Darwinismo o disegno intelligente?
Sotto il profilo scientifico la teoria dell’evoluzione non è più, da decenni, una semplice teoria, bensì una solida combinazione di fatti e di concetti che riceve ogni giorno nuove conferme teoriche e sperimentali. Possiamo dire anzi che l’evoluzione biologica rappresenta oggi come ieri l’unico vero concetto unificante della biologia. Non è possibile comprendere, infatti, alcun fenomeno biologico se non alla luce del processo evolutivo che ha condotto, lentamente ma inesorabilmente, alle forme di vita attuali e che, per quanto lentamente, continua a modellare e rimodellare i genomi degli individui delle varie specie e, attraverso questi, le strutture e le funzioni di ciascuna di esse.
Proposta in origine da Charles Darwin (1809-1882) intorno alla metà del 19° sec., la teoria ha visto innumerevoli perfezionamenti e ampliamenti che ne hanno fatto una disciplina sempre più solida e onnicomprensiva. Nella sua versione attuale, il neodarwinismo sostiene e accompagna il lavoro quotidiano di ogni biologo, operante in laboratorio o sul campo.
Che cos’è il darwinismo?
È opportuno innanzi tutto chiedersi che cosa c’è da spiegare; quali sono cioè i fenomeni biologici più importanti per i quali dobbiamo trovare una spiegazione scientifica. Il primo fenomeno da definire è rappresentato dall’enorme varietà degli organismi viventi. Oggi si valuta che esistano più di dieci milioni di specie, delle quali quasi due milioni appartenenti alla sola categoria degli insetti. Come spiegare tutta questa varietà di specie e di individui?
Il secondo fenomeno è rappresentato dalla ubiquitarietà della vita stessa. In ogni sperduto angolo della superficie terrestre, non appena le condizioni fisiche e chimiche lo permettano, si trova qualche forma di vita. Anzi, nella maggior parte dei casi se ne trovano molte, stipate l’una accanto all’altra e organizzate in modo tale da dar luogo a un loro proprio, si direbbe privato, microambiente.
Il terzo problema è rappresentato dall’adattamento. I membri di molte specie ci paiono possedere caratteristiche biologiche mirabilmente adatte a vivere negli ambienti dove vivono. Definire in maniera rigorosa il concetto di adattamento pone qualche problema, ma tutti capiamo che cosa vogliamo dire con tale termine.
La teoria dell’evoluzione deve dar conto di queste tre osservazioni, ma non può non tenere in considerazione almeno altri due fatti. In primo luogo è noto da qualche secolo che le specie di oggi non sono quelle del passato. Scavando il terreno in diverse parti del globo, si possono osservare resti fossili di specie che non esistono più, mentre spesso non si trovano resti di animali e piante che ci sono oggi familiari. È chiaro poi che le diverse specie si assomigliano tra di loro, quali più e quali meno, e possono essere raggruppate in schiere appartenenti a livelli gerarchici diversi: specie, generi, famiglie, ordini, classi e via discorrendo. Questo fatto appare come la testimonianza di una varietà di apparentamenti più o meno stretti, che non possono essere spiegati se non sulla base di una discendenza comune.
Tutte queste osservazioni sono confluite nella formulazione della teoria evolutiva, originariamente concepita da Darwin nella prima metà dell’Ottocento, e che si articola su due affermazioni chiave. Secondo la prima, tutte le specie viventi oggi sulla Terra derivano da uno stesso gruppo di organismi primitivi vissuti nel tempo passato. Attualmente, sappiamo che questo passato risale a circa 3,8 miliardi di anni fa. In base alla seconda affermazione, il processo di differenziazione è avvenuto per variazione (che oggi possiamo chiamare mutazione) e selezione (naturale).
Chiaro e semplice per la maggior parte degli scienziati, va detto però che il grado di accettazione pubblica delle due precedenti affermazioni è assai diverso. Sulla veridicità della prima proposizione credo che oggi non ci sia più nessuno che nutra dubbi. Molto diversa è la condizione della seconda proposizione, che appare effettivamente di una semplicità disarmante. Per comprenderla appieno occorre però fare un paio di precisazioni a proposito dei due concetti di mutazione e di selezione. In primo luogo le mutazioni sono intrinsecamente ineliminabili e di natura casuale. In ogni generazione non può non esservi qualche mutazione, quindi verosimilmente qualche mutante. Perché? Sappiamo oggi che la mutazione deriva da un errore più o meno rilevante nella sequenza del DNA (DeoxyriboNucleic Acid) che costituisce il patrimonio genetico di un dato organismo. La maggior parte di tali errori risulta da una copiatura imperfetta del DNA dei genitori al momento della sua replicazione. Il meccanismo di replicazione è eccezionalmente accurato, ma non perfetto. Introduce infatti un errore ogni miliardo di caratteri (A, adenina, G, guanina, C, citosina, o T, timina) copiati. Sembra una frequenza di errore assolutamente irrilevante ma, se si considera che il nostro genoma consiste di tre miliardi di caratteri, si comprende come qualche errore sia praticamente inevitabile a ogni evento di duplicazione, cioè a ogni divisione cellulare. La frequenza di tali errori può inoltre aumentare molto in presenza di radiazioni o di sostanze chimiche inquinanti, ossia di tutti quegli agenti che noi chiamiamo mutageni.
Le mutazioni avvengono a caso e non hanno alcuna direzione, né finalità. Agli esseri umani non piace l’idea di caso e ancora meno il fatto che siamo divenuti quello che siamo grazie a esso. Va precisato però che il termine caso non allude a niente di magico o misterioso. Un fenomeno avvenuto per caso non è un fenomeno che non ha una causa. Ne avrà certamente una, o più probabilmente molte, ma noi non le conosciamo e spesso non abbiamo neppure alcun interesse a conoscerle. Se in una certa posizione del genoma, al posto di una A si è venuta a trovare una G, ciò sarà certamente dovuto a una causa, ma è difficile sapere quale e, soprattutto, non sembra avere alcuna importanza. Quello che si vuole dire in realtà con l’affermazione che le mutazioni sono casuali è che queste non seguono un piano prestabilito né una linea di tendenza. Il fatto che si senta la necessità di ribadirlo ha un motivo storico ben preciso. Prima di Darwin il naturalista francese Jean-Baptiste de Lamarck (1744-1829) aveva infatti avanzato una sua teoria sull’evoluzione dei viventi, che aveva una natura direzionale. La teoria di Lamarck implicava il fenomeno della cosiddetta eredità dei caratteri acquisiti. In base alla sua ipotesi un animale poteva acquisire durante la sua vita una determinata caratteristica biologica: una callosità in una specifica posizione o l’allungamento di una specifica appendice. Dopo qualche generazione i suoi discendenti nascevano un po’ diversi, perché fin dalla nascita avevano già alcune di queste caratteristiche acquisite: una callosità dove serviva o l’appendice in questione un po’ più lunga. Dopo molte generazioni gli individui di quella specie avevano acquisito stabilmente tali caratteristiche. Va detto che molte persone pensano ancora oggi che la questione stia in questi termini e molti, che ragionano più o meno correttamente quando si tratta di caratteristiche organiche, tendono a pensarla in questa maniera per quanto concerne le caratteristiche comportamentali, soprattutto quelle più complesse e apparentemente astratte. Si tratta di una forma strisciante ma pervasiva di neolamarckismo.
Il motivo di questa predilezione è semplice. La spiegazione lamarckiana o neolamarckiana è molto più accettabile psicologicamente di quella darwiniana. Il suo problema è che non corrisponde alla realtà delle cose. Negli ultimi duecento anni nessuno ha mai dimostrato che esiste un’ereditarietà di un carattere acquisito durante la vita, e il motivo è chiaro: il patrimonio genetico, o genoma, vive, fortunatamente, una vita sostanzialmente separata da quella del corpo che lo ospita. Ciò è chiaro da molto tempo per quanto riguarda gli animali superiori, ma per un certo periodo qualcuno ha continuato a pensare che nel caso dei batteri le mutazioni potessero non essere del tutto casuali e che, al contrario, potessero seguire una linea di tendenza. È noto infatti che in una popolazione batterica compaiono molto presto alcuni ceppi resistenti ai farmaci, per es. a qualche antibiotico. La velocità con cui ciò accade aveva fatto pensare ad alcuni che fosse possibile un progressivo adattamento genetico alla situazione esistente. Ossia che le mutazioni comparissero nella popolazione con uno specifico orientamento verso la resistenza a quella sostanza chimica particolare.
Negli anni della Seconda guerra mondiale un gruppo di scienziati, fra i quali Salvatore Edoardo Luria (1912-1991), affrontò direttamente la questione, osservando in dettaglio come comparivano le diverse mutazioni spontanee in una popolazione batterica trattata con un particolare agente farmacologico, e giunse a una conclusione incontrovertibile: i batteri non avevano niente di particolare e si comportavano, come tutti gli altri esseri viventi, secondo il modello darwiniano. Nascevano ogni tanto batteri più resistenti al farmaco, ma non con maggior frequenza rispetto a tutti gli altri tipi di mutazioni: essi potevano indifferentemente divenire in modo spontaneo più resistenti oppure ugualmente resistenti ma con altre caratteristiche, diverse o addirittura più vulnerabili al farmaco stesso. Ovviamente i batteri più resistenti crescevano e si moltiplicavano mentre quelli meno resistenti scomparivano. Ciò avveniva e avviene tutt’oggi con tale prontezza da non sembrare dovuto al caso ma all’esistenza di una linea di tendenza genetica. Questa impressione è legata però soltanto all’altissima velocità con la quale i batteri si moltiplicano: ogni mezz’ora si ha una nuova generazione.
Analizziamo adesso il termine selezione naturale. Non si tratta né di un’entità specifica né di una forza che decide e dispone. È un processo, lungo e silenzioso, i cui effetti sono osservabili solo a posteriori, attraverso il quale l’ambiente circostante premia alcuni individui appartenenti a una data specie e ne penalizza altri, concedendo loro una fertilità differenziale, in inglese definita fitness, che possiamo tradurre «idoneità biologica».
Si usa dire spesso che, secondo la teoria di Darwin, «la selezione naturale assicura la sopravvivenza del più adatto». L’affermazione in sé non è terribilmente sbagliata, ma contiene un paio di imperfezioni, che vale la pena di prendere in considerazione. Chi è il più adatto? Quello che sopravvive. E chi sopravvive? Il più adatto. È chiaro che in questa sequenza di affermazioni c’è un vizio logico, cioè una petizione di principio. In realtà la selezione naturale favorisce alcuni organismi a danno di altri, senza alcun’altra specificazione. Siamo noi che tendiamo a chiamare più adatto quello che viene selezionato positivamente, perché ci piace mettere in risalto l’azione generalmente positiva della selezione stessa. Nella maggior parte dei casi gli organismi favoriti sono più adatti all’ambiente nel quale vivono per certi aspetti, ugualmente adatti per altri o addirittura meno adatti per altri ancora.
Quello di adattamento è in ogni caso un concetto relativo a un determinato ambiente e solo a quello. Un carattere adatto a un certo ambiente può infatti risultare assolutamente inadatto a un altro, e in genere lo è. È per questo motivo che i cambiamenti evolutivi più sorprendenti avvengono quando si verifica un cambiamento, più o meno consistente, nell’ambiente dove vive una data popolazione.
Quella che è in gioco, infine, non è la semplice sopravvivenza, ma la capacità riproduttiva. Se è vero che un organismo che non raggiunge vivo l’età della riproduzione non si potrà riprodurre, è anche vero che alcuni esemplari possono presentarsi come forti e robusti, ma lasciare dietro di sé una scarsa discendenza. Quella che è veramente in gioco è in conclusione la prolificità di un individuo, che può dipendere da moltissimi fattori e che spesso non è spiegabile in dettaglio. La frase giusta ieri come oggi dovrebbe essere allora: «La selezione naturale offre ai diversi individui di una data popolazione una diversa opportunità di lasciare una prole numerosa». Quelli che la lasciano più numerosa si affermeranno, e assicureranno così la sopravvivenza e la diffusione del proprio genoma, mentre quelli che la lasciano meno numerosa tenderanno a essere minoritari o a scomparire del tutto, insieme al loro genoma.
La selezione naturale
Vediamo di illustrare in concreto il meccanismo d’azione delle forze che regolano la selezione naturale. Cominciamo con il notare che in genere una nuova mutazione produce effetti negativi e gli individui che la portano vengono perciò sfavoriti dalla selezione. In una popolazione relativamente ben stabilita la maggior parte delle novità biologiche proposte dalla comparsa di nuovi mutanti viene infatti eliminata in tempi più o meno brevi. La popolazione viene così mantenuta relativamente stabile dall’azione normalizzatrice della selezione naturale. Si parla in questi casi di selezione stabilizzante. Il ruolo della selezione stabilizzante è fondamentale per il mantenimento delle caratteristiche biologiche di generazioni e generazioni di individui appartenenti a un dato raggruppamento tassonomico. In questa maniera però non si ha né innovazione, né diversificazione. Per ogni specie la situazione rimane essenzialmente la stessa.
L’osservazione della natura ci dice però che le cose non possono essere andate sempre e soltanto in questo modo. Bisogna supporre che di tanto in tanto sia avvenuto qualcosa di diverso. In effetti di tanto in tanto qualcosa di diverso accade. Qualche nuova mutazione non solo non viene eliminata dalla selezione, ma al contrario viene favorita al punto di diffondersi sempre di più all’interno di una popolazione e divenire maggioritaria.
Immaginiamo una popolazione di piccoli mammiferi insettivori abitanti una regione che è naturalmente soggetta a qualche sbalzo climatico. Questi animaletti si saranno adattati alle condizioni delle varie stagioni dell’anno, specialmente per quanto riguarda la temperatura e l’umidità. Supponiamo adesso che per una mutazione spontanea sia nato in questa popolazione un certo numero di individui capaci di resistere più a lungo senza bisogno di procurarsi altro liquido che quello derivante dalla digestione delle loro prede. Se questi individui non hanno nessuno svantaggio rispetto agli altri, cioè ai cosiddetti normali, verranno mantenuti per un certo tempo nella popolazione, mentre se hanno uno svantaggio anche minimo tenderanno a essere eliminati e potranno ricomparire solo in seguito a nuove mutazioni, identiche o simili. Supponiamo adesso che improvvisamente il periodo annuale di siccità si faccia molto più lungo. La maggior parte degli animali ‘normali’ si troverà allora in grave crisi, mentre i nuovi mutanti spontanei si mostreranno più adatti a queste nuove condizioni, perché potranno affrontare meglio i problemi derivanti dalla scarsezza d’acqua.
È raro che avvenga un fenomeno del tipo ‘tutto o nulla’, anche se qualche volta ciò si può verificare. Sopravviveranno quindi sia alcuni individui di tipo mutante sia alcuni individui di tipo ‘normale’, ma cambierà il rapporto numerico fra gli uni e gli altri. Dopo qualche anno e qualche generazione il numero degli individui che prima erano i ‘normali’ diverrà sempre più esiguo, mentre quello dei nuovi mutanti crescerà in proporzione. Gli individui portatori della nuova mutazione invaderanno progressivamente il campo e la loro frequenza si approssimerà al 100%: essi in sostanza sbaraglieranno il campo. A questo punto possono accadere due cose: nel caso più semplice la popolazione si trasforma in toto e viene a comprendere solamente i nuovi mutanti con la scomparsa progressiva dei vecchi individui ‘normali’; si osserva così un trapasso più o meno continuo da una popolazione con certe caratteristiche a una con altre caratteristiche. Il sostituirsi di una popolazione portante una nuova mutazione a un’altra precedentemente ben adattata alle condizioni ambientali esistenti è il nocciolo del processo evolutivo. A lungo andare questo significa anche che si è passati da una specie a un’altra. Si è registrata cioè la comparsa di una nuova specie, un fenomeno chiamato speciazione. Potrebbe anche succedere però (seconda possibilità) una cosa un po’ diversa. Fermo restando il fatto che i nuovi mutanti si presentano come più adatti alle nuove condizioni ambientali, potrebbe accadere qualcosa all’interno del gruppo dei vecchi individui ‘normali’ che li preservi dall’estinzione: tale elemento di novità potrebbe essere costituito da una seconda mutazione, diversa dalla prima, che assicura anche a questi individui una migliore sopravvivenza nell’ambiente di partenza. Il problema di resistere più a lungo ai periodi di siccità può essere risolto infatti in vari modi: l’acqua può essere, per es., meglio ‘spremuta’ dal cibo, oppure trattenuta più a lungo nell’organismo. Entrambe le soluzioni sono praticabili ed entrambi i tipi di mutazione sarebbero utili. Se ciò accade, il vecchio gruppo dei ‘normali’ ha trovato ora un suo modo di persistere e di sopravvivere accanto a quelli che portano la prima mutazione. Alternativamente, alcuni individui che costituivano precedentemente la massa dei ‘normali’ potrebbero spostarsi e rifugiarsi in un altro territorio, dove, grazie alle loro caratteristiche, potrebbero vivere ancora bene e magari anche meglio dei nuovi mutanti. In entrambi questi casi si osserverà l’evolversi della popolazione originaria verso due popolazioni distinte, che a lungo andare diverranno probabilmente due specie diverse. Se ciò accade sullo stesso territorio, come nel primo caso che abbiamo immaginato, si parla di speciazione simpatrica (in una stessa patria); se ciò accade in due territori non coincidenti o chiaramente distinti, come nel secondo caso, si parla di speciazione allopatrica (in due patrie diverse).
Abbiamo fin qui considerato ciò che può accadere in una popolazione che stia affrontando cambiamenti ambientali. Va da sé però che quasi tutto quello che abbiamo detto può aver luogo anche in assenza di tali cambiamenti. Basterà supporre che i nuovi eventi introducano mutazioni più vantaggiose delle precedenti per gli individui di una data popolazione anche nell’ambiente nel quale questa vive da tempo e al quale è già adattata. La comparsa di nuove mutazioni che avvantaggino i loro portatori costituisce un evento raro, ma non rarissimo. I loro effetti possono surclassare la capacità di sopravvivere dei precedenti individui ‘normali’ anche in assenza di novità ambientali, così che i nuovi mutanti possano andare progressivamente a sostituirsi ai ‘normali’. Il nuovo può andare a sostituirsi all’antico progressivamente o bruscamente, ma nella sostanza il quadro evolutivo non cambia.
Vediamo adesso l’azione della selezione naturale con un paio di esempi, uno immaginario e l’altro reale. Consideriamo per prima cosa il classico esempio dell’origine del collo della giraffa. Supponiamo che la giraffa derivi da un quadrupede ungulato erbivoro, diciamo una ‘protogiraffa’, in tutto e per tutto simile a essa, ma con un collo di dimensioni normali. La spiegazione dell’origine della giraffa che ci offre il lamarckismo è semplice e seducente. La ‘protogiraffa’ si nutre sia di fili d’erba sia di foglie tenere situate sugli alberi. Può succedere che a un certo punto l’erba cominci a scarseggiare per un cambiamento climatico o per l’invasione di una popolazione di prolifici piccoli erbivori che ne fanno razzia. Ecco allora che alla protogiraffa conviene concentrarsi sulle foglie degli alberi, soprattutto su quelle che si trovano fuori dalla portata dei piccoli erbivori voraci o degli altri compagni di specie. Moltissime protogiraffe tenteranno quindi quotidianamente di raggiungere le foglie degli alberi situate più in alto. Questo continuo sforzo avrà come effetto che una protogiraffa di una certa età avrà il collo un po’ più lungo di quando ha cominciato a nutrirsi: la funzione, si sa, sviluppa l’organo.
Fino a questo punto è tutto normale. La ‘magia’ interviene qualora si supponga che a questo allungamento del collo per necessità alimentari cominci a corrispondere un leggero allungamento del collo già nei neonati della generazione successiva. Il carattere acquisito durante la vita, un collo leggermente più lungo, comincerebbe così a venire ereditato, diverrebbe cioè un carattere congenito. Il resto è semplice. Con il passare delle generazioni le protogiraffe avrebbero il collo sempre più lungo per l’esercizio e i ‘protogiraffini’ nascerebbero con il collo sempre più lungo finché non si raggiungerà lo stadio di giraffa vera e propria. Si tratta di un quadro semplice e plausibile e un gran numero di naturalisti e ricercatori si è dato da fare per dimostrare l’attendibilità di questo fenomeno. A tutt’oggi però nessuno è riuscito a dimostrare il passaggio di un solo carattere acquisito da una generazione all’altra e dobbiamo ritenere che ciò sia impossibile.
La spiegazione offerta dal neodarwinismo è assai diversa e consegue da tutto ciò che abbiamo detto fino a questo momento. Nelle condizioni ambientali che abbiamo descritto nascono, per caso, individui con il collo più lungo. Costoro risultano avvantaggiati e così la nuova mutazione si impone. Questo fenomeno – generazione casuale di mutazioni e selezione – si può ripetere finché si arriva alla giraffa vera e propria. Molto semplice, ma troppo semplice per alcuni.
Vediamo un altro esempio, questa volta preso dalla realtà. Nelle campagne del Sud dell’Inghilterra vivono delle farfalline della specie Biston betularia, con ali di un colore bianco picchiettato che permette loro di mimetizzarsi sullo sfondo dei tronchi di betulle, anch’essi bianchicci per la presenza di un rivestimento perenne di licheni. Con l’avvento del processo di industrializzazione, a partire dalla metà del 19° sec. si osservò la presenza sempre più insistente di esemplari di questa specie con ali di colore scuro. Verso la fine del 19° sec. le popolazioni di certe zone erano composte quasi esclusivamente di individui con ali scure. Al fenomeno in questione è stato dato anche un nome, ossia melanismo industriale. Dopo la presa di coscienza dell’esigenza di proteggere l’ambiente e l’adozione di provvedimenti volti a limitare l’inquinamento dell’atmosfera nelle aree industrializzate si è riproposto negli ultimi due decenni un panorama di farfalline con le ali di nuovo in prevalenza chiare. L’osservazione della sequenza di fenomeni appena descritta ha suggerito un’interpretazione relativamente immediata del fenomeno. Nella fase preindustriale gli individui chiari erano avvantaggiati perché si mimetizzavano sullo sfondo del tronco delle betulle. I pochi mutanti scuri, nati per caso in conseguenza di una mutazione in uno o più geni, non avevano la stessa idoneità biologica di quelli con le ali chiare perché erano facilmente distinguibili sullo sfondo delle cortecce chiare. L’agente selettivo era rappresentato dai volatili che si cibano di questi insetti. I predatori di questo tipo individuavano più facilmente gli esemplari con le ali scure e si cibavano in prevalenza di quelli. La frequenza degli individui con le ali scure era perciò mantenuta bassissima. Quando l’inquinamento conseguente al processo di industrializzazione cominciò a far morire i licheni che si trovavano sulle cortecce delle betulle, queste divennero più scure. Furono allora gli individui chiari a essere svantaggiati, perché spiccavano in modo evidente su uno sfondo divenuto più scuro. Non furono le mutate condizioni ambientali a creare i mutanti scuri ma, una volta che questi comparivano spontaneamente in seguito a eventi casuali di mutazione, venivano avvantaggiati e selezionati positivamente.
Questa ipotesi è in linea con la visione neodarwiniana del processo evolutivo e poté anche essere verificata sul campo. Molti studi furono infatti compiuti una trentina di anni fa per verificarne sperimentalmente la tenuta. Furono rilasciati sul terreno un certo numero di individui con le ali chiare e un certo numero di individui con ali scure in varie zone inquinate in misura molto diversa e si osservò l’evolversi della situazione. Ci si preoccupò anche di osservare quali e quante erano le prede che costituivano il bottino delle specie predatrici. A parte qualche leggera complicazione, gli esperimenti confermarono in pieno la visione che abbiamo delineato: nelle zone poco inquinate gli esemplari con ali scure erano più frequentemente oggetto di predazione degli esemplari con ali chiare, mentre nelle zone molto inquinate accadeva esattamente il contrario. Come risultato di questa sopravvivenza differenziale, si poteva osservare un netto predominio di individui con le ali chiare nelle prime e uno di individui con le ali scure nelle seconde.
Questo fenomeno è divenuto una delle illustrazioni classiche dell’azione della selezione naturale perché all’analisi del fenomeno naturale si è potuto associare anche un certo grado di ‘sperimentazione’ o, per meglio dire, di osservazione in condizioni controllate. Il fenomeno si è rivelato inoltre reversibile, perché con il successivo ritorno delle cortecce delle betulle al loro primitivo colore chiaro si sono riaffermati gli esemplari con ali chiare. Sulle cortecce ridivenute chiare la vita degli individui scuri si è rifatta assai più rischiosa. Le vicende di queste farfalline sono divenute così una storia esemplare e di fatto una delle pietre miliari della teoria neodarwiniana dei processi evolutivi.
Validità del darwinismo
Abbiamo completato l’illustrazione dei principi del darwinismo. È opportuno adesso chiedersi che cosa spieghi la teoria stessa. Dovrebbe essere chiaro infatti che una teoria scientifica non può spiegare tutto. Ogni teoria scientifica ha un suo ambito di validità. All’interno di questo dovrebbe spiegare qualsiasi fenomeno, ma al di fuori di questo può essere incompleta o addirittura impotente.
Per rispondere alla domanda è opportuno fissare qualche data. La Terra si è formata più o meno 4,5 miliardi di anni fa, ma non è stata subito in condizione di ospitare qualche forma di vita. Si ritiene che 4,2 miliardi di anni fa sia divenuta adatta alla vita, ma occorrerà aspettare ancora 400 milioni di anni perché si osservi qualche forma vitale, per quanto primitiva. I primi segni di vita risalgono infatti a circa 3,8 miliardi di anni fa. Si trattava di organismi unicellulari assai diversi da tutto ciò che conosciamo oggi. Dopo si sono succeduti tantissimi avvenimenti evolutivi, dei quali abbiamo una conoscenza abbastanza incompleta. Tra questi spicca indubbiamente la comparsa degli organismi pluricellulari.
Più o meno 600 milioni di anni fa si è registrata poi una sorta di esplosione evolutiva, almeno per quanto riguarda gli animali, chiamata esplosione del Cambriano. In pochi milioni di anni si sono formate tutte le maggiori categorie di animali che popolano attualmente il mondo, dagli insetti agli echinodermi, dagli anellidi ai cordati. Da allora si sono poi evolute e perfezionate tutte le classi, le famiglie e le specie che osserviamo oggi, attraverso la comparsa, la trasformazione e la scomparsa di intere schiere di individui; 6-7 milioni di anni fa è comparsa infine la linea evolutiva che ha portato direttamente all’uomo. La storia della vita sulla Terra può essere allora suddivisa in almeno tre grandi fasi: ciò che è accaduto prima della comparsa delle prime forme viventi, circa 3,8 miliardi di anni fa; ciò che è accaduto fra questa data e l’esplosione del Cambriano, più o meno 600 milioni di anni fa; ciò che è accaduto da allora a oggi. Anche se i principi generali della spiegazione neodarwiniana si possono applicare a tutte le epoche, la versione corrente della teoria dell’evoluzione meglio si addice a ciò che è successo in quella che noi abbiamo chiamato terza fase, cioè quella dal Cambriano a oggi, l’unica per la quale possediamo una teoria ben corroborata e accettabile.
La teoria non è in grado di spiegare ciò che è successo prima della comparsa della vita, nel periodo che viene spesso indicato come quello dell’evoluzione chimica o prebiotica, e non è in grado di spiegare bene tutti gli eventi che hanno caratterizzato la seconda fase, quella che va da 3,8 miliardi di anni fa a 600 milioni di anni fa. Ci può dare solo qualche indicazione di ciò che è avvenuto in concomitanza con l’esplosione del Cambriano, mentre spiega molto bene ciò che è avvenuto dopo, il che non è poco, perché alla fine del Cambriano osserviamo al palo di partenza una serie di tipi animali e vegetali che corrispondono approssimativamente alla maggioranza di quelli che possiamo contemplare oggi. Nel suo complesso il panorama era ben diverso. Gli antenati degli insetti erano molto diversi da quelli che oggi popolano la Terra, così come gli anellidi e i molluschi, non c’erano i mammiferi e neppure gli anfibi. Da allora, all’interno di ciascuna categoria fondamentale si sono andati evolvendo nuovi organismi portatori di sempre nuove caratteristiche biologiche, strutturali o comportamentali. Sono nate le api e le formiche, sono nati i procioni e le tartarughe, il lupo e il leone, le rose e i meli, ciascuno all’interno della propria divisione tassonomica fondamentale. Quello che sappiamo spiegare è appunto ciò che è accaduto in questi frangenti, ed è anche quello che ci interessa di più.
Un problema a parte è rappresentato dalla comparsa e dall’evoluzione della specie umana. Non perché tali eventi presentino un carattere particolare e si ritenga che debbano seguire schemi esplicativi diversi, ma semplicemente perché ci interessano molto più di tutti gli altri eventi. Le domande che affiorano alla mente per quanto riguarda l’evoluzione della nostra specie sono così numerose, e di tale complessità, prime fra tutte quelle che concernono la comparsa del linguaggio e del pensiero simbolico, che dobbiamo onestamente dichiarare come molte di esse siano al momento ancora al di fuori della nostra portata; non vi è però ragione di ritenere che i principi biologici necessari per la comprensione di questi eventi non siano assolutamente gli stessi di tutti gli altri fenomeni evolutivi.
Fondamenti genetici dell’evoluzione
Della teoria dell’evoluzione esistono prove infinite, di natura paleontologica, sistematica e soprattutto genetica e molecolare. È proprio in questo campo che la teoria mostra tutta la sua forza, soprattutto dopo la determinazione della sequenza dei genomi di numerosissime specie, realizzata negli ultimi anni. Moltissime cose sono successe infatti nei 150 anni che ci separano della prima formulazione della teoria da parte di Darwin. Questi non era a conoscenza dei meccanismi attraverso i quali si ereditano i caratteri biologici e non aveva la più pallida idea di che cosa fossero i geni, né di quale fosse il loro meccanismo d’azione. Come pure ignorava del tutto la natura delle mutazioni. Nell’ultimo secolo si è scoperto tutto questo e molto di più. Si sono prima intravisti e poi studiati meccanismi genetici sempre più complessi e si è appresa un’enorme quantità di nozioni a proposito dei processi dello sviluppo, embrionale e postembrionale.
Queste scoperte hanno messo in luce una cosa sopra a tutte: l’incredibile unitarietà dei fenomeni viventi. I processi fondamentali e i meccanismi che li controllano sono essenzialmente gli stessi in ogni specie. Si è così scoperto, per es., che per fare uno storione, un ranocchio, un topo o un uomo è richiesta l’azione programmata e coordinata di un certo numero di geni dello sviluppo che gli animali di tutte queste specie hanno in comune e che sono presenti anche nel patrimonio genetico degli insetti e dei molluschi. Anzi, tutto è partito proprio dallo studio degli insetti e precisamente dal moscerino della frutta, la famosa drosofila.
Un secondo dato emerso da questi studi è pure eccezionalmente meritevole di nota. I geni non sono tutti dello stesso tipo e, quando mutano, non presentano tutti effetti comparabili. Esiste una gerarchia fra i geni: alcuni si limitano a svolgere le loro funzioni specifiche, altri, detti in genere geni regolatori, controllano l’attività di decine o di centinaia di altri geni. È chiaro che una mutazione a carico di un gene regolatore può avere un effetto tutt’altro che trascurabile o addirittura devastante, perché è come se mutassero moltissimi geni contemporaneamente. Gli effetti delle mutazioni non sono sempre modesti, il che comporta un cambiamento graduale; possono essere anche enormi e causare cambiamenti radicali.
Uno dei problemi più seri posti dall’originaria formulazione del darwinismo è rappresentato dall’origine e dall’evoluzione di organi particolarmente complessi come l’occhio o il rene. Come è possibile, in sostanza, che un organo complesso e mirabilmente organizzato come un occhio sia potuto evolvere a poco a poco attraverso piccole variazioni graduali derivanti da una serie di mutazioni che si sono succedute nelle generazioni? Non è una domanda da poco e lo stesso Darwin confessava che l’interrogativo non lo faceva dormire e gli dava anzi ‘un brivido freddo’. Oggi la questione è più chiara e, se non possiamo dire di avere ancora colto ogni dettaglio, la risoluzione di tale problema è divenuta l’ennesimo punto di forza della spiegazione evoluzionistica. È stata proprio la scoperta dei geni regolatori e della loro eccezionale importanza che ha posto su basi completamente nuove il problema dell’origine delle grandi novità evolutive. Basta il sopraggiungere di una mutazione in un gene regolatore di alto livello gerarchico e il cambiamento sarà tutt’altro che piccolo e graduale. In seguito a una sola mutazione possono apparire gambe, ali o antenne oppure scomparire organi e appendici che prima erano appannaggio di un certo tipo di organismi.
Da notare che in questa maniera si possono anche registrare cambiamenti multipli. Una mutazione in un gene regolatore può alterare nello stesso tempo la forma del cranio, la mobilità della laringe e la funzionalità renale di un vertebrato, oppure la forma del fiore, la maturazione del frutto e la disposizione delle radici di una pianta. Si vede così come le variazioni prodotte nel corso dei secoli dalle singole mutazioni possano anche non essere affatto piccole. Ecco come dalla continuità dell’azione combinata di mutazione e selezione possono derivare la discontinuità e la vera e propria innovazione evolutiva. Le nuove mutazioni insomma non portano sempre piccoli cambiamenti e possono cambiare in una sola volta l’intero schema corporeo di un animale o di una pianta. Ma c’è di più. Una stessa mutazione di questo tipo può produrre due, o più, effetti diversi sul corpo o sul comportamento di chi ne è affetto. È possibile che uno di questi due effetti venga selezionato molto positivamente dall’ambiente circostante; ma, poiché i due cambiamenti sono il frutto della stessa mutazione, può succedere che il secondo effetto segua passivamente il successo del primo, a patto ovviamente che non sia troppo deleterio. In tale maniera si può affermare anche un carattere che non ha un vantaggio evolutivo immediato. Questo cambiamento si impone cioè ‘a rimorchio’ dell’altro, ma è comunque presente nella popolazione e pronto a essere eventualmente ‘sfruttato’ o ‘riciclato’ nel contesto di successivi eventi evolutivi.
Il darwinismo dopo Darwin
Fin dal suo primo apparire la teoria dell’evoluzione è stata oggetto delle contestazioni più diverse, talvolta violentissime. Ovviamente esistono critiche scientifiche e critiche che di scientifico non hanno niente. Le prime sono state e sono tuttora benvenute e costituiscono il pane quotidiano della scienza attiva. Se la teoria evoluzionistica è cambiata e cresciuta, passando attraverso diverse fasi, dal darwinismo originario alla cosiddetta sintesi moderna degli anni Trenta del secolo scorso, per giungere all’attuale formulazione neodarwiniana, lo si deve anche al continuo alternarsi di argomentazioni critiche, avanzate su una base puramente teorica o in seguito a nuove risultanze sperimentali, e di controargomentazioni.
Negli ultimi cinquant’anni, in particolare, la teoria si è molto arricchita in conseguenza di una nutrita serie di rilievi teorici e di nuove osservazioni sperimentali. Molto importanti sono state a questo proposito le critiche portate su due fronti; quelle provenienti dalla cosiddetta teoria neutralista e da quella saltazionista, detta anche teoria degli equilibri punteggiati. Queste critiche nascevano da due osservazioni sperimentali.
La prima osservazione, che risale a quarant’anni fa, quando si cominciarono a confrontare tra loro le proteine presenti nei diversi esseri viventi, riguarda la quantità di mutazioni esistenti in tutti gli individui: sono moltissime, molto più numerose di quanto si potesse mai immaginare un tempo, e non tutte arrivano ad alterare l’aspetto esterno degli organismi che le portano. Si tratta per lo più di mutazioni ininfluenti sull’aspetto e sul comportamento, e perciò dette anche neutrali, da cui il nome della corrispondente posizione teorica. Ma se la grande maggioranza delle mutazioni è neutrale, su che cosa agisce la selezione naturale, capace per definizione di operare soltanto sulla base delle differenze effettivamente riscontrabili nei diversi individui?
La seconda osservazione deriva dalla paleontologia e mette in chiaro che non ci sono stati eventi evolutivi rilevanti in tutte le epoche, ma sono esistiti lunghi periodi nei quali non è successo praticamente niente e periodi nei quali si è susseguito un gran numero di novità evolutive. Il processo evolutivo si realizzerebbe quindi a salti, da cui il nome di saltazionismo. In altre parole, a brevi periodi di grandi cambiamenti si alternerebbero lunghi periodi di equilibrio, da cui il nome di equilibri punteggiati. Di conseguenza, l’evoluzione non sarebbe stata affatto un fenomeno continuo che procede per piccoli passi.
Queste obiezioni, basate su osservazioni sperimentali concrete, sono servite ad attirare l’attenzione su alcune complicazioni dell’assetto evolutivo passate precedentemente inosservate, e non hanno fatto che completare e rafforzare il quadro concettuale della teoria. Il loro contributo è consistito nel far comprendere sempre di più quanto sia imponente l’intervento del caso nell’andamento del processo evolutivo, con le sue discontinuità. Le grandi rivoluzioni evolutive, che hanno dato origine a una costellazione di innovazioni biologiche, sono state infatti spesso il prodotto di eventi naturali casuali, quali inondazioni o gravissime siccità, eruzioni vulcaniche che hanno creato o distrutto specifici territori, terremoti e maremoti, caduta di meteoriti e simili; oppure di sconvolgimenti ambientali di natura biologica, come l’invasione di nuove specie, l’estinzione di altre, l’espansione o la contrazione del numero degli organismi componenti la popolazione; oppure anche di veri e propri sconvolgimenti genetici interni agli individui della popolazione in questione, come cambiamenti nel numero complessivo dei cromosomi, fusioni o rotture di cromosomi, grandi riassortimenti di intere regioni genomiche. Ma anche reali ‘terremoti genetici’ permessi, per es., dalla presenza di un enorme numero di mutazioni neutrali ‘sommerse’.
Quello che rende forte una teoria scientifica sono le migliaia di cose che riesce a spiegare e spesso a prevedere, come pure la velocità con la quale un numero sempre maggiore di difficoltà teoriche viene risolto e quindi vanificato nel tempo. È proprio la capacità di risolvere le questioni controverse, inglobarne le conclusioni e farle diventare a loro volta altrettanti punti di forza a costituire la dimostrazione dell’attualità e della vitalità di una teoria scientifica. Considerando quante cose ancora non sappiamo dei processi vitali, è importante constatare quanto forte sia, nonostante tutto, l’apparato teorico della teoria dell’evoluzione e come questo ci appaia sempre più saldo con il trascorrere degli anni.
Teoria dell’evoluzione e creazionismo
Nonostante i suoi successi, la teoria dell’evoluzione ha sempre incontrato grandi resistenze, essenzialmente di natura psicologica. Chiunque di noi è colpito dal fatto che la teoria manca di una direzione, di una finalità, di un progetto, tutte questioni che a noi piacciono tanto. Ogni cosa sembra inoltre opera del caso, e questo è ancora più vero oggi che la teoria ha dovuto riconsiderare alcune sue formulazioni in risposta ai diversi rilievi critici. Con il passare degli anni lo spazio esplicativo dedicato al caso è aumentato, e non diminuito, nella descrizione dei principali eventi evolutivi. Per non parlare del problema rappresentato dall’origine dell’uomo: noi ci sentiamo molto speciali e ci piace credere di avere avuto un’origine anch’essa speciale. Non solo non sembra che l’evoluzione abbia alcun fine, ma è anche chiaro che il suo procedere è essenzialmente imprevedibile, in quanto di natura erratica. Non si osserva infatti mai la progettazione di qualcosa ex novo, ma l’utilizzazione forzata di ciò che è disponibile al momento. Tutto questo non impedisce che di tanto in tanto si osservi la comparsa di vere e proprie novità biologiche, talvolta clamorose, almeno dal nostro punto di vista.
La teoria dell’evoluzione, soprattutto applicata alla nascita di Homo sapiens, condivide con le altre due grandi rivoluzioni scientifiche dei nostri tempi, la teoria della relatività e quella dei quanti, un’intrinseca controintuitività, un inconfondibile sapore di estraneità al nostro modo di vedere e di pensare. Eppure nessuno si sognerebbe al giorno d’oggi di mettere in discussione la relatività o i quanti. Per l’evoluzione è diverso. Tutti si ritengono competenti in materia e capaci di giudicare su un argomento come questo. D’altra parte, la nostra difficoltà ad accettare la teoria neodarwiniana ha una spiegazione evolutiva e coinvolge direttamente la struttura del nostro apparato mentale. Noi siamo infatti portati, per natura, a cercare una causa e uno scopo in ogni avvenimento: una causa, perché tutto il mondo, animato e inanimato, procede attraverso un gioco di cause e di effetti; uno scopo, perché la chiave della comprensione del mondo vivente, soprattutto animale, è la ricostruzione degli scopi che stanno dietro il comportamento di questo o quell’organismo ed eventualmente la prevenzione del loro raggiungimento. Tale disposizione mentale ci accomuna a tutti gli animali; di nostro ci mettiamo poi l’eventuale individuazione delle responsabilità e delle colpe, anche se non sempre appoggiata a qualcosa di reale. Il complesso di queste disposizioni e di questi atteggiamenti mentali si adatta perfettamente al mondo nel quale viviamo, e soprattutto nel quale vivevano i nostri antenati di qualche decina di migliaia di anni fa; ma estenderlo a eventi che si dispiegano su scale spaziali e temporali incommensurabili con quelle rispetto alle quali siamo abituati a vivere è quanto meno arbitrario, anche se appare comprensibile. La causa e lo scopo del tutto non sono la stessa cosa della causa e dello scopo di singoli eventi del nostro mondo.
Proprio questa è la lezione delle scienze naturali degli ultimi tre secoli, con la biologia evoluzionistica in testa. Sono la scala dei tempi enormemente dilatata e la prospettiva amplissima che si è così dischiusa che dovrebbero farci riflettere e cambiare punto di vista, senza per questo doverci sentire sminuiti o mortificati. Il complesso di tali formidabili difficoltà psicologiche ha alimentato negli anni tutta una serie di critiche non scientifiche alla teoria dell’evoluzione. Questo tipo di critiche si è infittito negli ultimi anni. È andato infatti prendendo corpo negli Stati Uniti un movimento di opinione tendente a screditare la ricostruzione evoluzionistica degli eventi che hanno portato alla flora e alla fauna attuali e infine all’uomo, a favore di una lettura letterale delle Sacre scritture. Tale atteggiamento e il corrispondente movimento hanno preso il nome di creazionismo. Nata in seno alle chiese protestanti statunitensi, questa espressione di rifiuto della visione evoluzionistica si è successivamente estesa a molti gruppi più o meno insofferenti nei riguardi di una visione scientifica della realtà e della sua storia. L’avversione per la concezione evolutiva della vita a favore di una diretta creazione divina ha incontrato i favori di molte persone che preferiscono credere a una rapida successione di eventi miracolosi piuttosto che a una precisa ed elaborata ricostruzione storica, di natura biologica, ma anche astronomica, meteorologica e geologica.
In un secondo momento una certa frazione degli avversari del darwinismo si è associata ad altri per dar vita a una nuova versione del movimento di opposizione alla spiegazione scientifica neodarwiniana. La loro posizione ha preso il nome di intelligent design, come dire progetto intelligente o intelligibile, ideato e realizzato da un’entità sovramateriale. Secondo i sostenitori di questo nuovo movimento, l’evoluzione non può essere il prodotto delle forze naturali della teoria neodarwiniana, ma deve avere dietro di sé una sorta di progetto che sia l’opera di una mente superiore, capace appunto di un progetto, che non è necessariamente il Dio delle Sacre scritture.
Se il creazionismo è, infatti, esplicito per quanto concerne la sua proposta alternativa, i sostenitori del progetto intelligente fanno riferimento a un’ipotetica spiegazione ‘diversa’, facendo leva sulla difficoltà psicologica di ciascuno di noi nell’accettare in pieno la visione evoluzionistica e risuscitando considerazioni e argomentazioni che sono in circolazione dai tempi di Darwin, se non da prima ancora. Non è possibile, dicono costoro, che tutta la perfezione degli esseri viventi sia il frutto di una serie di eventi casuali, risultato a loro volta di spinte e controspinte ugualmente cieche e prive di un programma, se non di una vera e propria regia. Non dicono per quali motivi non sia possibile, ma si limitano a fare appello alla nostra difficoltà ad accettare una spiegazione così parsimoniosa come quella neodarwiniana. I sostenitori del progetto intelligente hanno affermato anche che esisterebbero argomenti ‘scientifici’ per smontare l’apparato concettuale del neodarwinismo. Si è fatto così l’inventario di tutte le più piccole ‘crepe’ concettuali nell’edificio della teoria evolutiva e si è tentato di allargarle fino a mettere a repentaglio l’intera costruzione e a minarne la credibilità, nel quadro di una logica fondamentalista secondo la quale, se qualcosa non è perfetto, allora è tutto sbagliato. La maggior parte delle critiche riguarda i grandi cambiamenti evolutivi e l’introduzione delle innovazioni rilevanti, argomenti questi che potevano avere una presa nel passato, ma che, come abbiamo visto, hanno ricevuto negli ultimi decenni risposte più che soddisfacenti.
Qualche punto debole del resto esiste ancora oggi nella teoria darwiniana, dal momento che si tratta di una teoria scientifica. Proprio perché non spiega tutto, ed è anzi alla continua ricerca di nuovi dettagli e di nuovi approfondimenti, la teoria neodarwiniana dell’evoluzione biologica mostra di essere una grande teoria scientifica, la quale non ha mai goduto di tanta salute come oggi e risulta in continua crescita, soprattutto in seguito alla determinazione della sequenza del DNA dei genomi di un numero sempre maggiore di specie viventi, inclusa la nostra.
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