Darwin in Italia
Con il titolo Sull’origine delle specie per elezione naturale, ovvero conservazione delle razze perfezionate nella lotta per l’esistenza fu pubblicata, nel 1864, per i tipi della casa editrice Zanichelli di Modena, la prima traduzione italiana di On the origin of species by means of natural selection, or the preservation of favoured races in the struggle for life (1859) di Charles S. Darwin, condotta sulla base della terza edizione inglese del 1861 dallo zoologo Giovanni Canestrini e da Leonardo Salimbeni. Precedentemente erano già comparse le traduzioni tedesca (1860), olandese (1862), russa (1862), nonché quella francese (1862). Nei confronti di quest’ultima Darwin aveva avuto ragione di esprimere profondi motivi di dissenso per l’ingombrante introduzione di circa 50 pagine che la traduttrice Clémence Royer aveva anteposto al testo inquinandone il significato al punto di valerle il titolo di prima darwinista sociale francese (Clark 1984).
Consapevoli degli incresciosi incidenti seguiti all’edizione francese, in cui comparivano fra l’altro vari errori di traduzione, Canestrini e Salimbeni, nella stringatissima avvertenza ai lettori italiani, dichiararono di non voler prevenire il giudizio del lettore con «intempestive annotazioni», esimendosi dall’esporre le proprie opinioni sui punti principali della teoria. Pure alla traduzione francese essi fecero di certo riferimento ereditandone alcuni errori (Pancaldi 1983), come quel «expressions métaphysiques» per «metaphorical expressions» che comparve anche in italiano: «Tutti sanno quale significato racchiudano queste espressioni metafisiche, le quali sono pressoché indispensabili per la brevità del dire» (Ch.S. Darwin, Sull’origine delle specie per elezione naturale, cit., p. 59).
L’errore di traduzione, o forse sarebbe meglio dire il lapsus, proprio nel brano aggiunto da Darwin alla terza edizione inglese in replica ai troppi equivoci in cui era già incorsa l’espressione «natural selection», sembrerebbe poter quasi assumere un valore emblematico nel disvelare il clima complesso in cui, in Italia ma, in realtà, anche altrove, si sviluppò il dibattito sul ‘darwinismo’; clima che per altro già traspare nella pur brevissima prefazione alla traduzione italiana dell’Origine, laddove i traduttori, dopo aver rilevato i cambiamenti «più o meno profondi» che essa porta in quasi tutte le scienze naturali e l’impegno presente nell’opera a spiegare termini fino allora «incompresi e tuttavia continuamente applicati», a dispetto di quel «metafisiche» subdolamente insinuatosi nella traduzione, osservavano proprio che «essa tende a ridurre ai limiti i più ristretti l’ingerenza immediata di una forza soprannaturale» (pp. 1-2).
Pur indirizzando l’opera a chiunque, spinto da semplice curiosità, amasse occuparsi dell’origine delle specie animali e vegetali e non solo allo «scienziato positivo» e al «filosofo razionale», Canestrini e Salimbeni alludevano di fatto a un dibattito già da tempo innescato non solo e non tanto sulla ‘teoria’ di Darwin, quanto su un ‘darwinismo’ allargato e immediatamente coinvolto nel contesto più ampio dello scontro filosofico e ideologico tra positivismo e materialismo, da una parte, e filosofie spiritualiste e idealiste, dall’altra, e che a sua volta interagiva, non solo in Italia, ma in Italia in modo esemplare, con le grandi vicende storico-politiche per la costituzione dello Stato unitario e i conseguenti problematici rapporti con la Chiesa.
Che poi, seppure in assenza del termine selezione nei dizionari della lingua italiana, e analogamente alla traduzione francese (élection), corretta solo nel 1866, l’espressione darwiniana natural selection fosse resa anche in italiano con «elezione naturale» può forse rappresentare, in conseguenza della sua potenziale ambiguità, un’ulteriore spia della piega che avrebbe in parte assunto il dibattito sul ‘darwinismo’ in Italia. Secondo l’accezione che ancora oggi porta con sé il senso di scelta compiuta per un libero atto di volontà, il termine elezione veniva definito nel suo uso generale come:
Azione e atto dell’eleggere, e modo e effetto. Esercitandovisi l’intelligenza e insieme la volontà; ci rifaremo dal senso filos. della voce, che è pur vivo, ancorché meno usit. a noi che agli antichi.
Elezione valeva Esercizio del libero arbitrio, e differisce appunto da questa facoltà per esserne l’esercizio.
È questa, a titolo di esempio, la definizione che compare in quel Dizionario della lingua italiana, noto come il Tommaseo-Bellini dai nomi dei due principali curatori, che venne pubblicato tra il 1861 e il 1879 in otto tomi.
Nel quarto tomo del Dizionario, uscito nel 1872, sarebbe, però, comparso il lemma selezione, che così esordiva:
Selezione. Voce con cui gli scienziati della bestialità e del pantano, per negare la libertà umana, la affermano consentendola a tutte le cose. Dicono che l’uomo e ogni cosa si venne creando per selezione da sé; ma non spiegano come codesta affinità elettiva si concili con la necessità che essi vorrebbero universale tiranna.
Pochi dubbi possono esserci sulla provenienza di tale caustica ‘definizione’, in considerazione anche del fatto che, nel 1869, selezione era ormai attestabile nel pamphlet che il prolifico letterato, filologo, critico, storico e politico di orientamento cattolico-liberale, nonché partecipante ai moti veneziani del 1848, Niccolò Tommaseo aveva pubblicato con il titolo L’uomo e la scimmia. Lettere dieci con un discorso sugli urli bestiali dateci per origine delle lingue (Agl’Italiani; Agl’illustri Scienziati; Agli scolari di logica; Alle bestie; Ai Pitecologi dell’avvenire; Ai filologi; Agli sparatori di cadaveri; Ai governanti; Alle donne; Ai giovani). L’intervento di Tommaseo faceva seguito, in realtà, alla conferenza Sulla parentela tra l’uomo e la scimmia tenuta con grande successo di pubblico alla Specola di Firenze il 21 marzo di quello stesso 1869 dal fisiologo russo Aleksandr A. Herzen (1839-1906), chiamato a Firenze dal 1863 come assistente del fisiologo tedesco Moritz Schiff. Quest’ultimo, sempre nel 1869, tenne una non meno provocatoria conferenza Sulla misura della sensazione e del movimento. Quanto a Herzen, egli iniziava la propria conferenza affermando:
Le differenze tra l’uomo e le scimie superiori sono manifeste; manifeste pure sono le somiglianze. Tra tutti gli animali vertebrati le scimie sono senza dubbio quelli che nell’insieme della loro organizzazione più si avvicinano all’uomo. Ora, qual è il valore anatomico delle differenze, quale il risultato filosofico delle differenze? (Sulla parentela fra l’uomo e le scimmie, 1869, p. 37).
Proseguendo, in modo alquanto misurato, Herzen illustrava le lunghissime discussioni già svoltesi sull’esistenza nell’uomo dell’osso mascellare, sulle quattro mani, sulla presenza o meno di certe parti del cervello, per rilevare come:
Non vi è organo che l’uomo abbia e che la scimia non ha; uno sviluppo un poco maggiore di certe parti, uno sviluppo un poco minore di certe altre, ecco la sola differenza che possiamo stabilire, una differenza puramente quantitativa; e dobbiamo confessare che l’organizzazione dell’uomo è talmente simile a quella delle scimie superiori che, se noi fossimo, come vorrebbe Huxley, abitanti di un altro pianeta, venuti a far raccolta zoologica sulla terra, ed avessimo portato con noi in una botte di spirito di vino individui di tutti i mammiferi che popolano la terra, per farne poi a nostro comodo, sul proprio pianeta, l’esame anatomico, saremmo forzati di mettere l’uomo non soltanto nell’ordine generale delle scimie, ma nella medesima famiglia con le scimie antropomorfe che sono il Gibbone, l’Orang, il Cimpanzè e il Gorilla (pp. 38-39).
Al di là della questione ‘quasi personale’ tra l’umanità e la scimietà, la discussione si ampliava poi al significato della somiglianza tra tutti gli esseri viventi per affrontare, attraverso l’anatomia, la sistematica, la geologia, la paleontologia, l’embriologia, «la supposizione dell’evoluzione graduale e continua delle varie forme le une dalle altre» (p. 49), tale per cui «la scienza ci forza dunque ad ammettere la parentela fra l’uomo e le scimie» (p. 57). Esplicitamente Herzen dichiarava:
Qualunque teoria scientifica può essere scossa e distrutta da nuovi fatti, da nuove prove, o almeno da nuovi argomenti; basta però che sieno scientifici, ma discorsi tanto più sonori quanto più vuoti, non possono neppur inzaccherarla (p. 58).
Sul quotidiano «La Nazione», che aveva recensito con gran plauso la conferenza (24 marzo 1869), venne tempestivamente pubblicata (1° aprile 1869) la lettera di tutt’altro tenore dell’abate Raffaello Lambruschini (1788-1873), professore di filosofia e pedagogia, senatore del Regno e nipote, tra l’altro, di quel cardinale Luigi Lambruschini, segretario di Stato pontificio tra il 1836 e il 1846, che aveva già condotto un’intransigente politica contro la diffusione delle idee scientifiche tra le masse e soprattutto contro il positivismo materialista (Redondi 1980).
Lambruschini si sforzava appena di entrare nel merito della faccenda dal punto di vista scientifico, e giocando piuttosto d’arguzia ironizzava «sulla previsione, che dovrebbe lusingare i darwiniani, […] che continuando il progresso delle trasformazioni perfezionatrici, se dalla scimmia è venuto l’uomo, dall’uomo verranno gli angeli. Anzi dovrebbero esser già venuti senza che noi ce ne avvedessimo» (Lettera del Senatore Lambruschini al Signor Direttore del giornale La Nazione, 1° aprile 1869, in N. Tommaseo, L’uomo e la scimmia, a cura di M. Puppo, 1969, p. 103). Egli si preoccupava piuttosto
di comprendere di quale utilità potesse riuscire per il popolo fargli sapere che i suoi progenitori sono scimmie; e trattare così dinanzi ad uditori mal preparati, un argomento intorno al quale s’aggruppano questioni che tengono agitati gli spiriti non tanto degli uomini della scienza quanto degli uomini di mondo e della gente timorata (p. 101)
e, polemizzando con l’anonimo autore della recensione su «La Nazione», aggiungeva:
Sì, la scienza è libera d’investigare, anzi ne ha l’obbligo, perché è suo nobile ufficio di scoprire la verità; ma non è libera di dare per verità affermazioni che distruggono verità d’un altr’ordine; libertà che non le si può contendere, ma della quale valendosi essa cesserebbe di essere scienza.
Che sarebbe, per esempio, se dalla supposta evoluzione degli esseri stabilita come legge inerente alla natura e come legge necessaria venisse la scienza a dedurne logicamente che anco l’umana volontà è trascinata da questa legge fatale, e perciò non è libera? A quest’annunzio l’umana coscienza non manderebbe un grido d’indignazione, e la società non sentirebbe crollare il terreno sotto i suoi piedi? La scienza vera non può mai condurre a queste conseguenze irragionevoli senza distruggersi (p. 106).
La replica di Herzen non si sarebbe fatta attendere, ma al rifiuto di pubblicazione da parte de «La Nazione», essa comparve dapprima su «La Riforma» e subito dopo, congiuntamente alla ristampa anche del precedente intervento di Lambruschini, nella seconda edizione della conferenza di Herzen, ripubblicata a due sole settimane dalla precedente che si era rapidamente esaurita grazie anche al grande clamore suscitato. Dopo aver esecrato
il solito errore di parlare della conversione delle scimmie in uomo mentre la grande maggioranza dei darwinisti parla di una provenienza da uno stipite comune sviluppatosi in due direzioni e arrivato a due forme differenti: da una parte le scimmie, l’uomo dall’altra (Sulla parentela fra l’uomo e le scimmie, 18692, p. 23),
Herzen, pur ammettendo che in quanto straniero non intendeva parlare della pubblica istruzione in Italia, in realtà inaspriva i toni, evidenziando con sarcasmo come «da lungo tempo noi non udimmo esprimere così francamente la brama clericale dell’ignoranza obbligatoria per il popolo» (p. 20).
È a questo punto che sarebbe intervenuto, dall’alto delle sue capacità retoriche, appunto Tommaseo, per schierarsi al fianco del Lambruschini esasperando ulteriormente il livello dello scontro.
V’annunzio una lieta novella. L’Italia, che da tanti anni invocava l’aiuto straniero, per recuperare la propria dignità, ha finalmente trovato uno straniero magnanimo che gliela rende; gliela rende però senza offesa dell’eguaglianza, mettendo gl’Italiani alla pari non solamente con i Russi e con gli Ottentotti ma con le scimmie, questo si chiama sedere al banchetto delle nazioni davvero. La nuova Libertà, vi rivela, o Italiani, che voi siete liberi ma che non potete volere; vi rivela la vostra imbecillità durata per secoli, l’imbecillità di quelle scimmie trasformate che voi onoravate col titolo di uomini grandi. La docilità è veramente un’invitta necessità dell’umana (scusate, della scimmiesca) natura, se lo scuotere il giogo della fede vecchia ci fa pazienti del domma novello, il domma della scimmietà: questa parola, che alla povera lingua vostra, Italiani, mancava, vi è regalata dallo scopritore straniero; tocca a voi conquistare la cosa (N. Tommaseo, L’uomo e la scimmia, a cura di M. Puppo, 1969, p. 21).
«Anche le Muse vollero lanciare il loro dardo contro l’evoluzione» avrebbe successivamente commentato Canestrini (La teoria di Darwin esposta criticamente, 1880, p. 12).
A dare il via, comunque, alla ricca serie di conferenze popolari sul tema della scimmietà era stato, l’11 gennaio del 1864, Filippo De Filippi, dal 1847 professore di zoologia e direttore del Museo dell’Università di Torino, con la sua celebre lettura L’uomo e le scimmie, che sarebbe stata pubblicata dapprima sul «Politecnico» (1864) e poi in due edizioni successive in forma di opuscolo dall’editore Daelli (1864, 1865).
Solo gradualmente De Filippi sarebbe giunto a schierarsi su posizioni darwiniane, come testimoniano le idee di impostazione creazionista e cuvieriana che aveva in precedenza espresso nel suo manuale di zoologia Regno animale (1852) e in Il Diluvio noetico (1855). Nel 1864 la sua fu un’esposizione esemplarmente pacata sulla «variabilità indefinita dei tipi specifici», sulla «vera rivoluzione della filosofia zoologica» operata da Darwin, con una breve ma efficace illustrazione della tesi principale della teoria darwiniana:
l’accumulazione in razze permanenti di varietà accidentali non è soggetta soltanto a questa che Darwin chiama elezione umana, ma eziandio all’elezione naturale, ossia alla legge di conservazione di quelle fortuite variazioni dal tipo, che pongono gli individui in cui si sono manifestate in grado di riuscire in modo speciale vincitori nella lotta per l’esistenza (cit. in Il darwinismo in Italia, 1983, p. 58)
per poi giungere al «nodo della grande questione che ci proponiamo di discutere […] qual è il posto dell’uomo nell’impero della natura? Quali sono le sue affinità zoologiche?». Citava Linneo, Georges Cuvier, Johann Friedrich Blumenbach, Étienne Geoffroy Saint-Hilaire, la disputa tra Richard Owen e Thomas Henry Huxley, e discuteva delle affinità morfologiche e anatomiche tra l’uomo e «le scimie colle quali dobbiamo sopportare il confronto […] l’orang-outang, il chimpansé, il gorilla». Procedeva a un serrato confronto anatomico attraverso l’angolo facciale, le estremità anteriori e inferiori, la pelle, lo scheletro, i denti, il cranio, e, naturalmente, la questione più impegnativa che «sta nel contenuto della scatola del cranio, abisso dei più grandi misteri!» (p. 58), e giungeva alla conclusione che
se vogliamo trincerarci nel campo della nuda anatomia, la gran barriera tra bimani e quadrumani, deve essere definitivamente abbattuta, l’ordine dei primati ristabilito. Nel secolo delle unificazioni, dovremmo fare anche questa (p. 63).
Ribadiva comunque come non vi fosse alcuno «che voglia fare della zoologia la scienza universale» e non riconoscere come appannaggio esclusivo dell’uomo il dubbio filosofico, il sentimento morale, il religioso, per concluderne che
l’autore delle forme organiche è pure l’autore delle leggi che le governano e singolarmente e nel complesso, e che in queste, più che nelle prime, si manifesta la Sapienza infinita; che si può essere profondamente atei ammettendo la formazione di getto delle specie organiche, mentre un vero sentimento religioso è conciliabile colla dottrina della figliazione genealogica della specie da un tipo primitivo, come l’esclamazione ascetica ‘non casca foglia che Dio non voglia’ è conciliabile col pieno riconoscimento delle leggi della gravità (p. 80).
De Filippi era credente, e proprio i suoi tentativi di conciliazione tra fede ed evoluzionismo suscitarono scandalo e reazioni tanto più violente quanto meno avevano a che vedere con la discussione scientifica. Nell’appendice aggiunta all’edizione del 1865 della conferenza, lo stesso De Filippi dichiarava di aver trovato tra i tanti critici che lo avevano attaccato «un solo franco e leale avversario» (p. 73), il professor Giuseppe Bianconi (1809-1878) di Bologna, l’unico che lo avesse criticato sul terreno scientifico in La teoria dell’uomo-scimmia esaminata sotto il rapporto dell’organizzazione (1864) e il solo a cui egli avrebbe risposto.
Prima della conferenza di De Filippi, l’Origin, non ancora tradotta, aveva ricevuto in Italia due recensioni: quella sul «Politecnico» – la rivista lombarda di indirizzo illuminista, empirista, laico e antispeculativo impegnata a diffondere un’immagine della scienza di carattere applicativo e pragmatico – che uscì in forma anonima nel 1860, ma era in realtà di pugno dello stesso direttore Carlo Cattaneo; e, nello stesso anno, quella del naturalista e gesuita Gian Battista Pianciani su «La civiltà cattolica», basate entrambe su una conoscenza indiretta dell’opera filtrata attraverso un articolo fortemente polemico, dal titolo Sur l’origine de l’espèce, par C. Darwin, pubblicato dal naturalista svizzero François Jules Pictet de la Rive sulla rivista «Bibliothéque universelle» (1860, 7, pp. 233-55) di Ginevra (cfr. The reception of Charles Darwin in Europe, 2008). Sempre per i tipi di Civiltà cattolica, nel 1862 Pianciani avrebbe raccolto in un volume di oltre 500 pagine, Cosmogonia naturale comparata col Genesi, questo e vari altri articoli comparsi sulla rivista. All’Origin di Darwin, «la quale ha prodotto, si dice, una grande sensazione in Inghilterra» e la cui dottrina «non può negarsi si avvicini a quella del Lamarck, pensando esso pure che i diversi caratteri zoologici sieno il prodotto di graduate modificazioni» (Cosmogonia naturale comparata col Genesi, cit., p. 262), Pianciani si riferiva citando ampiamente appunto l’articolo di Pictet:
Darwin, ammettendo da un lato la possibilità di variazioni leggere, e dall’altro immensa serie di secoli, moltiplica uno per l’altro questi due fattori, ed arriva ad ammettere variazioni possenti e profonde, non solo nelle forme esteriori, ma ancora negli organi più essenziali […] spinto da una inflessibile logica, è condotto a dedurre tutti gli animali d’oggidì, e quei delle faune anteriori, da un piccolissimo numero di tipi e forse da uno solo. Deduzioni così ardite non mi sembrano giustificate dai fatti, e per accoglierle ci vorrebbe una più possente argomentazione […]. Non trovo negli esempi allegati da M. Darwin niente che mi autorizzi a credere, che qui non trattisi se non di più o meno […]. Tutti i fatti conosciuti dimostrano per contrario che l’influenza prolungata delle cagioni modificatrici ha effetto costantemente racchiuso tra limiti assai ristretti (p. 264).
Opponendosi alle speculazioni geologiche in nome della cosmologia mosaica, Pianciani giungeva a trattare della
assurda conseguenza intorno all’origine dell’uomo, a cui per induzione sono condotti i propugnatori della contraria sentenza, e la quale è riprovata non meno dalla religione e dalla sana filosofia, che dalla scienza naturale (p. 267).
Se la conferenza di De Filippi è stata considerata, per la sua notorietà, come il vero esordio del dibattito sul ‘darwinismo’ in Italia, in questo senso imputandole anche di averlo immediatamente avviato in direzione antropologica – ciò che, per altro, era già accaduto in Inghilterra con Huxley, la cui opera, Man’s place in nature (1863), fu tradotta in italiano da Pietro Marchi nel 1869 e comunque ben prima che Darwin stesso si pronunciasse in merito, il che avrebbe fatto solo in The descent of man (1871) – non si può non evidenziare la significativa dominanza delle considerazioni extrascientifiche, filosofiche e teologiche sull’analisi scientifica che fin da subito caratterizzò soprattutto la dimensione pubblica della discussione.
Il dibattito sul ‘darwinismo’, dunque, investì un settore molto più ampio rispetto a quello dei naturalisti o degli scienziati in quanto tali e crebbe, a volte anche su se stesso, ma comunque con genuini slanci, acuti conflitti, sofferte aperture e delicati compromessi, in campo filosofico, politico, teologico, morale, focalizzandosi, come forse era inevitabile, e come andava accadendo in larga misura anche altrove, sulla cruciale questione dell’origine animalesca dell’uomo e sulle sue molteplici ricadute, e finendo per rappresentare, da un lato, una sorta di punto di appoggio su cui edificare una rinnovata visione del mondo e, per l’altro, un più o meno identificabile bersaglio contro cui dirigere le proprie critiche verso quella che sempre più andò configurandosi come un’ideologia capace di insidiare l’ordine e l’equilibrio delle cose in sfida alla convinzione dominante e per secoli immutata della stabilità della natura, e non solo. E il dibattito s’inserì, o, in certo senso, si sovrappose e si identificò con quello più vasto sul positivismo e sul materialismo.
Nonostante la fase ‘appannata’ attraversata dagli studi naturalistici in Italia nella prima metà del 19° sec. (Carugo, Mondella 1969; Corsi, Weindling 1985) e l’influenza che la mancanza di una solida tradizione determinò sulla diffusione del darwinismo nella cultura italiana della seconda metà del secolo (Pancaldi 1977), entro il 1890 tutte le principali opere di Darwin erano state tradotte in italiano e non mancarono analisi e critiche delle varie tesi che concorrevano a formare l’‘ipotesi’ darwiniana.
Giovanni Canestrini (1835-1900), professore di storia naturale a Modena nel 1862 e, dal 1869 in poi, professore di zoologia, anatomia e fisiologia comparate a Padova, fu il primo traduttore dell’Origin in Italia e di molte delle altre opere di Darwin, suo corrispondente diretto e autore di molti lavori destinati alla divulgazione delle sue idee (La teoria dell’evoluzione esposta nei suoi fondamenti, 1887; La teoria di Darwin criticamente esposta, 1880; Per l’evoluzione. Recensioni e nuovi studi, 1894). Credeva, come molti, nell’ereditarietà dei caratteri acquisiti, seppure in congiunzione con l’azione della selezione naturale; considerò la selezione sessuale «come una modalità della elezione naturale, anzi ché come un principio esplicativo a sé» (Per l’evoluzione. Recensioni e nuovi studi, 18972, p. 179); evidenziò gli aspetti oscuri della teoria darwiniana della pangenesi così come di tutte le altre teorie avanzate per dare una spiegazione univoca dei fenomeni dell’ereditarietà, giudicando lodevoli i vari tentativi fatti, anche se precoci, ma comunque utili sul piano delle ipotesi. Quanto all’applicazione della teoria darwiniana all’uomo, sostenne con tenacia la conduzione di un dibattito strettamente scientifico e già nel 1866 pubblicò L’origine dell’uomo, in cui argomentava, sulla base dei dati e delle ipotesi disponibili, la discendenza dell’uomo e delle scimmie da uno stipite comune di Primati, ormai estinto, dal quale avevano avuto origine i due distinti ordini dei quadrumani e dei bimani, e rivendicava ad antropologi e zoologi il diritto di discutere con cognizione di causa dell’argomento:
Nel campo della scienza ferve una lotta animata intorno all’origine dell’uomo. Disgrazia vuole che la questione abbia un lato filosofico e morale, per cui ogn’uno crede di potersi immischiare nella lotta. Chi al mondo oggidì non si crede filosofo e moralista? Ma per buona fortuna il nostro secolo è troppo positivo
per non comprendere che i soli fatti, offerti dalla zoologia e dall’antropologia, possono condurre ad una soddisfacente soluzione del problema; ai giudici intrusi e parassiti faremmo rammentare il vecchio adagio: Sutor ne ultra crepidam (p. 5).
Nella sua battaglia in difesa del darwinismo, Canestrini si schierò anche contro scienziati illustri come l’abate Antonio Stoppani (1824-1891), geologo intransigentemente contrario a ogni forma di concordismo, ovvero di ricerca di conciliazione tra racconto biblico e concezioni scientifiche e autore di molte pubblicazioni di carattere scientifico e di opere come Il dogma e le scienze positive, ovvero la missione apologetica del clero nel moderno conflitto tra la ragione e la fede (1886) e Exameron: nuovo saggio di una esegesi della storia della creazione secondo la ragione e la fede (1894), da cui Canestrini citava con riprovazione passaggi ingiustificabili laddove provenienti da un uomo di scienza: «le scienze naturali, corrotte dal sensismo, sono universalmente corruttrici»; «i loro cultori sono materialisti, miscredenti, atei, che tutta la verità cancellano»; «le tesi messe in campo dai naturalisti sono vampe di incendi fatalissimi, sono minace di sovversione d’ogni ordine civile, morale e religioso»; «il socialismo e il materialismo sono i formidabili portatori del naturalismo»; delle scienze fisiche e naturali «vuol farsi monopolio un laicato miscredente per condurre, colle lusinghe d’un mendace progresso, a completa rovina l’umanità» (A. Stoppani, Il dogma e le scienze positive, 1886, cit. in G. Canestrini, Per l’evoluzione. Recensioni e nuovi studi, 18972, pp. 67-70 e passim).
Stoppani esprimeva il suo attacco al naturalismo e al materialismo e alla loro ingerenza indebita nel campo della filosofia speculativa, ma non alla scienza in quanto tale. Infatti fu autore anche di una sorta di romanzo scientifico, Il bel paese (1875), collocabile nel genere della letteratura divulgativa alla quale si era già dedicato, seppur con presupposti radicalmente diversi, un altro illustre scienziato, l’antropologo, patologo, igienista, scrittore e uomo politico Paolo Mantegazza, con il suo romanzo ‘fisiologico’ Un giorno a Madera. Una pagina dell’igiene dell’amore (1868).
Laureato in medicina, Mantegazza avrebbe scritto, giovanissimo, una delle sue opere più note, La fisiologia del piacere (1854). Fu nominato, agli inizi degli anni Sessanta, professore all’Università di Pavia, dove istituì il primo laboratorio di patologia sperimentale in Europa, fu deputato e senatore del Regno e nel 1869 gli venne assegnata la cattedra di antropologia ed etnologia presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze. L’attribuzione di tale cattedra – fino allora appannaggio esclusivo di professori di filosofia teoretica o di pedagogia – a un patologo già noto per i suoi studi sull’igiene pubblica, per le sue ricerche sulla generazione spontanea e per le sue posizioni decisamente laiche, materialiste e darwiniste costituì di fatto un segno tangibile del rinnovato approccio – non più esclusivamente storico-umanistico, ma ‘positivo’ – nei confronti di questa disciplina (Landucci 1977) che avrebbe prodotto, nel giro di pochi anni, la moltiplicazione delle cattedre di antropologia anche presso le facoltà di Scienze, nonché una serie di altre importanti iniziative quali l’istituzione, a Firenze, nel 1869, del Museo nazionale di antropologia; la fondazione, da parte dello stesso Mantegazza, della Società di antropologia ed etnologia (1870) e dell’Archivio per l’antropologia e l’etnologia; la costituzione, a Roma, grazie a Luigi Pigorini, del Museo nazionale preistorico-etnografico (1875) e, sempre a Roma, sotto la direzione di Giuseppe Sergi, dell’Istituto e della Società romana di antropologia (1893). L’espansione e il rinnovamento degli studi antropologici vanno per altro collocati nel quadro di una più ampia apertura culturale che a partire dagli inizi degli anni Sessanta aveva visto la chiamata in Italia di numerosi studiosi stranieri come il fisiologo olandese Jacob Moleschott a Firenze e a Torino; il fisiologo tedesco Schiff e il fratello Ugo, chimico, nonché di Herzen, cui già si è fatto cenno, a Firenze; Felix Anton Dohrn a Napoli, che avrebbe lì fondato la Stazione zoologica (1875), destinata a diventare una delle più importanti in Europa.
Autodefinendosi «darwinista con beneficio di inventario», Mantegazza, anch’egli corrispondente diretto di Darwin, fu, tra i suoi sostenitori italiani, uno dei meno propensi al fanatismo. Polemizzò sulla teoria della selezione sessuale esposta da Darwin nel 1871 sostenendo una sua ipotesi alternativa, la neogenesi; accolse con slancio The expression of emotions in man and animals (1872) di Darwin e negli anni successivi pubblicò numerose opere sul tema (Atlante dell’espressione, 1877; Fisiologia del dolore, 1880; Fisionomia e mimica, 1881); ma, soprattutto, si espresse in senso nettamente favorevole sull’ipotesi darwiniana della pangenesi, dichiarandosene un precorritore (Landucci 1977 e 1987; Martucci 1981) e dedicando una lunga recensione (Carlo Darwin e il suo ultimo libro, «Nuova antologia», 1868, 8, pp. 70-98) a Variation of animals and plants under domestication (1868), l’opera in cui Darwin aveva esposto la sua teoria e che sarebbe stata tradotta da Canestrini nel 1875.
Ma, tra coloro che entrarono più direttamente nel merito della teoria di Darwin, intrattenendo con lui un carteggio che sarebbe durato dal 1867 al 1880 (Pancaldi 1984) sui temi del rapporto di interazione e di adattamento tra insetti e fiori e, appunto, sulla questione della pangenesi, fu il botanico Federico Delpino (1833-1905). Delpino propugnava una versione finalistico-teologica dell’evoluzione darwiniana (Pancaldi 1983), e già nel 1865 ne aveva avanzata un’elaborazione in chiave vitalistica e spiritualistica. Le sue critiche alla pangenesi furono comunque estremamente puntuali e non ideologiche benché egli non potesse evidentemente condividere l’obiettivo principale di Darwin, ovvero la ricerca di un fondamento organico e materiale della variazione (Continenza 2013). Criticò l’enorme proliferazione delle gemmule che la teoria era costretta a postulare, la sua applicazione ai fenomeni dell’atavismo, la contraddittorietà dell’idea che le gemmule si moltiplicassero per scissione analogamente a quanto accade nella riproduzione asessuale, la sua inedeguatezza a spiegare la rigenerazione dei tessuti (Martucci 1981; Pancaldi 1983). Darwin stesso riconobbe le critiche di Delpino tra le più acute e circostanziate che gli fossero state mosse e dopo aver provveduto a proprie spese alla traduzione del saggio di Delpino Sulla darwiniana teoria della pangenesi (1869), lo fece pubblicare con un suo breve commento sulla rivista inglese «Scientific opinion» (Pangenesis: Mr. Darwin’s replay to professor Delpino, «Scientific opinion», 1869, 2, p. 426).
Privilegiando lo studio delle interazioni degli esseri viventi tra loro e con il loro ambiente in un’ottica decisamente evoluzionistica, ma che adotta «la teoria della variabilità delle specie inaugurata dal Darwin ed emendata colla teoria del vitalismo e dell’intelligenza» (Pensieri sulla biologia vegetale, sulla tassonomia e sul valore tassonomico dei caratteri biologici e proposta di un genere nuovo della famiglia delle labiate, «Nuovo cimento», 1867, 25, cit. in Landucci 1977, p. 84), e aderendo pienamente al principio della selezione sessuale, Delpino, nonostante le sue posizioni nettamente antipositivistiche e antimaterialistiche manifestava dunque una convinta adesione nei confronti dell’evoluzionismo.
Adesione incondizionata fu anche quella del medico psichiatra e antropologo Enrico Morselli (1852-1929), considerato una delle figure di primo piano del positivismo italiano, e nettamente schierato sul fronte di una filosofia scientifica mirata a un approccio di tipo monistico e unificante come era stata la teoria darwiniana nel ricondurre natura e storia sotto i medesimi principi. Il ‘monismo evoluzionistico’, fortemente ispirato alla filosofia sintetica di Herbert Spencer, avrebbe dovuto comprendere l’intero scibile attraverso, appunto, il concetto di evoluzione,
il vincolo metodico per tutte le concezioni cosmologiche, il nesso tra tutte le parti del sapere, l’espressione sincera e perenne del generalissimo tra i principi filosofici – quello della continuità causale fra i fenomeni – e con ciò l’unificazione del mondo dello spirito col mondo della materia (Il darwinismo e l’evoluzionismo, «Rivista di filosofia scientifica», 1891, 10, poi in Carlo Darwin e il darwinismo nelle scienze biologiche e sociali, a cura di E. Morselli, 1892, p. 298).
Ben consapevole della differenza tra ‘evoluzionismo’ e ‘darwinismo’, Morselli considerava comunque Spencer e Darwin come strettamente complementari e inscindibili all’interno di quello che si andò sempre più configurando, nonostante la critica alle sistematizzazioni e alla metafisica, come un sistema filosofico che avrebbe trovato nella «Rivista di filosofia scientifica» il suo principale punto di riferimento. Fondata dallo stesso Morselli nel 1881 a Milano, e da lui diretta fino al 1885 in collaborazione con l’economista Girolamo Boccardo, l’antropologo Sergi, il filosofo Roberto Ardigò e Canestrini, la rivista sarebbe stata poi diretta dal solo Morselli fino al 1891, anno in cui cessò le pubblicazioni, per esaurimento del compito che si era assunto, secondo quanto dichiarò lo stesso Morselli nell’articolo di commiato dai lettori (Agli abbonati e ai lettori della Rivista di filosofia scientifica, «Rivista di filosofia scientifica», 1891, 10, pp. 781-84). Nell’articolo programmatico della rivista, Morselli aveva scritto:
A poco a poco le parti si sono completamente invertite. La filosofia era allora avanti e sopra la scienza, oggi invece è la scienza che da i materiali e perciò l’esistenza alla filosofia […]. Parliamo della vera, dell’unica filosofia, che per formarsi e per svolgersi si serve dell’immenso materiale fornitole dalla scienza, e che perciò noi chiamiamo scientifica. Conviene riconoscere che un limite netto tra scienza e filosofia non esiste: l’attrazione universale, la costituzione atomica della materia, la trasformazione delle forme, l’evoluzione delle forme organiche e sociali, i rapporti dell’uomo con la natura, appartengono sia all’una che all’altra, perché senza questi concetti sintetici e diciamo pure filosofici la fisica, la chimica, la biologia, la sociologia, la psicologia, la storia non potrebbero costituirsi a corpo dottrinale, mentre d’altra parte sarebbe assolutamente speculativa una filosofia che in quelle leggi scientifiche non cercasse, prima di ogni altro carattere, quello della induttività, ossia il loro svolgersi logico in rapporto all’osservazione dei fatti e allo sperimentalismo (La filosofia e la scienza, «Rivista di filosofia scientifica», 1881, 1, pp. IV-V; cit. in Restaino 1985b, p. 277).
La consapevolezza che dare una fondazione scientifica alle proprie ricerche non escludesse, ma, al contrario, implicasse – al di là di ogni pregiudizio quale l’odio assoluto verso ogni speculazione – la necessità di affrontare le connesse problematiche filosofiche fu costantemente presente tra gli autori, per la maggior parte scienziati, della rivista, che spaziò praticamente in ogni campo pur con una prevalente attenzione verso quello delle ‘scienze umane’. Tra i moltissimi collaboratori: Ardigò, Giovanni Cesca, Giacomo Barzellotti, Giovanni Marchesini, Alfonso Asturano, tra i filosofi; Sergi, Gabriele Buccola, Giulio Fano, per la psicologia e la fisiologia del sistema nervoso; Pietro Siciliani e Saverio Fausto De Dominicis per la pedagogia; Napoleone Colajanni ed Enrico Ferri per la sociologia e l’antropologia criminale; il giurista Gustavo Bonelli; Gaetano Frezza per la storia; Achille Loria e Gaetano Boccardo per l’economia; e ancora Francesco De Sarlo, Canestrini, Delpino, Giacomo Cattaneo, Guglielmo Romiti, Ettore Regalia, Tito Vignoli, Giovanni Marinelli, Alberto Sormani – per non citarne che alcuni, rappresentativi dell’ampio coinvolgimento nel progetto di rinnovamento culturale di cui la rivista si faceva portatrice – oltre a un certo numero di autori stranieri come lo stesso Spencer, Ernst Heinrich Haeckel, Herzen, Moleschott, Emil Kraepelin, Gustav von Bunge (cfr. Amato 1982; Costenaro 1972; Guarnieri 1983; De Liguori 1988; Monti 1983; Pancaldi 1977).
Nel 1892, Morselli avrebbe curato la pubblicazione di un importante volume, Carlo Darwin e il darwinismo nelle scienze biologiche e sociali, in cui, a dieci anni dalla scomparsa di Darwin, raccoglieva alcuni tra i più significativi articoli comparsi sulla rivista a dimostrazione che «anche in Italia la scuola evoluzionistica è viva e sa affermarsi quale è, una scuola progressiva» (p. IX). Oltre al saggio d’apertura, di taglio biografico su Darwin, e a quello conclusivo su Darwinismo e evoluzionismo, scritti da Morselli, compariva il saggio di Canestrini su Carlo Darwin e la biologia; quello di Gaetano Trezza su Il darwinismo e le formazioni storiche, quello di Giovanni Marinelli sulla geografia, di Guglielmo Romiti sulla embriogenia, di Tito Vignoli su Carlo Darwin e il pensiero, di Giacomo Cattaneo su Darwin e Lamarck e di Giuseppe Tarozzi su Il Darwinismo e la psicogenia. Giorgio Romanes continuatore di Carlo Darwin.
Una considerazione a parte merita il saggio Carlo Darwin e l’economia politica dell’economista Loria, nei cui confronti lo stesso Morselli si rammaricava, in quanto «dissente da me e dagli altri scrittori del presente volume, perché non ritiene in tutto applicabile la dottrina dell’Evoluzione alla scienza economica» (p. VIII). Ma Morselli si ‘ostinava’ nel credere che
gli anti-evoluzionisti non sono riusciti a dimostrare la pretesa superorganicità del ‘fenomeno economico’. Più lo si considera spassionatamente col metodo storico, che in fin dei conti altro non è se non un aspetto limitato del metodo genetico-evolutivo, e più si vede che esso è semplicemente un fenomeno ‘sociale’. Ora, a meno che non si voglia di nuovo elevare fra la psiche umana e la animale una vieta assurda barriera, bisognerà bene ammettere che la presunta irriducibilità del fenomeno economico sotto i principi e le leggi dell’evoluzione sociologica è superficiale e apparente: la complessità del fenomeno economico umano è soltanto l’effetto della complessità del fenomeno psichico umano (p. XIII).
Se l’esordio di quel fenomeno complesso che fu il positivismo italiano era stato siglato dalla prolusione tenuta nel 1865 da Pasquale Villari (1820-1918) all’Istituto di studi superiori di Firenze proprio su La filosofia positiva e il metodo storico, poi pubblicata, nel 1866, sul «Politecnico» – la rivista che due anni prima aveva presentato la conferenza di De Filippi – fu il decennio dal 1881 al 1891, durante il quale la «Rivista di filosofia scientifica» rappresentò la sede di elaborazione e la cassa di risonanza dei principali indirizzi del positivismo italiano, a segnare quella che può essere considerata come la fase del successo e della progressiva penetrazione nelle università e nella pubblicistica della ideologia-guida delle forze nuove della cultura italiana.
Anche se in Villari le tematiche propriamente evoluzionistiche avevano ben poco spazio, in quello che è considerato il manifesto del positivismo italiano egli identificava come scopo della filosofia l’estensione alle scienze umane della rivoluzione galileiana e individuava nell’applicazione del metodo storico alle scienze morali, con la medesima importanza che ha il metodo sperimentale nelle scienze naturali, il vero significato del metodo positivo. Nel 1869, fu proprio Villari – per il quale l’antropologia era «la prima pagina della storia» (Landucci 1977, p. 113) – allora segretario generale del ministero della Pubblica istruzione, a battersi per l’istituzione di corsi autonomi di antropologia favorendone l’espansione e l’attribuzione, come si è visto, non solo ai filosofi di professione. In quegli stessi anni, con la chiamata alla cattedra di clinica medica dell’Università di Napoli di Salvatore Tommasi (1813-1888), originariamente partito da posizioni idealistiche e dualistiche, ma poi avvicinatosi alle tesi del ‘naturalismo evoluzionistico’ o ‘materialismo scientifico’, si realizzava quell’associazione tra ricerche antropologiche, «che avevano aggiunto lo studio della preistoria a quello della storia» (Pancaldi 1977, p. 172) e teorie del trasformismo biologico a cui Tommasi avrebbe dedicato il suo saggio Il naturalismo moderno (1866).
Io non posso dissimularmi il rimprovero che si fa oggi al naturalismo, di essere in fondo niente altro che materialismo rinnovato […] l’indirizzo materialistico questa volta non è nato come un sistema di filosofia; ed è certo altresì, che noi naturalisti non possiamo farne di meno – noi non possiamo sorpassare i confini dell’esperienza […] La metafisica, se lo crede, passi oltre; noi la rispettiamo, ma a noi ci lasci fare (cit. in Restaino 1985a, p. 77 nota).
«O evoluzione o miracolo» affermerà Tommasi ancora nel 1882, continuando a proclamare la sua fede in un naturalismo che, pur espungendo la metafisica dalla scienza, non le negava altrove diritto di cittadinanza giungendo così a penetrare anche in contesti alquanto diversi ed eterogenei quali quello dell’‘hegelismo critico’ che avrebbe trovato nella cosiddetta scuola napoletana, e soprattutto in Bertrando Spaventa (1817-1883), il principale esponente (Pancaldi 1977; Restaino 1985a). «Anche il naturalismo – aveva scritto Spaventa nei Principi di filosofia (1867) – quando accetta la elezione naturale e la lotta per l’esistenza e distingue le forme caduche dalle costanti, riconosce l’eterno» (cit. in Pancaldi 1977, p. 177).
Hegelismo e positivismo non si escludono dunque a vicenda dal momento che entrambi concernono l’uomo e quindi la storia, ma «l’assimilazione del darwinismo procede in stretto collegamento con l’apprezzamento dell’indirizzo storico e antropologico del positivismo, ricondotto alla sua origine tra le scienze umane», così producendo «un’interpretazione manifestamente strumentale della teoria darwiniana» (p. 178). Questa sorta di continuità tra hegelismo meridionale e positivismo del Nord sembra inoltre andare a conferma della funzione svolta dal positivismo quale ideologia genericamente progressiva di gruppi egemoni e accomunati dall’obiettivo dello Stato unitario e laico contro l’opposizione della Chiesa, tanto da venire spesso tacciati entrambi di ateismo (Garin 1980). È quanto sarebbe accaduto, nel 1871, per es., al filosofo e pedagogista Andrea Angiulli (1837-1890), allievo di Spaventa, allontanato dal liceo Vittorio Emanuele di Napoli per essersi dichiarato positivista e successivamente nominato alla cattedra di antropologia e pedagogia di Bologna e, a dieci anni di distanza, anche all’abate Roberto Ardigò (1828-1920), forse il più sistematico dei positivisti italiani anche se ben poco coinvolto con le vicende del trasformismo biologico. Rimosso nel 1880, con l’accusa di ateismo, dal liceo di Mantova, fu nominato nel 1881 alla cattedra di storia della filosofia dell’Università di Padova, con procedura anomala, direttamente dal ministro Guido Baccelli, dopo che sulla vicenda si era scatenata una pesante polemica. La nomina non sarebbe passata incontrastata e la replica del ministro all’accusa di ‘glorificazione dell’ateismo’ evidenzia la percepita contrapposizione tra l’insegnamento della religione e quello del positivismo:
Lo stato non è né ateo, né materialista, né spiritualista – replicò Baccelli – se dalla cattedra secolare di Pietro, circondata in Roma di sovrane guarentigie, il Pontefice bandisce ai credenti nelle sfere dell’incomprensibile la necessità della fede, è mestieri che il governo del Re, dai suoi palladii scientifici, diffonda la luce dell’umano sapere e ne affermi impavido gli ineludibili acquisti (cit. in Garin 1980, pp. 15-16).
Nella situazione di forte disgregazione culturale e politica, acuita e determinata da uno sviluppo economico e industriale certamente non florido, dai conseguenti conflitti sociali, dai contrasti con la Chiesa, e da una borghesia ancora su posizioni sostanzialmente arretrate, il positivismo italiano non si concretizzò in una precisa scuola di pensiero, ma aprì piuttosto la strada ai più diversi tentativi di integrazione e conciliazione nel che, forse, «consistette la sua forza di penetrazione in diversi ambienti della cultura filosofica – e non solo – italiana» (Restaino 1985a, p. 73). In questo contesto, i dibattiti sulla scienza e, in particolare sul darwinismo, si risolsero spesso in discussioni su «il naturalismo come tentativo di risolvere la storia nella natura o di perdere la filosofia nella scienza» (Landucci 1977, p. 11) e proprio questo intreccio/ ambivalenza fu la caratteristica di tutto il dibattito su positivismo-materialismo-darwinismo-evoluzionismo, che, per un verso, ne allargò i confini fino a coinvolgere praticamente ogni livello del confronto intellettuale e teorico e, per l’altro, lo costrinse nell’ambito di contrapposizioni e scontri di natura politica e ideologica, resi più urgenti dall’incalzare degli eventi storici che ne costituirono lo sfondo.
Ancora alla fine del secolo, i tentativi di Antonio Fogazzaro (1842-1911) di perseguire una conciliazione tra un evoluzionismo, che era ben altra cosa dal darwinismo biologico, e il dogma religioso, produssero, nella raccolta di scritti Ascensioni umane (1899), un evoluzionismo spiritualistico e finalistico che nulla aveva a che fare con il materialismo, in cui l’evoluzione era un’ascensione che ha per fine l’uomo, un passaggio dall’imperfetto al perfetto, da un creazionismo fissista a una sorta di evoluzionismo creazionista, ma che avrebbero comunque suscitato la reazione dello schieramento cattolico, con alla testa «La civiltà cattolica», fondata nel 1850 e fin dall’inizio impegnata nella battaglia contro le teorie trasformiste e contro qualsiasi ipotesi di concordismo.
Su tutt’altro fronte, fu ancora sul terreno di uno dei filoni più dibattuti del positivismo italiano – la scuola di antropologia criminale di Cesare Lombroso (1833-1907), il cui evoluzionismo si sviluppò in direzione sostanzialmente autonoma da quella del darwinismo – che si innestò tra lo stesso Lombroso e studiosi come Colajanni, Ferri e anche Filippo Turati un rilevante dibattito strettamente connesso con le vicende del socialismo italiano, con la questione dei legami tra socialismo scientifico e cultura positivistica intesa come ideologia progressista, con gli sviluppi del cosiddetto darwinismo sociale, e in cui questione teorico-scientifica e questione politico-ideologica si ripresentarono ancora una volta inscindibilmente connesse.
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