DANTE ALIGHIERI
A segnalare a D. la presenza di Federico II nell'inferno è Farinata degli Uberti, incontrato nel sesto cerchio, una pianura disseminata di arche sepolcrali scoperchiate in attesa del giorno del giudizio e affocate da fiamme che vi ardono intorno. Lì si trovano, gli spiega Virgilio, gli iniziatori dei movimenti ereticali con i loro seguaci (Inf. IX, 124-131): probabilmente la pena degli eretici è ricalcata da D. su quella del rogo prevista da Federico II in due sue costituzioni. Il reparto del sepolcreto verso cui D. è condotto è riservato a Epicuro e a "tutt'i suoi seguaci / che l'anima col corpo morta fanno" (Inf. X, 13-15). È ad una di queste arche che si affaccia Farinata, di cui D. aveva poco prima espresso il desiderio di fare conoscenza (vv. 6-9 e 16-18; cf. VI, 79-87). Quando D. prega Farinata di dirgli "chi con lu' istava", questi risponde: "qua dentro è 'l secondo Federico / e 'l Cardinale [Ottaviano degli Ubaldini]; e de li altri mi taccio" (vv. 116-120). Le parole di Farinata turbano D., poiché contengono un oscuro presagio sulla prima fase (fino al 1304) del suo esilio (vv. 79-81) e la notizia della presenza di Federico II passa perciò inevitabilmente in secondo piano.
Federico, dunque, all'inferno perché eretico epicureo. Dei quattro sepolti nella medesima tomba ‒ Farinata e i due nominati da lui, nonché Cavalcante dei Cavalcanti, che dialoga anch'egli con D. (vv. 57-72) ‒ i primi tre appartengono alla pars imperii e l'ultimo alla pars ecclesie. Se la particolare eresia imputata qui allo Svevo non fosse sufficiente a sgombrare il terreno dalla tesi di un nesso organico fra ghibellinismo e patarinismo (così si definiva allora a Firenze l'eresia in genere), a contraddirla basta la presenza di un guelfo fra i quattro eretici chiamati per nome. Farinata è anche uno dei cinque fiorentini, "che fuor sì degni" e "a ben far puoser li ingegni", di cui D. chiede a Ciacco dove si trovino (Inf. VI, 79-87). "Degni", in quanto si erano segnalati sotto il profilo del "ben far", cioè della vita attiva, e tale su questo piano ‒ anzi più che degno, visto che egli e suo figlio Manfredi sono detti heroes illustres ‒ è anche Federico II nel De vulgari eloquentia (I, xii, 4). I due, infatti, "seppero esprimere tutta la nobiltà e dirittura del loro spirito, e finché la fortuna lo permise si comportarono da veri uomini, sdegnando di vivere da bestie", col risultato che la reggia siciliana era divenuta il punto di riferimento e di raccolta degli uomini di lettere italiani corde nobiles atque gratiarum dotati. A questo elogio dell'aula siculo-federiciana nulla toglie la denuncia, che D. pone in bocca a Pier della Vigna (Inf. XIII, 58-78), del "vizio" dell'invidia, diffuso ovunque ma in particolare nelle corti e, quindi, anche in quella siciliana, che ha indotto al suicidio lui, che era stato il collaboratore più vicino a Federico. Egli però non parla per denigrare l'istituzione ove aveva operato con soddisfazione, ma per togliere il sospetto che ancora aleggiava ch'egli avesse tradito il suo imperatore.
In un evento, ricordato a D. da Farinata, avevano avuto una parte di primo piano Federico II e suo figlio Federico d'Antiochia (v.). Al capoparte ghibellino, che, per prima cosa, gli chiede "'Chi fuor li maggior tui?'" (Inf. X, 42), non per la curiosità di conoscere i suoi natali, ma per l'ansia faziosa di venire ragguagliato circa la parte cui avevano appartenuto, l'interpellato risponde senza esitazione che erano stati di parte guelfa. Fieri avversari, dunque ‒ replica Farinata ‒, di lui stesso, dei suoi primi e della sua parte, tanto è vero che li costrinse ad andare due volte in esilio: nel 1248 e nel 1260. Nel 1248 a decidere le sorti di una battaglia, combattuta in Firenze fra guelfi e ghibellini, era stato l'imperatore che mandò il figlio con seicento cavalieri tedeschi in rinforzo a questi ultimi (Giovanni Villani, Nuova cronica, a cura di G. Porta, I, Parma 1990, pp. 317 s.). Se D. colloca Federico II all'inferno è anche per un riflesso innato della sua memoria familiare, pur se non risulta chiaro quanti degli Alighieri siano stati in esilio dopo il 1248 e il 1260.
A prescindere dai risentimenti familiari di D., sta però di fatto che una voce diffusa da più fonti ‒ dalla pubblicistica papale alla circostanziata accusa di Salimbene de Adam (Cronica, a cura di G. Scalia, I, Bari 1966, p. 512, rr. 13-16), che attribuisce a Federico un riprovevole zelo nel cercare di persona o, addirittura, nel fare cercare dai suoi sapientes i passi della Scrittura che lasciassero arguire che non c'era altra vita dopo la morte ‒ tendeva ad accreditarne l'immagine come di un epicureo nel senso più tecnicamente incolpante del termine. Ma anche l'epicureismo, come il catarismo, per cui Farinata era stato condannato dall'inquisitore nell'ottobre 1283, "poté essere una religione vissuta a vari livelli" e, quindi, anche a quello di un generico anticlericalismo (Frugoni, 1979, p. 371) e, dunque, costituire per D. un modo adeguato di condensare in una parola una serie di atteggiamenti variamente trasgressivi, nei confronti della dottrina e della pratica della Chiesa.
Ai fini della determinazione del giudizio di D. su Federico II, meritano di essere citati due passaggi collaterali della confutazione che, nel commentare i vv. 21-24 della canzone Le dolci rime d'amor, egli fa, nel Convivio, dell'opinione espressa da un imperatore, il quale, "domandato che fosse gentilezza [cioè nobiltà], rispuose ch'era antica ricchezza e belli costumi", rivelando che si tratta di "Federigo di Soave [di Svevia], ultimo imperadore de li Romani ‒ ultimo dico per rispetto al tempo presente, non ostante che Ridolfo [d'Asburgo] e Andolfo [di Nassau] e Alberto [d'Asburgo] poi eletti [re dei Romani, ma non incoronati imperatori a Roma] siano, appresso la sua morte e de li suoi discendenti" (Convivio, IV, iii, 6). Un'analoga enunciazione avalutativa di quello che è un dato di fatto D. la ripete in Par. III, 119-120, a proposito di Costanza d'Altavilla, "che del secondo vento di Soave [Enrico VI] / generò 'l terzo e l'ultima possanza [Federico II]". "Vento", per i commentatori antichi e moderni, sta per "tenuis […] temporalis potentia. Ubi sunt reges, ubi imperatores, ubi potentes seculi? quasi umbre transierunt". È un passo citato da Pietro di Dante, che lo attribuisce a Girolamo. D. con "vento" si riferisce al breve regno di Enrico VI (1190-1197), cui accomuna quello ben più lungo di Federico II (1220-1250), "ultima possanza" della casa sveva, non più "ultimo imperadore de li Romani" come nel Convivio, forse perché, anche se non poteva tenerne conto, c'era stato frattanto di mezzo il regno di Enrico VII (giugno 1312-agosto 1313). In conclusione, nei due passi paralleli del Convivio e della Commedia, non si può dire che l'azione politica di Federico riceva l'apprezzamento positivo che taluno vi riscontra. Si direbbe che, per D., l'"antica età", in cui "solea valore e cortesia trovarsi", di "prima che Federico avesse briga" (Purg. XVI, 122 e 116-117), era giunta a termine perché il "terzo vento di Soave" non era stato all'altezza di tutelare, come avrebbe dovuto, la persi stenza di quei valori, andati ormai perduti. Sempre nel quarto trattato del Convivio, proprio dove D. confuta l'opinione di Federico II per cui l'"antica ricchezza, cioè tempo e divizie" era uno dei due elementi costitutivi della nobiltà, dopo avere ribadito che definire cosa sia nobiltà è "fuori d'imperiale ufficio", nell'atto di dargli torto addirittura per due diverse ragioni, dichiara di farlo, "avvegna che, secondo la fama che di lui grida, elli fosse loico e clerico grande" (IV, x, 5-6: un elogio che, pur concernendo in sostanza l'aspetto di Federico esaltato nel De vulgari eloquentia, è più alto di quello, in quanto tocca direttamente la persona dell'imperatore.
Fonti e Bibl: Enciclopedia Dantesca, II, Roma 1970: R. Manselli, Federico II di Svevia imperatore (pp. 825-828); Id., Eresia (pp. 719-722); G. Stabile, Epicurei (pp. 697-701), con relative bibl.; A. Frugoni, Lettura del canto X dell'Inferno (1967), in Id., Incontri nel Medio Evo, Bologna 1979, pp. 368-388; G. Arnaldi, Federico II e la storia d'Italia, in Inaugurazione ufficiale delle celebrazioni dell'VIII centenario della nascita di Federico II (Jesi, 13 sett. 1994), Roma 1999, pp. 33-38.