Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Dante Alighieri è tra le personalità più significative della cultura medievale, che nella sua opera trova una summa e insieme un suo superamento. Nel prosimetro la Vita Nova porta a compimento le ragioni profonde dello stil novo, ma in seguito si cimenta anche in esperimenti lirici appartenenti a diversi livelli stilistici, le rime comiche, le “petrose”, le dottrinali. Queste ultime sono commentate in prosa nel Convivio, un trattato filosofico in volgare, mentre nel De vulgari eloquentia offre un trattato di retorica e poetica. Politico militante, e per questo esiliato da Firenze per vent’anni fino alla morte, compone pure un trattato politico in latino, la Monarchia. E il tema politico è presente anche nella Commedia, in cui racconta un viaggio nell’aldilà e dalla prospettiva oltremondana rappresenta l’intera realtà, in un poema onnicomprensivo ed enciclopedico animato da una vertiginosa poesia pluristilistica.
Dante Alighieri
In quella parte del libro de la mia memoria dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice: “Incipit vita nova”. Sotto la quale rubrica io trovo scritte le parole le quali è mio intendimento d’assemplare in questo libello; e se non tutte, almeno la loro sentenzia.
Dante Alighieri, Vita Nova
Dante Alighieri
Donne ch’avete intelletto d’amore,
i’ vo’ con voi de la mia donna dire,
non perch’io creda sua laude finire,
ma ragionar per isfogar la mente.
Io dico che pensando il suo valore,
Amor sì dolce mi si fa sentire,
che s’io allora non perdessi ardire,
farei parlando innamorar la gente.
E io non vo’ parlar sì altamente,
ch’i’ divenisse per temenza vile;
ma tratterò del suo stato gentile
a respetto di lei leggeramente,
donne e donzelle amorose, con vui,
ché non è cosa da parlarne altrui.
Dante Alighieri, Vita Nova
Dante Alighieri
Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi laudari,
benignamente d’umiltà vestita,
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
Mostrasi sì piacente a chi la mira,
e dà per li occhi una dolcezza al core,
che’ntender no la può chi no la prova:
e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: Sospira.
Dante Alighieri, Vita Nova
Dante Alighieri
Introduzione a sonetto per Beatrice
Vita Nova, XLII
Appresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com’ella sae veracemente. Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna. E poi piaccia a colui che è sire de la cortesia, che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamentemira ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus.
Dante Alighieri, Vita Nova
Dante Alighieri
Così nel mio parlar voglio esser aspro
com’è ne li atti questa bella petra,
la quale ognora impetra
maggior durezza e più natura cruda,
e veste sua persona d’un diaspro
tal, che per lui, o perch’ella s’arretra,
non esce di faretra
saetta che già mai la colga ignuda:
ed ella ancide, e non val ch’om si chiuda
né si dilunghi da’ colpi mortali,
che, com’avesser ali,
giungono altrui e spezzan ciascun’arme;
sì ch’io non so da lei né posso atarme.
Dante Alighieri, Le rime
Dante Alighieri
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura.
Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.
Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,
guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.
Allor fu la paura un poco queta
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.
Dante Alighieri, Divina Commedia
Dante Alighieri
Io vidi già nel cominciar del giorno
La parte orïental tutta rosata,
e l’altro ciel di bel sereno adorno;
e la faccia del sol nascere ombrata,
sì che, per temperanza di vapori
l’occhio la sostenea lunga fïata:
così dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva
e ricadeva in giù dentro e di fori,
sovra candido vel cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto,
vestita di color di fiamma viva.
E lo spirito mio, che già cotanto
Tempo era stato ch’a la sua presenza
Non era di stupor, tremando, affranto,
sanza de li occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse,
d’antico amor sentì la gran potenza.
Dante Alighieri, Divina Commedia
Dante Alighieri
La luce in che rideva il mio tesoro
Ch’io trovai lì, si fé prima corusca,
quale a raggio di sole specchio d’oro;
indi rispose: “Coscïenza fusca
o de la propria o de l’altrui vergogna
pur sentirà la tua parola brusca.
Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’è la rogna.
Ché se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi quando sarà digesta.
Questo tuo grido farà come vento,
che le più alte cime più percuote;
e ciò non fa d’onor poco argomento.
Però ti sono mostrate in queste rote,
nel monte e ne la valle dolorosa
pur l’anime che son di fama note,
che l’animo di quel ch’ode, non posa
né ferma fede per essempro ch’aia
la sua radice incognita e ascosa,
né per altro argomento che non paia”.
Dante Alighieri, Divina Commedia
Dante Alighieri
Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;
e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ’l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.
Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,
è tanto che non basta a dicer ‘poco’.
O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!
Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,
dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che ’l mio viso in lei tutto era messo.
Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;
ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move ’l sole e l’altre stelle.
Dante Alighieri, Divina Commedia
Dante nasce a Firenze da una famiglia della piccola nobiltà. Non conosciamo molto della sua formazione, ma nei primi anni Ottanta entra in contatto con gli ambienti letterari fiorentini, stringendo un’amicizia poetica con Guido Cavalcanti. Nel frattempo sposa Gemma Donati (?-1329/1332) nel 1285 e partecipa alla vita militare della città. In questi anni si colloca anche un soggiorno a Bologna. Nel 1290 muore Beatrice, la donna cui aveva dedicato la parte più cospicua delle sue rime. Segue un periodo di turbamento dal quale riesce a uscire grazie agli studi filosofici. Negli anni successivi si colloca la composizione della Vita Nova, in cui raccoglie alcune delle rime scritte per Beatrice inserendole in una cornice in prosa.
A partire del 1295 partecipa alla vita politica della città ricoprendo vari incarichi. Il culmine della sua carriera si ha nel 1300 con l’elezione a priore. Firenze è dilaniata dal conflitto fra Guelfi Neri, più favorevoli alle relazioni con il papato, e Guelfi Bianchi, cui appartiene Dante, più inclini a una politica di autonomia. Nel novembre 1301, mentre si trova a Roma per un’ambasceria presso il papa, i Neri prendono il potere con l’appoggio degli inviati papali. Inizia una serie di processi sommari nei confronti dei Bianchi e anche Dante, che non è ancora rientrato a Firenze, viene condannato prima a una multa e al confino, poi a morte e alla confisca dei beni (10 marzo 1302). Inizia così l’esilio.
Si unisce agli altri esuli Bianchi per cercare di tornare in città con la forza delle armi, ma quando si presenta l’occasione di trattative di pace, si impegna a fondo nei negoziati. In seguito al loro fallimento abbandona anche i compagni, che vogliono continuare nella lotta armata, ma vengono poi definitivamente sconfitti nella battaglia della Lastra (1304). Al poeta, ormai isolato, non resta che sperare in un’amnistia che consenta il ritorno in patria e intanto cercare ospitalità nelle corti e città della Toscana e dell’Italia del Nord. Ai primi anni dell’esilio appartengono il Convivio e il De vulgari eloquentia, lasciate interrotte quando, verso il 1306-1307, inizia a comporre la Commedia.
Una svolta decisiva si ha nel 1310: l’imperatore Arrigo VII scende in Italia per ricevere a Roma l’incoronazione dal papa e ribadire l’autorità imperiale sui territori italiani. Dante ripone nell’imperatore ogni speranza di ristabilimento della pace nelle città italiane dilaniate dalle guerre civili. Partecipa con entusiasmo a questa fase politica, componendo epistole in latino rivolte ai diversi attori della scena politica (Epistole V, VI, VII). Ma il sogno imperiale finisce con la morte improvvisa di Arrigo nel 1313.
Anche le possibilità di ritorno a Firenze per via di amnistia svaniscono per le condizioni umilianti poste dal Comune agli esuli (1315). Dante trascorre lunghi periodi ospite di Cangrande della Scala a Verona per poi trasferirsi, probabilmente verso il 1318, a Ravenna dove lavora alla conclusione del poema. A questi ultimi anni appartengono anche uno scambio di epistole metriche in latino con Giovanni del Virgilio, in cui Dante ripropone il genere dell’egloga, e la Quaestio de aqua et terra, un trattatello latino sul rapporto fra le acque e le terre emerse. Nel 1321, di ritorno da un’ambasceria a Venezia, si ammala di febbri malariche e muore a Ravenna fra il 13 e il 14 settembre.
Negli anni Ottanta Dante inizia il proprio apprendistato poetico. Appartengono a questa fase alcune rime in cui si mostra sensibile al magistero di Guittone e si cimenta nei modi della lirica cortese. Ma ben presto si avvicina a Guido Cavalcanti, già poeta affermato, e insieme si ispirano, con alcuni altri amici, alla lezione di Guido Guinizzelli. La poesia di Dante inizia a concentrarsi intorno al nome di Beatrice, ma la morte della donna amata, nel 1290, provoca un periodo di crisi, da cui il poeta esce anche grazie alla composizione della Vita Nova, intorno agli anni 1293-1295.
Dante sceglie e ordina le proprie poesie giovanili, intercalando ai testi poetici parti in prosa. Le poesie configurano un percorso autobiografico ideale, la storia esemplare dell’amore per Beatrice e della poesia che lo canta. L’opera si presenta come un prosimetro, in cui la prosa ha la funzione narrativa di integrare le fasi della vicenda, ma anche quella esegetica di spiegare e commentare i significati delle rime. I testi poetici sono in tutto 31: 25 sonetti, 5 canzoni e una ballata. Il titolo ha il significato letterale di “vita giovanile”, ma vi si aggiunge l’allusione alla vita nuova in senso paolino, cioè rinnovata dall’esperienza dell’amore.
L’opera, che l’autore definisce un “libello”, si apre con l’annuncio dell’intenzione di trascrivere quanto è scritto nel “libro della memoria”. La narrazione ha inizio con il primo incontro con Beatrice, quando il poeta aveva nove anni, e poi il secondo, nove anni dopo. La presenza del numero nove, ideale di perfezione, contribuisce a portare sugli avvenimenti una luce simbolica e un valore universale. Il nove è il numero di Beatrice, anzi Beatrice stessa è “uno nove”, cioè “uno miracolo”.
A questo secondo incontro segue un sogno che il poeta racconta nel sonetto A ciascun’alma presa e gentil core, inviato ad alcuni rimatori, fra cui Guido Cavalcanti: da qui nasce l’amicizia fra i due. Ma Dante decide di nascondere l’amore per Beatrice per proteggere l’amata. Perciò inizia a comporre poesie per un’altra donna e, partita questa, per un’altra ancora. Ma di tali amori si inizia a parlare in termini poco onorevoli e Beatrice, sdegnata, gli toglie il saluto. Nel momento in cui ne è privato, Dante si rende conto che nel saluto risiedevano la sua beatitudine e la sua salvezza. Tuttavia ormai egli non è più in grado di tollerare la visione di Beatrice e in sua presenza perde i sensi. Così una delle compagne della donna gli chiede qual è lo scopo del suo amore, dato che non regge la visione dell’amata. La risposta del poeta segna una svolta: il fine del suo amore è “nelle parole che lodano la donna mia”. Per questo decide di prendere come materia di poesia solo la lode di Beatrice. Nascono così la canzone Donne ch’avete intelletto d’amore e poi alcuni sonetti (fra cui il celebre Tanto gentile e tanto onesta pare). In questi testi Dante loda la donna come intermediaria del divino, capace di condurre l’amante verso Dio.
Ma già nella sezione del libro dedicata alla lode si ha il presagio della prossima morte di Beatrice. E la seconda parte si apre con espressioni di lutto per la morte dell’amata, anche se poi il poeta addolorato trova consolazione negli sguardi di una donna “pietosa” e “gentile”. Sembra che possa nascere un nuovo amore, quando Beatrice riappare a Dante in una visione. Segue il pentimento per essersi allontanato e ritorna l’amore per Beatrice, prima in tono di lutto, poi come celebrazione della sua beatitudine celeste. Infatti l’ultimo testo poetico, il sonetto Oltre la spera che più larga gira, presenta Beatrice in paradiso e il dolore per la morte è superato dalla gioia per la sua salvezza.
Ma il libello si chiude con un ultimo paragrafo in cui il poeta dichiara di aver ricevuto una “mirabile visione”, in seguito alla quale decide di non scrivere più su Beatrice sino a quando non sarà in grado di “più degnamente trattare di lei” in un’opera nella quale spera “di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna”. In qualche modo la Commedia costituirà il compimento di questa promessa, ma in modi del tutto imprevedibili a questa altezza cronologica.
La Vita Nova, con la poetica della lode, segna il punto più avanzato dello stil novo. La trasformazione dell’amata in beata del paradiso apre poi a prospettive nuove la metafora della donna angelo e l’idea dell’amore come processo di elevazione spirituale.
Il libro delle Rime non è stato organizzato dall’autore, ma messo insieme dai filologi raccogliendo le poesie non inserite in opere più ampie. Oltre alle rime di apprendistato e a quelle escluse dalla Vita Nova, si possono individuare alcuni nuclei posteriori alla stesura del libello.
La tenzone con Forese Donati (anteriore al 1296) consta di tre sonetti di Dante e tre di Forese in cui i poeti si scambiano nei modi tipici della poesia burlesca accuse infamanti con linguaggio basso e osceno. Dante mostra la volontà di sperimentare diversi livelli stilistici, non solo quello elevato della lirica stilnovista. E tracce di questa esperienza si ritroveranno anche nella Commedia. Se fosse di Dante potrebbe appartenere a questo filone di sperimentazione comica anche il Fiore, una riduzione del Roman de la Rose in 232 sonetti. Tuttavia oggi la paternità dantesca è messa in discussione.
Ma il frutto più significativo della fase sperimentale successiva alla Vita Nova sono le quattro canzoni che i critici chiamano “rime petrose”, perché incentrate sull’amore per una donna impietosa, tanto da essere definita metaforicamente una pietra o essere chiamata con il nome Pietra. L’ostilità e il carattere duro della donna richiedono, per il principio della convenientia fra stile e materia, un linguaggio duro e aspro. La donna ha carattere opposto a quello benigno e umile di Beatrice, e lo stile aspro si oppone a quello dolce delle rime stilnoviste. E se l’amore per Beatrice promuoveva un’elevazione morale e spirituale, ora l’amore è sensuale e passionale, non eleva verso la spiritualità, ma trascina verso i desideri del corpo.
Lo stile aspro e difficile si collega al magistero del trovatore Arnaut Daniel, e infatti la forma della sestina, inventata da Arnaut, si trova in due testi, la sestina vera e propria Al poco giorno ed al gran cerchio d’ombra e la canzone Amor, tu vedi ben che questa donna, definibile una sestina doppia. In questi testi, come nell’altra canzone, Io son venuto al punto de la rota, dominano le atmosfere invernali: il gelo del paesaggio diviene un correlato del gelo nel cuore della donna restia all’amore, e la sua durezza trova corrispondenza nell’ostinazione con cui il poeta persevera in un amore infelice, e anche nell’ossessiva fissità tematica, provocata dalla ripetizione in rima delle stesse parole.
In passato si è data un’interpretazione biografica alle petrose; oggi si tende a vedere nella donna pietra la rappresentazione di un’arte poetica difficile e ardua. Tuttavia il piano letterale non può essere eliminato del tutto, perché si perderebbe la rappresentazione dell’aspra Pietra come antitesi della “gentilissima” Beatrice.
Una nuova sperimentazione, destinata a sviluppi più ampi, è quella delle rime dottrinali. Alcune canzoni di argomento amoroso, cronologicamente e stilisticamente vicine alle rime stilnovistiche, acquistano valore dottrinale attraverso l’interpretazione allegorica che ne viene data nel Convivio (Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete e Amor che ne la mente mi ragiona). Altre rime, successive all’esilio, palesano già a livello letterale gli argomenti dottrinali, come avviene in Le dolci rime d’amor ch’i’ solia, sulla nobiltà; Poscia ch’Amor del tutto m’ha lasciato, sulla leggiadria; Doglia mi reca ne lo core ardire, sulla liberalità; Tre donne intorno al cor mi son venute, sulla giustizia, in cui compare anche il tema autobiografico dell’esilio.
Queste rime dottrinali entrano o sarebbero dovute entrare in un nuovo prosimetro, il Convivio, che viene iniziato nei primi anni dell’esilio (nel 1303-1304 i primi tre libri, tra 1306 e 1308 il quarto). Secondo il progetto iniziale, l’opera sarebbe stata formata dal commento letterale e allegorico a 14 canzoni, ciascuna dedicata a una virtù o a un altro argomento filosofico-morale. Il progetto viene abbandonato dopo la stesura di un trattato proemiale e di tre trattati. Qui la prosa ha carattere dottrinale e didattico, in quanto l’esegesi delle canzoni si apre a digressioni di carattere filosofico, scientifico, teologico.
Il titolo dell’opera, spiegato nel trattato proemiale, allude alla metafora della scienza come nutrimento spirituale: l’autore annuncia di voler preparare un banchetto per coloro che pur desiderando la conoscenza ne sono esclusi in quanto non conoscono il latino o perché impegnati nella vita civile e familiare. E per potersi rivolgere a questo pubblico egli decide di usare il volgare, operazione nuova per un’opera filosofica.
Nel secondo trattato Dante commenta la canzone Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete. Il poeta è addolorato per la morte di Beatrice, ma appare una nuova “donna gentile” per la quale nasce un nuovo amore. Nell’interpretazione allegorica si spiega che questa donna è la filosofia, in quanto il poeta dopo la scomparsa di Beatrice ha trovato consolazione negli studi filosofici. Il terzo trattato commenta la canzone Amor che ne la mente mi ragiona: una canzone d’amore riconducibile alla poetica della lode. L’esposizione allegorica offre l’occasione per discutere delle modalità e dei limiti della conoscenza umana.
Per la canzone Le dolci rime d’amor ch’i’ solia non è necessaria l’esposizione allegorica. Il quarto trattato affronta il tema della nobiltà, ma offre soprattutto un’ampia discussione storico-filosofica relativa all’impero in cui maturano alcune posizioni che Dante manterrà invariate nelle epistole civili, nella Commedia, nella Monarchia.
Nei primi anni dell’esilio Dante si dedica anche alla composizione del De vulgari eloquentia (“L’eloquenza del volgare”), un trattato, scritto in latino, sulla composizione di opere in volgare, aperto da un’introduzione sulla natura e la storia del linguaggio. Una distinzione fondamentale è quella fra i volgari, lingue naturali sviluppatesi dalla confusione babelica, sottoposte alla diversificazione nello spazio e nel tempo, e “grammatiche”, cioè lingue artificiali inventate dai dotti per ovviare alla corruttibilità e irregolarità dei volgari. In particolare nell’Europa meridionale si sono formate le tre lingue di sì, d’oc e d’oïl, cioè i volgari italiano, provenzale e francese. La “grammatica” inventata dai dotti è il latino, inteso come una lingua artificiale, stabile e regolata, non soggetta al mutamento.
Passando allo specifico Dante muove alla ricerca del volgare sommo d’Italia, il “volgare illustre”, quello cioè capace di illuminare i concetti che esprime e insieme gli scrittori che lo usano. Dante passa in rassegna i volgari locali ma con esito negativo: del volgare illustre si percepisce qualcosa in tutti, ma non coincide con nessuno. È invece la lingua usata dai poeti della Scuola siciliana (che Dante leggeva in trascrizioni toscanizzate), e poi dai poeti stilnovisti bolognesi e toscani, ma non dai poeti siculo-toscani e da Guittone d’Arezzo, accusati di scelte municipali e dialettali.
Oltre che essere illustre il volgare sommo dovrà essere anche cardinale, cioè un modello di regolarità per i volgari locali; ma anche aulico e curiale, cioè il linguaggio della corte regale (aula) d’Italia e della sua corte di giustizia (curia). Mancano in Italia una corte regale e una curia, ma gli uomini degni di farne parte, pur dispersi, sono uniti proprio dall’uso del volgare illustre.
Nel secondo libro Dante esamina le caratteristiche del volgare secondo i diversi livelli stilistici. Alla base sono la teoria dei tre stili, alto, mediocre e umile, e il principio della convenientia, cioè la corrispondenza fra stile e materia. Tuttavia l’opera rimane interrotta nel secondo libro e le sole parti svolte sono sul volgare elevato o tragico. Allo stile tragico corrisponde sul piano linguistico il volgare illustre e a livello tematico gli argomenti della massima importanza, i tre magnalia (cose grandi): salus, amor, virtus (la salvezza, l’amore, la virtù). Si avrà dunque poesia di argomento bellico, amoroso, morale. Sul piano metrico il verso più adatto allo stile tragico è l’endecasillabo e la forma strofica più nobile è la canzone. La costruzione sintattica deve essere elevata e il lessico selezionato anche con attenzione agli effetti sonori.
Dopo i primi anni dell’esilio, il quarto trattato del Convivio costituisce una svolta nella maturazione delle concezioni politiche di Dante. Per la prima volta vi sostiene la necessità e provvidenzialità dell’istituzione imperiale e la divina elezione del popolo romano a questa missione, posizioni ribadite nella Commedia e in alcune Epistole (V, VI, VII). La concezione dell’impero è infine discussa in un trattato politico, la Monarchia o De monarchia, la cui datazione è molto discussa tra gli studiosi, (dal 1310/1313 al 1318). Il trattato è diviso in tre libri, con tecniche di argomentazione logico-filosofiche e testimonianze scritturali, storiche e giuridiche.
Nel primo libro Dante dimostra che l’impero è necessario per l’umanità, in quanto consente il raggiungimento della pace universale e della felicità nella vita terrena. In quanto possiede il dominio universale, nell’imperatore è assente la cupidigia, causa dei conflitti fra gli uomini. Per questo egli dirime le controversie secondo giustizia.
Nel secondo libro Dante sostiene che il popolo romano sia stato provvidenzialmente eletto da Dio per guidare l’impero universale. Lo dimostra anche la vita stessa di Cristo, che ha riconosciuto il potere imperiale romano nel momento della nascita e in quello della morte, decretata da un tribunale romano: perché il suo sacrificio potesse redimere tutta l’umanità, la condanna doveva venire da un’autorità giuridica legittima e universale.
La questione dei rapporti fra le due istituzioni universali, la Chiesa e l’Impero, è affrontata nel terzo libro. Dante riconosce a entrambi i poteri la funzione di guida, ciascuno nel rispettivo ambito. Per l’uomo esistono due fini da perseguire e Dio ha ordinato due guide: l’imperatore per guidare l’uomo alla felicità terrena e il papa per guidarlo verso la felicità eterna. Il potere dell’imperatore discende in lui direttamente da Dio, dunque l’imperatore è totalmente autonomo dal pontefice. Ciò non toglie, tuttavia, che egli debba al papa una reverenza filiale, per la superiorità del fine verso cui il pontefice conduce l’umanità.
Negli anni dell’esilio matura l’invenzione di un’opera nuova, che in qualche modo costituisce anche l’adempimento dell’annuncio con cui si chiude la Vita Nova. Ma prima di giungere a incontrare Beatrice in paradiso, il poeta immagina di compiere un viaggio attraverso l’inferno e il purgatorio. Dalla prospettiva dell’aldilà rappresenta e giudica il mondo in tutti suoi aspetti, animato da una forte tensione morale, politica, religiosa.
Le prime due cantiche sono completate prima del 1315-1316, il Paradiso è composto negli anni successivi. Il titolo dell’opera è Commedia o Comedia, o accentato alla greca Comedìa. Questo è il titolo usato da Dante all’interno dell’opera e riportato da tutta la tradizione manoscritta. L’aggettivo “divina”, compare per la prima volta in un’edizione a stampa del 1555. Il successo secolare del falso titolo Divina Commedia è una spia della difficoltà del titolo originario. Pur fondato su una continua mescolanza degli stili, il poema prende il nome dallo stile umile, allo scopo di affermare ideologicamente l’umiltà del testo, con una scelta radicata nella cultura retorica cristiana. Ma la “comedìa” sarà poi definita nel Paradiso “sacrato poema” e “poema sacro”: è proprio grazie alla scelta umile di essere una “comedìa” che l’opera può divenire un “poema sacro”. Nella cultura cristiana l’umiltà è la virtù che permette di innalzarsi autenticamente.
La Commedia fonde in sé una molteplicità di generi letterari. Naturalmente si inserisce nella tradizione della letteratura di viaggi e visioni dell’aldilà, ma accoglie nella sua architettura summatica anche elementi della poesia allegorico-didattica e di numerosi generi della letteratura religiosa, dal profetismo alla scrittura mistica, dalla poesia innologica e laudistica alla predicazione e all’agiografia.
Fin dai primi versi del poema, la compresenza della prima persona singolare e di quella plurale (nostra vita / mi ritrovai) indica che la storia che inizia riguarda le vicende di un “io” che è anche un “noi”, individuo determinato ma anche rappresentante dell’umanità. Al senso letterale si aggiunge cioè il senso allegorico. Ma nonostante i significati allegorici, il senso letterale ha una forza straordinaria e se ne ribadisce continuamente la veridicità. Per questo l’allegorismo della Commedia può essere accostato a quello della Bibbia, in cui gli eventi narrati sono veri anche sul piano letterale. Inoltre si è riscontrata nella costruzione polisemica della Commedia la presenza di tecniche di significazione figurale, secondo la dialettica di prefigurazione e compimento.
La Commedia è un poema in terzine di endecasillabi, secondo lo schema ABA BCB CDC ... YZY Z. Queste terzine sono dette dantesche, perché a Dante se ne deve l’invenzione, o incatenate, perché grazie al sistema delle rime ogni terzina è collegata sia alla precedente, sia alla successiva. Le terzine sono raggruppate in canti, di lunghezza variabile, fra 115 e 160 versi, per un totale di 14233. Il poema è suddiviso in tre cantiche o canzoni, ciascuna composta da 33 canti, tranne la prima che ha un canto in più quale proemio all’intera opera, per un totale di 100. Il tre, simbolo della divinità, e il 100, simbolo di perfezione e totalità, caratterizzano il poema fin dalle strutture esterne.
Un’opera summatica come la Commedia, che intende rappresentare il mondo terreno e l’aldilà che ne costituisce il compimento, e che con digressioni dottrinali si muove per tutti i campi del sapere, mobilita una lingua ricca e duttile, capace di piegarsi a una pluralità di argomenti, situazioni, registri. Ognuna delle cantiche ha un carattere stilistico, ma in realtà si registra una serie infinita di variazioni: anche nell’Inferno si hanno luoghi di stile elevato e la medietà stilistica del Purgatorio conosce molti accenti, mentre il Paradiso accanto al registro sublime presenta spesso la violenza espressiva e “comica” delle invettive profetiche. La variazione va quindi molto al di là del precetto della convenientia stile-materia e mette in atto un pluristilismo come mescolanza, di matrice agostiniana e biblica.
Anche sul piano linguistico la volontà di rappresentare la totalità del reale conduce a mobilitare ogni risorsa. Il fiorentino è la base, ma vi si aggiungono arcaismi, tecnicismi, regionalismi, provenzalismi e gallicismi, latinismi di ogni tipo, oltre a neologismi, necessari per una realtà che non ha mai avuto rappresentazione.
La Commedia è la narrazione in prima persona di un viaggio nell’aldilà compiuto all’età di 35 anni, nella primavera del 1300, anno del primo Giubileo.
Il protagonista si ritrova smarrito in una selva, riesce a venirne fuori e cerca di salire su un colle illuminato dal sole nascente, ma viene ostacolato e mentre precipita nuovamente gli si fa incontro l’anima del poeta latino Virgilio. Questi gli spiega che l’ascesa al colle della felicità è attualmente impossibile e che dovrà compiere un “altro viaggio” e visitare i regni dei morti. La conquista della felicità paradisiaca dovrà passare attraverso la conoscenza e il superamento del male.
Dante dubita che un tale viaggio sia consentito, ma rassicurato da Virgilio sull’autorizzazione divina, segue il poeta latino verso l’inferno. Ma delle due domande di Dante, “Ma io, perché venirvi? o chi ‘l concede?”, Virgilio risponde solo alla seconda: lo concede Dio, attraverso l’intervento di “tre donne benedette”, Maria, Lucia e Beatrice. La domanda sul fine del viaggio, paragonabile a quelli di Enea e san Paolo, rimane per ora senza risposta. Enea e Paolo sono modelli di viaggi ultraterreni concessi da Dio ai viventi in vista della missione loro affidata al ritorno: la fondazione di Roma e dell’impero, il rafforzamento della fede. La risposta alla domanda sulla missione associata al viaggio verrà data finalmente da Beatrice, quando incontrerà Dante nel paradiso terrestre. A Dante è affidata una missione profetica, quella di osservare e ascoltare tutto ciò che gli viene presentato, fissarlo nella memoria e al ritorno scrivere un libro in cui racconta tutto agli uomini, al fine di convertirli e disporli verso un cammino di salvezza. E l’investitura profetica sarà poi ribadita da altri beati incontrati nell’ascesa paradisiaca: l’avo Cacciaguida, san Pier Damiano, san Giacomo, san Giovanni, san Pietro.
L’inferno è una voragine a forma di cono rovesciato in cui i diversi tipi di peccatori sono puniti secondo il principio del “contrappasso”, cioè la corrispondenza, per contrasto o per analogia, della pena al peccato. All’interno della porta, ma al di fuori dell’inferno delimitato dal fiume Acheronte, sono i pusillanimi. Oltre il fiume inizia la serie dei cerchi in cui l’inferno è suddiviso, in tutto nove. Il primo cerchio è il Limbo, che Dante rappresenta in modo innovativo. Oltre ai bambini morti prima del battesimo, vi colloca infatti i non cristiani virtuosi, privi di peccati per i quali essere puniti all’inferno, ma privi anche del battesimo e della fede che rende possibile la salvezza. In una zona privilegiata del Limbo si trovano gli “spiriti magni”, cioè coloro che, pur al di fuori della fede cristiana, hanno coltivato al livello più alto le virtù umane e in particolare la magnanimità.
Dopo il Limbo, l’inferno si suddivide in tre grandi zone. Nella prima sono puniti i peccatori per incontinenza, che non hanno saputo controllare con la ragione gli impulsi naturali: lussuriosi (II cerchio), golosi (III cerchio), avari e prodighi (IV cerchio); iracondi e accidiosi (V cerchio).
Dopo un confine segnato dalle mura della “città di Dite”, si trovano i peccatori colpevoli di peccati di malizia, caratterizzati dall’uso della ragione per compiere il male. Nel VI cerchio sono eretici ed epicurei, vengono poi i violenti (VII cerchio), suddivisi in tre gironi a seconda che abbiano usato violenza verso gli altri (tiranni, omicidi e predoni); verso se stessi (suicidi e scialacquatori); verso Dio, la natura e l’arte (bestemmiatori, sodomiti e usurai).
L’VIII cerchio, dove sono puniti coloro che hanno usato la ragione per ingannare il prossimo, è separato da uno strapiombo. Qui i fraudolenti sono distribuiti in dieci fosse concentriche o bolge: ruffiani e seduttori; adulatori; simoniaci; indovini; barattieri; ipocriti; ladri; consiglieri di frode; seminatori di discordia; falsari.
Nel fondo di un pozzo si trova il IX cerchio, dove i traditori sono conficcati nella palude ghiacciata di Cocito, distribuiti in quattro zone: i traditori dei parenti (Caina); della patria (Antenora); degli ospiti (Tolomea); dei benefattori (Giudecca). Nel fondo dell’inferno, al centro del Cocito, è conficcato Lucifero, grottesca parodia del Dio di cui ha voluto usurpare le prerogative: ha “tre facce a la sua testa” e con ciascuna delle sue bocche divora un traditore: Bruto e Cassio, traditori di Cesare, e Giuda, traditore di Cristo.
Lucifero è conficcato nel centro della terra: oltrepassato il suo corpo, Dante e Virgilio iniziano la risalita fino a riemergere nell’emisfero opposto a quello delle terre emerse. Qui, agli antipodi di Gerusalemme, si innalza sull’oceano un’isola-montagna, in cui è collocato il purgatorio, e sulla sommità il paradiso terrestre.
Nel purgatorio non si trovano peccatori meno gravi di quelli infernali: ciò che li contraddistingue non è la gravità dei peccati, ma il pentimento: si sono pentiti e si sono rivolti a Dio per chiedere perdono. Dio li ha perdonati, ma devono completare il processo penitenziale purificandosi attraverso le pene purgatoriali. Tra la spiaggia e la montagna sono collocati coloro che per vari motivi hanno tardato il pentimento e devono trascorrere un periodo di attesa prima di essere ammessi al purgatorio vero e proprio. Questo è costituito da sette cornici concentriche scavate intorno alla montagna, in cui sono puniti e purificati i sette vizi capitali: superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola e lussuria. La durata del soggiorno delle anime nelle singole cornici può essere abbreviata grazie alla penitenza e agli atti di misericordia compiuti in vita, ma anche dalle preghiere e atti di suffragio compiuti a loro vantaggio dai fedeli ancora viventi, in virtù del principio della comunione dei santi. Per questo motivo le anime chiedono a Dante di rivelare ai parenti la loro condizione purgatoriale. Oltre a subire una pena regolata dal contrappasso, le anime sono sottoposte a un processo di edificazione, attraverso esempi tratti dalla Bibbia, dalla storia antica e dalla poesia classica: esempi negativi del vizio punito, ma anche esempi positivi della virtù contraria al vizio, per promuovere la ripulsa del vizio e l’amore per la virtù. Dante è coinvolto personalmente nell’attraversamento del purgatorio. Infatti prima dell’ingresso un angelo guardiano traccia sulla sua fronte sette “P”, segno dei sette vizi, e poi al passaggio da una cornice all’altra è posto un angelo che cancella una delle P, mentre risuona il canto di una delle “beatitudini”.
Al di sopra della settima cornice, Dante e Virgilio giungono nel paradiso terrestre, dove appare ai viaggiatori una donna bellissima e misteriosa, Matelda, che li conduce alla visione di una processione simbolica i cui elementi rappresentano il manifestarsi dello spirito di Dio nella storia. Al termine della processione appare finalmente Beatrice, la cui apparizione coincide con la scomparsa di Virgilio. La beata rimprovera Dante per il periodo di traviamento seguito alla morte di lei, e lo guida verso un processo di confessione, penitenza, purificazione.
Dalla sommità del paradiso terrestre Dante e Beatrice iniziano l’ascesa celeste, che passa attraverso i nove cieli prima di giungere all’Empireo, in cui è la sede del paradiso e di Dio. Ma poiché l’Empireo è una realtà puramente spirituale, non può essere conosciuta direttamente da Dante che, in quanto essere umano, conosce a partire dai sensi. Per questo i beati vengono incontro alle sue limitate capacità, scendendo a incontrarlo nel cielo che maggiormente le ha influenzate durante la vita. Così rendono percepibili ai sensi le distinzioni che regolano la beatitudine celeste.
Nei primi tre cieli si mostrano beati che hanno operato il bene attraverso un velo terreno: nel cielo della Luna coloro che mancarono ai voti; nel cielo di Mercurio gli spiriti attivi mossi da ambizioni mondane; in quello di Venere gli spiriti amanti, vittime dell’amore terreno, poi capaci di volgere l’amore verso Dio. Dal quarto al settimo cielo si trovano beati che hanno realizzato in forma cristiana le virtù cardinali: i sapienti nel cielo del Sole; i combattenti per la fede in quello di Marte; i giusti nel cielo di Giove e i contemplanti in quello di Saturno. Dopo i sette pianeti, ecco il cielo delle Stelle fisse, dove vengono incontro a Dante Cristo e poi la Vergine Maria. In questo cielo Dante viene sottoposto a un esame sulle tre virtù teologali, fede, speranza e carità, da parte degli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni. Nel nono cielo, il Primo Mobile o Cielo Cristallino, il più grande fra i cieli corporei, che trasmette il movimento alle sfere inferiori, Dante contempla le gerarchie angeliche. Giunge infine nell’Empireo, dove può vedere gli angeli e i beati nella loro realtà. Qui a Beatrice subentra una nuova guida, san Bernardo, che conduce Dante alla contemplazione dell’Empireo e poi, dopo aver pregato per l’aiuto della Vergine, alla visione di Dio.
La Commedia racconta un viaggio nell’aldilà e la “cornice viatoria” ha una grande importanza. Tuttavia è altrettanto importante lo spazio dialogico che si apre a ogni incontro, con un serie di discorsi di secondo livello pronunciati dai personaggi incontrati. E si tratta non solo di interventi narrativi nei quali i personaggi rievocano la propria vicenda biografica, ma anche di interventi profetici e dottrinali. Le modalità con cui si realizza l’incontro-dialogo sono molteplici. Vi sono incontri di grande tensione drammatica in quanto coinvolgono Dante personaggio non solo come testimone e viaggiatore rappresentante dell’umanità, ma anche come individuo con le sue passioni e la sua storia. E uno spazio speciale hanno i temi politici, che si intrecciano con le vicende autobiografiche dell’esilio, inserite nel poema attraverso lo strumento retorico delle profezie pronunciate dalle anime che conoscono il futuro.
Dopo il vano tentativo solitario di ascendere al colle della felicità, nel viaggio oltremondano Dante è sempre accompagnato da guide. Virgilio lo conduce attraverso l’inferno e il purgatorio, fino al paradiso terrestre, dove viene sostituito da Beatrice. La chiosa tradizionale secondo cui Virgilio rappresenta allegoricamente la ragione ha una sua validità, ma va anche integrata con una valorizzazione del senso letterale, della storicità e individualità del personaggio. Virgilio è un poeta e la poesia è l’attività che più consegue l’onore, premio della virtù. Virgilio rappresenta quindi l’umanità nei suoi più alti esiti terreni, nelle virtù premiate dall’onore. I temi della poesia, della virtù e dell’onore hanno grande rilievo nel Limbo, dove con Virgilio soggiornano coloro che, pur al di fuori della fede cristiana, hanno realizzato ai livelli più elevati le virtù umane. Ma egli è anche il poeta di Enea e dell’impero, e l’impero ha un ruolo decisivo nella concezione politica di Dante. Inoltre nel VI libro dell’Eneide, Virgilio racconta la discesa di Enea agli inferi, dunque la scelta di Virgilio è anche quella di un poeta dell’aldilà. Virgilio era poi considerato nel Medioevo un profeta di Cristo, per la possibilità di interpretare in senso cristiano l’Egloga IV.
Dante sfrutta questa possibilità raccontando che il poeta latino Stazio (40-96), grazie a una lettura del testo virgiliano, si sarebbe convertito al Cristianesimo meritando la salvezza. Ma se il testo virgiliano illumina Stazio verso la fede, paradossalmente Virgilio rimane nelle tenebre. Virgilio appare quindi come profeta inconsapevole, che annuncia Cristo ma attribuisce un senso limitato e terreno alle proprie parole. E nella seconda e terza cantica le riprese dai testi virgiliani, sempre meno frequenti, sono orientate a limitare l’autorità del testo citato o a correggerne i significati.
Anche l’interpretazione allegorica di Beatrice, variamente intesa come la fede, la rivelazione, la grazia, la sapienza divina, la teologia, deve essere rivista tenendo sempre presente la sua individualità di donna amata dal poeta, ora beata in paradiso, che si muove dall’Empireo per salvare il suo “amico”. Beatrice scende nel Limbo assumendo da subito la funzione cristologica e redentrice che le sarà riconosciuta nell’Empireo: “tu m’hai di servo tratto a libertate” (Par. XXXI 85). Si può quindi applicare una prospettiva figurale rispetto alla Beatrice della Vita Nova: se già prima della morte promuove nell’amante un’elevazione spirituale, ora, beata del paradiso, questa potenzialità si rinnova e si potenzia. Nel paradiso terrestre Beatrice sostituisce Virgilio e conduce Dante alla confessione e al compimento del processo penitenziale, rendendolo degno di ascendere al cielo. E l’ascesa potrà iniziare quando dalla sommità della montagna Beatrice fissa gli occhi nel sole e Dante il proprio sguardo negli occhi di Beatrice. La luce divina riflessa nella donna amata solleva Dante verso il cielo.
L’amore di e per Beatrice innalza Dante sino all’Empireo, dove una nuova guida lo conduce alla contemplazione del vero paradiso. È il passaggio dalla teologia alla mistica, dalla fede alla contemplazione, dalla rivelazione alla beatitudine, rappresentato da san Bernardo di Chiaravalle, autore di opere importanti di devozione mariana e di teologia mistica. E il santo rivolge infine alla Vergine una preghiera perché interceda presso Dio e Dante possa giungere alla visione della divinità.