CORELLI, Dario Franco
Tenore, nacque ad Ancona l’8 aprile 1921 da Remo Pilade Adriano (1887-1983) e Natalina Adria Marchetti (1889-1950).
Le origini della famiglia, appartenente alla piccola borghesia, sono certe fino al bisnonno Carlo Corelli (nato negli ultimissimi anni del XVIII secolo), il cui primogenito, Augusto Corelli (1858-1923), ebbe otto figli: Corrado (1882, morto lo stesso anno dalla nascita), Beatrice Virginia Corinna (1884-1887), Corrado Attilio Fernando (1886-1996), Remo Pilade Adriano, Corinna Elvira Adelia (1889-1968), Rossilla Quartilla detta Bice (1891-1975), Viero Dario Aldo (1894-1987) e Dora Alma Vanda (1896-1953).
Terzo di tre fratelli – Ubaldo, detto Bibi, e Liliana erano nati nel 1914 e nel 1916 –, Franco abitava in via del Gazometro 12 (poi via Mamiani 16), nel popolare quartiere degli Archi. Il padre, responsabile dei vari delle navi nei Cantieri di Ancona, e la madre, casalinga, coltivavano il canto a livello amatoriale. Di complessione atletica, il giovane Corelli faceva parte della squadra di nuoto della Società sportiva Stamura; nel 1939 conseguì il diploma di geometra. Dopo aver svolto il servizio militare, nel 1942, congedato per motivi di salute, fu assunto al Comune di Ancona e cominciò a frequentare il Teatro delle Muse, dove poté ascoltare alcune delle grandi voci allora attive in Italia e nel mondo, appassionandosi al canto. Non mancò di esercitare una certa influenza la scelta del fratello Ubaldo di recarsi a Roma, nonostante il veto del padre, a studiare canto nell’Accademia di Santa Cecilia, per poi intraprendere una discreta carriera di baritono in Italia e all’estero, specie in Spagna, attivo nel teatro d’opera e in quello della rivista, prima di diventare un valido e apprezzato maestro di canto.
Nel 1946 Corelli iniziò ad approfondire la materia, spinto dall’amico Carlo Scaravelli, anch’egli baritono, che gli fece frequentare la Corale Bellini, diretta dal maestro Augusto Gambelli, il quale, peraltro, diede parere negativo sulla voce, possente, ma grezza e incontrollata. Tra il 1948 e il 1949 Scaravelli mise in contatto Corelli con Arturo Melocchi, maestro di canto nel Conservatorio di Pesaro, inventore del ‘metodo Melocchi’, appreso in Cina, trasmesso a Mario Del Monaco (forse il suo allievo più celebre) e oggetto di infinite discussioni tra cantanti, didatti del canto ed esperti di vocalità. Non è mai stato chiarito, neppure da Corelli stesso, se il giovane tenore abbia avuto vere e proprie lezioni, se si sia limitato a frequentare il corso da uditore o se un’audizione ci sia stata e Melocchi non abbia ritenuto interessante la sua voce, né se abbia fatto da tramite il soprano Rinalda Pavoni, già insegnante nel Liceo musicale di Pesaro, che non aveva mancato, a sua volta, d’impartire qualche consiglio al giovane artista. Rimane il fatto che Corelli proseguì gli studi in maniera disordinata, assimilando parte del metodo Melocchi attraverso l’aiuto di Scaravelli. Tuttavia, la seria decisione d’intraprendere la carriera di cantante d’opera, vinte anche le remore paterne, lo spinse nel 1949 adandare a Milano, dove realizzò alcune registrazioni amatoriali, provini su cui misurare le potenzialità e i progressi.
Nel 1950 si presentò alle audizioni del Centro di perfezionamento nel teatro del Maggio musicale fiorentino. Ammesso con l’avallo di un compositore famoso, Riccardo Zandonai, che superò le obiezioni degli altri membri della giuria, vi studiò per tre mesi, per poi partecipare al concorso del Centro lirico sperimentale di Spoleto su consiglio del maestro Guido Sampaoli, direttore dell’Opera di Roma. Non ammesso, ritentò l’anno dopo, incoraggiato dalla sorella Liliana, e venne selezionato per cantare Radamès nell’Aida. Ma la direzione artistica del concorso, prendendo atto delle oggettive difficoltà di Corelli nel sostenere una vocalità per lui ancora ostica, decise d’impegnarlo come Don José nella Carmen che andò in scena il 26 agosto 1951. Dal gennaio 1952 entrò nei cadetti del teatro dell’Opera di Roma, dove mosse i primi passi, ottenendo anche scritture in altri teatri, interessati a impiegare questo giovane tenore che disponeva di un fiume di voce dal timbro baritonaleggiante. Accanto a Carmen, cantata rigorosamente in italiano secondo la tradizione dei Paesi latini non francofoni, Corelli affrontò Aida, il 12 settembre 1952 al Teatro all’aperto di Ravenna, Norma e Don Carlo (versione in quattro atti) all’Opera di Roma, rispettivamente il 9 aprile 1953 e il 4 marzo 1954, mentre nel Maggio musicale del 1953 fu Pierre Bezuchov nella ‘prima’ assoluta di Guerra e pace di Sergej Prokof’ev, e in quello del 1954 Enrico di Brunswick nella prima esecuzione moderna dell’Agnese di Hohenstaufen di Gaspare Spontini. Incuriosito dalle notizie sul giovane tenore anconetano, ritenuto dagli addetti ai lavori elemento di grande interesse, Rudolf Bing, sovrintendente del Metropolitan di New York, diede incarico all’italo-americano Robert Bauer, studioso di vocalità, competente conoscitore di voci, apprezzato talent scout, di seguirne la carriera e di riferire sulle sue prestazioni, sebbene i primi resoconti non fossero lusinghieri.
A Roma, Corelli conobbe Loretta Di Lelio. Figlia del famoso basso Umberto Di Lelio (1894-1945), tra i cantanti accolti da Arturo Toscanini alla Scala tra il 1921 e il 1929, donna di rara bellezza, gentile voce di soprano, che però non andò mai oltre il comprimariato, praticato fino alla fine degli anni Cinquanta, la Di Lelio contribuì a introdurre Corelli negli ambienti della capitale, divenendo sua compagna nella vita. Forte della sua plastica bellezza, che non era sfuggita né al pubblico né alla critica, Corelli venne notato da Luchino Visconti, che non mancò di segnalarlo alla Scala e di volerlo quale Licinio nella Vestale spontiniana che inaugurò la stagione 1954-55, con Maria Callas nel ruolo eponimo: con lei Corelli aveva già cantato l’anno prima in aprile all’Opera di Roma e in novembre al teatro Verdi di Trieste, in ambo i casi come Pollione nella Norma. La scelta dell’allora sovrintendente della Scala, Antonio Ghiringhelli, fu dettata anche dalla felice prova che il tenore anconetano aveva dato nell’Ifigenia in Aulide di Christoph W. Gluck il 17 aprile 1954 all’Opera di Roma, dimostrando che la sua voce baritonaleggiante, ma luminosa nell’acuto, si adattava alla vocalità della tragédie lyrique. In quelle due occasioni la critica fu colpita sia dalla voce sia dal physique du rôle: Corelli fu paragonato a Marlon Brando nella versione cinematografica del Julius Caesar di Shakespeare (1953, regia di Joseph L. Mankiewicz).
La prestanza fisica e una voce sempre più incisiva gli valsero la scrittura alla RAI, dove nel settembre 1954 partecipò alle riprese di Pagliacci, regista Franco Enriquez, il quale lo impegnò di nuovo nella Carmen del 1956. Partecipò anche alle riprese della Tosca nel 1955 (regia di Silverio Blasi), della Turandot nel 1958 (regista Mario Lanfranchi) e, infine, dell’Andrea Chénier nel 1973 (regia di Václav Kašlík). Nel 1956 Carmine Gallone, regista acclamato per i suoi film-opera, lo scelse come Cavaradossi per la Tosca girata negli studi di Cinecittà. La pellicola aumentò la crescente popolarità di Corelli, che partecipò anche ad altri due film: il primo, Suprema confessione (regista Sergio Corbucci, con Massimo Serato e Anna Maria Ferrero, di genere drammatico) risale allo stesso anno della Tosca; il secondo, La spada dell’Islam (registi Enrico Bomba e Andrew Marton, con Folco Lulli, Silvana Pampanini, Rushdy Abaza, Lubna bed El Azizi, di genere avventuroso), è del 1961. Le due pellicole rientravano nel tentativo della cinematografia italiana di dare continuità a un genere che grazie alla partecipazione di star della lirica (si pensi alle molte pellicole girate da Beniamino Gigli) aveva goduto di grande favore tra le due guerre, ma era ormai in declino.
Il successo della Vestale scaligera gli valse nel 1955 la prima scrittura all’estero, al São Carlos di Lisbona con la Carmen, ma soprattutto l’ingresso all’Arena di Verona, dove cantò Carmen e Aida: di questo teatro sarebbe diventato uno dei beniamini, ritornandovi fino agli anni Settanta, in virtù di una voce adatta ai grandi spazi, come dimostrarono anche i successi alle Terme di Caracalla, al castello di S. Giusto a Trieste, alle Palme di San Remo. Mentre le sue presenze si andavano infittendo sulle principali ribalte italiane, dal San Carlo di Napoli al teatro Nuovo di Torino, dal Regio di Parma alla Fenice di Venezia, il repertorio rimaneva limitato ad alcuni titoli della Giovane Scuola, con l’aggiunta di Norma, Aida, Don Carlo, e l’occasionale partecipazione al Romulus di Salvatore Allegra nel 1954, alla riesumazione del Giulio Cesare di Georg Friedrich Händel nel 1955 nella parte di Sesto (entrambi all’Opera di Roma), al Simon Boccanegra e alla Chovanščina di Modest P. Musorgskij nel 1957 al São Carlos.
La sempre più vasta notorietà suscitò rivalità: Corelli si attirò gli strali dell’acclamatissimo collega Mario Del Monaco, che coniò per lui il soprannome ‘pe-corelli’, per via del vibrato che allora affliggeva la voce del giovane tenore. Nel 1955 Corelli registrò per la Cetra una prima nutrita serie di brani. Dal 1956 si affermò definitivamente alla Scala, partecipando nell’aprile al nuovo allestimento della Fanciulla del West, già affrontata nel gennaio del 1955 alla Fenice di Venezia (della parte di Dick fu un interprete di riferimento, per il felice connubio tra la voce e la figura), poi nel maggio alla storica edizione della Fedora diretta da Gianandrea Gavazzeni, con Maria Callas e la regia di Tat’jana Pavlova, che in Corelli trovò l’artista ideale per creare un Loris travolgente. La collaborazione con il teatro alla Scala si protrasse ininterrottamente dalla stagione 1955-56 alla stagione 1964-65, con la partecipazione ad altre cinque inaugurazioni (dicembre 1960, 1961, 1962, 1963 e 1964), dopo quella del 1954. Sotto la spinta di Gavazzeni e di Antonino Votto, Corelli si aprì alla produzione romantica: partecipò così alla riesumazione del Pirata di Vincenzo Bellini nel 1958 e del Poliuto di Gaetano Donizetti nel 1960 con la Callas, della Battaglia di Legnano di Giuseppe Verdi nel 1961 (per il centenario dell’Unità d’Italia) e degli Ugonotti di Giacomo Meyerbeer nel 1962, senza dimenticare le due edizioni del Trovatore nel 1959 e nel 1962, e quella dell’Ernani nel 1959.
L’operazione risultò vincente: Corelli, intenzionato a sfruttare fino in fondo le potenzialità del suo organo, risoluto a liberarsi definitivamente del vibrato, a conquistare un registro acuto senpre più adamantino, a piegare i suoni possenti al canto legato e alle modulazioni a fior di labbro, e infine a risolvere la manovra del ‘passaggio’, si avvalse delle lezioni di Giacomo Lauri-Volpi. Il celebre tenore laziale, incarnazione novecentesca del belcanto romantico – non a caso aveva debuttato con lo pseudonimo Giacomo Rubini, per evocare il più acclamato tenore italiano del primo Ottocento, Giovan Battista Rubini –, viveva in Spagna: dal 1963 Corelli vi si recò assiduamente per prendere lezioni che si rivelarono d’importanza capitale, documentate da numerose testimonianze verbali, da interviste rilasciate dai due artisti e da un carteggio protrattosi fino alla fine degli anni Sessanta. Gli Ugonotti, in particolare, entrarono nella leggenda, specie per l’esecuzione travolgente del così detto duettone del quarto atto con Valentina (Giulietta Simionato), che gli valse un’ovazione interminabile.
Tenne saldamente in repertorio Norma, che cantò in svariate occasioni. Il 2 gennaio 1958 all’Opera di Roma si trovò così a vivere lo scandalo provocato da Maria Callas, che abbandonò il palcoscenico alla fine del primo atto per un’indisposizione, presente in sala il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, e nelle recite successive lasciò la parte al soprano Anita Cerquetti, con la quale Corelli realizzò un’intepretazione di formidabile impatto drammatico. Corelli non abbandonò comunque il repertorio della Giovane Scuola, a Tosca aggiunse Turandot, divenendo l’interprete di riferimento di Calaf; riprese la Fanciulla del West all’Arena nel 1960, in uno spettacolo dal fasto hollywoodiano, e alla Scala nel gennaio 1964, con un’edizione che attirò l’attenzione dei media anche per le feroci polemiche con Antonietta Stella, che sarebba dovuta essere la protagonista. Proprio alla Scala la rivalità artistica con Del Monaco aveva toccato l’apice in occasione dell’Andrea Chénier del gennaio 1960, titolo di cui ambedue i tenori erano considerati i campioni: a Milano per l’Otello, Del Monaco accettò di sostituire alla ‘prima’ del giorno 8 l’indisposto Corelli, che si affrettò a guarire e a garantire la propria presenza per la seconda e per le successive recite.
Corelli andò assumendo pose e atteggiamenti da divo, che i rotocalchi sottolinearono, dando pubblicità al suo amore per le Ferrari, alle vacanze a Cortina d’Ampezzo, allo sbandierato interesse per la tecnologia applicata agli apparecchi audio-video, amplificando fatti della vita privata, come l’incidente d’auto occorsogli sull’autostrada Milano-Laghi, il 26 giugno 1962. Non a caso tra l'agosto e il settembre del 1960 fu protagonista con Marcella Pobbe della versione in fotoromanzo dell’Andrea Chénier, mentre dal maggio 1962 fu Andrea in Denise, un altro fotoromanzo (tratto da Le demi-monde di Alexandre Dumas figlio), pubblicato da Grand Hotel; questo settimanale popolare ad alta diffusione gli aveva dedicato il 1° marzo 1960 una tavola a colori raffigurante un episodio occorso il mese prima durante Il trovatore al San Carlo di Napoli e ripreso da tutti i giornali, compresi i rotocalchi: disturbato dalle contestazioni di uno spettatore, Corelli lo aveva raggiunto nel palco in costume di scena, con intenzioni bellicose. In questo contesto la EMI nel 1959 gli propose un contratto in esclusiva, che prevedeva tra i primissimi impegni l’incisione di Norma con Maria Callas e i complessi della Scala. Nel 1961 seguirono due recitals, Operatic arias by Franco Corelli e Franco Corelli sings Neapolitan songs, incisi negli studi di Londra, dove nel 1957 si era prodotto in Tosca al Covent Garden con esito peraltro non felicissimo.
Deciso a dare una svolta internazionale alla carriera, Corelli accolse l’invito di Sir Rudolf Bing, direttore generale del Metropolitan di New York, a prodursi sulla principale scena americana. Il 16 gennaio, prima di partire per gli Stati Uniti, Corelli sposò a Roma con una cerimona religiosa privata Loretta Di Lelio, regolarizzando un’unione di fatto che i media americani avrebbero potuto giudicare inopportuna. Il debutto avvenne il 27 gennaio 1961 con il Trovatore; il 24 febbraio Corelli fu protagonista di una nuova edizione della Turandot, con la regia di Cecil B. De Mille e la direzione di Leopold Stokowski: in entrambi i casi suscitò generale entusiasmo. Corelli s’inserì così nella gloriosa tradizione dei tenori italiani del Metropolitan, da Caruso a Giovanni Martinelli, Beniamino Gigli, Giacomo Lauri-Volpi, Tito Schipa, Giuseppe Di Stefano, Mario Del Monaco, e proseguita poi con Carlo Bergonzi e Luciano Pavarotti. Iniziò una collaborazione destinata a durare fino al 28 giugno 1975, con 365 presenze, comprensive anche della partecipazione a quattro gala (le serate in cui il grande teatro americano propone al proprio pubblico recital operistici con le star della stagione in corso, oppure singoli atti di opere diverse con grandi artisti). Nel primo dei gala, il 31 marzo 1965, vennero dati il primo atto della Bohème, dove il tenore anconetano fu Rodolfo accanto a Renata Tebaldi, il secondo della Traviat e il terzo della Turandot, dove fu Calaf con il soprano Anita Välkki.
Assorbito dall’attività del Metropolitan, che prevedeva lunghe tournées in numerose città statunitensi, dal 1961 al 1964 limitò le sue apparizioni europee, tra le quali andranno ricordate nel 1961 Il trovatore al Theater des Westens di Berlino, unica sua presenza di rilievo in Germania, nel 1962 Turandot al San Carlo, Carmen alla Fenice, Il trovatore al Festival di Salisburgo (direttore Herbert von Karajan) e al Palazzo dello sport di Pesaro, l’apparizione nella Tosca alla Staatsoper di Vienna e al Kursaal di Lugano, nel 1963 Il trovatore all’Opera di Roma, il ritorno alla Staatsoper di Vienna con Cavalleria rusticana, Don Carlo, Il trovatore, Turandot. Dopo il 1964 queste presenze ebbero carattere d’eccezione. Tornava in Europa per partecipare alle incisioni discografiche, per esibirsi all’Arena di Verona (Carmen nel 1970 e 1975, Ernani e Aida nel 1972, Turandot nel 1975) e allo Sferisterio di Macerata (Turandot nel 1970, Carmen nel 1974), riportato dall’amico Carlo Perrucci, per le recite di Norma all’Opéra di Parigi nel 1964 con la Callas (in quell’occasione registrò non senza incidenti il duetto nel terzo atto di Aida, Pur ti riveggo, mia dolce Aida, direttore Georges Prêtre), per La forza del destino nel 1967 e Carmen nel 1968 al Comunale di Firenze, cantata stavolta in francese (salvo la Romanza del fiore in italiano, convinto com’era che la lingua originale gli spostasse la posizione delle note), per qualche recita a Parma (Tosca e La forza del destino nel 1967, Norma nel 1971), dove al teatro Regio era idolatrato, all’Opéra di Nizza, nel 1970 al teatro Nazionale di Belgrado per Carmen e La bohème, poi nel 1971 per Norma, festeggiato dal maresciallo Tito, al São Carlos di Lisbona nel 1973 per Carmen e Tosca.
Il passaggio al Metropolitan interruppe l’approfondimento del repertorio romantico: Corelli desistette dal cantare la parte di Arnoldo nel Guglielmo Tell di Rossini, che la Scala gli aveva proposto (rimagono alcune testimonianze discografiche delle prove al pianoforte). Rinunciò ai ruoli spinti ai quali la sua voce l’avrebbe destinato, specialmente a Otello, opera vagheggiata (si ventilò l’idea di un’edizione discografica), della quale cantò in più occasioni qualche brano (tra l’altro il duetto Già nella notte densa con Teresa Zylis-Gara nel gala in onore di Rudolf Bing nell’aprile del 1972 al Metropolitan), ma che non affrontò mai sulla scena. Scelse invece parti liriche, che sembrarono eccentriche, come Rodolfo nella Bohème, forse in omaggio a uno dei titoli preferiti da Lauri-Volpi. Per Corelli il Metropolitan allestì nel 1967 una nuova edizione del Roméo et Juliette di Charles Gounod e nel 1971 Werther di Jules Massenet (per motivi scaramantici Corelli non prese parte alla ‘prima’ e subentrò solo alla seconda recita), sempre acclamato in sala, ma discusso dalla critica, che mise in luce numerosi limiti, a cominciare da una dizione francese mai veramente espugnata, anche se Corelli ribadì l’interesse per il repertorio francese con l’incisione del Faust con Joan Sutherland, realizzata dalla Decca nel 1966. Dal 1962 aveva arricchito il proprio repertorio con La Gioconda, che non cantò mai in Europa. Nel 1963 al Northrop Memorial Auditorium di Minneapolis debuttò in Cavalleria rusticana, che poi riprese alla Scala a dicembre; in quell’anno fu anche Maurizio di Sassonia accanto a Renata Tebaldi per la ripresa dell’Adriana Lecouvreur (al Metropolitan l’opera di Francesco Cilea mancava dal 1907), di cui nel 1959 al San Carlo aveva dato un’esecuzione memorabile con Magda Olivero ed Ettore Bastianini; l’aveva cantata per la prima volta nel lontano 1952 all’Opera di Roma. Mantenne in repertorio Don Carlo (sempre in quattro atti), concedendosi spesso il vezzo di aggiungere la famosa ‘puntatura’ (un Do acuto su Libertà!) che Francesco Tamagno era solito interpolare al termine del duetto nel primo atto con il Marchese di Posa.
Il ritmo massacrante di quegli anni finì per affaticare il celebre tenore e accrescere le ansie e le paure che fin dagli esordi contrassegnarono il suo rapporto con il palcoscenico. Si accostò con successo al Macbeth, cantato per la prima volta al Municipal Auditorium di Memphis nel 1973, mentre cantò una sola volta la Messa di Requiem al Philharmonic Auditorium di Los Angeles nel 1967, e si risolse in una delusione il fugace accostamento alla Lucia di Lammermoor al Metropolitan nel 1971, peraltro interessante giacché riprendeva il rapporto di Corelli con il repertorio romantico e restituiva alla giusta tipologia vocale un personaggio, quello di Edgardo, che Donizetti aveva concepito per un tenore stentoreo, Gilbert-Louis Duprez, e che nell’Ottocento era stato intepretato da voci robuste e svettanti come Enrico Tamberlick e Tamagno. Dal 1973 all’attività teatrale si alternò più spesso quella concertistica. La morte improvvisa dell’amico Richard Tucker (1913-1975), celebre tenore americano, lo colpì profondamente. A questo si aggiunse la sensazione di un imminente declino – acuita dalla comparsa sulle ribalte internazionali di due giovani e temibili rivali, Placido Domingo e Luciano Pavarotti –, che nel dicembre 1975 lo portò ad abbandonare la prova generale di un nuovo allestimento di Norma al Metropolitan. Dopo quasi otto mesi di silenzio si presentò nell’agosto 1976 al Teatro all’aperto di Torre del Lago per due (discutibili) recite della Bohème, con le quali chiuse in maniera intempestiva e ingloriosa una carriera strepitosa. Comparve nel 1980 in un concerto a Madison nel New Jersey. Si produsse in altri due concerti nel 1981 ancora nel New Jersey.
Dopo un passaggio alla televisione svedese nel novembre dello stesso anno, in un omaggio al soprano Birgit Nilsson, sua favolosa partner in tante memorabili Turandot, si ritirò a Milano nell’appartamento di via Crivelli 12, acquistato negli anni Cinquanta, alternando soggiorni a New York, via via più radi, a Cortina, dove poi smise di passare le vacanze, a Montecarlo, con una sporadica partecipazione a masterclasses e a serate commemorative, come quella scaligera del 15 ottobre 2001 in occasione del suo ottantesimo compleanno. In questo lungo periodo di silenzio, svanite le rivalità della scena, strinse infine una sincera amicizia con Del Monaco, di cui aveva sempre ammirato la voce e l’arte; partecipò con grande commozione ai suoi funerali nel 1982. Diede lezioni di canto. Tra i suoi allievi, il più famoso dev’essere considerato Andrea Bocelli, che con Corelli maturò un rapporto di sincera ammirazione e devozione filiale. Caldeggiò l’organizzazione di un concorso di canto a lui intitolato, che per qualche anno si tenne ad Ancona; ma rimase deluso dai risultati della manifestazione.
Nel gennaio 2003 cominciò a evidenziarsi la patologia neurologica che il 29 ottobre dello stesso anno lo avrebbe portato alla morte. Seppellito al Cimitero monumentale di Milano – la moglie, scomparsa il 10 gennaio 2013, riposa accanto a lui –, è stato accolto nel famedio tra i cittadini illustri del capoluogo lombardo. La città di Ancona ha voluto affiancare il nome di Corelli al ricostruito teatro delle Muse, alla cui inaugurazione il celebre tenore aveva presenziato nel 2002.
Franco Corelli dev’essere considerato uno dei più grandi tenori del XX secolo. Possedeva in natura una voce imponente, dotata di una robusta regione centrale dal colore quasi baritonale, anche se affetta da un certo vibrato. Plasmandola grazie a un costante e continuo approfondimento tecnico, Corelli la trasformò in uno strumento formidabile, capace di conciliare forza e potenza, di risolvere il cruciale problema del ‘passaggio’ dal registro di petto a quello acuto per ottenere una gamma omogenea, estesa e squillante, di piegare il suono alla mezzavoce, realizzando un gioco dinamico ricco di sfumature. Interprete privilegiato del repertorio della Giovane Scuola, si impose nell’opera che della Giovane Scuola italiana era stato il modello generativo, ossia Carmen di Georges Bizet (cantata di preferenza in italiano), in Pagliacci, Andrea Chénier, Tosca, La fanciulla del West e Turandot. Seppe dare felice definizione anche a numerosi personaggi della produzione verdiana, in particolare Ernani, Manrico, Don Alvaro, Radamès e Don Carlo, e ad alcuni grandi personaggi del primo Ottocento, Pollione nella Norma, Raoul de Nangis negli Ugonotti, Poliuto nell’opera omonima e Gualtiero nel Pirata. Sebbene il suo stile romantico mostrasse evidenti contaminazioni con quello verista, sì da apparire oggi discutibile (alla luce delle continue acquisizioni filologiche della cosiddetta belcanto renaissance), è innegabile che possedesse un singolare fascino. Contribuì al successo la figura bella e statuaria, adatta a incarnare gli eroi votati alla morte, ch’egli sapeva disegnare con foga appassionata e dolente abbandono. Il tenore spesso prevaleva sull’interprete, e il cantante indulgeva con evidente compiacimento ad atteggiamenti da espada, sfoggiando un canto proclive ai ‘portamenti’, agli acuti al fulmicotone, ghermiti di slancio e volutamente esibiti, ai lunghi ‘filati’, agli estenuati pianissimo, con soluzioni narcisistiche non sempre rispettose del dettato della partitura, anche se destinate a entusiasmare il pubblico e per certi versi idealmente ricollegabili a uno stile ottocentesco, pretoscaniniano, incline all’edonismo: come ha finemente osservato Mario Messinis, egli seppe ricorrere a «un tipo di vocalità e di emissione di estrazione protoromantica, […] non immemore di tutta una tradizione belcantistica (così il suono non viene mai violentato o aggredito)» (in Il Gazzettino, 18 luglio 1972, a proposito di Ernani cantato all’Arena di Verona).
Dava risultati migliori in teatro che in sala di registrazione, anche se le sue ansie, il vero e proprio panico nell’imminenza della recita, condizionavano l’esito delle singole serate, che potevano risultare dissimili tra loro, e suscitavano atteggiamenti, talvolta anche aggressivi, estranei alla sua vera indole.
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