Danza
Eventi, temi e modelli coreutici nel cinema subentrano alla gestualità 'naturale' ‒ così definita per necessità di distinzione, benché frutto essa stessa di un artificio totale, la recitazione ‒ secondo un atto che può essere ricondotto a tre grandi categorie: l'allusione coreutica; la d. e il ballo come episodi narrativi circoscritti, più o meno ricorrenti; la d. come soggetto predominante. Per sua natura questa distinzione, sostanzialmente semiotica, prescinde deliberatamente dai generi cinematografici. Infatti, se da una parte è inconfutabile il corrispettivo tra un classico musical hollywoodiano e la terza categoria, è altrettanto vero che non tutto ciò che storiograficamente si associa al musical mostra caratteri linguistici, stilistici, drammaturgici univoci, così come un film che con il musical non ha niente in comune può presentare al proprio interno episodi riconducibili a ciascuna delle tre categorie qui proposte, talvolta anche a più di una nella stessa opera. La necessità di svincolarsi da una classificazione basata sui generi si conferma a maggior ragione se nel rapporto tra cinema e d. si viene a considerare la presenza inscindibile della componente musicale, così polisignificante da imporre una lettura circostanziata e solo in ultima analisi rapportabile ai topoi del genere cinematografico di appartenenza. Detto altrimenti, a seconda che la musica si presenti a livello interno (o diegetico), a livello esterno (extradiegetico) o a livello mediato (come soggettiva sonora 'evocata' interiormente dal personaggio), l'atto coreutico può assumere significati ben diversi, resi ulteriormente ambigui dalla transizione non insolita da un livello all'altro.
La prima categoria, dai confini molto incerti e in ogni caso imparentata con la pantomima e al limite con il film d'animazione ‒ una modulazione di volta in volta sfumata o esibita, progressiva o repentina, lineare o eccentrica che segna il passaggio da una cinetica a un tem-po psichica e somatica variamente motivata a un movimento potenzialmente o inequivocabilmente coreuti-co ‒ fa ricorso all'allegoria, al simbolo o alla metafora con gradi di evidenza del processo retorico molto diversi a seconda del contesto narrativo e del genere cinematografico. Il fascino dell'allusione risiede soprattutto in una sorta di emancipazione del gesto, il quale aspira a divenire atto coreutico, inteso come altrove psicofisico, come metamorfosi o smaterializzazione del corpo, senza volontà apparente del personaggio e in assenza di circostanze in grado di legittimarne la svolta.
Si può definire una sorta di anacoluto del linguaggio corporeo laddove la crisi momentanea dell'identità antropomorfa sconfina, per es., in quella zoomorfa o, all'opposto, come sublimazione del linguaggio corporeo se l'aspirazione è elevata, tendente all'angelicazione. Gli esempi più significativi, pur nella loro diversità, possono essere ricondotti a Charlie Chaplin (ovunque, ma soprattutto in The gold rush, 1925, La febbre dell'oro; City lights, 1931, Luci della città; Modern times, 1936, Tempi moderni; The great dictator, 1940, Il grande dittatore); a Totò, ancora come costante, ma in particolare in Totò cerca casa (1949, di Mario Monicelli e Steno), Totò le Mokò (1949, di Carlo Ludovico Bragaglia), Totò a colori (1952, di Mario Monicelli e Steno), Un turco napoletano (1953, di Mario Mattoli), fino a Uccellacci e uccellini (1966, di Pier Paolo Pasolini); a Jacques Tati (da Jour de fête, 1949, Giorno di festa, a Les vacances de Monsieur Hulot, 1953, Le vacanze di Monsieur Hulot; da Mon oncle, 1958, Mio zio, a Playtime, 1967, Playtime ‒ Tempo di divertimento) e a Jean-Louis Barrault (Les enfants du paradis, 1945, Amanti perduti, di Marcel Carné). Un altro carattere di allusione coreutica, senza l'enfasi e la forza presenti nei protagonisti appena citati bensì come stilema ricorrente di regia, può essere agevolmente riscontrato fin dalle origini nell'intera opera di Georges Méliès di cui, oltre ai numerosi cortometraggi, basterà ricordare Le voyage dans la Lune (1902; Il viaggio nella Luna) e Voyage à travers l'impossible (1904; Il viaggio attraverso l'impossibile). Il suo fondamentale contributo alla formazione di un linguaggio specifico, quasi una cosmogonia filmica, comporta l'acquisizione e la fusione di elementi spettacolari tratti da ogni preesistente. Paradossalmente, le tecniche cinematografiche inventate da Méliès (apparizioni e sparizioni, ritmiche individuali o collettive estranee alla natura del reale) rappresentano la rilettura, l'esaltazione e la trasfigurazione di modalità prevalentemente pantomimiche e coreutiche, quindi ben note, atte alla formazione di una originale Augenmusik. Alcuni di questi caratteri si ritroveranno più tardi in René Clair con Entr'acte (1924), Un chapeau de paille d'Italie (1927; Un cappello di paglia di Firenze), Sous les toits de Paris (1930; Sotto i tetti di Parigi), À nous la liberté (1931; A me la libertà) e Le million (1931; Il milione), in cui la proverbiale leggerezza del linguaggio dell'autore, complice la parentela con il vaudeville, contribuisce all'evasione dagli schemi consueti delle risorse narrative, corteggiando, ma in parte anticipando, certi tratti del musical hollywoodiano. Sul piano del corto circuito semantico, ovvero della decontestualizzazione più spinta ma contrabbandata attraverso un seducente quanto evidente processo analogico, si collocano certe soluzioni cinematografiche di Stanley Kubrick, soprattutto in 2001: a space odyssey (1968; 2001: Odissea nello spazio), segnatamente nel rendez-vous spaziale dominato da un moto rotatorio plurimo sulle note di An der schönen blauen Donau di J. Strauss e, più di recente, di Claude Nuridsany e Marie Pérennou in Microcosmos ‒ Le peuple de l'erbe (1996; Microcosmos ‒ Il popolo dell'erba).
In entrambi i casi la presenza umana è esclusa, a vantaggio nel primo di una visione cosmico-tecnologica, nel secondo cosmico-zoologica, ma ciò che associa i due film, pur nella loro imparagonabile diversità d'intenti, è l'universalizzazione extraverbale del racconto epico, per cui non possono che affidarsi entrambi al linguaggio assoluto della danza.
In Kubrick essa assume i caratteri della movenza priapeica, a sottolineare l'approccio e poi l'accoppiamento del veicolo con la stazione orbitante, mentre al tempo stesso il valzer allude a una similitudine fra due visioni del mondo colte entrambe al culmine dell'euforia e perciò a un passo dal baratro.
Il documentario francese rende visibili i ritmi inarrestabili della natura ‒ scanditi da caparbi rituali di sopravvivenza, d'amore e di morte ‒ per cui le musiche di Bruno Coulais non possono che limitarsi a 'doppiare' una coreografia prestabilita, di volta in volta tenera, grottesca, comica. In ultima analisi, la caratteristica che variamente lega tutti gli esempi fin qui chiamati in causa consiste nella capacità di trasmettere un messaggio in cui ogni elemento è semantizzato, il che, come insegna la linguistica, è proprio della poesia.
Nella seconda categoria, e tralasciando la funzione meramente esornativa, il ballo o più raramente la d. appaiono il frutto di un atto dai contorni definiti, collocato nello spazio diegetico in modo plausibile e coerente, ovvero senza radicali slittamenti di ruolo e (ma non sempre) senza ridondanza. Rispetto alla categoria precedente si può definire il passaggio da una manifestazione assoluta ‒ quindi astratta, sebbene formante il racconto ‒ a una necessità antropologica concretamente identificata che serve e integra il racconto.
La casistica è sconfinata e la ricerca di ricorrenze condurrebbe a ragioni meramente narratologiche e a classificazioni generiche, basate di volta in volta su concetti eterogenei fra i quali dominerebbe comunque quello, mul-tiforme, dell'erotismo. Già in La nave (tragedia di G. D'Annunzio del 1908 con musiche di scena di Ildebrando Pizzetti, adattata per lo schermo nel 1912 da Arrigo Frusta e Ricciotto Canudo per la Società Anonima Ambrosio con la regia di Eduardo Bencivenga) la Danza dei sette candelabri appare l'occasione 'trasgressiva' del film, tanto da valorizzarla al massimo affidandone l'interpretazione alla celebre ballerina Isadora Duncan, mentre in The great train robbery (1903; L'assalto al treno) di Edwin S. Porter, prodotto dalla Edison ‒ tra i primi film in cui si applica la tecnica del montaggio ‒ l'unico episodio che interrompe la continuità narrativa della rapina è, appunto, una danza country. Sorvolando su numerosi episodi specifici legati alla mitologia, alla storia e al costume ‒ da Salomè all'epopea del West, da American graffiti (1973) di George Lucas a The Blues Brothers (1980) di John Landis, da Non c'è pace tra gli ulivi (1950) di Giuseppe De Santis a Allonsanfàn (1974) e Il prato (1979), entrambi di Paolo e Vittorio Taviani ‒ il ballo ha assunto talvolta una funzione decisiva benché circoscritta. Ne sono buoni esempi, fra gli altri, la scena serale delle giostre in Acciaio (1933) di Walter Ruttmann, il ballo all'osteria Aux quatre nations in L'Atalante (1934) di Jean Vigo, e il lunghissimo episodio finale del ricevimento a palazzo Ponteleone in Il Gattopardo (1963) di Luchino Visconti ‒ che può essere considerato un'eccezione riguardo alla ridondanza ‒ e così via fino a Le mari de la coiffeuse (1990; Il marito della parrucchiera) di Patrice Leconte, con le emblematiche, estemporanee esibizioni di Jean Rochefort, fino all'episodio dell'arena estiva in Caro diario (1993) di Nanni Moretti. Collettivo o individuale, popolare o aristocratico, il ballo rappresenta in questi titoli una zona franca in cui si celebrano contatti occasionali o prolungati, leciti o illeciti, stabiliti perfino con sé stessi, capaci comunque di mettere a nudo o rias-sumere il succo della narrazione. Se, per es., l'insieme dei balli eseguiti nella parte finale di Il Gattopardo denota i caratteri di una classe sociale attraverso un tipico rito celebrativo e autocelebrativo, il singolo ballo ivi inserito può assumere profonde valenze connotative. Il valzer che Don Fabrizio (Burt Lancaster) balla con Angelica (Claudia Cardinale) è così descritto nel romanzo di G. Tomasi di Lampedusa: "…ad ogni giro un anno gli cadeva giù dalle spalle; presto si ritrovò come a venti anni quando in questa sala stessa ballava con Stella, quando ignorava ancora cosa fossero le delusioni, il tedio, il resto. Per un attimo, quella notte, la morte fu di nuovo ai suoi occhi, roba per gli altri" (1958; ed. 1974, p. 303). Proprio perché collocato tra due momenti segnati da un presagio funesto del protagonista (la meditazione su un dipinto dal titolo Morte del giusto; le lacrime che gli rigano il volto mentre si osserva allo specchio) è evidente come questo valzer vada ben oltre il valore denotativo delle altre d. che animano la lunga sequenza. L'episodio del corteggiamento del venditore ambulante (Gilles Margaritis) nei confronti di Juliette (Dita Parlo) sotto gli occhi del marito (Jean Dasté) in L'Atalante non è da meno. Dopo l'ingresso della coppia nella balera l'ambulante esibisce subito i suoi caratteri di funambolo, di un impertinente a cui tutto sembra concesso. Sfoggiando un'insolita agilità fisica ‒ anticamera coreutica ‒ egli intona La complainte du camelot e quell'abilità verbale trasferisce altrettanto sfacciatamente nel ballo. La giava in cui il camelot stringe Juliette, in modo malizioso ma apparentemente ineffabile, è l'evento decisivo dell'episodio; appare plausibile sul piano narrativo ma per gli effetti che suscita nelle 'vittime' ‒ seduzione della donna, intimidazione del marito e conseguenze successive ‒ riassume in sé l'inadeguatezza sentimentale dei protagonisti e il loro fatalismo, quegli stessi che presiedono mirabilmente all'essenza poetica del film.
Escludendo i film-balletto e i documentari specifici, la terza categoria, che vede la d. come soggetto predominante o ricorrente, richiede una distinzione in due sottocategorie, in cui la lettura in chiave linguistica può concordare in una certa misura con quella comunemente classificatoria.
Occorre distinguere fra d. come componente inscindibile del musical e d. come tema centrale di un film associabile di volta in volta al genere della commedia sentimentale o del dramma. Nel musical ‒ luogo per eccellenza dell'onirico filmico e come tale negazione totale del verosimile ‒ l'azione coreografica, ancorché ridotta a episodi circoscritti per ragioni di strategia drammaturgica, assume su di sé, con il linguaggio musicale di cui rappresenta la 'materializzazione', funzioni semantiche e incombenze comunicative assolutamente predominanti. In tal senso, vista la grande disomogeneità del genere musical e le sue contaminazioni dirette o metalinguistiche con la commedia musicale di Broadway, con l'operetta, con il melodramma e infine con il cinema stesso (in chiave, appunto, metafilmica), la funzione coreografica andrà rapportata ai codici, ai sistemi retorici presenti di volta in volta nella singola opera o, al massimo, in un circoscritto filone produttivo. In altre parole, nel musical non ha molto senso un'estrapolazione della d., storica o critica che sia, a causa dell'inscindibilità delle componenti. Ricalcando perciò le tappe fondamentali del musical occorre limitarsi all'individuazione di alcuni modelli coreografici successivi alla fase di transizione fra rivista e cinema, in cui avevano operato dance directors come Larry Ceballos, LeRoy Prinz, Sammy Lee, Albertine Rasch. L'emancipazione dalla concezione teatrale ‒ frontale ‒ dei numeri di d., dovuta alla partecipazione decisiva delle tecniche cinematografiche, in cui la macchina da presa è l'occhio coreografico, capace di trasfigurazioni fino all'astrazione geometrica, passando attraverso la moltiplicazione del chorus, l'iperrealismo e il kitsch, si deve a Busby Berkeley (42nd Street, Quarantaduesima strada, e Footlight parade, Viva le donne!, entrambi diretti da Lloyd Bacon nel 1933; Gold diggers of 1933, 1933, La danza delle luci, di Mervyn LeRoy; Dames, 1934, Abbasso le donne!, di Ray Enright; Gold diggers of 1935, 1935, Donne di lusso 1935, di cui è anche regista).
L'integrazione fra eventi narrativi e d. ‒ complice la struttura ricorrente del backstage ‒ coincide con l'affermazione della figura di un singolo ballerino o di una coppia. È il caso di Fred Astaire e Ginger Rogers, il cui debutto risale al 1933 con Flying down to Rio (Carioca) di Thornton Freeland. Con Astaire si afferma uno stile essenziale, raffinatissimo, il cui pathos è forse penalizzato da una certa introversione di natura narcisistica, ma che conduce comunque la tap dance alle vette dell'arte, realizzando al tempo stesso una continuità assoluta fra momento prosaico (la narrazione) e momento lirico (la danza). Ciò si verifica in modo costante in Top hat (1935; Cappello a cilindro), Follow the fleet (1936; Seguendo la flotta) e Shall we dance (1937; Voglio danzar con te), tutti di Mark Sandrich, in Swing time (1936; Follie d'inverno) di George Stevens, fino a The band wagon (1953; Spettacolo di varietà) di Vincente Minnelli, in coppia memorabile con Cyd Charisse in Dancing in the dark. Nel tentativo di commiato fra Lucky (Fred Astaire) e Penelope (Ginger Rogers) in Swing time, la discrasia sentimentale si formalizza in una serie di modulazioni, dal passo di d. al passo comune e da questo di nuovo alla d.; ma sul piano dell'interpretazione formale dell'incertezza, dell'affiorare di sentimenti inconfessabili o non ancora pienamente dominati, e quindi con il ricorso a una formalizzazione inizialmente restia e per buona parte interiorizzata, il nume-ro di danza Dancing in the dark resta un modello cine-coreografico fra i più riusciti. Il merito va a un virtuosistico piano-sequenza di oltre due minuti che si 'limita' a seguire il progressivo addensarsi dei passi, delle figure e delle attitudini primarie, ma degna di nota è anche la soluzione di chiusura, solitamente risolta con un'uscita di scena oppure nella staticità di un'attitudine, in dissolvenza, mentre c'è qui un trasferimento di moto, dai corpi alla carrozza che li accoglie e si avvia.
Tradizionalmente opposto allo stile di Astaire è quello di Gene Kelly: atletico, sfrontato, talvolta clownesco, autoironico, sensualmente estroverso. Esordì nel cinema nel 1942, ma il segno indelebile della sua presenza coincide non a caso con una nuova concezione del musical, che va dalla sperimentazione di nuovi modi (l'accostamento ai personaggi animati di Tom & Jerry in Anchors aweigh, 1945, Due marinai e una ragazza, di George Sidney) all'esaltazione dello spazio globale in cui si svolge la d. (The pirate, 1948, Il pirata, e Brigadoon, 1954, entrambi di Minnelli), sebbene la svolta decisiva ‒ il musical che scende in strada, ma senza scadere nel realismo ‒ avvenga con On the town (1949; Un giorno a New York), dove Gene Kelly è coreografo e coregista con Stanley Donen, a cui seguirono An American in Paris (1951; Un americano a Parigi) ancora di Minnelli, sospeso tra quotidianità (oleografica) e astrazione, e Singin' in the rain (1952; Cantando sotto la pioggia), capolavoro e apoteosi del metacinema, in cui Kelly è ancora coreografo e coregista con Donen.
Fermi restando i due modelli di riferimento, quello 'apollineo' (Astaire) e quello 'dionisiaco' (Kelly), la metamorfosi successiva della d. nel mu-sical si manifesta all'insegna di crescenti contaminazioni. Da una parte si segnala la diffusione della jazz danc-ing ‒ inizialmente una sorta di parafrasi delle movenze tipiche dei musicisti jazz ‒ che attraverso Bob Fosse (Cabaret, 1972; All that jazz, 1979, All that jazz ‒ Lo spettacolo continua) condurrà all'avvento del rock (The Rocky horror picture show, 1975, di Jim Sharman e Hair, 1979, di Milos Forman). Dall'altra, la tradizione del balletto classico trasmessa più o meno direttamente da maestri come George Balanchine a un gruppo di coreografi americani particolarmente attivo fra gli anni Quaranta e Cinquanta (Robert Alton, Eugene Loring, Michael Kidd, Jerome Robbins) sfocia in realizzazioni ammirevoli per il sincretismo stilistico come West side story (1961) di Robbins e Robert Wise e, in senso nostalgico-anacronistico, come Hello, Dolly! (1969) di Kelly.
Rispetto al musical la d. come soggetto principale non ha tradizioni e continuità paragonabili, ma può vantare alcuni esiti di grande rilievo per la storia del cinema. In tal senso The red shoes (1948; Scarpette rosse) di Michael Powell ed Emeric Pressburger, e Limelight (1952; Luci della ribalta) di Chaplin sono senza dubbio fra i casi più rappresentativi. In entrambi, seppure con maggiore intensità e soprattutto modernità di linguaggio nel primo, la d. appare la sublimazione dell'esistenza, perseguita come in un rito sacrificale, fino alla morte. A un'area di maggiore sperimentazione appartengono invece Invitation to the dance (1956; Trittico d'amore) di Gene Kelly e Le bal (1983; Ballando ballando) di Ettore Scola.
Non si tratta di film musicali né sono associabili ai generi convenzionali, poiché rinunciano ai dialoghi e affidano l'intero peso della narrazione alla d. (tre episodi in Kelly) e al ballo popolare (un percorso storico tutto francese, dal 1936 al 1980, in Scola). L'ambizioso e sfortunato film di Kelly mostra i pregi (soprattutto nel primo episodio, The circus) e i limiti dell'operazione, con qualche analogia con quelli congeniti del film-opera. La trasposizione in film di un evento coreutico, seppure originale come in questo caso, e l'implicita, radicale rinuncia all'espressione verbale congelano l'opera in una sorta di sterile sinestesia, quella stessa che già Sergej M. Ejzenštejn, nelle sue riflessioni teoriche, sospettava potesse condurre lo spettatore a uno stato di torpore psico-percettivo. Esponenti altamente drammatici del bipolarismo tra ballo come consuetudine sociale degradante e d. come rituale estremo ed estremo sacrificio sono, rispettivamente, They shoot horses, don't they? (1969; Non si uccidono così anche i cavalli?) di Sydney Pollack, ossessivamente incentrato su una maratona di ballo intesa come gioco al massacro, e Carmen (1983; Carmen story) di Carlos Saura. In quest'ultimo la struttura en abîme cara a tanto cinema ‒ nel musical ma non solo, come in questo caso ‒ è portata alle estreme conseguenze. Essa si basa su una triplice identità: Antonio Gades impersona il dance master Antonio, a sua volta intento a interpretare Don José (personaggio della Carmen di P. Merimée e G. Bizet), contrapposto in libere combinazioni a un'altra triplice identità, Laura Del Sol nel ruolo di una sconosciuta ballerina di nome Carmen, scelta per interpretare il personaggio della sigaraia. Il film è costruito su una ricorrente ambiguità, poiché stimola nello spettatore un processo empatico, in base a meccanismi convenzionali, ma attraverso una serie di intersecazioni e di sovrapposizioni stranianti. L'esposizione della duplice tragedia ‒ quella dei personaggi e quella degli interpreti ‒ passa esclusivamente attraverso il rito totalizzante del flamenco. La d., questa d., già per sua tradizione extrafilmica, è incarnazione palpitante dell'esistenza, è sublime strumento interpretativo nell'artificio, è superamento dell'artificio nella mise en scène di un'ineluttabile corrispondenza tra vita e arte.
C. Salizzato, Ballare il film, Milano 1982; S. Miceli, Dal 'naturale' al coreutico. Cinema e danza, in Il cinema e le altre arti, a cura di L. Quaresima, Venezia 1996, pp. 71-79.