Dante
Poeta, nato a Firenze nel 1265 e morto a Ravenna nel 1321. L’interesse che, nel corso dell’intera sua vita, M. dimostrò per l’opera di D. (ossia, in modo pressoché esclusivo, per la Commedia) può essere considerato sotto tre diversi punti di vista. In primo luogo, D. è l’auctoritas alla quale, in circostanze determinate, ci si riferisce per trarne conforto e indicare il senso dell’esistenza. In secondo luogo, è il poeta che ispira momenti specifici dell’attività poetica del Segretario fiorentino, e i cui versi sono infatti ripresi, con varia intenzione significativa, nei suoi componimenti poetici. Li si ritrova nei Decennali primo e secondo, nei Capitoli; per non parlare dell’Asino, che appartiene tuttavia alla stagione in cui, per complesse ragioni, il poeta della Commedia cominciò a essere rappresentato, ancora e sempre, come un’auctoritas, ma posta ora a paragone di un’altra, e opposta, rappresentata dallo stesso M. e dalla fedeltà da lui sempre dichiarata alla patria fiorentina, anche nei lunghi giorni della sventura politica. In terzo luogo, se è così, D. assume il volto e il carattere di un mito negativo. Fu il personaggio nei cui confronti, e a contrasto, M. indossò i panni del cittadino virtuoso, in questo atto capovolgendo in negativo il tema dell’exul immeritus che aveva trovato nelle parole pronunciate da Cacciaguida nei canti centrali del Paradiso la sua espressione più alta. Quando, tuttavia, questo sentimento di contrapposizione e di condanna abbia preso stanza nella mente e nel sentimento di M. è difficile dire. Certo, della differenza che si era stabilita fra la sua idea del mondo e quella che aveva trovata la sua espressione nel poema di D., sempre M. fu consapevole, ed era impossibile, in effetti, che non lo fosse; anche se di renderla esplicita in un aperto e dichiarato confronto polemico non vedeva, nella prima parte della sua vita, la ragione e non avvertiva la necessità. Si ha tuttavia netta l’impressione che, senza potere escludere che il suo tema cominciasse a prender forma a partire almeno dal tempo segnato dalla perdita degli uffici, alla differenza che il suo pensiero intratteneva con quello di D., M. intendesse conferire particolare risalto nell’ultimo decennio della sua vita, nei mesi e negli anni in cui più amara e grama si era fatta la sua esistenza e, non avendo un terreno concreto su cui far germogliare i suoi frutti, la passione politica tendeva a degradarsi nella geniale e rabbiosa parodia che a essa fu inflitta nella Mandragola. Fu insomma negli anni che videro la nascita e il precoce fallimento dell’Asino che, ferma restando l’ammirazione per il poeta, con toni all’apparenza lievi, ma estremamente seri e aspri nella sostanza, M. mise a un duro confronto la concezione che D. aveva delineata nella Commedia con la sua; che non al cristianesimo e alla sua filosofia e teologia s’ispirava, ma a una concezione in ogni senso diversa e alla sua linea irriducibile. L’atto conclusivo di questo lungo e contrastato dialogo con il grande autore della Commedia fu, e si risolse, nel tardo Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, in una contrapposizione di scelte e di ideologie civili. Mentre, per un verso, contro la negazione che egli riteneva ne fosse stata fatta, M. rivendicava alla lingua fiorentina D. e la sua opera più grande, sul piano politico e morale la vita del suo autore era da lui fatta oggetto della più netta condanna. Da una parte stava perciò il poeta, da un’altra, e a contrasto, il cittadino. Al primo poteva essere riconosciuta l’eccellenza, al secondo no. Ma di questo si riparlerà, perché altro resta da dire.
I versi della Commedia furono spesso, per M., nelle varie circostanze della sua esistenza, ragione di conforto e di ispirazione; e, almeno una volta, e lo vedremo, gli dettero l’occasione, in una lettera inviata a Francesco Guicciardini negli ultimi anni, di colorire una sua fantasia scherzosa, al fondo della quale si percepisce, tuttavia, la presenza di una nota amara. Persino quando era impegnato in imprese diplomatiche, e il lavoro languiva, poteva accadere che D. gli venisse in aiuto: come avvenne il 14 febbraio 1508, mentre si trovava in legazione presso l’imperatore Massimiliano I, quando, all’improvviso, si ricordò di Inferno II 1 e segg. («lo giorno se ne andava e l’aere bruno / toglieva li animai») e, scherzando, lo utilizzò (LCSG, 6° t., p. 155; la lettera è firmata da Francesco Vettori, ma è di mano di M., e appartiene a lui). A causa del buio quasi impenetrabile che avvolge per intero gli anni della sua formazione e della sua prima maturità (M. diventa un personaggio pubblico a partire dal 1497, al momento del suo ingresso in cancelleria, quando toccava il ventinovesimo anno, e per il periodo precedente si hanno di lui soltanto poche, indirette notizie), non sappiamo come e quando incominciasse a leggere il poema di D., a quale chiosa – se a quella di Benvenuto da Imola o all’altra di Cristoforo Landino (→) – chiedesse aiuto per orientarvisi, se sapesse dei giudizi di Francesco Petrarca, di Giovanni Boccaccio e, in genere, del dibattito che sull’autore della Commedia si era svolto lungo l’intero corso del 15° secolo. Meno che mai sappiamo quale fosse la parte che egli prese, se una ne prese, in esso. Sappiamo però che la sua conoscenza della Commedia fu profonda, che significativo, se non frequente, fu l’uso che, nelle lettere familiari, ne fece come di un testo di esemplare saggezza, al quale era giusto rivolgersi per trarne ispirazione, come si è detto, e conforto. Se si esclude la già ricordata citazione dell’Inferno nella lettera diplomatica del 14 febbraio 1508, la prima volta che il nome di D., e suoi versi, s’incontrano nel suo carteggio familiare è nella «famigliare» inviata a Francesco Vettori il 9 aprile1513. È quella, assai notevole, nella quale, fra l’altro, M. scrisse che, «non sapendo ragionare né dell’arte della seta e dell’arte della lana, né de’ guadagni né delle perdite», a lui conveniva «ragionare dello stato», e quindi: «mi bisogna o botarmi di stare cheto, o ragionare di questo». Ma la lettera di Vettori, alla quale la sua rispondeva, gli era parsa intonata a malinconia e a sfiducia; e a lui, che già di suo e per serie ragioni inclinava a sentimenti di maggiore e ancor più giustificata cupezza, era sembrato che questi avessero a diventare ancora più cupi ora che anche il suo amico sembrava condividerne il tono. In capo alla lettera aveva citato perciò una terzina dell’Inferno che non avrebbe potuto essere meglio rispondente al suo stato d’animo: «ed io che del color mi fui accorto / dissi: come verrò se tu paventi, / che suoli al mio dubbiare esser conforto?» (IV 16-18). Paragonarsi a D. che stava per intraprendere il viaggio nei regni dell’aldilà non gli era sembrato improprio. La preoccupazione e la paura che in quel punto D. aveva manifestate potevano ben essere condivise. Anche ai suoi occhi il presente e il prossimo futuro apparivano avvolti nelle tenebre dell’incertezza.
Non è invece priva di solennità la citazione di un verso del Paradiso nella celeberrima lettera che M. indirizzò a Francesco Vettori il 10 dicembre 1513, per informarlo del modo in cui le sue giornate trascorrevano nell’ozio forzato di Sant’Andrea in Percussina. D., ossia, dovrà intendersi, la Commedia, e non, come è stato proposto, la Vita nova, vi è citato due volte. La prima nel breve elenco dei poeti (Petrarca e altri «minori, come Tibullo, Ovidio e simili»), in compagnia dei quali di mattina, in un suo «uccellare», M. si riposava, leggendoli, delle cure che aveva dapprima dedicate a un suo bosco. E la sequenza è importante perché dimostra la facilità con la quale, nelle sue letture poetiche e letterarie, egli soleva passare dal volgare al latino, e da questo al volgare. Ma se nella prima citazione il nome di D. è, genericamente, messo in capo a un elenco di poeti, la seconda è assai più significativa. Attraverso il richiamo del verso in cui, con particolare potenza, D. aveva affermato che «non fa scïenza, / sanza lo ritenere, avere inteso» (Paradiso V 41-42), M., che faceva suo quel concetto, dava rilievo a uno dei temi dominanti della sua vita intellettuale. Ribadiva il nesso da lui stabilito fra l’esperienza e la scienza, fra le cose e il senso che, ammaestrata dalla prima, la seconda avrebbe consentito di ricavare da essa. L’allusione era infatti al Principe che, proprio in quei giorni stava uscendo, probabilmente nel suo primo nucleo, dallo scrittoio di Sant’Andrea. La terza e la quarta citazione che nelle lettere familiari s’incontrano del nome di D. rivelano, esse pure, la conoscenza sicura del poema, la familiarità che M. aveva con esso, la facilità con la quale quel che vi era scritto poteva da lui essere utilizzato o per formulare previsioni politiche, o per dare consigli a un amico che si trovava in difficoltà con le figlie in età da marito, o per rendere meno tetro l’inseguirsi vano dei giorni. Poiché l’amico a cui inviava i suoi pareri era, nel secondo di questi tre casi, Francesco Guicciardini, ossia l’unico che, fra tanti che gli scrissero e ricevettero lettere da lui, fosse sul serio degno della sua conversazione, il rinvio a versi della Commedia si rivelava particolarmente significativo. Nella lettera scritta post 21 ottobre 1525, le difficoltà in cui il papa Medici, Clemente VII, era venuto a trovarsi gli avevano richiamato alla mente i versi 86-87 del ventesimo del Purgatorio: «veggio in Alagna intrar lo fiordaliso / e nel vicario suo [...]». Versi che, secondo il suo costume, M. riferiva a memoria e perciò alterava alquanto scrivendo «tornar» invece che «intrar», ma che certo non erano citati per caso. Fatte le debite differenze, la sorte a cui quel pontefice avrebbe potuto andare incontro nel prossimo futuro non gli appariva infatti troppo diversa da quella che aveva segnato la vita di Bonifacio VIII. Nosti versus, cetera per te ipsum lege («conosci i versi, quel che segue leggilo tu») aveva scritto dopo averli citati; ed è ben possibile che questa volta Guicciardini fosse stato in grado di completare la citazione e di intendere il senso di quel che M. gli aveva suggerito. Ma quando a Guicciardini, che, fra le molte altre cose che lo tenevano occupato, anche si travagliava intorno al miglior modo di dare un marito alle sue quattro figlie e temeva che il buon matrimonio della prima potesse danneggiare quello delle altre tre, M. suggerì di trarre ispirazione dalla storia che, alla fine del sesto canto del Paradiso, D. aveva narrata di Raimondo Berengario IV e del suo ministro Romeo di Villanuova che, delle quattro figlie del suo signore, aveva fatto altrettante regine, il consiglio non fu compreso con altrettanta facilità. Guicciardini, che non aveva un D. sottomano e, come scrisse il 26 dicembre 1525, aveva dovuto farlo cercare per tutta la Romagna, quando poté disporne si accorse che il testo che gli era stato recapitato non aveva la «chiosa», e che la «favola o vero novella del Romeo» gli rimaneva perciò inaccessibile. Ritenendo che M. gli avesse suggerito «una cosa di quelle che voi solete avere piene le maniche», e niente di più, si lasciò sfuggire quel che la citazione nascondeva in sé. Non fu in grado di cogliere la coperta identificazione che il quondam Segretario aveva fatta di sé stesso con il ministro del racconto dantesco, con Romeo di Villanuova che, persona «umile e peregrina», al pari di M. aveva dovuto sopportare le «parole biece» dell’invidia e della calunnia, e, proprio come D., che ne aveva rivendicata la bontà, aveva dovuto «mendicare la sua vita a frusto a frusto», «non sendo premio», come aveva scritto nel prologo in versi della Mandragola, «a le fatiche sue». Com’era nello stile di M., maestro nell’arte di dissimulare i sentimenti e di trasformare il pianto in riso, si trattava di un’allusione fulminea che, sebbene fosse stato messo nella posizione che era stata di «Ramondo Beringhiere» nei confronti del suo segretario, in mancanza della «chiosa» Guicciardini non era stato in grado di cogliere; e ne sarebbe stato ben capace, se di quella avesse potuto disporre. Nessuno, infatti, aveva saputo meglio descrivere la dolorosa parabola discendente dell’uomo che, dopo avere per anni negoziato con re, duchi e principi, proprio da lui era stato inviato a trattare con i frati del Capitolo minore di Carpi, e a descrivere quella che entrambi, nel loro carteggio avevano definita la «repubblica degli zoccoli». Ma, per non essere stato in grado di comprendere la storia alla quale quei versi, per altro bellissimi, alludevano, Guicciardini non aveva capito che in quella lettera M. aveva dato luogo a una doppia identificazione: con D. che, come lui, era stato costretto alla solitudine, e con il ministro del suo racconto, con Romeo di Villanuova; con il grande poeta, insomma, e con il suo personaggio che, nel loro tempo, avevano, al pari di lui, dovuto subire, il «bieco» morso dell’invidia, dell’ingratitudine e dell’umana malvagità. È, questo, un punto di estrema importanza, che non dovrebbe lasciarsi sfuggire chi ambisse a capire, in profondità, il senso del rapporto che M. aveva stabilito con D. a partire da un certo momento della sua vita. A determinarsi nel suo animo, quando scrisse quella lettera e citò quei versi, fu la replica di una situazione che già da tempo si era delineata; e precisamente da quando il rapporto stretto con D. era passato dall’opera al personaggio che l’aveva composta. Della sua vita aveva certo appreso quel che poteva leggersi in Boccaccio, in Leonardo Bruni, forse in altri; e, in progresso di tempo, quando si persuase che, sul suo personale destino, le cose non gli consentivano alcuna illusione, fu la vicenda umana e politica di colui che aveva scritto la Commedia a costituire per lui il termine di un paragone volto a far declinare un mito e a proporne, controluce, un altro; a sostituire, al volto dell’esule che alla sua patria non aveva perdonato l’esilio che gli aveva inflitto, il suo. Ossia il volto di uno che alla patria, pur nella sventura, era rimasto fedele, perché dovere del cittadino virtuoso era di amarla, comunque e sempre, «più dell’anima».
Dai due Decennali ai Capitoli fino all’Asino, rimasto interrotto all’ottavo canto, l’opera letteraria di M. risentì fortemente del modello dantesco e, quasi per intero, si collocò sotto il suo segno. Lo si è notato, e a ragione, ben più che una volta; anche se, con altrettanta decisione, il lettore dei suoi versi sia stato richiamato a cogliervi la presenza di modi tipici della tradizione popolare toscana, dal Morgante di Luigi Pulci al Centiloquio di Antonio Pucci e ad altri minori, e, si può aggiungere, di quella latina, rappresentata non solo dalle opere di Lucrezio, Virgilio e di «minori poeti d’amore» (Tibullo, Ovidio) di cui, come si è ricordato, aveva parlato a Vettori, ma anche di Orazio, di Claudiano e dall’epigramma “De Fortuna” dell’Anthologia Latina, come è stato notato nel commento al capitolo omonimo da Giorgio Inglese. Non mancano nemmeno, nei Capitoli, rinvii a Sallustio, a Polibio, a Plutarco: a dimostrazione, sia detto fra parentesi, che, con ogni probabilità, questo discreto patrimonio di cultura classica preesisteva non solo agli anni che videro la composizione delle grandi opere, ma a quelli altresì in cui, ante res perditas, furono composti i testi di cui si sta trattando. Dovette perciò, quel patrimonio, essersi costituito negli anni della giovinezza che, se è lecito congetturare, necessariamente furono quelli nei quali, lontano dagli ambienti dell’umanesimo ellenizzante, M. formò la sua cultura; che, ferma restando la frequentazione di D., da una parte attinse alla tradizione popolare, da un’altra a quella classica dei poeti non meno che degli storici e degli scrittori di cose morali. Non su questo, tuttavia, giova insistere in questa sede. Conviene piuttosto tener fermo il punto che, costituendo il tratto fondamentale del suo stile, l’imitazione di D. e il richiamo dei suoi versi in componimenti in prosa rimasero costanti anche quando, come si vedrà nell’Asino e nell’Allocuzione ad un magistrato, lo scopo fosse stato piuttosto di dissacrare che non di aggiungere ornamenti alla sua statua: a dimostrazione del fatto che, al mutamento (se si trattò sul serio di mutamento) del giudizio recato sulla figura storica di D. non se ne accompagnò uno che, sull’opera letteraria, implicasse qualcosa di men che positivo. D’altra parte, seguire, componimento dopo componimento, la presenza di D. nell’opera letteraria di M. potrebbe essere di rilevante utilità dove si trattasse di allestire un nuovo commento e di arricchire perciò quelli che già sono in nostro possesso. Non di altrettanta in questa sede, nella quale, dopo aver arrecato alcuni esempi significativi, tratti dalle opere poetiche, e anche tuttavia da quelle politiche e storiche, più interesserà seguire la linea di quello che, in precedenti occasioni, chi scrive ritenne di poter definire l’antidantismo, non solo politico ma anche, lato sensu, ‘filosofico’ e, alla fine, linguistico, di Machiavelli. L’importanza che deve attribuirsi a questo tema che, a partire forse dagli anni dell’Asino, è possibile discernere nei suoi scritti, non può sfuggire quando si pensi alla tenacia con cui da studiosi illustri l’accento fu viceversa fatto cadere su quello dell’esemplarità dantesca; e come il pregiudizo di questa abbia negativamente influito persino nel discorso concernente la paternità machiavelliana del Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua.
Nei Capitoli, accanto a quella di altri scrittori volgari e di non pochi latini, la presenza di D. si può, in termini quantitativi, definire imponente. Il capitolo “Di Fortuna”, che consta di 192 versi, presenta 14 citazioni dantesche; quello “Dell’Ingratitudine” ne conta anch’esso 14 su 182 versi, il terzo “Dell’Ambizione” 20 su 187, mentre quello “Dell’Occasione”, che è un libero rifacimento dell’epigramma ventitreesimo di Ausonio, e fu composto post res perditas, si giovò, esso pure, di citazioni dantesche, 2 su 22 versi. La Commedia è dunque citata con notevole larghezza in tutte e tre le sue cantiche, con una certa prevalenza del Purgatorio, usato diciotto volte, rispetto alle tredici dell’Inferno e alle undici del Paradiso. Il che dimostra non solo la prontezza della memoria machiavelliana, e la forte e continua sollecitazione che riceveva dal testo dantesco, ma anche la larghezza del possesso che l’autore dei Capitoli ne aveva conseguito. Già, del resto, nel primo Decennale, sebbene nel complesso non altrettanto numerose, le citazioni di versi danteschi erano state significative della prontezza con la quale il testo della Commedia corrispondeva alle esigenze espressive di Machiavelli. Come da tempo è stato notato, i vv. 124-26 («et al vostro Leon trasser de’ velli / la Lupa con san Giorgio e la Pantera, / tanto par che fortuna vi martelli») derivano da una sorta di sintesi fra Paradiso VI 108 («ch’a più alto leon trasser lo vello») e Inferno XI 90 («la divina vendetta li martelli»); i vv. 206-07 («tanto timor li vinse / di non far cigolar la lor bilancia») sono modellati su Inferno XXIII 102 («fan così cigolar le loro bilance»), mentre a ragione è stato rilevato come le rime «ecco», «becco», «secco» si trovassero già in Purgatorio XXIII 26-30. La presenza di D. è assai più debole nel secondo Decennale che, come si sa, rimase interrotto al v. 216, nel punto in cui è detto che le ambizioni di Massimiliano I cedettero di fronte alla resistenza padovana e quello dovette riprendere la via di casa. Si è notato che il v. 3 («poi che tacendo la penna ripresi») riecheggia Paradiso XVII 100 («poi che, tacendo, si mostrò spedita»); e può darsi che sia così. Ma certamente di origine dantesca (Purgatorio XII 70: «or superbite, e via col viso altero») è la terzina più efficace che s’incontri in questo Decennale: «gite, o superbi, omai col viso altero, / voi che li scettri e le corone avete / e del futuro non sapete un vero!», con quel che segue nella successiva che, anch’essa, meriterebbe di esser tenuta presente e posta in rilievo.
D. non è mai citato nel Principe, se non, indirettamente, per la reinterpretazione del nesso che stringe insieme la forza del leone e l’astuzia della volpe, mentre è possibile che le «piaghe infistolite» di cui si dice nel capitolo ventiseiesimo abbiano un riscontro in Purgatorio VI 118 e seguenti. E, naturalmente, per il centauro Chirone. Due sole volte, e una in modo errato, nei Discorsi. La prima citazione, che ricorre a I xi 21 («rade volte discende per li rami / l’umana probitate, e questo vuole / quei che la dà, perché da lui si chiami») ed è tratta da Purgatorio VII 121-23, presenta nel primo verso «discende» in luogo di «risurge», ed è indizio, se si vuol essere pedanti, non solo dell’uso machiavelliano della citazione fatta a memoria e soggetta quindi, talvolta, a errori, ma anche, in questo caso, di banalizzazione. Il senso di «risorgere» è infatti che la virtù paterna era stata intesa da D. come una radice dalla quale al tronco dell’albero provenivano, attraverso i rami, i frutti: con moto ascendente, dunque, e non discendente, come quello che si ha in mente quando ci si metta dinanzi agli occhi una sorta di albero genealogico nel quale, in alto sta colui che genera e, in basso, coloro che, appunto, ne «discendono». L’altra citazione, I liii 8, non è dalla Commedia. Non è nemmeno dalla Monarchia, come M. suggeriva, bensì dal Convivio I xi 8. È dunque il frutto di un errore; che forse si spiega immaginando che, avendo avuto fra le mani, al di fuori del contesto, quel passo del Convivio, M., che di quest’opera ignorava, forse, addirittura l’esistenza, lo attribuisse alla Monarchia; che, a sua volta, perciò doveva essergli nota, ma non certo per diretta lettura. Se queste, dunque, sono, nei Discorsi, le occorrenze dantesche, è certo che molto di più vale la citazione ex silentio che della Commedia M. fece nel capitolo diciottesimo del Principe, nel luogo celeberrimo in cui disse del leone e della volpe. La derivazione di quella coppia di animali da Inferno XXVII 73-75 è fuori discussione. Ma non si tratta affatto di una derivazione pacifica, e tanto meno di un’adesione alla tavola dei valori danteschi. Nelle parole di Guido da Montefeltro il leone rappresentava bensì la forza, ma esercitata alla luce del sole, con lealtà e limpidezza; e con la volpe, che per contro rappresentava la slealtà, la doppiezza, l’inganno e decisamente si configurava come il disvalore di quel valore, non poteva esserci perciò alcuna collaborazione: i due animali simbolici si escludevano a vicenda. L’uno era in effetti il contrario/opposto dell’altro; e dove c’era l’uno, l’altro non aveva un luogo in cui potesse collocare sé stesso. Che è viceversa proprio quel che accadeva nella rappresentazione di M.: nella quale era previsto che la parte del leone fosse di continuo integrata, quando a ciò le cose costringessero, con quella della volpe; che l’esercizio della forza non obbedisse al rispetto di regole che non potessero essere infrante se l’impeto del primo animale avesse richiesto di esser corretto dall’astuzia, dalla doppiezza e dalla malizia del secondo. Per il leone, ossia per il politico che si fosse ispirato alla sua lealtà, si sarebbe potuto dire con un paradosso, valeva la regola aurea secondo cui pacta semper sunt servanda. Per la volpe, valeva il principio opposto: quello secondo cui non sempre ai patti e alla parola data poteva e doveva tenersi fede. E si potrebbe dire di più. Ci si potrebbe soffermare sul nesso paradossale che, commentando Cicerone, De officiis I xiii 39-41, M. stabilì fra il combattere con le leggi, che è proprio dell’uomo, e il combattere con la forza, che è proprio delle bestie, e il paradossale scivolamento, al quale acconsentì, della parte umana in quella ferina, che finì, in tal modo, per valere essa come il tutto. Anche ci si potrebbe soffermare sull’altro simbolo che compare nel diciottesimo del Principe, sul centauro Chirone che, nel dodicesimo dell’Inferno, rappresenta in atto la sottomissione della parte bestiale al volere divino, e in M. sottomette invece interamente sé stesso alla forza e alla sua superiore necessità. Non sottostà infatti alla sua parte umana, se non per quel tanto che da essa soltanto può essere elaborato, il criterio in forza del quale, nel principe, la forza della ragione deve esser pronta a cedere alla ragione della forza.
A questo punto, per altro, non si tratta più del rapporto che, su questi specifici punti concernenti il significato che doveva essere attribuito a quei simbolici animali, M. intrattenne con Dante. Altro, che non si riduce al solo profilo della differenza sussistente fra le rispettive concezioni del mondo, dev’essere tratto alla luce. Volgendo lo sguardo alla cruda rappresentazione che, non soltanto qui, egli fece del mondo umano, la distanza, la consapevole distanza che il suo pensiero registrava nei confronti di quello dantesco si faceva via via più netta, si accresceva, e, nel segno di un’irriducibile differenza concettuale, tendeva ad assumere un’intensa connotazione biografica. A rivelarsi come protagonisti di un contrasto non sanabile erano non soltanto le idee, ma, con le scelte essenziali compiute nel corso delle loro esistenze, i due personaggi di questo drammatico, sotterraneo confronto. In gioco, come si è detto, erano i comportamenti che essi avevano assunti nei confronti della comune patria fiorentina e che, sempre più, mentre il cerchio della sua vita incominciava a chiudersi, a M. premeva di mettere in chiaro, nella loro non solo diversità, ma opposizione.
Due sono i testi ai quali è affidata la più completa e articolata esposizione di quello che qui è stato chiamato l’antidantismo, non solo politico e filosofico, ma anche, per dir così, patriottico, di Machiavelli. Il primo è l’Asino. Il secondo, e conclusivo, è il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua: un’opera di discussa autenticità che, mentre non ci sono ragioni che costringano a toglierla alla paternità dell’autore del Principe, ve ne sono per contro di molto serie per attribuirla alla sua penna: e, fra queste, se si guarda bene, proprio l’antidantismo considerato nella prima, nella seconda e, soprattutto, nella terza delle sue dimensioni. Fra questi due testi, l’Asino e il Discorso, deve essere collocato un breve scritto, che era stato giudicato come una trascurabile variazione giovanile sul tema della giustizia e che, dopo che Oreste Tommasini aveva rivendicata la maturità della mente da cui era nato, Jean-Jacques Marchand ha definitivamente assegnato al periodo felice della creatività machiavelliana. Se ne riparlerà. Per quanto invece riguarda l’Asino, del quale ci si deve ora occupare, si sa che, per sforzi che si siano compiuti, di questo componimento in terza rima che, fin dal suo esordio, richiama, in forma satirica, il grande modello dantesco, non è stato fin qui possibile stabilire la data; né c’è speranza che questa possa essere trovata se all’insufficienza degli indizi interni non sopravvenga a porre rimedio un’esplicita testimonianza esterna. Deve riconoscersi che, per chi scriva la vita di M. e cerchi di individuare i momenti in cui vi si produssero gli eventi intellettualmente più significativi, questo non è un inconveniens di poco conto. Non sarebbe infatti cosa da poco essere nella condizione di determinare il momento in cui l’ammirazione letteraria nutrita nei confronti della Commedia e della esemplarità etica e politica del suo autore cominciò a dar luogo a una distinzione tale che la prima si ritirò in sé stessa lasciando che il giudizio sull’uomo e sul cittadino non corrispondesse più a quello recato sul poeta. Ancora di più l’inconveniens si rivela grave in quanto, a chi ragioni sulla vita di M., può talvolta accadere di avere a che fare con il sospetto che pensieri e atteggiamenti risalgano addirittura agli anni della sua oscura giovinezza, e che in quelli ebbe origine la dicotomia fra il giudizio letterario e quello politico, filosofico e morale che soltanto post res perditas avrebbe dato esplicito segno di sé. Resta, comunque, che l’unica menzione che nelle lettere s’incontri dell’Asino è in quella diretta il 17 dicembre 1517 a Lodovico Alamanni, celebre per il positivo giudizio («e veramente el poema è bello tutto») che M. vi dette dell’Orlando furioso anche in relazione al suo poemetto, che a quella data risultava non giunto alla conclusione, ma non destinato al fallimento. Il silenzio mantenuto sul suo nome, che non compariva nell’elenco dei poeti e letterati che si legge nell’ultimo canto del Furioso ai vv. 12-19, lo aveva ferito. Ma si proponeva di non fare altrettanto «in sul suo Asino»; al quale dunque, come si è detto, si riprometteva di lavorare ancora per condurlo alla fine (che poi non raggiunse).
Che l’Asino sia una satira antidantesca può esser considerato pacifico. Ma si tratta di individuarne i livelli e i complessivi significati. Il che, malgrado il poco spazio a disposizione, richiede un minimo di analisi e di attenzione. A cominciare dalla strana «novella», che M. non poté esimersi dal riferire, di quel giovanetto fiorentino al quale capitò di esser preso da una malattia singolare, che gli impediva di star fermo e sempre lo induceva a correre senza tregua per ogni luogo e «sanza alcun rispetto». Una malattia tanto singolare che, sebbene per curarla fossero stati ascoltati i più rinomati medici d’Italia, dopo quella che sembrava esser stata una definitiva guarigione, si manifestò di nuovo, e di lì in poi non fu più possibile controllarla e guarirla. Nemmeno Cristo, è detto a i 84, avrebbe potuto fermare il giovane che aveva ripreso a correre; e non, in realtà, per una ragione che fosse particolare a lui e a nessun altro, ma, al contrario «perché la mente nostra, sempre intesa / dietro al suo natural, non ci consente / contr’abito o natura sua difesa» (vv. 88-90). Ebbene. Che nel giovane malato di questa strana malattia, M. avesse rappresentato sé stesso quale era stato ante res perditas, nel periodo, forse, della giovinezza, e con certezza in quello della cancelleria, è facile congetturare. Cursitandi avidus era stato definito quando era il segretario della seconda cancelleria. Ma il punto non era la furia lavorativa che allora lo aveva preso: era l’inguaribilità della sua malattia che non riguardava, per altro, soltanto quel giovane e la sua smania di correre senza posa, riguardava in genere l’umanità che, dopo avere seguito il destino che immutabilmente la natura le aveva segnato, sarebbe finita nella selva dove, a differenza di quel che era accaduto a D., non avrebbe trovato salvezza. La critica e la satira della Commedia a questo punto avevano già presentato il loro tema. A differenza di quella di D., che era una selva pensata nella prospettiva della perdizione o della salvezza, ed era perciò in ogni senso una selva cristiana, questa, nella quale il personaggio machiavelliano si era all’improvviso ritrovato, non aveva nessuno di questi caratteri. Ne aveva invece di opposti fino all’ostentazione. A governarla dall’alto non era il cielo cristiano, popolato di sante sollecite della salvezza di chi, come a D. era accaduto, nella selva si fosse disperso. Era Circe che, per sfuggire all’inimicizia e all’odio che si era giustamente meritati, lì aveva trovato rifugio, lì aveva trasferito i suoi poteri malvagi; che seguitavano a essere gli stessi di prima perché anche nella selva gli uomini che fossero caduti in suo potere avrebbero conosciuto il destino della trasformazione in animali. Che la bionda guardiana che il personaggio caduto nella selva vi aveva incontrata si fosse dichiarata disposta a concedergli, prima dell’inevitabile sua trasformazione in un animale, il tempo necessario a conoscere le sue grazie femminili e a imparare dagli animali che costituivano il suo branco quel che questi fossero stati disposti a insegnargli, è quanto bastava a far intendere quale fosse, nei confronti della Commedia l’animus dell’autore dell’Asino.
Alla concezione dantesca del mondo, che prevedeva bensì la dannazione eterna dei malvagi, ma anche la salvazione di coloro che dalla grazia di Dio l’avessero meritata con le opere, egli contrapponeva l’idea per la quale, caduto nelle mani di una divinità perversa, quale a giusto titolo Circe poteva essere definita, il destino di ognuno sarebbe stato la trasformazione in un animale; dal quale era sì previsto che, per la legge della natura, potesse, a tempo debito, essere ritrasferito nella condizione umana, ma senza che questo implicasse che da quella legge naturale ci si fosse liberati, né che dal ritrovarsi uomo dovesse derivargli la felicità. Al contrario. La legge di questa anakỳklosis dell’umano e del ferino era infatti, da sé stessa, destinata a essere ribadita, mai smentita. Era, infatti, per immodificabile necessità che il ciclo della decadenza nell’animalità, del ritorno all’umanità e poi di nuovo all’animalità e all’umanità, riprendeva a costituirsi non appena un suo giro si fosse concluso. Ed era nella naturalità senza luce di riscatto di questa eterna vicenda che la concezione cristiana del mondo conosceva il suo tramonto. Lì era implacabilmente consumata e capovolta. Il mondo era chiuso nell’eternità intrascendibile del suo essere, e l’umanità non era se non l’attesa del momento in cui si sarebbe trasformata nell’animalità che, a sua volta, non era se non l’attesa del suo contrario in una vicenda tanto necessaria quanto priva di luce. Uomo o bestia, il vivente non era infatti se non l’attesa della sua duplice trasformazione.
La critica della concezione dantesca e la satira feroce a cui, raramente attingendo il piano superiore dell’arte, M. la sottoponeva, non avrebbero potuto essere più perentorie; e, lasciando da parte quel che in un’altra occasione fu messo in luce, la conferma del rabbioso pessimismo che domina il poemetto si ha nel discorso del cinghiale che occupa l’ottavo e ultimo capitolo dell’opera rimasta interrotta. Rispetto alla legge naturale che scandisce l’alterno passaggio dell’uomo dall’umanità all’animalità, e da questa, ineluttabilmente, all’umanità, il desiderio di rimanere chiuso in sé stesso e di non patire l’oltraggio rappresentato dal ritorno alla condizione umana rendeva più acuta, nell’impossibilità di essere esaudito, l’infelicità dei mortali e del loro destino. Il mondo animale appariva al cinghiale assai migliore di quello umano. Ma nemmeno nel contatto con la sua più schietta qualità l’umanità era destinata a trovare conforto al dolore derivante dalla sua natura crudele: «solamente l’uomo / l’altr’uomo ammazza, crocifigge e spoglia» (viii 143-44). Considerando la qualità non eccelsa dei versi in cui le sue considerazioni si esprimevano, alle parole del cinghiale si potrebbe non dare eccessiva importanza, si potrebbe esser tentati di assegnarle a un gioco condotto senza autentica serietà o convinzione. Ma sarebbe indizio di debole intelligenza. A metter subito fine al gioco minimizzante basterebbe, infatti, la considerazione che in quel quadro s’incontrano concetti che non soltanto lì hanno la loro sede, perché sono invece costitutivi dell’universo machiavelliano, politico e concettuale. Nella loro ricercata e ostentata crudezza, che M. vi perseguì, sono infatti espressivi anche della volontà di prendere le distanze dall’idea cristiana del mondo, di declinare fino in fondo le ragioni del suo diverso sentire, di rivendicare il senso profondo delle scelte che lo avevano condannato alla solitudine e all’infelicità. Notevole è che tutto questo avvenisse in opposizione al cristianesimo e a D. che, rappresentando il cristianesimo stesso al più alto grado, a quella altezza consentiva di colpirlo e di ferirlo. C’era, del resto, rispetto alla rappresentazione dantesca della selva, e della salvezza da essa, un altro elemento che fortemente concorreva a segnare la differenza, anzi la contrapposizione. D. era finito nella selva, senza saper dire perché: «io non so ben ridir com’io v’intrai» (Inferno I 10); del suo personaggio M. dice la stessa cosa, con una minima variante: «io non vi so ben dir com’io v’entrai» (Asino, II 22). Ma nell’indicazione, o non indicazione, del perché di questo smarrimento, nell’apparenza dell’identità, le rispettive posizioni divergono in modo netto. E in modo netto divergono le responsabilità. Da Beatrice, comparsa sulla vetta del Purgatorio, il lettore apprenderà, in modo compiuto, le ragioni per le quali D. si era smarrito nella selva e da questa era stato tratto fuori per compiere il viaggio attraverso i tre regni dell’aldilà. Alla radice, quel viaggio era di espiazione dei gravi peccati commessi in vita e di redenzione da essi. Nessuna ragione, al di fuori di quella naturale che determina il ciclico destino di ciascuno, aveva invece determinato lo smarrimento nella selva del personaggio machiavelliano. Nel luogo nel quale era venuto a trovarsi, al contrario di D., egli non aveva alcun peccato da raccontare e di cui vergognarsi. Se aveva patito più di quel che ad altri fosse mai accaduto, era stato perché tale era la natura del mondo, che nient’altro che male vi si poteva incontrare e patire. La sua vita era stata quale non poteva non esser stata in un mondo malvagio e «guasto». Come M. diceva venendo meno, contraddittoriamente, alla tesi dell’onnicomprensività del male, era stata quella di una vittima innocente dell’altrui cattiveria. Con scarsa coerenza, dunque, anzi con nessuna coerenza, dalle miserie e malvagità del mondo M. si escludeva. Pensava di non esserne stato partecipe e di non averle condivise. Accadeva perciò che, quando il suo personaggio s’interrogava sulle ragioni che lo avevano condotto nella selva, la sua convinzione era che a condurvelo erano stati il suo «senno poco, / vano sperare e vana openione» (ii 85-87), tanto che di questo avviso sarebbe rimasto se la stravagante guardiana, alle cui cure era stato affidato, non avesse provveduto a rimettere le cose al giusto posto, facendogli notare che, in realtà, nessuna colpa egli aveva commesso in vita, e di nessuna conveniva che si accusasse, perché, in realtà, tutto era partito dall’altrui ingratitudine
tra la gente moderna e tra l’antica / – cominciò ella – alcun mai non sostenne / più ingratitudine, né maggior fatica. / Questo già per tua colpa non ti avvenne, / come aviene ad alcun, ma perché sorte / al tuo bene operar contraria venne (iii 76-81).
Al di là dell’incoerenza, il capovolgimeno dello schema cristiano e dantesco non avrebbe potuto essere più radicale; in modo più drastico non avrebbe potuto dar luogo alle due opposizioni che il lettore vede delinearsi dinanzi agli occhi. La prima, e più netta, riguardava il radicale e non componibile contrasto delle concezioni del mondo, quella cristiana di D., da una parte, da un’altra quella naturalistica, pessimistica, anticristiana dell’autore dell’Asino. La seconda implicava che, non solo rispetto al pensiero e alla conseguente idea del mondo, l’autore della Commedia e quello dell’Asino si disponessero su due piani opposti, ma rispetto altresì alla diversa esemplarità delle loro scelte umane e politiche. Per quanto concerne la questione che nasce dalla differenza dei concetti, un accenno non può non essere dedicato all’Allocuzione ad un magistrato, e all’uso, serio e niente affatto satirico, che M. vi fece all’episodio di Traiano nel decimo canto del Purgatorio, ricordato per la questione della giustizia, ma non della pietà. Al fondo delle considerazioni svolte nell’Asino si profilava, infatti, con forza, l’ipotesi con la quale, nel Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, M. sostenne che D. poteva bensì essere lodato per aver scritto in lingua fiorentina la sua opera maggiore, ma proprio per questo meritava invece di essere biasimato, respinto e condannato per aver negato di averla scritta in quella lingua. Paradossalmente la lode che gli tributava era a detrimento delle qualità morali del personaggio, il quale negava la fiorentinità della lingua usata nel suo poema non per altro che a causa del rancore, dell’astio, del sentimento di rivalsa nutriti verso la città che pur l’aveva allevato e reso quello che poi era diventato.
Non conviene in questa sede discutere la questione, ancora aperta presso alcuni, della paternità machiavelliana, variamente negata o affermata, del Discorso intorno alla nostra lingua (→), sulla cui data molto si è discusso e che ora, a chi lo ritiene uscito dallo studio di Sant’Andrea, sembra indiscutibile sia da collocare negli ultimi due anni della vita del quondam Segretario. Non conviene discuterla qui perché non questa è la sede in cui si potrebbe prestare ascolto a tutti gli argomenti e trarre le conclusioni. Le quali, per quel che concerne lo scrivente, sono tutte a favore della machiavellianità: a cominciare proprio dall’antidantismo, che era sembrato prova di inautenticità a Cecil Grayson (1971) e ad altri, e che lo è invece del contrario per chi consideri la contrapposizione che vi è delineata di D. come del simbolo di quel che il vero cittadino non deve essere nei confronti della patria, e dell’autore del Dialogo come del simbolo, positivo, di quel che al cittadino, sempre e comunque, si richiede. In effetti, dopo avere in modo sottile e pungente insistito sulla distanza che dal suo ‘paganesimo politico’ e dalla sua idea del mondo eterno e infelice separava la visione cristiana di cui la Commedia era suprema espressione, M. finì per svolgere e radicalizzare la sua critica nella contrapposizione della sua virtù di cittadino misconosciuto dalla patria, ma fedele a essa, al rifiuto polemico, orgoglioso e fazioso che D. invece ne aveva fatto. Espressione massima e suggello definitivo di questo suo sentimento, la critica degli argomenti linguistici di D. fu da lui fatta precedere da un passo, di alta eloquenza e di solenne tessitura, che è (e sorprende che nessuno, per tanto tempo, se ne accorgesse) una parafrasi abbreviata di uno degli argomenti costitutivi del discorso che nel Critone platonico si immagina che le Leggi rivolgessero a Socrate e che questi girò a coloro che, nel carcere, lo inducevano ad accettare che i guardiani ne fossero corrotti in modo da consentire a lui di fuggire lontano dalla patria ateniese.
Quel passo rappresentò la sintesi dell’atteggiamento da lui tenuto nei confronti di D., che, ammirato pur sempre come poeta, ma criticato come patriota, a M. fornì l’occasione di costruire, sulle rovine del suo, il mito della sua propria esemplarità. Alla radice di questa sintesi, anche altro, tuttavia, occorre vedere. Al di là dell’ingiustizia che, cittadino (come si giudicava) esemplare, riteneva di avere subita dalla sua patria, e delle invettive che, a partire dal Convivio e dal De vulgari eloquentia, le rivolse contro, nella mente e nell’anima di D. era presente un pensiero che a M. si era reso ormai del tutto estraneo. Attraverso il personaggio di Cacciaguida, non per caso, forse, irriso in una battuta feroce del Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, D. aveva tenuto insieme l’affetto nostalgico per la Firenze antica e la dimensione imperiale che, già nel quarto trattato del Convivio, aveva conferita al suo pensiero politico. Quando nel De vulgari eloquentia aveva scritto che il mondo era a lui patria ut piscibus equor, a dare ulteriore energia al sentimento e all’«alta fantasia» che gli avevano dettato quelle parole memorabili era stata la disposizione universalistica alla quale l’idea dell’impero, che allora cominciava a delinearsi nel suo pensiero, aveva conferito vigore e concretezza. Nella lettera all’amico fiorentino, il ritorno in patria era stato di nuovo subordinato al rispetto che si dovevano alla sua fama e al suo onore: in caso contrario mai vi avrebbe fatto ritorno. La fama, l’onore, la dignità erano sentimenti individuali. Ma a fondamento di tutto stava la disposizione universalistica, anzi addirittura cosmica, che includeva infatti la contemplazione delle stelle e del cielo e delle supreme verità:
quidni? nonne solis astrorumque specula ubique conspiciam? Nonne dulcissimas veritates potero speculari ubique sub celo, ni prius inglorium, ymo ignominiosum populo florentino, civitati me reddam? e allora? forse che non vedrò dovunque gli specchi del sole e degli astri? Forse che non potrò dovunque sotto il cielo indagare le dolcissime verità, senza restituirmi prima abietto, anzi ignominioso al popolo e alla città di Firenze? (Epistole XII 9).
La contemplazione delle stelle e delle dolcissime verità non apparteneva all’universo di M. che mai, in nessun momento della sua vita, avrebbe potuto condividere una concezione come questa e l’atteggiamento che ne discendeva. Mai avrebbe potuto dare a sé stesso una simile consolazione. L’impero che stava nella sua mente coincideva con la formazione politica che i Romani avevano innalzata con le arti della politica e poi perduta quando queste, per complesse ragioni, erano venute meno. Non aveva dunque niente di universale nel senso dantesco; e se avesse letto la Monarchia, meno ancora dell’argomentazione politica avrebbe compreso e condiviso quella filosofica. Il contrasto si accendeva nel confronto, non tanto con le teorie, quanto, piuttosto, con l’atteggiamento pratico dell’esule che, ai suoi occhi, aveva rinnegato la patria; che certo non sempre, come Rinaldo degli Albizzi aveva detto nei discorsi che M. gli fece pronunziare nelle Istorie fiorentine, coincide con le sue mura, i suoi palazzi, le sue istituzioni, tanto che talvolta, quando perduta sia la sua libertà, allora vale di più «uno onorevole ribello che uno stiavo cittadino» (Istorie fiorentine IV xxxiii 6). In ogni possibile circostanza della vita, la patria, per M., restava la patria.
Bibliografia: O. Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli nella loro relazione col machiavellismo, 2 voll., Torino-Roma 1883-1911; A.E. Quaglio, Dante e Machiavelli, «Cultura e scuola», 1970, 9, pp. 160-73; C. Grayson, Machiavelli e Dante: per la data e l’attribuzione del Dialogo intorno alla lingua, «Studi e problemi di critica testuale», 1971, 2, pp. 5-28; J.-J. Marchand, Una Protestatio de iustitia del Machiavelli: l’Allocuzione ad un magistrato, «La bibliofilia», 1974, 76, pp. 209-21; G. Sasso, L’Asino: una satira antidantesca, in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 4° vol., Milano-Napoli 1997, pp. 39-127, con larga indicazione della bibl. prec. (e nello stesso volume si veda anche Il ‘cinghiale’ di Machiavelli e Il ‘gryllos’ di Plutarco, pp. 129-51, e Centauri, leoni e volpi, pp. 153-87); M. Martelli, Per un dittico machiavelliano, introduzione a N. Machiavelli, Novella di Belfagor. L’Asino, a cura di M. Tarantino, Roma 1990.