DANTE ALIGHIERI
Poeta e scrittore, nato a Firenze nel 1265, morto a Ravenna nel 1321.La presenza di D. nella cultura dei secc. 13°-14° si commisura, anche in rapporto alle arti figurative, secondo diverse angolazioni e problematiche, delle quali la più cognita è senza dubbio la serie delle citazioni, ch'egli compie nella Commedia, di artisti della generazione precedente e della sua, da Cimabue a Oderisi da Gubbio, da Franco Bolognese a Giotto (costante punto di riferimento dell'esegesi dantesca), ovvero di monumenti duecenteschi: soltanto per Firenze il battistero (Inf. XIX, v. 17; Par. XV, v. 134; XXV, vv. 8-9), la chiesa di Badia (Par. XV, v. 98; XVI, vv. 127-130), quella di S. Miniato e le scalee di Rubaconte (Purg. XII, vv. 101-102), cui si aggiungono citazioni dalle Rime (LXXV-LXXVI): lo spedale di Pinti, il castello di Altafronte, la chiesa e la prigione di S. Simone, lo spedale di S. Maria a San Gallo, ecc., e poi chiese e palazzi di Toscana, di Roma, di Pavia, castelli, borghi, S. Zeno a Verona eccetera. Non meno cognito è il tema dell'influsso che la Commedia ha esercitato su miniatori, pittori, scultori del Trecento, e quello che lo stesso D. ha subìto da monumenti antichi o dell'Alto Medioevo.È persin ovvio sottolineare che la memoria delle 'cose viste' non è mai fruita per i fini di un velleitario divertissement d'accostamenti formali, ma è strettamente congiunta, nelle latebre insondabili di quella superiore ispirazione, a necessità sostanziali della analogia, della similitudine, del parlar metaforico, o a punti di riferimento centrali della sua vita; ed è qui forse - anziché nella replicatio di paragone: pozzo dei giganti-cinta di Monteriggioni (Inf. XXXI, vv. 40-41); faccia di Nembrot-pigna di S. Pietro (ivi, vv. 58-59); ovvero in ipotesi di riferimento semplice e indiretto: "che non pur Policleto" (Purg. X, v. 32), le arche di Pola e il cimitero degli Aliscamps di Arles (Inf. IX, vv. 112-113), rispetto a riferimenti diretti: il ponte Sant'Angelo a Roma (Inf. XVIII, v. 29) - che scatta più intensamente il significato del luogo artistico quale fondamentale esigenza di situare sé e il tempo passato nell'ineliminabile richiamo d'un monumento in cui la sua vita trascorsa ha trovato indimenticato punto di riferimento reale: sommamente, qui il "bel San Giovanni" (Inf. XIX, v. 17), ma anche la "cerchia antica" delle mura (Par. XV, v. 97), il ponte Vecchio (Par. XV, v. 146), con più che evidente primazia fiorentina. E purtuttavia potrebbe apparire, nella presente circostanza, supervacaneo il catalogo dei monumenti ricordati da D., nei riguardi d'un problema che sembra più impegnativo risolvere: che la cernita operata dal poeta delle 'cose viste' è in funzione affettiva ovvero consequenziale alla didascalia narrativa, a necessità d'esplicitare la topografia escatologica, non già d'un gusto che via via selezioni il campione più eccelso rispetto a un esempio minore. In tal modo si può rispondere alla domanda: perché Cimabue e non Cavallini? Perché Giotto e non Duccio? Perché il silenzio su Arnolfo o i due Pisani? Alla risposta predetta se ne aggiunge un'ulteriore: il flagrante vantaggio della pittura fiorentina sopra quella extratoscana o semplicemente extrafiorentina, rispetto all'interesse profondo per la miniatura bolognese di Oderisi da Gubbio e di Franco; ma entrambe le risposte soddisfano parzialmente, sol che si pensi che la invenzione del moto di affetto della Madonna verso s. Bernardo ("Li occhi da Dio diletti e venerati, / fissi ne l'orator"; Par. XXXIII, vv. 40-41), è probabile effetto di una 'cosa vista' a Roma almeno vent'anni prima: il mosaico di Pietro Cavallini in S. Maria in Trastevere, ove, rompendo la tradizionale fissità bizantina della Vergine in trono e mirante in avanti, la Madonna volge il viso verso il basso all'orante e committente Bertoldo Stefaneschi; oppure la Madonna dei Francescani di Duccio (Siena, Pinacoteca Naz.), della quale si ignora la probabile collocazione e visibilità durante i soggiorni di D. a Siena. Fuori di questa possibilità resta abbastanza certa la conoscenza della Maestà di Santa Trinita (Firenze, Uffizi) e del Crocifisso di Santa Croce, sol che si pensi alla sicurezza della frequentazione dantesca delle "scuole de li religiosi" (Convivio, II, XII, 7): donde l'estensione, che però va contenuta entro qualche limite, ad altre celebri opere, come la Madonna Rucellai (Firenze, Uffizi), ovvero, ma più tenuemente quale ipotesi, le sculture mariane di Arnolfo nella rinnovata cattedrale di S. Reparata.Un dato di fatto va premesso per poter meglio abbracciare l'arco della conoscenza che D. poteva avere dell'arte a lui contemporanea: le reminiscenze, pur collocate narrativamente nel terminus ad quem del viaggio escatologico (settimana santa del 1300), sono in realtà più fittamente databili alle varie stazioni dell'esilio, prima del quale si possono riferire solo i luoghi bolognesi (la Garisenda; Rime, LI, vv. 3-6; Inf. XXXI, v. 136) o quelli fiorentini o romani già menzionati. Per stabilire quindi lo spessore del giudizio su Cimabue (se il canto XI del Purgatorio, pubblicato nel 1315, è databile al 1312 ca.) e la circostanza del suo profilarsi come evento d'un passato remoto ("credette Cimabue"; Purg. XI, v. 94), si può dedurre (Bonicatti, 1970) che il poeta fosse edotto del ciclo degli Scrovegni durante il soggiorno a Padova (presumibilmente nel 1304-1305), in un'epoca in cui la fama della superiorità di Giotto era più che onninamente diffusa in tutti gli ambienti artistici d'Italia mentre il poeta poteva conservare una vaga memoria delle opere romane (gli angeli della Navicella), rinnovata dalla lectura degli affreschi padovani.Si può parlare di 'memoria' giottesca in D., non di più. Si tratta infatti d'un dialogo a distanza: né D. fu familiare di Giotto, la cui attività fiorentina ovviamente non poté vedere - il ritratto di D. giovane nel palazzo del Bargello (cappella di S. Maria Maddalena) non è certamente di Giotto e sembra prevalente l'ipotesi che si tratti d'opera d'un allievo che nel 1337 ricalcava ovvero ricopiava un antico quadro o affresco del maestro -, né questi del poeta, e non è opinabile alcun influsso del primissimo Giotto fiorentino (perduto) sulla Vita Nuova, sulle rime dottrinali e men che mai sulle prime due cantiche della Commedia. Altrettanto improponibile è la tesi che vede il canto XI del Paradiso come derivazione o eco diretta degli affreschi assisiati della Vita di s. Francesco (visti, seppur visti, all'incirca verso il 1306, molti anni avanti il periodo di composizione della zona centrale e terminale del Paradiso) per la coincidenza delle comuni fonti letterarie e devozionali - Tommaso da Celano, soprattutto per la Legenda prima, il Sacrum commercium, la Legenda maior di s. Bonaventura e in genere tutto il leggendario francescano di tradizione 'leonina' (cioè filiazione remota del Memoriale in desiderio animae dei frati Leone, Angelo e Rufino) -, con l'accorgimento, oggi necessario, di alleggerire la presenza degli Spirituali in Giotto, presenza invece dominante nel rigorismo pauperistico dantesco.Non è opportuno tuttavia sopravvalutare l'importanza che ha per D. la visione diretta delle opere d'arte; di una scarsa conoscenza ha parlato tutto sommato più d'un critico, e Auerbach (1929, trad. it., p. 135) ha persin chiosato le parole di Oderisi da Gubbio come dettate da un "lieve tono di degnazione e di ironia" rispetto a un indubbio distacco a causa della caducità d'ogni umano tentativo di creare un'arte duratura, nel canto XI del Purgatorio; come dapprima Cimabue e Oderisi, così ora Giotto e Franco Bolognese conosceranno il crepuscolo: "ne la pittura" (v. 94) e nell'arte "ch'alluminar chiamata è in Parisi" (v. 81) verrà chi "caccerà del nido" (v. 99) gli uni e gli altri, come saranno discacciati i due Guidi. Se non può essere respinta la circostanza che il canto dei pittori e dei miniatori è fermamente incentrato sulle latitudini morali del peccato, non si può disconoscere l'acuta sensibilità dell'intellettuale che constata con amarezza il rapido dileguare degli ideali e della fortuna della sua generazione (che è la stessa di Guido Cavalcanti e di Franco Bolognese, maestro questi nel pennelleggiare e nel far ridere le carte in un giuoco di luci e di colori che il poeta della seconda e della terza cantica doveva amare assai più della vivida ma pur sempre tradizionale tecnica bizantineggiante dell'"onor d'Agobbio", v. 80), ma supera questa amarezza nella convinzione di storicizzare (Longhi, 1966) il valore assoluto di ogni scuola e d'ogni generazione artistica. Alla severità del disegno teologico della Commedia non poteva sfuggire un mondo terreno pur amato dal giovane D. della Firenze aristocratica e stilnovistica, ma quella serietà di giudizio non aveva risparmiato alcuna categoria di intellettuali e non poteva esimersi dall'inventare il rapporto arte-superbia alla vigilia d'altra condanna, poesia-lussuria (Purg. XXVI), pur soffermandosi su certi passaggi valutativi tra i quali Longhi (1966) ha visto primeggiare l'espressione "ridon le carte / che pennelleggia Franco Bolognese" (Purg. XI, vv. 82-83) addirittura come l'inizio di una moderna critica d'arte, da parte d'un letterato che aveva voluto provare il disegno di "uno angelo sopra certe tavolette" (Vita Nuova, XXXIV, 1) per lasciare una sensibile immagine figurata della sua donna.Attraverso le immagini realistiche (d'un realismo di veementi contrasti in toni e colori) dell'Inferno, all'interno d'una robusta inquadratura romanica arricchita da moderne esperienze della perspectiva (nella latitudine dottrinaria così ampiamente documentata da Parronchi, 1964), e le vere e proprie esecuzioni scultoree del canto X del Purgatorio (una cantica sorretta da movimenti a cuspide di gusto prettamente gotico), D. giunse all'arte astratta della terza cantica, al luminismo incorporeo, immateriato, d'un variegato cromatismo che fa prevalere, per l'appunto nel Paradiso, la poesia dell'occhio e dei suoni fomentata dalla lunga ricerca della "luce etterna" (Par. XI, v. 20) presagita dai colori dei rubini, degli smeraldi, degli zaffiri, in un'incessante creatività di simboli pittorici intuibili e godibili quasi esclusivamente attraverso le sovrapposizioni e i movimenti armonici delle luci cadenti dall'alto in una miriade di giuochi coloristici propriamente astratti, informali, i quali traggono suggestioni dalla luminosità delle grandi cattedrali gotiche: l'"azzurro di Chartres" di cui parlava Trompeo leggendo il canto XXIII del Paradiso, il rosone meridionale "nel cui centro è per l'appunto Cristo trionfante in uno scintillio d'argento e di azzurro chiaro", e intorno "figure di angeli e di personaggi simbolici anch'essi splendenti come pietre preziose" (Trompeo, 1958, p. 39); e inoltre, si aggiungono, le figurazioni astratte di rose e di "viva luce" che "trasparea / la lucente sustanza" (Par. XXIII, vv. 31-32) avvertite come effetto memoriale dei raffinati lavori dell'oreficeria toscana e settentrionale intesi sovente come allegorie di virtù o di moti dell'animo, ovvero le esaltazioni di giuochi di luce spioventi dall'alto delle navate secondo gli ideali architettonici professati dalla estetica dei monaci cistercensi (Assunto, 1961), ma rinnovati da un'esperienza della perspectiva che sostiene dottrinariamente ogni modo del vedere pittorico; rapporti tra luce e ombra, tra visione diretta e visione speculare, tra lo scintillio delle stelle e l'annullarsi delle forme entro la luce crescente.Tuttavia il gusto artistico di D. non gode soltanto di astrazioni luministiche, ma si fa concreta minuziosa rappresentazione figurativa nella effigie scultorea delle tavole marmoree incise nelle pareti della cornice, sempre nel canto X del Purgatorio, intese quale "visibile parlare" (v. 95) che si rifà alla consentanea visione, nel canto IX, dei tre gradoni di "bianco marmo" (v. 95), di "tinto più che perso" (v. 97) e di "porfido" (v. 101) dello "scaglion primaio" (v. 94), ma possiede in sé la stupefacente novità d'essere figura e parola, poesia visiva e bassorilievo alitante parole, per la cui invenzione non è mancato chi ricordasse effetti d'un supposto ricordo della colonna Traiana o dell'arco di Costantino o, più accettabilmente, di Giovanni Pisano (Borchardt, 1928), pur dovendosi sottolineare preminentemente l'esistenza d'una simultaneità di cosa vista e assieme udita che ha indotto a leggere le sculture della cornice dei superbi, il "marmo candido e addorno / d'intagli" (Purg. X, v. 31) rievocanti l'arte di Policleto, o i balzi delle "tombe terragne" del successivo canto XII (v. 17) - in tre canti consecutivi del Purgatorio (X-XII) è concentrata la più gran parte della memoria figurativa di D. - come una ancor più straordinaria invenzione, in quanto le immagini si succedono parietalmente e a terra in un continuum figurato ove D. sembra accennare "a un modo di propagazione comunicativa per via di sinestesi", così che ricche "di un sontuoso calligrafismo" le tavole marmoree trascendono a figure animate, a straordinari tableaux-vivants (Ulivi, 1978, p. 13).
Bibl.: G. Martinelli Cardoni, Dimora di Dante e di Giotto in Ravenna, in Dante Alighieri in Ravenna, Ravenna 1864; G. Brunelli, Dante e Giotto, La gioventù, n.s., 2, 1866, p. 499; H. Janitschek, Die Kunstlehre Dante's und Giotto's Kunst, Leipzig 1892; G. Mestica, S. Francesco, Dante e Giotto, Nuova antologia, 1900, 169, pp. 659-673; A. D'Ancona, Il vero ritratto giottesco di Dante, Lettura 1, 1901, pp. 203-208; E. Schubring, Dante und Giotto in Padua, Die Hilfe 24, 1908, pp. 405-406; R.T. Holbrook, Portraits of Dante from Giotto to Raffaello, London 1911; F. Rintelen, Dante über Cimabue, Monatshefte für Kunstwissenschaft 6, 1913, pp. 200-204; 10, 1917, pp. 97-113; E. Bonci, Le arti figurative nella 'Divina Commedia', Macerata 1921; A.W. Byvanck, Dante e Cimabue, in Dante Alighieri 1321-1921. Omaggio dell'Olanda, a cura di A.W. Byvanck, den Haag 1921, pp. 68-78; J. von Schlosser, Die Kunst des Mittelalters, Berlin 1923 (trad. it. L'arte del Medioevo, Torino 1961, pp. 81-108); R. Borchardt, Pisa. Ein Versuch, Zürich 1928 (trad. it. Pisa. Solitudine di un impero, Pisa 1965, pp. 104-107); A. Schmarsow, Die italienische Kunst im Zeitalter Dantes, 2 voll., Augsburg 1928; E. Auerbach, Dante als Dichter der irdischen Welt, Berlin-Leipzig 1929 (trad. it. Dante, poeta del mondo terreno, in id., Studi su Dante, Milano 1963, pp. 1-161); E. Carli, Dante e la scultura, Primato 4, 1943, pp. 76-78; U. Leo, Sehen und Wirklichkeit bei Dante, Frankfurt a. M. 1957; V. Mariani, Conversazioni d'arte, Napoli 1957, pp. 1-19; P.P. Trompeo, L'azzurro di Chartres (Lettura del canto XXIII del Paradiso), in id., L'azzurro di Chartres e altri capricci, Caltanissetta-Roma 1958, pp. 35-53; R. Assunto, La critica d'arte nel pensiero medievale, Milano 1961; A. Chastel, Giotto coetaneo di Dante, in Studien zur toskanischen Kunst. Festschrift für Ludwig Heinrich Heydenreich zum 23. März 1963, a cura W. Lotz, L.L. Müller, München 1964, pp. 37-44; A. Parronchi, Studi su la 'dolce prospettiva', Milano 1964; E. Carli, Dante e l'arte del suo tempo, in Dante, a cura di U. Parricchi, Roma 1965, pp. 159-170; R. Longhi, Postilla all'apertura sugli umbri, Paragone 17, 1966, 195, pp. 3-8 (rist. in id., Opere complete, VII, Giudizio sul Duecento e ricerche sul Trecento nell'Italia Centrale, Firenze 1974, pp. 158-162); F. Bellonzi, La 'Vita Nuova', le 'Rime' e la cultura figurativa in Toscana al tempo della giovinezza di Dante, in Dante e Giotto, "Convegno di studi, Roma 1967", Il Veltro 11, 1967, pp. 765-774; E. Battisti, È possibile un confronto fra Dante e Giotto in base allo stile? E con quali metodi di analisi?, ivi, pp. 835-841; S. Bottari, Per la cultura di Oderisi da Gubbio e di Franco Bolognese, in Dante e Bologna nei tempi di Dante, Bologna 1967, pp. 53-59; F. Ulivi, Poesia come pittura, Bari 1969; M. Bonicatti, s.v. Cimabue, in ED, II, 1970, pp. 1-3; id., s.v. Giotto, ivi, III, 1971, pp. 176-178; G. Fallani, Dante e la cultura figurativa medievale, Bergamo 1971 (19782); R. Assunto, Ipotesi e postille sull'estetica medioevale, Milano 1975, pp. 133-152; F. Ulivi, Il visibile parlare. Saggi sui rapporti tra lettere e arti, Caltanissetta-Roma 1978.G. Petrocchi
Subito dopo la morte di D., i figli Pietro e Iacopo provvidero a mettere in circolazione l'ultima cantica della Commedia, elaborata -negli anni del soggiorno presso Guido Novello, mentre da tempo - probabilmente almeno dal 1315-1316 - circolavano ed erano conosciuti l'Inferno e il Purgatorio. Assai precoci i primi commenti, stimolati dalla difficoltà della materia teologico-interpretativa; già nel 1322 Iacopo Alighieri tentava un'esegesi in latino dell'Inferno e lo stesso fece due anni dopo, in volgare, il notaio bolognese Bonagrazia dei Bambaglioli. Si tratta dei primi esempi di un lungo e difficile percorso interpretativo che in meno di due secoli, allargandosi, a volte, a tutta la Commedia, si arricchì di nomi più o meno famosi: Guido da Pisa, Iacopo della Lana, l'Ottimo, Benvenuto da Imola, Francesco da Buti, Giovanni Boccaccio, Filippo Villani, Guiniforte Barzizza e Cristoforo Landino, il cui commento, di respiro ormai pienamente rinascimentale, pubblicato a Firenze nel 1481 con illustrazioni di Sandro Botticelli, trasferite su rame da Baccio Bandini, segna una tappa fondamentale nell'interpretazione verbale e figurata del poema.Meno pronti, stando almeno alle testimonianze superstiti, furono i tentativi di tradurre in immagini le parole del poeta, quasi che la complessità della costruzione dantesca, "consapevole mistione dell'épos nella forma virgiliana e della letteratura delle Visiones [...] e profetico-allegorica" (Mercuri, 1987, p. 265), e, d'altro canto, la ricchezza e la potente espressività del linguaggio scoraggiassero gli artisti contemporanei, incapaci di trovare nel loro ristretto patrimonio tematico le immagini per descrivere adeguatamente il viaggio misterico di D. e delle sue guide, per trasferire in forme e colori sentimenti di terrore, sbigottimento, abbandono. Non a caso, infatti, nella stragrande maggioranza dei codici della Commedia compresi nel recente repertorio di Roddewig (1984) - poco meno di novecento manoscritti, superstiti o perduti, interi o frammentari, di cui oltre settecento ascrivibili ai secc. 14° e 15° - le illustrazioni si limitano a poche scene inserite nelle iniziali di cantica, necessario e spesso riuscito compromesso tra le attitudini dei miniatori, più inclini a ornare che a narrare, e le esigenze di un mercato in cui la Commedia era tra i prodotti più richiesti in tutta la gamma dei modelli graficolibrari, anzi addirittura costituiva il testo per eccellenza di quella tipologia che Petrucci (1983, p. 581) ha definito del "libro-registro di lusso". Nello spazio limitato della N iniziale dell'Inferno o della L del Paradiso o nella pancia rotonda della P del Purgatorio (la lettera, tra le tre, che si prestava con maggiore spontaneità all'inserimento della scena), il desiderio di ostensione, più ancora che di acculturazione, della nuova committenza borghese, ricca e aperta alla cultura volgare, e le capacità di chi proprio per rispondere a quel desiderio aveva elaborato, già prima del 1350, un essenziale, se pur stereotipo repertorio di immagini, si fondevano e concretizzavano in piccole scene che attraversavano, immutate nei contenuti, se non nello stile, ca. due secoli di produzione manoscritta: D. allo scrittoio, ricalcato sull'iconografia tipica degli evangelisti, o in piedi e con il libro in mano, D. nella selva oscura davanti alle fiere, per l'Inferno; il poeta e la sua guida nella navicella o i peccatori tra le fiamme, per il Purgatorio; D. e Beatrice, l'Incoronazione della Vergine o Cristo in maestà, per il Paradiso. L'esempio più precoce e famoso di tale fortunata tipologia iconografica è senza dubbio il codice di Milano (Bibl. Trivulziana, 1080) sottoscritto nel 1337-1338 da ser Francesco di ser Nardo da Barberino, un notaio la cui documentata attività come copista di D. - è dichiaratamente di sua mano anche il codice di Firenze (Laur., Gadd. 90 sup. 125) terminato nei primi mesi del 1348 e ornato di semplici iniziali filigranate - si è annodata per lungo tempo all'insostenibile leggenda di un'infaticabile e prolifica operosità espressasi in cento e più codici. Membranaceo, di formato medio-grande (mm. 370260), a due colonne di trentasei linee, vergato in una minuscola cancelleresca di irripetuta eleganza, secondo i canoni della nuova forma-libro, il Trivulziano fu miniato da una mano che Salmi (1962, p. 177) definì "unitaria e sobria nelle iniziali e nel fregio" e identificò, come prima di lui Offner (1930) e dopo Brieger e Meiss (Brieger, Meiss, Singleton, 1969), in quella del Maestro delle Effigi domenicane, pittore di tavola oltre che di libro, la cui attività si tende oggi a sovrapporre e assimilare a quella del Maestro del Biadaiolo (Boskovits, in Offner, Steinweg, 1984, pp. 54-55). A quest'ultimo e agli anni intorno al 1345 è stato ricondotto il codice di Parma (Bibl. Palatina, 3285; Brieger, Meiss, Singleton, 1969, I, p. 329), ancora un libro-registro di lusso miniato nella maiuscola e nel margine inferiore delle carte iniziali (cc. 1r, 31r, 61r), a testimoniare che i moduli grafici e/o iconografici propri del Trivulziano 1080 avevano da subito trovato imitatori e seguaci.In un elenco ridotto al massimo non si possono non ricordare almeno, tra i codici dell'antica Vulgata o subito a ridosso, il manoscritto di Berlino (Staatsbibl., Hamilton 203), copiato a Pisa nei primi sei mesi del 1347 in gotica libraria da Tommaso Benetti, "iuvenis [...] multum discretum et sapientem" (c. 97v), che la peste nera uccise a soli diciotto anni; quello famoso di Roma (BAV, Vat. lat. 3199), ormai sicuramente identificato con il codice inviato in dono da Boccaccio a Petrarca tra l'estate del 1351 e il maggio del 1353, esemplare di partenza della traditio boccacciana; un codice di Firenze (Laur., Plut. 40.13), strettamente imparentato al precedente per identità di mano, ribadita, anche di recente, da Pomaro (1986), che ne sottolinea l'analogia stilistica con opere attribuite al Maestro delle Effigi domenicane; un altro codice sempre a Firenze (Bibl. Riccardiana, 1012), della stessa officina del Vat. lat. 3199, ma più rozzo nella decorazione, "collegabile all'usuale prodotto di bottega genericamente riferito a 'scuola di Pacino'" (Pomaro, 1986, p. 356), e ancora, in rapida e disordinata successione che molto tralascia, altri codici fiorentini (Laur., Plut. 40.12, Plut. 40.14, Plut. 40.16, Plut. 40.35, Stroz. 149, Stroz. 150, Stroz. 151, Stroz. 153; Bibl. Naz., Magliabechiano II.I.32, "scriptum per Dominichum de Raymundis de Faventia", c. 100r), il codice di Venezia (Bibl. Naz. Marciana, it. Z. 51), quello a New York (Pierp. Morgan Lib., M.289), tutti testualmente appartenenti al 'gruppo del Cento' e assai vicini nei connotati codicologici, nelle scelte iconografiche, nella qualità espressiva.Superata la metà del secolo e scavalcato il periodo (1365-1370) che Petrocchi (1966, p. 18) considerava la terza tappa nell'iter della tradizione della Commedia, se l'eversione testuale operata da Boccaccio impedisce al filologo qualsiasi rigorosa classificazione, d'altro canto il diluvio di codici, in gran parte costretti e appiattiti proprio nella tipologia che più soddisfaceva una committenza interessata a coniugare forma estetica e valore venale e simbolico del prodotto, non incoraggia analoghi tentativi nel campo della produzione miniata. Si ricordano, allora, solo alcuni esempi isolati scelti tra i più rappresentativi e singolari, come il codice di Firenze (Laur., Ashb. 830) dell'inizio del sec. 15°, il 'Magnifico' per antonomasia nella tradizione filologica della Commedia, o il codice di Parigi (BN, ital. 73) datato 1403, testimone di un'attività di copia specializzata e prolungata e invito a riflettere su abitudini e pratiche di lavoro. Il codice, sottoscritto dal pisano Paolo di Duccio Tosi, a una colonna, miniato nelle iniziali di cantica da una mano arretrata ricondotta all'ambiente artistico senese (Dix siècles, 1984, nr. 58), si accompagna infatti ad altre due copie della Commedia vergate dal medesimo scriba, omogenee nella scrittura ma diverse nell'impaginazione e nell'architettura del corredo illustrativo, campioni, quindi, non solo dell'adattabilità della Commedia a contenitori fisici diversi, ma anche di collaborazioni verosimilmente occasionali e magari anche ecclesiastiche. Sono nell'ordine - escludendo il codice 1046 della Bibl. Riccardiana di Firenze, da tempo scomparso - il codice di Milano (Bibl. Trivulziana, 2263), datato 1405, a due colonne e vicino al modello del libro cortese con grandi miniature nello stile di Lorenzo Monaco; quello di New York (Kraus Coll.), sottoscritto l'11 gennaio 1412, a una colonna (ma senza il commento presente negli altri due), con iniziali istoriate assegnate ad ambiente senese per l'Inferno e fiorentino per Purgatorio e Paradiso (Brieger, Meiss, Singleton, 1969). Si ricordano inoltre tre manoscritti di Oxford (Bodl. Lib., Canon it. 105, Canon it. 106, Canon it. 107), che si spartiscono le tre cantiche della trilogia e le relative iniziali, attribuite al veneziano Cristoforo Cortese (Pächt, Alexander, 1970, nr. 450), al quale spettano anche le dieci iniziali dell'Inferno in un incompleto codice di Parigi (BN, ital. 78), vergato in artificiosa ma elegante semigotica corsiva con "maiuscole modellate [...] secondo modelli bizantini" (Petrucci, 1988, p. 1246; 1991, p. 125); da ultimo, si ricorda un altro codice di Parigi (BN, ital. 530), scritto a Padova nel 1411, con ornamentazione esuberante, ma arretrata, di ispirazione bolognese (Dix siècles, 1984, nr. 76), assai simile al contemporaneo codice di Napoli (Bibl. Naz., XIII. C. 2), assegnato a scuola emiliana (Rotili, 1972, pp. 93-94).Se pure numerosissimi, i manoscritti con lettera istoriata nella pagina d'incipit delle cantiche non costituiscono certo l'unica tipologia dei codici danteschi miniati, come già avevano visto nelle loro pionieristiche sistemazioni sia Kraus (1897) sia Volkmann (1897). Abbondanti sono anche i codici in cui l'ornamentazione, tradizionale nei soggetti, non sceglie lo spazio ridotto dell'iniziale ma si distende nel margine inferiore o superiore delle carte d'apertura, anche se occorre sottolinare che la distinzione tipologica con gli esemplari del primo gruppo, in cui spesso la maiuscola istoriata dà origine a un lungo fregio che può inglobare o sostenere piccole scene, non è sempre facile e sicura, né diversa è la funzione puramente ornamentale delle miniature.Non provoca perplessità il lussuoso codice di Firenze (Laur., Plut. 40.3), vergato a una colonna in accurata ma pesante gotica libraria che reca nelle pagine incipitarie (cc. 1r, 83r, 165r), con cornice che inquadra il testo e fregio su tre lati, una piccola miniatura inserita nella colonna in cui si affiancano e sovrappongono più scene (D. dormiente e D. davanti alle fiere, per l'Inferno; Cristo benedicente e la Vergine tra angeli, D. in adorazione e Beatrice, per il Paradiso). Tradizionalmente ritenuto fiorentino, forse per la presenza delle armi Medici, che vi furono però sicuramente aggiunte, il codice è stato poi riportato ad ambiente senese e collegato alla bottega di Niccolò di ser Sozzo Tegliacci (Chelazzi Dini, 1982, nr. 83). Altrettanto lussuoso ma più in bilico tra tipologie diverse è un altro codice di Firenze (Laur., Tempi 1), datato 1398, le cui pagine iniziali - cc. 2r, in cui, come suggerisce Meiss (Brieger, Meiss, Singleton, 1969), è all'opera don Simone Camaldolese, 32r, 62r - sono cariche, oltre che di iniziali istoriate con figure allegoriche analoghe a quelle del codice di Roma (BAV, Vat. lat. 4776, esemplare non finito, con armi Orsini, di almeno quattro artisti diversi), di miniature tabellari, quadripartite in Inferno e Purgatorio, e di fregio vegetale che si distende nei margini e penetra nello spazio intercolonnare. Ancora trecenteschi e toscani nell'ornamentazione e nella scrittura sono due codici di Milano (Bibl. Trivulziana, 1079; Bibl. Naz. Braidense, AC.XIII.41) e uno di Roma (Bibl. dell'Accad. Naz. dei Lincei e Corsiniana, Rossi 5, assegnato di recente agli anni 1355-1360 e a un centro di studi giuridici, presumibilmente Arezzo; Miglio, 1981), che ripropongono, con varianti nello schema compositivo delle illustrazioni, il modello del libro borghese di lusso. Ormai nel Quattrocento si collocano il codice di Oxford (Bodl. Lib., Canon it. 109), con miniature rettangolari su fondo oro forse di scuola senese, e il codice di Parigi (BN, ital. 72), giudicato da Volkmann (1897, pp. 20-21) di scuola burgundo-fiamminga e assegnato poi al Maestro de Coëtivy (forse Colin d'Amiens), miniatore di Carlo di Francia (le cui armi compaiono a c. 1r), che completò con immagini tratte dall'iconografia tradizionale della Francia medievale, senza alcun tentativo di adattamento e comprensione del testo contiguo, un codice di mano sicuramente italiana del sec. 14°, raro esempio di presenza straniera in un manoscritto dantesco e di penetrazione oltralpe del poema (Reynaud, 1993).Il miniatore del codice di Firenze noto come Poggiali (Bibl. Naz., Pal. 313), per lungo tempo ritenuto il più antico tra i codici miniati superstiti e oggi verosimilmente riportato agli anni quaranta del Trecento, non doveva essere certo figura marginale nella Firenze giottesca, non tanto perché a Pacino di Bonaguida e alla sua bottega sono genericamente riferiti molti dei codici danteschi più vetusti, tra cui appunto, almeno in parte, il Poggiali, ma perché, per primo si direbbe, egli tentò la strada difficile e coraggiosa dell'interpretazione visuale dell'intera trilogia dantesca. Strada senza dubbio ardua, vista la complessità e l'ampiezza della narrazione verbale, intessuta di allegorie, metafore, simbolismi, suggestioni classiche e scritturali che richiedevano una comprensione oltre la lettera, un'interpretazione del senso alluso ostica a chi possedeva tutt'al più una cultura tecnica e specialistica ma non letteraria, e vista anche la novità e l'originalità del poema, che non si prestava al riadattamento di vecchi modelli iconografici, per di più quasi inesistenti per l'ultima cantica; ma comunque tentata, a Firenze come a Venezia, a Siena come a Bologna o a Napoli, seguendo soluzioni impaginative e scelte tematiche diverse - miniature incorniciate o no, narrazione continua o episodi isolati, inserimento intercolonnare o marginale, campitura o pergamena riservata, disegno o colore - come diversi e non sempre mediocri furono i risultati. Direttamente raggiunti dalla creatività e fantasia dell'illustratore, come parrebbe per il Poggiali, o aiutati da istruzioni verbali dettate da chi aveva maggiore confidenza con i testi scritti, come in un manoscritto appartenuto alla biblioteca di Mattia Corvino oggi a Budapest (Egyetemi Könyvtár, ital. 1), o mediati da commentari o commentatori. Così nel manoscritto di Firenze (Bibl. Riccardiana, 1005) e in quello di Milano (Bibl. Naz. Braidense, AG.XII.2), tronconi oggi divisi del codice in cui il bolognese Galvano, poco prima della metà del Trecento, scrisse - e secondo Levi D'Ancona (1986) miniò insieme al figlio Tommaso - la Commedia e il commento del concittadino Iacopo della Lana, impaginati secondo il modello scolastico; così pure nel famoso codice di Chantilly (Mus. Condé, 597), databile agli anni quaranta del Trecento, illustrato, sembra, sotto la supervisione di Guido da Pisa e destinato al suo mecenate Lucano Spinola, definito capolavoro di mianitura nello stile di Francesco Traini (Meiss, 1956, p. 148).Ma il venerando codice Poggiali, con le sue trentasette miniature incorniciate - trentadue per l'Inferno, due per il Purgatorio, tre per il Paradiso - poste tra la fine di un canto e l'inizio del successivo, è anche la prova di una sconfitta che spesso si ripeté, il risultato di uno sforzo che, se era impari per gli esegeti - molti dei commenti scritti tra il sec. 14° e il 15° si arrestavano alla prima cantica -, tanto più lo era per i miniatori. Le fonti classiche, i codici virgiliani anzitutto, se offrivano spunti per l'illustrazione di Inferno e Purgatorio - e il Virgilio vaticano (Roma, BAV, Vat. lat. 3225) è più che suggestione nelle carte del Poggiali - non altrettanto facevano per il Paradiso, le cui pagine rimasero spesso desolatamente vuote di illustrazioni. È quanto successe nel codice di Budapest già citato, probabilmente uscito non molto dopo il 1342 "dalla bottega di qualche miniatore bolognese immigrato a Venezia" (Berkovits, 1930, p. 16), in cui le scene, incorniciate in rosso su fondo blu con filettature bianche, si arrestano al canto XII del Purgatorio, o anche nel celebre Filippino (Napoli, Bibl. Oratoriana del Monumento Naz. dei Girolamini, 4.20), fiorentino per il testo, ma miniato e forse scritto a Napoli appena oltrepassata la metà del Trecento - dopo la secca nella fortuna meridionale della Commedia dovuta al regno di re Roberto d'Angiò -, illustrato solo nelle prime due cantiche con centoquarantasei scene che si intercalano al testo o lo fiancheggiano entro riquadri con cornici, o ancora nel codice di Roma (Bibl. Angelica, 1102), di fine Trecento o inizio Quattrocento e di ambiente bolognese, in cui a trentaquattro miniature a fondo oro e colori vivaci che illustrano l'argomento dei primi canti fanno seguito gli spazi vuoti per Purgatorio e Paradiso. E il repertorio lievita se si accostano ai codici più propriamente miniati quelli con disegni, acquerellati o no, che privilegiano un metodo illustrativo, seguìto sin verso la fine del Trecento, in cui alla scelta di pochi episodi isolati per ogni canto si sostituisce la continuità narrativa delle scene, esaltata dalla mancanza di cornici, dalla collocazione a striscia sul margine inferiore, dall'andamento quasi processionale delle immagini.Fu probabilmente, ancora una volta, la bottega di Pacino a elaborare e diffondere la nuova soluzione e a quel prototipo oggi perduto si rifecero tanto il miniatore fiorentino di un codice di Firenze (Laur., Stroz. 152), quanto quello napoletano di un esemplare di Londra (BL, Add. Ms 19587), manoscritti per tanti aspetti diversi - l'uno in minuscola cancelleresca, l'altro in formale rotunda, il primo a una colonna, il secondo a due, l'uno vicino al 'gruppo del Cento', l'altro meridionale nel velo linguistico - e neppure troppo prossimi nel tempo - li separa circa un ventennio - ma tanto iconologicamente affini da postulare per necessità la presenza di un comune modello perduto; e ambedue, ancora una volta, con apparato illustrativo interrotto ai primi canti del Purgatorio. Molti altri seguirono; pur scegliendo casualmente vanno comunque ricordati: il codice di Firenze (Bibl. Riccardiana, 1035), scritto da Boccaccio nel 1363-1366 sul fondamento del codice di Roma (BAV, Vat. lat. 3199) o di un gemello di questo, arricchito più tardi di disegni marginali da un artista, presumibilmente veneto, che si fermò al XII canto dell'Inferno; il manoscritto di Holkham Hall (Lib. of the Earl of Leicester, 514), collocato da Rotili (1972, pp. 53-54) nell'ambito della cultura giottesca masiana affermata a Napoli alla metà del Trecento, come quello di Parigi (Ars., 8530), con disegni, da molti ritenuti mediocri, di vago ricordo francesizzante; il manoscritto di New York (Pierp. Morgan Lib., M.676), ricco di centoventinove disegni colorati, attribuiti, non senza riserve, ad artista napoletano che si avvale di aiuti (Rotili, 1972, pp. 89-93); quello di Firenze (Laur., Plut. 40. 7), cartaceo, a cavallo tra Trecento e Quattrocento, con testo in gotica formale e commento in mercantesca e con ampio apparato iconografico nel margine basso dell'Inferno.Il primo Quattrocento significò nella storia della produzione manoscritta la nascita di un nuovo tipo di libro, dai connotati fisici assai precisi: membranaceo, in latino, in scrittura umanistica, testualmente rigoroso, sobrio, armonioso, pulito nell'ornamentazione; ma significò anche una divaricazione, che si accentuò nel secondo quarto del secolo, tra modelli, e quindi prodotti, di lusso e di uso privato. I manoscritti danteschi, o meglio i manoscritti della Commedia, rimasero, per scelta ideologica dei protagonisti della riforma ostili a D. volgare, scolastico e ghibellino, esclusi o quasi dalla prima produzione umanistica e anche quando, magari per volontà di qualche amatore trasformatosi in copista, vi si insinuarono non ne accolsero in pieno tutte le caratteristiche: è il caso, per fare solo un esempio, del codice di Roma (BAV, Barb. lat. 4112), scritto per sé nel 1419 a Borgo San Sepolcro dall'aretino Iacopus Filippi ser Landi in accurata preantiqua ma con corredo illustrativo ancora memore del gusto giottesco, se pure originale e unico nel combinare scene tratte da canti diversi dell'Inferno. Né la situazione mutò di molto esauritasi la pressione del primo Umanesimo; il pugno di codici della Commedia in umanistica e con decorazione appropriata che si può collocare nella seconda metà del Quattrocento è assai scarno (Firenze, Laur., Plut. 40.20; Laur., Ashb. App. Dant. 6; Genova, Bibl. Durazzo Pallavicini, 51, 53; Parigi, BN, ital. 1469), così come irrilevante è il numero dei codici miniati scritti in mercantesca, non certo, però, per ragioni legate agli uomini e ai loro programmi culturali - ché anzi le molteplici risonanze dantesche nella produzione letteraria dei mercanti fiorentini e l'abbondante presenza nelle loro biblioteche del 'libro de Dante' provano un diffuso interesse verso il poema - quanto connesse alla tipologia libraria, povera, rozza, spesso autarchica.Alla prima età umanistica e al pieno Rinascimento appartengono comunque alcuni codici che sono tra gli esemplari più lussuosi e sontuosamente illustrati di tutta la produzione manoscritta miniata della Commedia e costituiscono "un compromesso fra la tradizione trecentesca e i nuovi orientamenti stilistici e di gusto" (Petrucci, 1988, p. 1245).Con il primo (Venezia, Bibl. Naz. Marciana, it. IX, 276), imponente nelle misure oblunghe (mm. 430280), scritto a due colonne in pesante gotica testuale, contrastata e formale, presumibilmente al passaggio tra Trecento e Quattrocento, riappare, enfatizzata ed esasperata, la soluzione narrativa e compositiva che era stata del vecchio codice Poggiali e che proprio intorno al 1390 aveva trovato nuovi seguaci; non, quindi, illustrazioni disposte a striscia alla base delle carte, ma duecentotrentaquattro miniature, in gran parte incorniciate, su pergamena riservata o a colori, all'inizio o alla fine di una colonna, in mezzo o nello spazio di due, in cui l'artista principale - un veneto (è stato supposto) che condivide con i suoi collaboratori la tradizione di Altichiero - narra con finezza di tratto, ma scarsa vibrazione drammatica, momenti del viaggio nell'oltretomba calando gli attori in un'atmosfera atona e rallentata, poco adatta al ritmo serrato, teso, fortemente emotivo di Inferno e Purgatorio, ma intonata al gusto e alla sensibilità dell'esperienza tardogotica. Nell'ultima cantica un collaboratore di ridotto talento la insecchisce in cieli stellati, prati fioriti, imprevedibili immagini di Beatrice, priva di qualsiasi simbolo di santità o di virtù, acconciata e vestita secondo i dettami della moda del tempo.Grande nel formato (mm. 365265) è anche il codice di Parigi (BN, ital. 74), "costruito con abilissima impaginazione e scritto in una pesante ed artificiosa minuscola corsiva ingrandita ed ibridata di elementi di antiqua dalla mano di un copista professionale di gotica" (Petrucci, 1988, p. 1245), aperto da una splendida miniatura a piena pagina (c. 1v) con la rappresentazione dell'Inferno modellata sull'affresco di Nardo di Cione in S. Maria Novella. Alla piena pagina - presenza non nuova nei codici danteschi, introdotta già nella prima metà del Trecento dal magnifico codice perugino dell'Inferno (Perugia, Bibl. Augusta, L.70) oggi attribuito a Pietro Lorenzetti (Chelazzi Dini, 1982, nr. 81) dopo generici riferimenti all'ambiente senese di Niccolò di ser Sozzo e Lippo Vanni - seguono trentatré miniature a quadro di due mani, una delle quali ormai stabilmente identificata con Bartolomeo di Fruosino, contemporaneo ed emulo di Lorenzo Monaco, tipico nel cromatismo morbido e nel trattamento secco e tagliato dei volti e dei panneggi. Gemello del parigino e identico nelle misure, nell'organizzazione materiale della pagina, nella tipologia grafica, nella fattura e nello stile delle immagini, il codice di San Daniele del Friuli (Civ. Bibl. Guarneriana, 200), una Commedia frammentaria e incompleta che arricchisce il catalogo essenzialmente liturgico del miniatore fiorentino - al quale Levi D'Ancona (1961) attribuisce anche il manoscritto di Parma (Bibl. Palatina, 103), con note autografe di Matteo Ronto - e delinea connotati e pratiche di lavoro di una fra le più attive botteghe fiorentine della prima metà del Quattrocento.A pannelli separati, ma memore di un esemplare con illustrazione marginale continua, è anche il codice eseguito intorno al 1440 per Filippo Maria Visconti (Parigi, BN, ital. 2017; Imola, Bibl. Francescana, 32), scritto in grande e formale gotica lombarda e concordemente ritenuto del Maestro delle Vitae Imperatorum, del quale si riconoscono "il trattamento stilizzato ma vigorosamente plastico delle forme" (Dix siècles, 1984, p. 151), l'attenzione ai particolari dell'abbigliamento, le sfumature e il vigore espressivo nei volti e negli atteggiamenti. Il codice, originariamente ornato di almeno centoquindici scene - ne rimangono oggi settantadue, cinquantanove a Parigi e tredici a Imola -, in cui l'idea del viaggio d'oltretomba è genialmente suggerita e sottolineata da un orlo frastagliato a crepacci nella parte superiore, è quasi certamente la copia di presentazione del commento dell'Inferno che Guiniforte Barzizza, figlio dell'umanista e familiare dei Visconti, aveva da poco terminato di scrivere su commissione del duca Filippo Maria.Di ambiente cortese è anche l'eccezionale codice di Londra (BL, Yates Thompson 36), con armi aragonesi, unitario nel programma illustrativo, composto di centododici miniature a quadro disposte sul margine basso, assegnate fino ad anni recenti a Lorenzo Vecchietta per l'Inferno e il Purgatorio e a Giovanni di Paolo per il Paradiso (Pope-Hennessy, 1947). Straordinarie per la singolare interpretazione della nudità, per la dimensione monumentale dei gruppi, ma soprattutto per l'intensa luminosità e per le sofisticate invenzioni coloristiche che prendono corpo nelle rocce monocromatiche dell'Inferno, le scene delle prime due cantiche sono state poi attribuite (Meiss, 1964; Brieger, Meiss, Singleton, 1969) a Priamo della Quercia, fratello di Iacopo, sicuramente attivo come pittore a fresco nel 1442 e supposto collaboratore di Domenico Veneziano, dal quale avrebbe assorbito l'insuperabile capacità di combinare luce e colore, o a Nicola da Siena (Chelazzi Dini, 1977). Ferma e concorde resta l'attribuzione del Paradiso a Giovanni di Paolo.Il 10 settembre 1482 moriva Federico da Montefeltro e i miniatori di corte capeggiati dal ferrarese Guglielmo Giraldi interrompevano l'illustrazione della grandiosa Commedia (Roma, BAV, Urb. lat. 365), voluta dal duca, che già dal 1478 Matteo de' Contugi da Volterra, scriba esperto e abile costruttore di bilanciate architetture librarie, aveva terminato di trascrivere. Codice superbo per armonia e disegno di forme grafiche - un'antiqua tonda morbida e calibrata - e iconografiche - oltre cento miniature tabellari di grande formato (mm. 145105) - e per l'impalcatura equilibrata e solenne, che libera la Commedia dall'antica formula del libro 'moderno' e dalla "minuzia acida dei vecchi illustratori" (Chastel, 1959, p. 122), il codice è l'approdo conclusivo del lungo percorso che dal D. gotico e scolastico dei codici paciniani era giunto al D. travestito da poeta platonico dell'edizione landiniana, che in quegli stessi anni veniva stampata a Firenze. Dal 'libro bello' si passava ormai al 'libro nero'.
Bibl.:
Edd. in facsimile. - Il codice Trivulziano 1080 della Divina Commedia, a cura di L. Rocca, Milano 1921; Dante Alighieri, Divina Commedia, Codex Altonensis, I, a cura di H. Haupt; II, Kommentar zum Codex Altonensis, a cura di H. Haupt, H.L. Scheal, B. Degenhart, Berlin 1965; Il Dante Urbinate della Biblioteca Vaticana (codice Urbinate Latino 365), a cura di L. Michelini Tocci, M. Salmi, G. Petrocchi, 2 voll., Città del Vaticano 1965.
Letteratura critica. - F.X. Kraus, Dante. Sein Leben und sein Werk, sein Verhältnis zur Kunst und zur Politik, Berlin 1897; L. Volkmann, Die bildlichen Darstellungen zur Göttlichen Komödie, Leipzig 1897; P. D'Ancona, La miniatura fiorentina. Secoli XI-XVI, 2 voll., Firenze 1914; La Divina Commedia nella figurazione artistica e nel secolare commento, a cura di G. Biagi, 3 voll., Torino 1924-1939; P. D'Ancona, La miniature italienne du Xe au XVIe siècle, Paris 1925; I. Berkovits, Un codice dantesco della Biblioteca della R. Università di Budapest, Corvina 19-20, 1930, pp. 5-31; R. Offner, A Critical and Historical Corpus of Florentine Painting, III, 2, 2, New York 1930; III, 6, 1956; III, 7, 1957; IV, 2, 1960; J. Pope-Hennessy, A Sienese Codex of the Divine Comedy, Oxford-London 1947; Catalogo della mostra storica nazionale della miniatura, a cura di G. Muzzioli, Firenze 1953; M. Meiss, Primitifs italiens à l'Orangerie, La revue des arts 6, 1956, pp. 139-148; C. Santoro, I codici miniati della Biblioteca Trivulziana, Milano 1958; A. Chastel, Art et humanisme à Florence au temps de Laurent le Magnifique, Paris 1959; D. Hughes, Trecento Illustrations of the Divina Commedia, Annual Report of the Dante Society 77, 1959, pp. 1-40; M. Levi D'Ancona, Bartolomeo di Fruosino, ArtB 43, 1961, pp. 81-97; M. Salmi, Problemi figurativi dei codici danteschi del Tre e del Quattrocento, "Atti del I Congresso nazionale di studi danteschi, Caserta 1961", Firenze 1962, pp. 174-181; G. Dalli Regoli, Miniatura pisana del Trecento, Vicenza 1963; M. Meiss, The Yates Thompson Dante and Priamo della Quercia, BurlM 106, 1964, pp. 403-412; C. Dionisotti, Dante nel Quattrocento, "Atti del Congresso internazionale di studi danteschi, Firenze 1965", Firenze 1965, I, pp. 333-378; Mostra di codici ed edizioni dantesche, Firenze 1965; G. Petrocchi, Introduzione, in Dante Alighieri, La Commedia secondo l'antica Vulgata, Milano 1966, I; M. Meiss, La prima interpretazione dell'Inferno nella miniatura veneta, in Dante e la cultura veneta, "Atti del Convegno di studi organizzato dalla Fondazione Cini, Firenze 1967", a cura di V. Branca, G. Padoan, Firenze 1967, pp. 299-302; B. Degenhart, A. Schmitt, Corpus der italienischen Zeichnungen, 1300-1450. I. Süd- und Mittelitalien, 4 voll., Berlin 1968; M. Levi D'Ancona, Un Dante della Marciana e Iacopo da Verona, Commentari 19, 1968, pp. 60-79; P. Brieger, M. Meiss, C.S. Singleton, Illuminated Manuscripts of the Divine Comedy, 2 voll., Princeton 1969; O. Pächt, J.J.G. Alexander, Illuminated Manuscripts in the Bodleian Library Oxford, II, Italian School, Oxford 1970; M. Meiss, A Note on the Marciana Dante and its "Signature", ArtB 53, 1971, pp. 310-311; M. Rotili, I codici danteschi miniati a Napoli, Napoli 1972; J.J.G. Alexander, Buchmalerei der italienischen Renaissance im 15. Jahrhundert, München 1977; G. Chelazzi Dini, Lorenzo Vecchietta, Priamo della Quercia, Nicola da Siena: nuove osservazioni sulla D.C. Yates Thompson 36, in Iacopo della Quercia fra Gotico e Rinascimento, "Atti del Convegno, Siena 1975", Firenze 1977, pp. 203-228; F. d'Arcais, Le miniature del Riccardiano 1005 e del Braidense AG.XII.2: due attribuzioni e alcuni problemi, StArte, 1978, 33, pp. 105-114; Dante. La Divine Comédie. Manuscrit enluminé du XVe siècle, a cura di S. Samek-Ludovici, Fribourg-Genève 1979; L. Miglio, Considerazioni ed ipotesi sul libro ''borghese'' italiano del Trecento. A proposito di un'edizione critica dello "Specchio umano" di Domenico Lenzi, Scrittura e civiltà 3, 1979, pp. 309-327; B. Degenhart, A. Schmitt, Corpus der italienischen Zeichnungen, 1300-1450. II. Venedig. Addenda zu Süd- und Mittelitalien, 4 voll., Berlin 1980; C. Bec, Cultura e società a Firenze nell'età della Rinascenza, Roma 1981; A. Conti, La miniatura bolognese. Scuole e botteghe 1270-1340, Bologna 1981; L. Miglio, Il codice corsiniano Rossi 5 della Commedia: descrizione, analisi ed ipotesi, Studi danteschi 53, 1981, pp. 241-271; S. Partsch, Profane Buchmalerei der bürgerlichen Gesellschaft im spätmittelalterlichen Florenz. Der Specchio Umano des Getreidehändlers Domenico Lenzi (Heidelberger kunstgeschichtliche Abhandlungen, n.s., 16), Worms 1981; G. Chelazzi Dini, La crisi di metà secolo, in Il gotico a Siena: miniature, pitture, oreficeria, oggetti d'arte, cat. (Siena 1982), Firenze 1982, pp. 219-289; H.P. Kraus, Cimelia. A Catalogue of Important Illuminated and Textual Manuscripts Published in Commemoration of the Sale of the Ludwig Collection. Catalogue 165, New York 1983; A. Petrucci, Il libro manoscritto, in Letteratura italiana, a cura di A. Asor Rosa, II, Produzione e consumo, Torino 1983, pp. 499-524; Dix siècles d'enluminure italienne (VIe-XVIe siècles), a cura di F. Avril, cat., Paris 1984; R. Offner, K. Steinweg, A Critical and Historical Corpus of Florentine Painting, III, 9, a cura di M. Boskovits, Firenze 1984; M. Roddewig, Dante Alighieri. Die göttliche Komödie. Vergleichende Bestandsaufnahme der Commedia-Handschriften, Stuttgart 1984; La miniatura in Friuli, a cura di G.C. Menis, G. Bergamini, cat., Udine-Milano 1985; G. Pomaro, Codicologia dantesca. 1. L'officina di Vat, Studi danteschi 58, 1986, pp. 343-374; M. Levi D'Ancona, I due miniatori del codice Rb della Commedia, ivi, pp. 375-379; C. Bologna, Tradizione testuale e fortuna dei classici, in Letteratura italiana, a cura di A. Asor Rosa, VI, Teatro, musica, tradizione dei classici, Torino 1986, pp. 445-928; R. Mercuri, Genesi della tradizione letteraria italiana in Dante, Petrarca e Boccaccio, ivi, Storia e geografia, I, L'età medievale, Torino 1987, pp. 229-455; A. Petrucci, Storia e geografia delle culture scritte (dal secolo XI al secolo XVIII), ivi, II, L'età moderna, Torino 1988, II, pp. 1193-1292; id., Scrivere alla greca nell'Italia del Quattrocento, in Bisanzio fuori di Bisanzio, a cura di G. Cavallo, Palermo 1991, pp. 121-136; N. Reynaud, Dante, Divina Commedia, in F. Avril, N. Reynaud, Les manuscrits à peintures en France 1440-1520, Paris 1993, pp. 61-62, nr. 24.L. Miglio