DARE e AVERE (fr. doit et avoir; sp. debey aber; ted. Haben und Soll; ingl. debits and credits)
Queste due voci non sono le sole usate per distinguere i due ordini di scritture che si possono affermare in un conto, ma sono le più diffuse. Talvolta si parla anche di carico e scarico, di entrata e uscita, di debito e credito, di spesa e di rendita e di competenza e adempimento. Come giustamente osserva V. Vianello nelle sue Istituzioni di ragioneria generale (Roma 1928, p. 302),, se l'uso quasi universale delle espressioni dare e avere può, fino ad un certo punto, apparire chiaro per i conti accesi ai debiti e ai crediti, tale non si manifesta per quelli aperti ai beni stabili, al denaro, ai titoli, al mobilio, alle merci, alle macchine, ecc., per quelli accesi ai costi pluriennali o sospesi di un'azienda o agli elementi complementari di un patrimonio (spese d'impianto, brevetti, avviamento), per i conti alle entrate e alle uscite finanziarie previste e per quelli riguardanti certi componenti positivi e negativi di un patrimonio i quali, come i conti ai fondi di svalutazione o ai risconti attivi e passivi, non si riferiscono a passività o ad attività, ma a semplici poste di correzione ai valori di queste attività e passività". Neppure nei conti ai beni altrui, le voci dare e avere, si possono accettare nel loro senso originario di debiti e crediti. La banca, ad esempio, accredita nei suoi conti chi vi deposita dei titoli a custodia o in garanzia, ma il depositante non si trasforma in creditore verso la banca per i titoli in essa depositati, in quanto di essi titoli continua giuridicamente a rimanere proprietario. Anche nei conti alle previsioni, le entrate e le uscite previste e accertate non possono trovare corrispondenza alcuna col significato giuridico di dare e avere, quand'anche queste espressioni si volessero accettare nel significato amplissimo di diritti e obblighi morali, come da qualche studioso è stato suggerito. L'unità di forma che si richiede nei conti quando questi sono fra loro collegati in un sistema di scritture, non può dare ad essi altrettanta unità d'indole e di natura, perché diversa è l'indole e la natura dei varî elementi che formano oggetto dei conti, e perché a seconda dei diversi fini a cui mirano le scritture, diverse possono essere le dimostrazioni che i conti sono chiamati a dare (v. conto).
Indagando, sia pur brevemente, i precedenti storici delle espressioni dare e avere, troveremo che queste voci, come altre che riguardano il conto in generale, si riferivano esclusivamente in passato alle raxon, alle partite, ai nomi o ai conti che riguardavano i debitori e i creditori degli antichi mercanti e banchieri, e furono questi i primi conti che si accesero e che determinarono le loro forme odierne. V. Alfieri ricorda che sovra un registro del 1382, conservato negli archivî di Firenze, v'è scritto: "Paliano di Folco Paliani, compagno di Giovanni Portinari. Libro che chiamasi Libro bianco, dove scriverò i miei debitori e creditori e li scriverò alla veneziana, cioè da una carta dare e dirimpetto avere". I Veneziani ponevano le voci: dee dare, deno dare o diebo avere nella prima scrittura che facevano sulla sezione sinistra del conto o della partita, e ponevano nella prima scrittura fatta alla destra, le locuzioni: diebo dare, dee avere o deno avere, sottointendendo tali espressioni in tutte le altre registrazioni successive. Fabio Besta osserva (La ragioneria, Milano s. a., II, p. 323), che le voci deve o devono hanno preceduto il dare e l'avere nell'intestazione dei conti sino al sec. XVIII, ma non è riuscito a precisare da quando queste due ultime espressioni incominciarono a usarsi in senso traslato, ossia da quando i compilatori degli antichi registri più non intesero assumerle strettamente alla lettera, ma incominciarono a usarle nella pluralità dei casi, qualunque fosse l'oggetto del conto.
Il Besta (op. cit., p. 312), dopo aver osservato che può leggersi nella Bibbia (Ecclesiastico, XLII, 7): "... scrivi al libro quel che dai e quel che ricevi", e dopo aver citato Demostene (Orazione contro Timoteo), che lasciò scritto: "... i banchieri sogliono scrivere i ricordi dei denari che si dànno, del fine per cui si dànno, affinché si possa render ragione di ciò che si è ricevuto e si è dato", riporta le seguenti scritture tolte da due carte apposte l'una in principio e l'altra al fine di un codice membranaceo contenente il Digesto nuovo con glosse, che si conserva nella Biblioteca Laurenziana di Firenze. Pare si debba trattare delle più antiche scritture mercantili giunte sino a noi, e furono composte da un banchiere fiorentino in Bologna, durante una fiera tenutasi nell'anno 1221:
Aldobrandino petra e buonessequia falkoni dino dare katuno in tuto llj...
Buenessequia falkoni ci a dato lib. xl...
Appollonio tribaldi no die dare sol viij...
Item die auire sol. xxj meno den. j...
L'Alfieri riproduce un mastro della fraterna dei soranzo, tenuto col metodo della partita doppia e aperto nel 1406 coi saldi tratti da un altro mastro, e così descritti:
Debitori e chredidori tratti del l'estratto fato per ser Jachomo boltremo de dar per ser donado Soranzo proprio fin di 19 ogosto, par in quello k. 76, in questo .................... k. 3.
Di contro, e cioè nella parte dell'avere, vi è l'altra scrittura iniziale:
Debitori e chredidori tratti del l'estratto fato per ser Jachomo boltremo, di aver par la chamera da Imprestiti, par in quello k. 75.78, in questo .......................... k. 2.
Il Besta a sua volta (pag. cit.), riesuma un quaderno di casa Barbarigo, iniziato il 2 marzo 1430, che si conserva nell'Archivio di stato in venezia, dal quale toglie numerose scritture iniziali di varî conti:
Chassa contadi de dar...
e di fronte:
Chassa contr. de aver... Choton dacri (leggi D'Acri) sachi un de mia rason de dar...
e di fronte:
Choton contr. de aver...
Anche nel mastro dei Soranzo troviamo addebitamenti e accreditamenti in conti non accesi né ai debitori né ai creditori:
Fitti de chaxe de la fraterna de aver...
oppure:
Spexe de bocha de aver..., ecc.
Da secoli e secoli ormai, e certamente dalle epoche gloriose della Repubblica veneta, le voci deno, dieno, dovemo dar o aver, più non vengono usate nei conti nello stretto loro significato di diritti e di ohbligazioni, ma bensì per indicare, semplicemente, delle mutazioni positive o negative rilevate in quella grandezza numerica che forma oggetto del conto. È chiaro infatti che i computisti d'allora, quando annotavano: Chassa de dar..., Coton de aver..., Fitti de chaxe de la fraterna de aver..., ecc., non si riferivano certo ai diritti o agli obblighi di alcuno, ma bensì al valore di quei componenti patrimoniali a cui il conto era acceso. Quando, e soltanto dopo il sec. XVIII (Besta, op. cit., p. 323), i fogli del mastro o libro dei conti assunsero la forma geometrica di prospetti, scomparve nelle singole scritture la continua ripetizione del titolo del conto, come pure scomparvero le locuzioni: deve, dieno, deno, devono, e non rimasero, nell'intestazione dei conti. che i due verbi dare e avere. Questa elisione non avvenne però allo stesso modo in tutti i paesi. In Italia, eliminati il deve o devono, rimasero per designare le sezioni di conto i verbi dare e avere, mentre in Francia, in Germania e in Austria, in luogo del dare restarono il deve e devono (doit, doizent; soll, sollen), e per l'avere rimase questo verbo (avoir, haben), privato però, come in Italia, del deve o devono. Lo stesso si dica per la Spagna. Gl'Inglesi e poi gli Americani tradussero invece il dare e l'avere in debtor o debtors e creditor o creditors, abbreviandole generalmente in Dr. o Drs. e in Cr. o Crs. Per verità, in Francia nel secolo scorso specialmente erano ancora assai diffuse le voci débit e crédit, tanto che E. Baudran (Cours familier de comptabilité, Parigi 1886) sentì il bisogno di propugnare la sostituzione di queste voci con altre più appropriate, quali a es.: achats, ventes, déboursés, remboursements, recettes, paiements, retraits, apports, entrée, sortie, ecc. Anche in Germania non sono nuove le locuzioni Debet e Kredit in luogo di dare e avere. Oggi, di regola, il titolo di un conto a sezioni divise o contrapposte - in passato detto anche alla veneziana, per distinguerlo dalla forma usata dai fiorentini, secondo la quale le due sezioni venivano sovrapposte - è scritto in alto del foglio e costituisce la sua intestazione; a sinistra di chi scrive, press'a poco all'altezza dell'intestazione, si pone il dare, a destra l'avere.
Collocare, in un conto, il dare a sinistra e l'avere a destra di chi legge o scrive, non è che un'usanza meramente convenzionale. Essendo sorte le voci dare e avere dai conti ai debiti e ai crediti o, meglio, dai conti aperti ai creditori e ai debitori, ne venne come naturale conseguenza che i primi scrittori di ragioneria mirassero a spiegare e a far comprendere la natura dei conti, facendo supporre che dietro a quelli non accesi ai debitori o ai creditori, si dovessero trovare persone da essere fittiziamente addebitate o accreditate. Ed è questa l'unica via da seguirsi per chi voglia interpretare nei conti le voci dare e avere sostantivamente nel significato loro proprio. L'ignoto compilatore di quel Trattato de' computi e delle scritture accolto dal frate Luca Paciolo nella sua Summa de arithmetica (1494), dà queste norme per insegnare l'ordine e il modo di tenere "un conto da botega": "Di tutte le robbe che tu vi metterai (nella bottega), a dì per dì farala debitrice a li toi libri,... e fa tua imaginatione che questa botega sia una persona tua debitrice di quel tanto che li dai o per lei spendi in tutti li modi... e di tutto quello che ne cavi e recevi farala creditrice comme se fosse un debitore che ti pagasse a parte". P. Lodovico Flori, nel suo Trattato del modo di tenere il libro doppio domestico, stampato in Palermo nel 1527, parla di "cose supposte o sia inanimate" che. nei conti "tengono luogo di tante persone". A cotesti autori fecero seguito molti altri, i quali tutti finsero dietro ai conti l'esistenza di una persona, vera o supposta, onde dar ragione del dare e dell'avere, ossia dei relativi addebitamenti o accreditamenti.
Molti, senza discutere, finirono per accettare come postulato indiscutibile della ragioneria la personificazione dei conti, ed è per questo che l'Istruzione generale delle finanze francese del 20 giugno 1859, avverte, all'art. 1440, che ogni operazione contabile riguarda sempre due agenti o conti, di cui uno viene addebitato e l'altro accreditato. Il fatto che libera un agente o conto ne obbliga un altro, e sempre esiste per ogni operazione un debitore e un creditore.
Domenico Manzoni nel suo Quaderno doppio col suo giornale, nuovamente composto et diligentissimamente ordinato secondo il costume di Venetia (1540), distinse per primo le partite vive dalle partite morte o dalle cose morte, avvertendo, per ripetere le sue espressioni, che "per le cose vive, qui s'intende ogni creatura animata; et per le cose morte s'intende, robbe over ogni altra cosa". Questa distinzione, osserva il Besta (op. cit., p. 363), che si fonda più che altro sulla forma dei conti, e che raccoglie in una classe, quella dei conti morti, partite diversissime, è stata ed è ancora seguita da molti, specialmente in Francia e in Germania. Quasi trecent'annì dopo lo scritto del Manzoni, ebbe larga diffusione la teoria di Edmond Desgranges padre, e di Edmond Desgranges figlio, che dominò, si può dire, in quasi tutte le scuole d'Italia e Francia sin oltre alla metà del secolo scorso. Questi due autori, con la fortuna grandissima ininterrottamente incontrata dalle numerosissime edizioni della loro Tenue des livres (cfr. La tenue des livres ou nouveau traité de comptabilité générale, di Edmond Desgranges, 24ª ed., Parigi 1853) indubbiamente concorsero a divulgare quello che essi chiamavano "il principio fondamentale della contabilità " (op. cit., p. 11), che consiste "nell'addebitare colui che riceve e accreditare colui che dà", principio che rende possibile "famigliarizzarci con la convenzione che vuole che la persona della quale si tengono i libri, non figuri sotto il proprio nome, ma sotto quello di un conto generale che la rappresenta". I Desgranges e i loro numerosi seguaci e divulgatori venivano chiamati anche i cinquecontisti, perché cinque erano i conti in cui secondo questi studiosi si smembrava la persona del proprietario dell'azienda commerciale; e cioè i conti: cassa, mercanzie, effetti a ricevere, effetti a pagare e perdite e profitti.
Nel 1867 apparve un'opera di Francesco Marchi, dal titolo quanto mai reazionario rispetto alle idee allora dominanti: 1 cinquecontisti ovvero la ingannevole teorica che tiene insegnata negli Istituti tecnici del Regno e fuori del Regno intorno al sistema di scrittura a partita doppia e nuovo saggio per la facile intelligenza e applicazione di quel sistema (Prato 1867). Con questo lavoro il Marchi prese a "combattere da ogni lato i principî e le massime dei Desgranges e dei loro seguaci: Jaclot, Lemoine, Deplanque, Hunter, Parmetler, Queirolo, ecc.". Poi, dopo aver dato bando a tutto ciò che di astratto o di metafisico e di falso si è introdotto nella teorica della partita doppia (come il conto detto di origine del negoziante, i cinque conti generali che ne tengono il luogo, la personificazione delle cose, la distinzione de' conti in animati e inanimati, e in reali o fittizi e d'ordine o posticci)", si propose di presentarla "spoglia di tali ed altre inutilità, in tutta la sua naturalezza, affinché da tutte le intelligenze possa essere facilmente e intimamente compresa". Ed ecco l'autore entrare nel campo della complessa materia affermando (p. 44): "... per me i conti qualunque sia la loro intitolazione devonsi ritenere tutti personali e tutti reali, essendo persone i capitalisti e il capitalista dell'azienda, persone chi prende in consegna la mercanzia e il denaro di essa e persone coloro che vi sono realmente debitrici per quanto hanno rispettivamente in dare e creditrici per quanto hanno rispettivamente in avere dell'azienda...". Nelle aziende più in grande e in quelle sociali specialmente, si distinguono in generale le seguenti qualità di persone che vi hanno interesse o azione, e cioè: i corrispondenti e coloro i quali prendono in consegna le merci e il denaro; il proprietario o colui che fornisce le sostanze che costituiscono l'azienda e a conto del quale va la medesima e finalmente il gerente o colui che la dirige e l'amministra responsabilmente. Però a voler che la scrittura che si deve tenere in simili aziende sia veramente completa e veramente d'effetto, bisogna che ciascuna delle preaccennate persone dimostri il conto... In quelle aziende ove non sieno persone diverse dal proprietario, il gerente, il cassiere, il magazziniere e altri consegnatari... è il proprietario stesso che riveste allora di ognuno di essi funzionari il carattere, e facendone le veci, ne ha pure i conti della indole di quelli proprii de' funzionari medesimi" (pp. 98 e 108).
Lo scritto del Marchi, il quale si preoccupava più che altro, "di dar ragione dei procedimenti seguiti dai pratici e nulla più" (Besta, op. cit., p. 377), ebbe il merito di sollevare gran copia di commenti e d'incontrare parecchi seguaci e numerosi opuscoli furono scritti pro' o contro della nuova teorica. Fra tanti dibattiti, taluni dei quali non sempre obiettivi, ma forse più scorretti anche nello stile e nella forma di quel che non fosse lo scritto del Marchi, sorse, elevandosi su tutti, la dominante figura di Giuseppe Cerboni. Ricorda A. Gentile (Cenni storici intorno alle vicende della contabilità dell'amministrazione del Regno d'Italia, Como 1878), che il Cerboni afferrò le idee del Marchi con ingegno veramente mirabile e svoltele e risvoltele, ne trasse la sua logismografia", la quale, fra i tanti meriti, ebbe pure quello di mantener desta per un buon mezzo secolo la lotta fra il materialismo e il personalismo nel campo contabile. Apparvero infatti nel 1873, licenziati in Firenze, i Primi saggi di logismografia presentati all'XI congresso degli scienziati italiani in Roma, nei quali il Cerboni rilevava anzitutto: "che era. necessario abolire le impostazioni personali astratte - attività, passività - che possono essere moltiplicate all'infinito e inutilmente, creando conti fittizi e fittizi elementi di bilancio. Creditore-debitore devono sempre essere una persona naturale e giuridica capace di diritti e di obbligazioni, o in sé o per mezzo della sua rappresentanza. Onde sempre le partite del dare e dell'avere devono produrre effetto personale, effettivo. Non vi possono essere che conti veri e vivi, cioè che attribuiscano a persone vere, debiti e crediti, e non conti morti, conti di commodo; conti artificiali che riguardano una quiddità e un'astrazione sia amministrativa, sia computistica, sia economica".
La scuola che potremo anche noi chiamare cerboniana, trovò non pochi sostenitori, fra i quali, per genialità feconda e degna del maestro, si devono ricordare Giovanni Rossi, monsignor Francesco Alberigo Bonalumi e Michele Riva: ma non sopravvisse al suo autore e ai suoi seguaci.
Il personalismo cerboniano ha trovato in Germania una derivazione nella teoria unitaria dei conti o teoria degli affari (Geschäfts- oder Einkontentheorie), basata sul concetto della contrapposizione giuridica fra il proprietario creditore da un lato, e l'azienda debitrice dall'altro, e quindi il primo deve dare all'azienda (Geschîft) le passività e i debiti, e deve avere da questa le attività. A sua volta l'azienda deve dare al proprietario (Geschänsinhaber) tutte le attività patrimoniali, e deve avere da questi le passività aziendali (F. Leitner, Die doppelte Kaufmînnische Buchhaltung, Berlino 1923, p. 132). Taluni studiosi inglesi e americani, secondo quanto già ideò Domenico Manzoni con i suoi conti personali alle partite vive e conti impersonali alle partite morte, parlano di conti reali (real accounts) e conti accesi ai beni materiali, di conti nominali (nominal accounts) aperti ai componenti del reddito e di conti personali (personal accounts) intestati ai creditori e ai debitori, nonché al "capitale netto" che verrebbe a figurare come una specie d' intermediario fra il proprietario e la sua azienda (Dicksee, Bookkeeping for accountant students, 7ª ed., Londra 1921, p. 12; Fr. S. Tipson, The theory of accounts, New York 1921, p. 16). Per verità, la personificazione del conto al capitale netto e la personalità morale dell'azienda distinta dalla persona del suo proprietario, sono concetti già adombrati dal De la Porte in La science des negocians et teneurs de livres, ou instruction générale. Pour tout ce qui se pratique dans les comptoirs des négocians, tant que pour les affaires de banque que pour les marchandises, et chez les financiers pour les comptes (Lione e Parigi 1704). Egli considera tre oggetti dei conti: le chef ou le négociant lui meme, les effects en nature et les corrispondans" e spiega che l'inventario deve contenere a sinistra ciò che l'azienda deve al proprietario (le doit), ossia le attività, e a destra ciò che essa azienda deve avere (l'avoir) dal proprietario, cioè le passività. Dopo aver detto che l'utile deve essere contrassegnato con la frase: "profit qu'il a plu à Dieu me donner cette année", prosegue testualmente: "cet inventaire doit s'enfermer, afin de l'ôter de devant les domestiques qui, quelquefois, ne sont que trop curieux et nullement secrets".
Volendo ora indagare sul significato giuridico di debito e di credito che possono contenere le voci dare e avere espresse nei conti, dobbiamo riconoscere che i diritti e gli obblighi non possono esprimersi neppure nei conti aperti alle persone, e ciò pel fatto che "le scritture non considerano i diritti e le obbligazioni in sé, sibbene negli oggetti loro, cioè nei beni" (Besta, op. cit. p. 399). I valori espressi nei conti ai crediti, non riguardano un diritto, ma bensì il valore da noi attribuito alla cosa oggetto del diritto, che speriamo in avvenire poter ricevere dal nostro debitore. stralciare un credito da un conto acceso, poniamo, ai "debitori diversi", e cioè accreditare questo conto per l'importo di tale credito in seguito all'accertata insolvenza del nostro debitore, non vuol certo significare lo stralcio o la rinunzia al nostro diritto di credito; diritto che non improbabilmente potremo in seguito con efficacia far valere quando per avventura le condizioni economiche di questo nostro debitore venissero a manifestarsi favorevoli. Se un certo qual significato giuridico è possibile trovare nella scrittura: N. N. deve avere, per imprestito fattomi, lire 1000,−, tale significato si dilegua quando, rimborsando il prestito noi scriveremo: N. N. deve dare, per nostro rimborso, lire 1000,−. E evidente che N. N. non deve dare nulla perché ha soltanto avuto quello che doveva avere. Ricordare in avere del nostro conto cassa" la somma derubataci dal cassiere disonesto, ovvero, accreditare la "cassa" per tale somma, non significa, di sicuro, costituire creditore il cassiere infedele, ma vorrà indicare una diminuzione certamente non intenzionale, avvenuta nell'oggetto del conto.
In Germania si contrappongono al personalismo e anche alla teoria unitaria dei conti parecchie altre teoriche racchiuse sotto il nome di teoria dei due conti (Zweikontentheorie), oppure meglio, teoria della doppia serie o del doppio ordine di conti (Zweikontenreihentheorie), considerate tutte come teorie materialistiche. Una prima di queste teoriche, detta anche matematica, e che riportiamo senza critiche, è sintetizzata dal Leitner (cit., p. 131) in questi due prospetti:
Il dare e l'avere nei conti aperti alle parti patrimoniali attive corrispondono all'avere e al dare dei conti accesi al capitale e ai debiti. Il dare e l'avere, semplici convenzioni, potrebbero anche più esattamente sostituirsi con i segni + e -. Non esattamente il Leitner attribuisce a F. Hugli (Buchhaltungssysteme und Buchhaltungsformen, Berna 1887) il merito di avere per primo dato una forma strettamente logica al principio di classificare i conti in due ordini diversi: conti alle consistenze patrimoniali attive e passive (debiti), e cioè conti che noi siamo soliti chiamare "agli elementi", e conti al patrimonio netto, al capitale e ai risultati d'esercizio, conti che noi sinteticamente denominiamo "al netto" o "derivati" oppure "statistici" o "giuridici". Questa teorica oggi dominante in Italia, era esposta ancor prima del 1887 da F. Besta nelle lezioni impartite nella Scuola superiore di commercio di Venezia.
Più recente è la teorica sviluppata da H. Nicklisch (Wirtschaftliche Betriebslehre, 6ª ed., Stoccarda 1922, pp. 59, 70, 280, 281). Il patrimonio, osserva quest'autore, materializza la potenza economica dell'impresa, mentre il capitale spiega quale diritto si ha su questo patrimonio e quale portata ha questo diritto. La novità di questa concezione sta nella bizzarra, per non dire errata, nozione del "capitale", perché nel resto è una ripetizione della teorica, detta anche matematica, già vista poco sopra.
Ch. E. Sprague (The philosophy of accounts, New York 1922, p. 24) interpreta le voci debito e credito nel senso che la prima indica aumenti di attività, diminuzioni di passività e diminuzioni nella sostanza netta, mentre la seconda significa diminuzioni di attività, aumenti di passività e aumenti nel patrimonio netto. Dice però che i conti del proprietario o al "capitale netto" involgono diritti e obblighi.
Indubbiamente tutte queste teorie risentono dei tentativi fatti dai loro autori per giungere a una generale e formale spiegazione di quella tecnica contabile propria della partita doppia, la quale richiede un'antitesi costante in ogni registrazione fra le somme scritte in dare e quelle scritte in avere di due o più conti. Il merito di F. Besta è stato quello di aver saputo indagare la natura dei conti a prescindere da qualsiasi presupposto di metodo scritturale, insegnando che "la natura del conto dipende dall'oggetto suo, e non dai metodi di registrazione, onde non vi può essere per tutti i metodi che un'unica teorica del conto" (op. cit., p. 398). Una prima classificazione può farsi secondo le classi dei fatti e mutamenti di cui i conti serbano memoria, e i conti da accendersi nei libri di un'azienda "han da essere tanti quante sono in essa le cose che possono utilmente formarne l'oggetto, e delle quali importa, pel buon andamento della gestione, conoscere in ogni tempo le mutabili grandezze... Nelle scritture patrimoniali compiute, tal fondo (o l'oggetto complesso dei conti) è l'intero patrimonio dell'azienda; in quelle incompiute è una porzione di quel patrimonio; nelle scritture generali del bilancio di previsione è il cumulo delle autorizzazioni di cui, per quanto s'attiene all'entrata e alla spesa, gli amministratori possono, a partire da un dato momento e per un dato lasso di tempo, usare; infine, nei sistemi di scritture supplementari, è un cumulo di beni, o di titoli, o di impegni di indole varia" (Besta, cit., p. 293). In Germania e anche in Italia, per opera di G. Zappa si va affermando la tendenza di considerare come "sistema del reddito" quei sistemi di scritture proprî delle imprese, da noi sinora chiamati "sistemi patrimoniali compiuti", e ciò pel fatto che la misurazione della redditibilità dell'azienda è il fine ultimo a cui tendono non solo le rilevazioni contabili, ma anche tutta l'economia aziendale. Comunque (quali si siano i sistemi di scritture o gli elementi che noi deputiamo a formare oggetto dei conti), le voci dare e avere non assumono rispetto ai conti stessi che il valore di una convenzione, la quale dev'essere diversamente interpretata a seconda della natura dei conti, dell'estensione loro e del loro oggetto.
Bibl.: E. Desgranges, La tenue des livres, 24ª ed., Parigi 1853; F. Marchi, I cinquecontisti, Prato 1867; F. Villa, Elementi di amministrazione e contabilità, Pavia 1870; G. Cerboni, La logismografia, Roma 1878; V. Alfieri, La partita doppia applicata alle scritture delle antiche aziende mercantili veneziane, Torino 1891; V. Vianello, Luca Paciolo nella storia della ragioneria, Messina 1896; E. Luchini, Storia della ragioneria, Milano 1898; G. Reymondin, Bibliographie méthodique des ouvrages en langue française parus de 1543 à 1908, sur la science des comptes, Parigi 1909; Opere antiche di ragioneria. Luca Paciolo, Domenico Manzoni, Alvise Casanova, Angelo Pietra, Milano 1911; V. Alfieri, Ragioneria generale, Roma 1919; J. Bournisien, Essai de philosophie comptable, Limoges 1919; G. Zappa, La determinazione del reddito nelle imprese commerciali, Torino 1920; Fr. S. Tipson, The theory of accounts, New York 1921; Dicksee, Bookkeeping for accountant students, 7ª ed., Londra 1921; Ch. E. Sprague, The philosophy of accounts, New York 1922; H. Nicklisch, Wirtschaftliche Betriebslehre, Stoccarda 1922; E. Bettini, La partita doppia, Milano 1923; F. Leitner, Die doppelte Kaufmännische Bucchaltung, Berlino 1923; V. Vianello, Istituzioni di ragioneria generale, Roma 1928; H. Hanisch e A. Vautrin, Die einheitliche Deutung der Buchungsvorgänge, in Zeitschrift für Handelwissenschaft und Handelspraxis, VII, pp. 70, 328; F. Besta, La ragioneria, 2ª ed., Milano s.a.