Simonelli, Contributi al testo critico del Convivio, ibid., XXX (1951), pp. 23-127; XXXI (1953), pp. 59-161. La questione di uno "sbandamento filosofico" di Dante, avvertibile nel Convivio e contrastante con l'amore alla teologia - contrasto tra la "donna gentile" e Beatrice - nonché i rapporti tra Vita Nuova e Convivio hanno occupato la critica dantesca relativa a quest'opera. L. Pietrobono, Il Poema Sacro, I, Bologna 1915, ha sostenuto il carattere nettamente razionalistico del Convivio ed ha supposto una duplice redazione della Vita Nuova, che, dopo il 1312, sarebbe stata riveduta, essendo stata concepita, primieramente, in onore della donna gentile (eliminato così il contrasto tra la prima Vita Nuova ed il Convivio). D'accordo con il Pietrobono per quanto concerne la duplice redazione della Vita Nuova, il Nardi, Nel mondo di Dante, cit., pp. 3-20, 23-40, ritiene che l'attenzione agli studi filosofici si fosse manifestata già prima del Convivio, in cui l'A. si sarebbe prevalentemente occupato di problemi etici. La tesi del Nardi viene ad essere in tal modo anche un superamento di quella del Barbi, Razionalismo e misticismo in Dante, in Problemi di critica dantesca, s. 2, cit., pp. 1-86 (ma apparsa precedentemente in Studi danteschi, XVII [1933], cui reagì il Pietrobono, Il rifacimento della Vita Nuova e le due fasi del pensiero dantesco, in Giorn. dantesco, XXXV [1932], pp. 3-82), che nega che si possa parlare di razionalismo per il Convivio, in cui - ed in ciò è seguito dal Gilson, Dante et la philosophie, 1 ediz., cit., pp. 151-154 - riscontra armonia tra fede e ragione. Osservazioni al Nardi han mosso il Chimenz in Orientamenti culturali, II, (1946) ed il Pézard, Avatars de la "Donna gentile", in Bulletin de la Soc. d'études dantesques du Centre universitaire méditerranéen, I (1949), pp. 7 ss. Per i caratteri generali del Convivio e del pensiero filosofico dantesco, oltre alla vecchia, ma non del tutto inutile opera di F. Ozanam, Dante et la philosophie catholique au XIIIe siècle, Paris 1845, oltre alle citate opere del Nardi, del Gilson e, con le riserve espresse proprio dal Gilson, di P. Mandonnet, Dante le théologien, cit., si veda F. Pellegrini, Il Convivio, in Dante. La vita, le opere..., cit.; B. Nardi, Alla illustrazione del Convivio dantesco, in Giorn. stor. d. letter. ital., XCV (1930), pp. 73-114; Id., Dal Convivio alla Commedia, Roma 1960; A. Valensin, Le Christianisme de Dante, Paris 1954. Si veda, inoltre, in questa stessa Bibliografia, sotto la voce Biografia la parte relativa agli studi dell'Alighieri.
De Vulgari Eloquentia: Delle edizioni, oltre quelle curate da Pio Rajna, dal Marigo e da Moore-Toynbee (cfr. Opere), si veda quella del Bertalot, Frankfurt a.M. 1917. Per i problemi del testo, A. Marigo, Il testo critico del De Vulgari Eloquentia, in Giornale storico d. letteratura italiana, LXXXVI (1925), pp. 289-338, e P. Rajna, Approcci per una nuova edizione del "De Vulgari Eloquentia", in Studi danteschi, XIV (1930), pp. 5-78; dello stesso Marigo sono da vedere l'Introduzione alla citata ediz. dell'opera (v. Opere), nonché Il "cursus" nel De Vulgari Eloquentia di Dante, in Atti e Mem. d. R. Accad. di scienze, lettere e arti in Padova, XLVIII (1932), pp. 85-12; F. Di Capua, Appunti sul "cursus"…, e Insegnamenti..., in Scritti Minori, Roma 1959, I, pp. 564 ss., II, pp. 252 ss.; P. Rajna, Per il "cursus" medievale e per Dante, in Studi di filologia ital., III (1932), rimasto incompiuto. Sulla dottrina del linguaggio in Dante, oltre a F. D'Ovidio, Sul trattato De Vulgari Eloquentia, in Versificazione italiana e arte poetica medioevale, Milano 1910, si veda M. Casella, Il volgare illustre di Dante, in Giorn. d. cultura ital., I (1925), pp. 33-40; A. Pagliaro, La dottrina linguistica di Dante, in Quaderni di Roma, I (1947); B. Nardi, Il linguaggio, in Dante e la cultura medievale, cit.; G. Vinay, Ricerche sul "De Vulgari Eloquentia", in Giorn. stor. d. letter. ital., CXXXVI (1959), pp. 236 ss., 367 ss. Per l'inserimento dell'opera dantesca nella lingua, B. Migliorini, La questione della lingua, in Questioni e correnti di storia letteraria, già cit.
Epistole: Fondamentale il testo offerto dal Toynbee (cfr. Opere), unica edizione critica complessiva delle lettere dantesche; un'edizione foto-tipica è stata curata da F. Schneider, D. A. Monarchiae Liber et Epistolae, Romae 1930. Fra le traduzioni italiane delle Epistolae, si ricorda quella di A. Monti, Le lettere di Dante, testo, versione..., Milano 1921. Problemi testuali e metrici sono discussi specialmente da E. G. Parodi, Intorno al testo delle epistole di Dante e al "cursus", in Bullett. d. Soc. dantesca ital., XIX (1912), pp. 249-275; E. Pistelli, Dubbi e proposte sul testo delle Epistole, in Studi danteschi II (1920), pp. 149-155. F. Di Capua, Scritti minori, cit., che raccolgono gli scritti danteschi dell'autore apparsi su varie riviste: cfr., nel I vol., pp. 564 ss.; nel II vol., pp. 373 ss. I problemi relativi alle singole epistole (per comodità di consultazione) si tratteranno nell'ordine dato dal Toynbee alla sua edizione: I, epistola al cardinal Niccolò da Prato; II, ai conti Oberto e Guido da Romena; III, ad un esiliato pistoiese; IV, a Moroello Malaspina; V, ai principi e popoli d'Italia; VI, ai Fiorentini; VII, a Enrico VII; VII bis, all'imperatrice Margherita; VII ter, alla stessa imperatrice Margherita; VII quater alla stessa imperatrice Margherita (le epistole VII bis, ter e quater sono attribuite a Dante, che le avrebbe scritte in nome della Contessa di Battifolle); VIII, ai cardinali italiani; IX, all'amico fiorentino; X, a Cangrande della Scala. Per l'autenticità dell'epistola al cardinal Niccolò da Prato il solo a sollevare dubbi è stato I. Del Lungo, Dino Compagni e la sua Cronica, II, Firenze 1879, pp. 585-596, che ha sostenuto essere il documento originale, ma non redatto da Dante che all'epoca dell'epistola, datata dal Del Lungo posteriormente alla battaglia della Lastra (20 luglio 1304), non poteva essere ancora insieme con gli altri esiliati fiorentini; O. Zenatti, Dante e Firenze, cit., pp. 343 ss., F. Torraca, in Bullett. d. Soc. dantesca ital., X (1903), pp, 125 ss. ed il Toynbee, ediz. cit., pp. 2 ss. hanno sostenuto la piena autenticità della lettera oggi comunemente accettata e datata tra la fine della primavera e i primi dell'estate 1304. Da vedere anche, per il cardinale Niccolò da Prato, V. Biagi, Dante e il cardinal Niccolò da Prato, in Dante e Prato, cit. Per la lettera ai conti di Romena, il cui tono contrasta con la condanna pronunciata da Dante in Inf. XXX, vv. 73 ss. contro Alessandro da Romena, compianto nella lettera, si sono sollevati molti dubbi soprattutto da parte del Torraca, in Bullett. d. Soc. dantesca ital., X (1903), pp. 130-131, dello Zingarelli, Firenze 1906, pp. 296-304, e dello Zenatti, Dante e Firenze, cit., pp. 370 ss. L'amico esule da Pistoia è Cino de' Sighibuldi; l'autenticità della lettera è general. accettata e la sua datazione fissata tra il 1302 ed il 1306 (Barbi, in rec. a Zingarelli, Dante, 1 ediz., in Bullett. d. Soc. dant..., XI [1904], pp. 1-58) e 1305-1306 (Toynbee, ediz. cit., p. 21). L'epistola a Moroello Malaspina rifiutata in un primo tempo a Dante dallo Zingarelli (Dante, 1 ediz., pp. 222 s.), gli fu rivendicata dallo Zenatti, Dante e Firenze, cit., pp. 430-462, e dal Novati, nel vol. misc. Dante e la Lunigiana, cit., pp. 507-542 e quindi accettata come autentica dallo stesso Zingarelli (Dante, 2 ediz., pp. 644 s.). Accetta senz'altro l'autenticità della lettera il Toynbee e ne fissa la data tra il 1308 ed il 1310, contro il Torraca (Bullett. d. Soc. dantesca ital., X, p. 147), che la vorrebbe scritta nel 1311. Nessun dubbio circa l'autenticità solleva la lettera ai principi e popoli d'Italia - scritta tra il settembre e l'ottobre 1310 -, di cui il Vinay ha dato recentemente una traduzione in appendice alla sua edizione della Monarchia, pp. 293-296 (v. sub voce Monarchia). Ugualmente sicure le lettere ai Fiorentini (31 marzo 1311) - v. trad. Vinay, ediz. cit., pp. 296-300 - e ad Arrigo VII (17 aprile 1311) - trad. Vinay, pp. 300-303. Sul gruppo delle lettere cosiddette della contessa di Battifolle - aprile e maggio 1311 -l'analisi condotta dal Moore, Studies in Dante, IV series, cit., pp. 256-275, ed accettata dal ,Toynbee ha dimostrato la paternità dantesca. La lettera ai cardinali italiani, messa dapprima in dubbio, è ora generalmente attribuita a Dante. La datazione cade tra il maggio ed il giugno 1314; sul testo, oltre alle note del Toynbee, cfr. E. Rostagno, Sul testo della lettera di Dante..., in La Bibliofilia, XIV (1912-13), pp. 295-301, ed E. G. Parodi, in Bullett. d. Soc. dantesca ital., XIX (1912), pp. 269 ss. Importanti osservazioni storiche e testuali anche in R. Morghen, La lettera di Dante ai cardinali italiani, in Bullett. d. Ist. stor. ital. per il M. E., LXVIII (1956), pp. 1-31 (ma v. anche G. Vinay, A proposito della lettera di Dante ai cardinali, in Giorn. stor. d. letter. ital., CXXXV [1958], pp. 71-80, e R. Morghen, Ancora sulla lettera..., in Bullett. d. Ist. stor. ital. per il M. E., LXX [1958], pp. 513-519). L'autenticità dell'epistola all'amico fiorentino è stata definitivamente stabilita da A. Della Torre, L'epistola all'amico fiorentino, in Bullett. d. Soc. dantesca ital., XII (1905), pp. 121 ss. Importanti osservazioni in M. Barbi, Per un passo dell'epistola all'amico fiorentino..., in Problemi di critica dantesca, s. 2, cit., pp. 305-328. La datazione è da porre nel maggio 1315. La più discussa lettera di Dante quanto all'autenticità è quella a Cangrande della Scala. Contrari all'autenticità sono F. D'Ovidio, L'epistola a Cangrande e Poscritta al lavoro precedente (replica a F. Torraca, L'epistola a Cangrande, in Rivista d'Italia, II, 3 [1899], pp. 601-636, favorevole all'autenticità), uniti in Studii sulla Divina Commedia, Milano-Palermo 1901, pp. 448 ss.; F. P. Luiso, Per la varia fortuna di Dante nel sec. XIV, in Giorn. dantesco, X (1902), e XI (1903); G. Boffito, L'epistola di Dante A. a Cangrande della Scala: saggio d'edizione critica e di commento, in Mem. d. R. Acc. d. scienze di Torino, s. 2, LVII (1907), pp. 1-39. Fautori dell'autenticità, oltre al cit. Torraca, E. Moore, The genuineness of the dedicatory Epistle to Can Grande, in Studies in Dante, III series, Oxford 1903, seguito dal Toynbee, ediz. cit., p. 163; H. Pflaum, Il "modus tractandi" della Divina Commedia, in Giorn. dantesco, XXXIX (1936), pp. 153-180. Contrari all'autenticità, M. Porena, Il titolo della Divina Commedia, in Rendic. d. R. Acc. dei Lincei, classe di scienze mor., stor., filologiche, s. 6, IX (1933), pp. 114-141 e L. Pietrobono, L'epistola a Can Grande, in Giorn. dantesco, XL (1937), pp. 3-51. Più recentemente A. Mancini, Nuovi dubbi ed ipotesi sulla epistola a Can Grande, in Rendic. d. classe di scienze morali e storiche d. R. Acc. d'Italia, s. 7, IV (1942-43), pp. 227-242 ha opinato che si possano considerare autentici i primi quattro paragrafi dell'epistola, cui sarebbero stati aggiunti, da un espositore, gli altri ventotto. Anche E. Schneider, Der Brief an Can Grande, in Deutsches Dante Jahrbuch, XXXIV-XXXV (1957), pp. 3-24, abbandonando una sua precedente posizione, è oggi propenso a ritenerla apocrifa. A. Mazzoni, L'epistola a Cangrande, in Rend. d. Accad. naz. d. Lincei, classe di sc. mor., stor. e filol., s. 8, X (1955), pp. 157-198, e Per l'epistola a Cangrande, in Studi in onore di A. Monteverdi, Modena 1959, II, pp. 498-516, riallacciandosi nel primo studio a un nuovo indirizzo di ricerche iniziato da E. R. Curtius (Dante und lateinisches Mittelalter, in Romanische Forschungen, LVII [1943], pp. 163-171, e Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, Bern 1948, pp. 226 ss.) e confutando nel secondo gli argomenti dello Schneider, ha, invece, riproposto l'autenticità dello scritto.
Monarchia: Oltre a quelle curate dal Witte, Wien 1874, dal Moore e dal Rostagno (cfr., per le due ultime, Opere), si vedano le edizioni di A. C. Volpe, versione col testo a fronte, introduzione e commento - di carattere piuttosto scolastico - Modena 1946, e di G. Vinay, Firenze 1950, impostata e condotta con impegno scientifico (ma cfr. rec. di P. G. Ricci in Studi danteschi, XXXII, 2 [1954], pp. 223-231). Da consultare sempre l'edizione della Monarchia a cura del Bertalot, Ginevra 1920. Riproduzione fototipica del testo del cod. Vat. Pal. Lat. 1729, in E. Schneider, D. A. Monarchiae Liber et Epistolae, già cit. (cfr. Epistole), che ha curato anche l'ediz. del facs. del cod. Berol. Lat. folio 437, Die Monarchia Dantes, Weimar 1930. Per i problemi del testo si vedano N. Vianello, Il testo critico della "Monarchia" di Dante, in La Rassegna, XXXIX (1931), pp. 89-111, e il recente ampio saggio di P. G. Ricci, L'archetipo della "Monarchia", in Studi danteschi, XXXIV (1957), pp. 127-162. Sul pensiero politico di Dante, oltre ai lavori di A. D'Ancona, Il "De Monarchia", in Scritti danteschi, Firenze [1913], pp. 317 ss., di E. G. Parodi, La Monarchia, in Dante, La vita, Le opere..., cit., e Del concetto dell'Impero in Dante e del suo averroismo, in Bullett. d. Soc. dantesca ital., XXVI (1919), di G. Solari, Il pensiero politico di Dante, in Riv. stor. ital., n.s., I (1923), pp. 373-455 (che contiene una rassegna critica degli studi sull'argomento apparsi sino a quella data), si vedano special. F. Ercole, Il pensiero politico di Dante, Milano 1927-28, 2 voll.; B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, Milano-Napoli 1930; Id., Dal Convivio alla Commedia, Roma 1960; su questioni particolari e su particolari atteggiamenti di Dante di fronte a specifici orientamenti culturali del suo tempo (soprattutto sul problema della cultura giuridica dell'A.): L. Chiappelli, Dante in rapporto alle fonti del diritto e alla letteratura giuridica del suo tempo, in Archivio storico italiano, s. 5, XLI (1908), pp. 3-44 (che ravvisa larghi influssi di letteratura giuridica nell'opera dantesca); in senso negativo, M. Chiaudano, Dante e il diritto romano, in Giornale dantesco, XX (1912), pp. 37-56, 94-119; con replica del Chiappelli, Ancora su D. e il diritto, nella stessa annata del Giorn. dantesco; in linea con il Chiappelli, A. Solmi, Il pensiero politico di Dante, Firenze 1922 (specialmente al capitolo Dante e il diritto), di cui si veda anche Stato e Chiesa nel pensiero di Dante, in Studi su Dante, a cura della R. Deput. toscana di storia patria, Firenze 1922; F. Ruffini, D. e il protervo decretalista innominato, in Scritti giuridici minori, II, Milano 1936, pp. 427 ss. Importanti anche i saggi del Barbi, apparsi in varie annate degli Studi danteschi, ora raccolti in volume, Problemi fondamentali di critica dantesca, Firenze 1956: L'ideale politico-religioso di Dante; L'Italia nell'ideale politico di Dante, Impero e Chiesa. Sulla questione della data di composizione della Monarchia, variamente collocata nel tempo - prima e dopo l'esilio -, prima della calata di Arrigo VII o durante o dopo - oltre alla monografia di E. J. J. Kocken, Ter Dateering van Dante's Monarchia, Nijmegen-Utrecht 1927 - cfr. le pagine che vi dedica il Vinay, nella parte introduttiva della sua citata edizione del trattato: La cronologia del trattato, pp. XXIX-XXXVIII, che contengono un rapido riassunto delle varie ipotesi espresse in merito. A parte va citata la tesi del Nardi (Saggi di filosofia dantesca, cit.), che pone la stesura della Monarchia nel periodo compreso tra l'interruzione del Convivio e l'inizio dell'Inferno. Tra le opere recenti, di carattere generale, utili, soprattutto, per l'inquadramento del pensiero politico di Dante nelle più grandi linee del pensiero politico medievale, sono da consultare i lavori di M. Maccarrone, Vicarius Christi, Roma 1952; Il libro III della Monarchia, in Studi danteschi, XXXIII (1955), pp. 5-142; A. Passerin d'Entrèves, Dante politico ed altri saggi, Torino 1955, e E. H. Kantorowicz, The King's two bodies, Princeton 1957, passim. Non aggiornato bibliograficamente, risultando una rifusione di lavori precedenti, il libro di U. Mariani, Chiesa e Stato nei teologi agostiniani del sec. XIV, Roma 1957 (con rec. piuttosto favorevole in Studi danteschi, XXXV [1958], pp. 303-304). Per la concezione politica dantesca in rapporto all'idea di Roma cfr.: Charles T. Davis, Dante and the idea of Rome, Oxford 1957.
Egloghe: Accanto al testo delle Opere a cura della Soc. dantesca, cit., si vedano le edizioni di P. H. Wicksteed-E. G. Gardner, Westminster 1902 (ma cfr. rec. del Parodi, in Giorn. dantesco, X [1902], pp. 51 ss., e di A. Belloni, in Giorn. stor. d. letter. ital., XLII [1903], pp. 181-189), di G. Albini, Firenze 1903, di G. Lidonnici, Dante e Giovanni del Virgilio, in Giorn. dantesco, XXIX (1926), pp. 141 ss. con le postille boccaccesche del cod. Laurenziano XXIX 8 (e v., dello stesso Lidonnici, La corrispondenza poetica di Giovanni del Virgilio con Dante e il Mussato, e le postille di Giovanni Boccaccio, in Giorn. dantesco, XXI [1913], pp. 205 ss., e Di alcuni giudizi intorno a Dante, il Mussato..., ibid., XXVII [1924], pp. 79-90). Per la poesia bucolica nel sec. di Dante: F. Macrì-Leone, La bucolica latina nella letteratura italiana del sec. XIV. Parte I: Le Egloghe di Dante, Torino 1889; A. Marigo, Il classicismo virgiliano nelle egloghe di Dante, in Atti e mem. d. R. Acc. di Padova, XXV (1909), pp. 29-44. Per altre questioni particolari relative a personaggi allegoricamente indicati nelle Egloghe e all'interpretazione di certi elementi autobiografici (decem vascula, laurea, ecc.) si rimanda alla Bibliografia fornita da S. A. Chimenz in Dante, cit., pp. 103-104.
Quaestio: L'edizione del testo oltre che nelle Opere, a cura della Soc. dantesca, in: La Quaestio de Aqua et Terra, testo traduzione e commento a cura di F. Angelitti, Palermo 1932 (Pubblicazioni del R. Osservatorio astronomico, n. XXXV); l'autenticità dell'opera, discussa dal Moore, The genuineness of the Quaestio... in Studies in Dante, II series, cit., con conclusioni piuttosto perplesse dopo che era stata respinta da A. Luzio e R. Renier, Il probabile falsificatore della Quaestio..., in Giorn. stor. d. letter. ital., XX (1892), pp. 125-150, è stata negata da G. Boffito, Intorno alla Quaestio... attribuita a Dante: memoria I: la controversia dell'acqua e della terra prima e dopo di Dante; memoria II: il trattato dantesco, in Mem. d. R. Acc. d. scienze di Torino, s. 2, LI-LII (1902-1903) cfr. rec. di V. Biagi in Bullett. d. Soc. dantesca ital., X [1902-03], e, dello stesso Biagi, La Quaestio de Aqua et Terra, bibliogr., dissert. critica sull'autenticità, testo e commento, lessicografia, facsimili, Modena 1907, favorevole all'autenticità). Sostestenitore recente dell'autenticità del trattato è stato F. Mazzoni, La Questio de Aqua et Terra, in Studi danteschi, XXXIV (1957), pp. 163-204, ma successivamente ne ha respinto le argomentazioni, negando nuovamente la paternità dantesca della Quaestio, B. Nardi, La caduta di Lucifero e l'autenticità della Quaestio de Aqua et Terra, Torino 1959.
Divina Commedia: Problema che non pare avviato a soluzione è quello del testo critico della Commedia. Gli studi del Moore, Contributions to the textual criticism of the Divina Commedia, including the complete collation throughout the Inferno of all the Mss. at Oxford and Cambridge, Cambridge 1889, che, se non a fornire un'edizione critica del poema - sulla quale lo studioso inglese si mostrò scettico -, contribuirono certamente, e in maniera essenziale, a chiarire molti dei termini del problema del testo, e quelli del Barbi, Per il testo della Divina Commedia, Roma 1891, convinto della possibilità di giungere a una soluzione e sostenitore del "canone" dei quattrocento passi della Divina Commedia scelti per permettere un relativamente rapido spoglio dei testi dei vari codici con eliminazione dei "descripti" mediante un'opera di collazione fatta appunto sulla base dei passi del "canone" (cfr. Bullett. d. Soc. dantesca ital., 5-6 [1891], pp. 25-38), hanno costituito i due pilastri intorno ai quali si è mossa, sino a tempi recenti, la critica testuale del poema. Collateralmente - o, anche se indipendentemente, non in modo da non poter rientrarvi - agli schemi della Soc. dantesca e del Barbi erano stati condotti i lavori del Marchesini, I Danti "del Cento" e Ancora dei Danti "del Cento", in Bullett. d. Soc. dantesca italiana, 2-3 e 4 (1890), del Fiammazzo, I codici friulani della Divina Commedia, Cividale 1887; del Mussafia, Sul testo della Divina Commedia: i codici di Vienna e di Stoccarda, Vienna 1865. Sulla scia dei criteri enunziati dal Barbi possono essere considerati condotti i lavori di L. Auvray, Les mss. de Dante des bibliothèques de France, Essai d'un catalogue raisonné, Paris 1892; C. Frati, I codici danteschi della Bibl. Univers. di Bologna, Firenze 1923; E. Rostagno, Catalogo della Mostra dantesca alla Mediceo-Laurenziana, Milano 1921; F. Schmidt-Knatz, Dantes Commedia mit dem Kommentar Yacopo della Lanas. Miniaturhandschrift der Frankfurter Stadtbibliothek, Frankfurt a. Mein 1924. Di un antico codice (sec. XIV) di proprietà della famiglia Caetani fu fatta nel 1930 un'edizione diplomatica (ma cfr. recensione di M. Barbi, ora in Problemi, cit., 2 s., pp. 435 ss.), mentre del Landiano e del Trivulziano erano state curate, nel VI centenario della morte di Dante, le riproduzioni fototipiche, rispettivamente a Firenze e a Milano. Il tentativo che avrebbe dovuto coronare lo sforzo degli studi sul problema testuale della Divina Commedia doveva essere compiuto da G. Vandelli, cui era stato affidato di approntare il testo e il commento della Commedia per l'edizione nazionale: ma pur dopo un'imponente raccolta di materiale ed il raggiungimento di alcune valide, ma parziali conclusioni, il Vandelli non ha potuto ricostruire la genealogia dei codici della Commedia e trarre un criterio unico per la restituzione del testo, preferendo, in modo sempre più scoperto, le soluzioni caso per caso: Note sul testo critico della Divina Commedia, in Studi danteschi, IV (1921) e VII (1923); Il più antico testo critico della Divina Commedia, ibid., V (1922). Testimonianza del travaglio del Vandelli sono le sue numerose edizioni della Divina Commedia: testo nelle Opere a cura della Soc. dantesca ital. (cfr. Opere) nel 1921; testi, con la scorta del commento dello Scartazzini, nelle edizioni scolastiche, in numero di nove a tutto il 1929 (senza contare le ristampe con correz.). Assai più limitativo, ma fiducioso nella possibilità di risultati, il criterio proposto dal Casella, Studi sul testo della Divina Commedia, in Studi danteschi, VIII (1924), pp. 5-85 (ma vedi anche del Casella l'articolo sul testo della Commedia apparso in Studi di filologia ital., VII [1944], pp. 29-77), che propone la bipartizione dei mss. del poema in due famiglie, una più antica (Laurenziano S. Croce, Trivulziano ecc.) e più attendibile; l'altra che può servire talvolta da riscontro alla prima ed è costituita da testi formanti una sorta di volgata, utili, al più, a correggere gli errori certi della prima: tale classificazione, tuttavia, è rimasta allo stadio di ipotesi di lavoro. Ad analisi particolari sono dedicati gli studi di E. G. Parodi, Il testo critico delle Opere di Dante, in Bullett. d. Soc. dantesca, XXVIII (1921), pp. 7-46; M. Barbi, Ancora sul testo della Divina Commedia, in Studi danteschi, XVIII ('934), z'p. s-si, ora in La nuova filologia..., Firenze 1938, pp. 1-34; S. A. Chimenz, Per il testo e la chiosa della Divina Commedia, in Giorn. stor. d. letter. ital., CXXXIII (1956), pp. 161-187. Ha avanzato una nuova teoria G. Petrocchi, Proposte per un testo-base della Divina Commedia, in Filologia romanza, II (1955), pp. 337-365, e L'antica tradizione manoscritta della "Commedia", in Studi danteschi, XXXIV (1957), pp. 7-126 - cui ha fatto seguito, a modo di dimostrazione, Radiografia del Landiano, ibid., XXXV (1958), pp. 5-27 - che ritiene, pur nell'accettata impossibilità di stabilire la genealogia dei vari codici, potersi raggiungere un testo "base", mediante la classificazione e collazione dei testi più antichi, sui quali condurre l'esame e l'eliminazione degli altri, le cui lezioni non fossero registrate nell'apparato del testo "base". Un'esposizione chiara, anche se concisa, di tutti questi problemi è nella Nota al testo, in appendice al commento della Divina Commedia a cura di N. Sapegno, Milano-Napoli 1957: Nota sulla cui scorta si è delineata questa parte della Bibliografia. Per gli antichi commentatori si veda qui appresso il paragrafo dedicato alla Fortuna di Dante; tra i commenti moderni si ricordano quelli del Tommaseo (Milano 1865; ora 3 voll., a cura di U. Cosmo, Torino 1920); del Giuliani (Metodo di commentare la Commedia di Dante A. Firenze 1861); di re Giovanni di Sassonia, alias Filalete (3 voll., Leipzig 1891); del Poletto (3 voll., Roma-Tournay 1894); di Casini-Barbi (commento di T. Casini riveduto da S. A. Barbi, 3 voll., Firenze 1922 e ristampe); di Scartazzini-Vandelli, già cit.; del Torraca (Milano, 1 ediz., 1905; ii ediz., 1946); del Pietrobono (3 voll., Torino 1924-30); del Del Lungo (Firenze 1926); dello Steiner (Torino 1921); del Grabher (3 voll., Firenze 1934-36, e successive ediz.); del Momigliano (3 voll. Firenze 1945-46); del Porena (3 voll., 2 ediz., Bologna 1954), del Sapegno, già cit. Una presentazione sistematica di alcuni commenti più antichi è offerta da La Divina Commedia nella figurazione artistica e nel secolare commento, a cura di G. Biagi, G. L. Passerini, E. Rostagno, U. Cosmo, 3 voll., Torino 1924-39. Commenti ai singoli canti del poema sono offerti dalle varie Lecturae Dantis, edite a cura della casa editrice Sansoni, dal 1900 in poi; presso la stessa casa è uscita, a cura di G. Getto, una scelta di queste letture: Letture dantesche, Firenze 1955. Una nuova Lectura Dantis, condotta rigorosamente, è quella diretta da S. A. Chimenz, che si pubblica a Roma, presso Signorelli, dal 1950. Sulle letture dantesche cfr. A. Vallone, Le letture dantesche d'oggi, in Cultura neolatina, XIV (1954), pp. 217-227. Di commenti parziali si ricorderanno M. Porena, La mia Lectura Dantis, Napoli 1932; G. Bertoni, Cinque letture dantesche, Modena 1933; U. Bosco, Tre letture dantesche, Roma 1942; G. Toffanin, Sette interpretazioni dantesche, Napoli 1947; M. Fubini, Due studi danteschi, Firenze 1951. Problemi del testo e commento sono, ovviamente, due aspetti del più vasto movimento della critica nei riguardi della Commedia, quale si è andato delineando dall'epoca risorgimentale sino ad oggi. In esso è possibile scorgere cinque correnti che, successivamente, hanno animato l'assiduo sforzo interpretativo degli studiosi: una etico-romantica (Foscolo, Mazzini, Gioberti); un'altra storico-positiva (Carducci, D'Ancona, D'Ovidio, ecc.); una storico-idealistica (De Sanctis); una estetico-idealistica (Croce); un'ultima, superamento ed insieme acquisizione degli elementi validi delle due precedenti, critico-filologica (Barbi). Senza seguire lo sviluppo di queste correnti e indugiarsi a segnarne l'importanza, che in questa sede sarebbe impossibile e di dubbia utilità, si rimanda alle citate opere del Vallone e del Mattalia (cfr. Bibiliografia generale). È possibile, però, nella massa delle opere, saggi, articoli, note alla Divina Commedia, indicare alcuni gruppi di lavori di carattere talvolta frammentario, ma nati dalla temperie culturale delle suaccennate correnti. Della critica storico-positiva sono da tener presenti G. Carducci in Opere, ediz. naz., X; A. D'Ancona, Scritti danteschi, Firenze [1913]; F. Novati, Indagini e postille dantesche, Bologna 1899; F. D'Ovidio, Studii sulla Divina Commedia, Milano-Palermo 1901; Nuovi studii danteschi, 2 voll., Milano 1906-07; Nuovo volume di studii danteschi, Caserta 1926; L'ultimo volume dantesco, ibid. 1926; E. Torraca, Studi danteschi, Napoli 1912; Nuovi studi danteschi, Napoli 1921; E. G. Parodi, Poesia e storia nella Divina Commedia, Napoli 1920. Con una viva sensibilità al concreto mondo delle passioni politiche, morali, artistiche di Dante si è avvicinato alla Commedia F. De Sanctis in reazione all'interpretazione spesso schematica e fredda cui giungeva la critica storico-positivistica: cfr., oltre il cap. La "Commedia" nella Storia della Letter. Ital., ediz. a cura di B. Croce, Bari, 1912, I, pp. 143 ss., Lezioni e saggi su Dante, a cura di S. Romagnoli, Torino 1955. Portando alle conseguenze estreme l'atteggiamento di riserva del De Sanctis verso ciò che nel poema appariva costruzione artificiale estranea al vivo mondo delle passioni del poeta, B. Croce ha distinto una parte poetica da una sovrastrutturale, allegorico-teologica (in prevalenza nel Paradiso), esteticamente non valida: La poesia di Dante, Bari 1920; Poesia antica e moderna, ibid. 1943, pp. 151-1611; Discorsi di varia filosofia, II, Bari 1945, pp. 41-52. Influenzati più o meno nettamente dall'impostazione crociana della questione della "poesia" nella Divina Commedia sono S. Breglia, Poesia e struttura nella Divina Commedia, Genova 1934; L. Russo, Genesi e unità della Commedia, in Ritratti e disegni storici, s. 3, Bari 1951; M. Rossi, Gusto filol. e gusto poetico, ibid. 1942; M. Sansone, Natura e limiti del rapporto di struttura e poesia nella critica dantesca, In Studi di storia letter., Bari 1950, pp. 95-174 (ma vedi per queste opere i giudizi e le riserve contenuti in V. Locatelli, Note intorno alla critica dantesca contemporanea, in Aevum, XVI [1942], pp. 198-244; C. Dionisotti, rec. al Rossi, in Giorn. stor. d. letter. ital., CXXI [1943], pp. 169-174; C. Garboli, Struttura e poesia nella critica dantesca contemporanea, in Società, VIII [1952], pp. 20-44). Ricordo a parte spetta all'opera di K. Vossler, Die göttliche Komödie. Entwickelungsgeschichte und Erklärung, Heidelberg 1907-1910, 2 voll.; trad. ital. a cura di S. Jacini, della seconda ediz. tedesca Heidelberg 1925, La Divina Commedia studiata nella sua genesi e interpretata, Bari 1927, 4 voll.; il Vossler nella prima edizione si propose di fondere la necessità della ricerca filologico-culturale con l'esigenza della critica estetica, finendo, tuttavia, con lo svalutare il Paradiso; nella seconda, contro Croce, affermava, sempre per lo stesso intento di contemperare ed unire due diverse metodologie, l'unità artistica del poema (sull'opera del Vossler è da vedersi soprattutto la serie di recensioni di G. Gentile, pubblicate insieme in Frammenti di estetica e di letteratura, Lanciano 1921). La reazione crociana s'era diretta, oltre che al metodo storico-positivo, anche a un indirizzo che, nel voler rivalutare il significato religioso-mistico della Commedia, aveva finito coll'indulgere ad interpretazioni soverchiamente allegoriche; di questo indirizzo vanno ricordati F. Flamini, Il significato ed il fine della Divina Commedia, Livorno 1916, 2 voll.; G. Pascoli, Minerva oscura. Prolegomeni: la costruzione morale del poema di Dante, Livorno 1898; La mirabile visione..., Bologna 1913; Sotto il velame..., Bologna 1923; L. Pietrobono, Il poema sacro. Saggio d'una interpretazione generale della Divina Commedia, Bologna 1915, 2 voll.; Dal centro al cerchio, Torino [1923]; E. Fergusson, Dante's Drama of the Mind. A Modern Reading of Purgatorio, Princeton 1953; L. Valli, Il segreto della Croce e dell'Aquila nella Divina Commedia, Bologna 1922; La chiave della Divina Commedia, ibid. 1926; La struttura morale dell'universo dantesco, Roma 1935 (opere, queste del Valli, da vedere come testimonianza di un orientamento, non per i risultati raggiunti, che sono discutibili). Una ripresa dell'indagine storico-filologica - non però un ritorno puro e semplice alla metodologia positivistica - hanno rappresentato, in tempi recenti, gli studi di M. Barbi (Problemi, cit.; Con Dante e coi suoi interpreti, Firenze 1941; Problemi fondamentali per un nuovo commento della Divina Commedia, Firenze 1956), e dei suoi allievi, diretti e indiretti, tutti facenti capo agli Studi danteschi. Da questo gruppo va menzionato a parte, e per l'importanza degli studi e per un suo atteggiamento tendente ad un'interpretazione accentuatamente simbolica, M. Ca-sella, di cui, oltre al lavoro sul problema testuale della Divina Commedia, citato in alto, e una serie di articoli comparsi negli Studi danteschi, vanno ricordate - proprio nell'ambito di una particolare interpretazione - le voci relative alle singole opere di Dante nel Dizionario delle Opere e degli Autori, II, Milano 1947, edito a cura di V. Bompiani. Ancora alcune indicazioni bibliografiche essenziali vanno date sui maggiori problemi discussi dalla critica a proposito della Divina Commedia: sulle fonti, W. Zabughin, L'oltretomba classico medievale dantesco nel Rinascimento, Firenze 1922; G. Busnelli, Cosmogonia e antropogenesi secondo Dante e le sue fonti, Roma 1922; G. Tondelli, Il libro delle figure dell'abate Gioachino da Fiore, Torino 1940, 2 ediz., ibid. 1953; Da Gioachino a Dante, Torino 1944; M. Asín Palacios, La escatologia musulmana en la Divina Comedia, Madrid 1919, 2 ediz., ibid. 1943; E. Cerulli, Il Libro della Scala e la questione delle fonti arabo-spagnole della Divina Commedia, Città del Vaticano 1949; G. Levi Della Vida, Nuova luce sulle fonti islamiche della Divina Commedia, in Al-Andalus, XIV (1949), pp. 377-477; U. Bosco, Contatti della cultura occidentale di Dante con la letteratura non dotta arabo-spagnola, in Studi danteschi, XXIX (1950), pp. 85 ss.; P. Renucci, Une source de Dante. Le Polycraticus de Jean de Salisbury, Paris 1951; P. Chioccioni, L'agostinismo nella Divina Commedia, Firenze 1952; A. Masseron, Dante et S. Bernard, Paris 1953; Dante disciple et juge du monde gréco-latin, Paris 1954; G. Marzot, Il linguaggio biblico della Divina Commedia, Pisa 1956; S. A. Chimenz, Classicità e Medioevo nello spirito e nell'arte di Dante, in Nuova Antol., CCCCLXXVI (1959), pp. 207-222. Sull'insieme della vexata quaestio delle fonti della Divina Commedia cfr. J. Storost, Zur Methodologie der Quellenforschung bei Dante, in Deutsches Dante-Jahrbuch, XXXIII (1954), pp. 184-211. Sull'ordinamento morale dell'oltretomba dantesco, G. Busnelli, L'Etica nicomachea e l'ordinamento morale dell'Inferno, Bologna 1906; L'ordinamento morale del Purgatorio, Roma 1908; Il concetto e l'ordine del Paradiso, Città di Castello 1911-12, 2 voll.; M. Casella, Le guide di Dante nella Divina Commedia, in Atti d. Acc. Colombaria, n.s., I (1947), pp. 3-51. Sulla data di composizione della Divina Commedia, E. G. Parodi, La data della composizione e le teorie politiche dell'Inferno e del Purgatorio, in Poesia e Storia..., cit., pp. 365-509; F. Egidi, L'argomento barberiniano per la dataz. della Divina Commedia, in Studi romanzi, XIX (1928), pp. 135-162; G. Vandelli, Per la datazione della Commedia, in Studi dan teschi, XIII (1928), pp. 5-29; XV (1930), pp. 43-53; L. Pietrobono, L'argomento barberiniano e la data della Divina Commedia, in Giorn. dantesco, XXXII (1929), pp. 133-146; G. Ferretti, I due tempi della composizione della Divina Commedia, Bari 1935; A. Vallone, Per la datazione della Divina Commedia, in Studi sulla Divina Commedia, Firenze 1955. Per problemi linguistici e metrici: si vedano: A. Schiaffini, Note sul colorito dialettale della Divina Commedia, in Studi danteschi, XIII (1928), pp. 31-45; L. Malagoli, Linguaggio e poesia nella Divina Commedia, Genova 1949; Storia della poesia nella Divina Commedia, ibid. 1950; E. Ciafardini, Dieresi e sineresi nella Divina Commedia, in Rivista d'Italia, XIII, 1 (1910), pp. 888-919; Dialefe e sinalefe nella Divina Commedia, ibid., XVII, 2 (1914), pp. 465-516; M. Casella, Dieresi e dialefi di eccezione, e Lo scempiamento del dittongo in rima, in Studi sul testo della Divina Commedia, cit. Sullo stile si ricordano due lavori recenti della Batard, Dante, Minerve et Apollon: les images de la Divine Comédie, Paris 1952, e del Flora, Tono del Purgatorio nell'unità della Commedia, In Studi letterari in onore di E. San tini, Palermo 1956.
Fortuna di Dante: Oltre alle indicazioni sull'argomento contenute nelle monografie ricordate (cfr. Biografia), sono particolarmente importanti per l'analisi della fortuna di Dante e della sua opera nei vari secoli, oltre a G. Carducci, Della varia fortuna di Dante, in Opere, ediz. naz., X; E. Cavallari, La fortuna di Dante nel '300, Napoli 1921; V. Rossi, Dante nel Trecento e nel Quattrocento, nel vol. miscell. Dante e l'Italia, Roma 1921, e poi in Scritti di critica letteraria, I: Saggi e Discorsi su Dante, Firenze 1930, pp. 294-332; M. Barbi, Della fortuna di Dante nel sec. XVI, Pisa 1890 (con larghi accenni al '400); G. G. Ferrero, Dante e i grammatici della prima metà del '500, in Giorn. stor. d. letter. ital., CV (1935), pp. 1-59; V. Cian, Dante nel Rinascimento, in Raccolta di studi critici dedicata ad A. d'Ancona, Firenze 1901; R. Montano, Dante e il Rinascimento, Napoli 1942; U. Cosmo, Con Dante attraverso il '600, Bari 1946; G. Zacchetti, La fama di Dante in Italia nel sec. XVIII, Roma 1900 e F. Sarappa La critica di Dante nel sec. XVIII, Nola 1901 (ma cfr. rec. di M. Barbi, ora in Problemi, cit., 1 s., pp. 455-472); M. Zamboni, La critica dantesca a Verona nella seconda metà del sec. XVIII, Città di Castello 1901; sul sec. XIX si veda la citata opera del Vallone, La critica dantesca nell'Ottocento (cfr. recensione in L'Alighieri, 2 [1960] pp. 65-67). Opere moderne, panoramiche della fortuna del poeta attraverso i secoli, sono quelle ricordate dello stesso Vallone (cfr. Bibliografia generale); del Maggini (La critica dantesca dal '300 ai nostri giorni, cit.); del Mattalia (I classici italiani..., cit.). Per gli antichi commentatori: Chiose alla cantica dell'Inferno di Iacopo Alighieri, a cura di Lord Vernon, Firenze 1848; e di E. P. Luiso, ibid. 1904; commento di Graziolo Bambaglioli, a cura di A. Fiammazzo, Savona 1915; di Iacopo della Lana, a cura di L. Scarabelli, Bologna 1866; di Pietro Alighieri, a cura di V. Nannucci, Firenze 1845; di Benvenuto da Imola, a cura di J. F. Lacaita, Firenze 1887; di Francesco da Buti, a cura di C. Giannini, Pisa 1858-62; dell'Anonimo Fiorentino, a cura di P. Fanfani, Bologna 1866-74; l'Ottimo Commento, a cura di A. Torri, Pisa 1827-29; il Commento di F. Villani al I dell'Inferno, a cura di G. Cugnoni, Città di Castello 1896; il Commento del Boccaccio, a cura di D. Guerri, Bari 1918. Per la fortuna di Dante all'estero, oltre alle opere di M. Besso, La fortuna di Dante fuori d'Italia, Firenze 1912 e, soprattutto, di W. P. Friederich, Dante's Fame abroad, 1350-1850, Roma 1950, si vedano: A. Farinelli, Dante in Spagna, Francia, Inghilterra, Germania, Torino 1922; G. A. Scartazzini, D. in Germania, Milano 1881-83; Th. Ostermann, D. in Deutschland: Bibliographie der deutschen D.-Literatur 1416-1927, Heidelberg 1929; G. Adolf-Altenberg, La figura di Dante nei paesi germanici, in Aevum, XXXII (1958), pp. 517-536; P. Toynbee, D. in English Literature from Chaucer to Cary (c. 1380-1844), London 1909; Id. The Oxford D. Society, Oxford 1920; Id., Britain's Tribute to D. in Literature and Art (1380-1920), London 1921; A. La Piana, Dante's American Pilgrimage, New Haven 1948; A. Pannelli, Dante e la Francia dall'età media al secolo di Voltaire, Milano 1908; A. Courson, D. en France, Erlangen 1906; Id., Le réveil de D., nella Rev. de littérature comparde, I (1921), pp. 362-387; A. G. Amezua, Fases y caracteres de la influencia de Dante en España, Madrid 1922; L. E. De Campos Ferreira, Dante em Portugal e no Brasil, in Estudios italianos em Portugal, II (1941); J. L. Cohen, D. in de Nederlandsche Letterkunde, Haarlem 1929; G. Kaposy, Bibliografia dantesca ungherese, nella rivista Corvina (Budapest), I, luglio-dicembre 1921; S. P. Koczorowski, D. w Polsce, Cracovia 1921; W. Preisner, Dante i Jego Dziela w Polsce, Torún 1957; Jukichi Oga, A D. Bibliography in Japan, Osaka 1929; Id., Bibliografia dantesca giapponese, 2 ediz. riveduta e corretta, Firenze 1930; W. Sandomirski, The Russian Dante, in Italica, XVIII (1941), pp. 117-119. Della fortuna di Dante all'estero sono testimonianza le numerose traduzioni che delle sue opere sono state fatte in moltissime lingue straniere, le cui indicazioni sono ampiamente contenute nei lavori di carattere bibliografico elencati in alto. Ad essi - e soprattutto al lavoro citato del Friedenich, Dante's Fame Abroad per il periodo 1350-1850 - si rimanda per una compiuta illustrazione delle versioni dantesche e per una valutazione critica delle stesse, come anche per le indicazioni dei larghi frammenti della poesia dantesca che insigni poeti (Tennyson, Goethe, Schiegel, George, etc.) hanno tradotto o cui si sono ispirati; si darà quindi, al solo scopo di fornire un primo orientamento, qualche elementare indicazione delle versioni di alcune opere dantesche (Divina Commedia, Vita Nuova, Convivio): per l'Inghilterra: Divina Commedia, vers. a cura di H. F. Cary, 1814; I. Ch. Wright, 1833-40, 3 ediz. 1854; J. D. Sinclair, 1939-46; L. Bynion, 1952; Vita Nuova, vers. a cura di T. Okey e P. H. Wicksteed, 1906, rist. 1948; Convivio, vers. a cura di W. W. Jackson, 1909. Per la Francia: Divina Commedia, a cura di C. Calemard de Lafayette, 1835; H. F. R. Lamennais, 1855; A. Masseron, 1943; Vita Nuova, vers. a cura di E. J. Delécluze, 1841; H. Cochin, 2 ediz., 1914; Opere complete, a cura di S. Rhéal, 1843 ss. Per la Germania: Divina Commedia, a cura di A. F. K. Streckfuss, 1824-26; re Giovanni di Sassonia (Filalete), 1749; K. Witte, 1862; K. Vossler, 3 ediz., 1953; H. Gmelin, 1954-57; Vita Nuova, vers. (apparsa in Svizzera) di H. Hinderberger, 1947; Convivio: vers. a cura di K. L. Kannegiesser, 1845. Per la Polonia: Divina Commedia, vers. a cura di A. Stanislawski, 1870; E. Porebowicz, 1922-25; M. Kowalski, 1932; A. Swiderska, 1947; Vita Nuova, vers. a cura di A. Goski, 1915; Convivio, vers. a cura di M. Wisnzniewski, 1839. Per gli Stati Uniti: Divina Commedia, vers. a cura di H. W. Longfellow, 1865; C. H. Grandgent, 1933; G. Bergin, 1935; Vita Nuova, vers. a cura di M. Musa, 1957.