Darwinismo sociale
La locuzione 'darwinismo sociale' apparve negli anni ottanta dell'Ottocento per indicare l'applicazione dell'evoluzionismo allo studio delle società umane. La locuzione non acquistò mai, però, contenuti precisi e ai primi del Novecento venne resa obsoleta da trasformazioni culturali quali la reazione antipositivista (v. Hughes, 1958) e la nascita dell'antropologia funzionalista, nonché dalla riscoperta delle teorie biologiche di Gregor Mendel. Rimase, tuttavia, nell'uso corrente con significato polemico in rapporto a una varietà di teorie imperialiste e razziste a base evoluzionistica, nonché all'eugenetica. Richard Hofstadter la rese popolare in ambito storiografico nel 1944, facendone il pilastro dell'ideologia individualista conservatrice americana di fine Ottocento, e nel 1958 Gertrude Himmelfarb osservava che il socialdarwinismo, come fenomeno euroamericano, era servito a sostenere sia individualismo e antistatalismo che nazionalismo e imperialismo negli anni a cavallo fra i due secoli.
La storiografia più recente è divenuta però cauta circa l'effettiva influenza del socialdarwinismo conservatore, le reali idee di molti autori considerati socialdarwinisti e le implicazioni del darwinismo per il pensiero sociale, implicazioni che Robert Bannister (v., 1979), Linda Clark (v., 1984), Frank Hankins (v., 1931), Greta Jones (v., 1980) hanno individuato in ambiti assai lontani fra loro e in pensatori socialisti, pacifisti o sostenitori di forme di solidarietà sociale; tanto che per Bannister il socialdarwinismo fu un 'mito' polemico usato soprattutto da autori riformisti per attaccare varie forme di conservatorismo. Il termine è parso ad alcuni autori (v. La Vergata, 1982) tanto indeterminato da spingerli a consigliarne l'abbandono.
Tenendo conto di questa disputa storiografica ancora irrisolta non ha gran senso cercare di definire concettualmente il darwinismo sociale, che può considerarsi una variante del naturalismo evoluzionista - quest'ultimo una sorta di 'lingua franca'-, che negli ultimi decenni dell'Ottocento e all'inizio del Novecento penetrò gli ambiti più diversi e le cui ramificazioni è pressoché impossibile seguire. Può, a ogni modo, ritenersi proprio dell'approccio socialdarwinista il tentativo di applicare all'analisi dei fenomeni sociali le idee di lotta per l'esistenza e di selezione naturale, con commistioni con l'organicismo che non possono, però, essere considerate prevalenti.
L'impossibilità di una chiara definizione non impedisce che il socialdarwinismo, per l'uso che ne fecero i contemporanei e per quanto se ne evince a livello storico, costituisca un fenomeno non secondario nella storia del pensiero sociale, soprattutto in rapporto alla necessità culturale e ideologica, che si diede in particolare nel mondo angloamericano, di ricercare la causazione naturale delle istituzioni sociali e di compattare attorno alla nuova sintesi darwiniana le teorie e i concetti delle scienze sociali. Si tratta, pertanto, di individuare le ragioni e il modello di un'operazione che, se si dimostrò un vicolo cieco per lo sviluppo delle scienze sociali, ebbe una notevole rilevanza immediata, e di mettere a nudo un momento essenziale della costruzione dell'identità europea nel secolo della borghesia.
La tesi secondo cui l'evoluzionismo darwiniano segnò una svolta decisiva per le scienze sociali, nata sulla scia delle affermazioni di fede darwiniana di tanta parte della cultura europea di fine Ottocento, viene considerata da oltre vent'anni (v. Burrow, 1968) poco più di un mito. L'opera di Darwin, pur nella sua genialità, si inquadra infatti in una complessa temperie culturale, nella quale la creazione di modelli storico-evolutivi nelle scienze sociali avvenne in modo del tutto autonomo - tanto da influenzare lo stesso Darwin di The descent of man (1871). L'impostazione socialdarwinista, pertanto, ebbe una matrice intricata in cui, accanto al darwinismo, svolsero una parte di primo piano il 'metodo comparato' dell'antropologia, il lamarckismo e, soprattutto, lo spencerismo. A complicare ulteriormente la scena vi è l'intreccio strettissimo che per tutto il secolo si diede fra discorso scientifico e valori e modelli teorici strutturanti la cultura borghese.
Visto retrospettivamente, l'elemento più rivoluzionario di The origin of species (1859) consiste nel fatto che, nella prospettiva della selezione naturale, l'ordine non risulta da una struttura archetipica che la storia realizza, ma da un insieme di leggi che sovrintendono ai meccanismi dell'evoluzione senza guidarla verso una meta precisa. Questa 'proceduralità aperta' è ciò che distingue The origin dall'opera di altri scienziati ai quali Darwin deve molto, quali Jean Baptiste Lamarck, il geologo Charles Lyell e il maggiore dei biologi epigenetici, Karl E. von Baer. L'evoluzionismo di The origin - le cui leggi, come notò Charles S. Peirce, sono statistiche e quindi probabilistiche - si contrappone anche ai modi in cui si venivano costituendo le scienze umane, ad esempio con Auguste Comte, la validità positiva della cui tipologia storica si fonda sul fatto che essa realizza potenzialità inerenti all'ordine naturale. È tuttavia innegabile che Darwin non fu del tutto cosciente degli aspetti rivoluzionari della sua teoria, in quanto profondamente partecipe di una cultura per la quale la storicizzazione delle scienze naturali e umane non si dissociava da un'impostazione finalistica che nell'idea di progresso aveva il proprio fulcro.
La feconda ambiguità di The origin fra 'casualità' delle variazioni e 'necessità' della sopravvivenza dei più adatti finì così col trasformarsi, nell'approccio socialdarwinista, in legge del progresso evolutivo.Onde chiarire le radici di questa vicenda occorre rivolgersi alla Gran Bretagna, anche se il quadro complessivo è quello della ridefinizione borghese dell'identità europea. Oltre Manica, infatti, nacque - in modo del tutto indipendente, anche se contestuale al darwinismo - l'antropologia evoluzionista che, possiamo ritenere, ha contribuito potentemente alla rifondazione dell'identità liberale una volta esauritasi la spinta dell'utilitarismo, giustificando in modo coerente con le svolte scientifiche intervenute la superiorità del modello individualista e dei valori positivi su cui esso si reggeva. Ciò che in questa sede interessa dell'antropologia evoluzionista è il 'metodo storico-comparato' da essa messo a punto per organizzare, sia spazialmente che temporalmente, la varietà delle esperienze umane. In base a esso si ritiene possibile analizzare le società primitive esistenti per indagare il passato delle società avanzate: la storia mostra infatti un'evoluzione verso forme di civiltà sempre più complesse e razionali, ma l'evoluzione non si svolge allo stesso modo e alla stessa velocità nelle diverse aree a causa della complessità dei fattori in gioco; le società umane esistenti mostrano pertanto contemporaneamente tutti gli stadi dello sviluppo dell'umanità.
Il presente viene, così, assunto come punto di vista privilegiato da cui ricostruire il percorso dell'evoluzione, servendosi anche di lontani postulati organicistici per i quali le istituzioni evolvono sviluppando potenzialità intrinseche. Sir Henry Maine, il cui Ancient law è del 1861, riassume quanto si è venuti dicendo. Egli, infatti, applicando il metodo storico-comparato alle istituzioni giuridiche del mondo ariano, formulò la legge secondo cui il progresso umano è consistito nel passaggio dallo status al contratto. Un'evoluzione in cui si contrappongono due tipi ideali, quello comunitario, fondato sull'appartenenza a un ceto, e quello individualista. Con ciò, al di là delle sue cautele sulla felice fortuità del passaggio da un tipo all'altro, egli propose una scala di valori fondata sulla superiorità della libera scelta individuale e, quindi, della civiltà inglese ed europea, capace di fondare l'ordine sociale sul principio della morale razionale del singolo che si impegna individualmente nel contratto.
Maine e gli altri fondatori dell'antropologia, John Lubbock, John McLennan, Edward B. Tylor e, negli Stati Uniti, Lewis Morgan, intesero studiare la vita sociale come una branca della scienza naturale, elaborando metodi empirici di analisi applicabili sia all'uomo che alla natura. Su questa strada, spinto dalla logica interna della sua opera e dall'influenza degli antropologi, si mosse anche Darwin, quando, con The descent of man, completò la sua ipotesi naturalistica inserendo l'uomo nel contesto dell'evoluzione e negandogli una posizione distinta in natura. Egli diede, in questo modo, fondamento al convergere di scienze biologiche e sociali; ma, paradossalmente, indebolì l'impostazione non finalistica e non antropocentrica di The origin.
Inconsciamente, infatti, Darwin prese a metro di paragone il modello dell'individuo liberale, come facevano gli antropologi, ricostruendo all'indietro nella vita animale le origini delle facoltà complesse che di tale individuo erano proprie. Come conseguenza creò una scala dell'evoluzione dei comportamenti razionali che suggeriva un forte parallelo fra il rapporto animali-uomo e quello società primitive-società avanzate. La sua opera complessiva e quella dei fondatori dell'antropologia ebbero pertanto un contenuto ideologico forte, essenziale alla ridefinizione dei valori liberali. Tutte rimasero, però, coerentemente limitate ad ambiti disciplinari precisi. Chi si propose come teorico dell'identità borghese, attraverso il compattamento di scienze fisiche, naturali e umane in un quadro evolutivo, fu invece Herbert Spencer, il cui evoluzionismo precede quello di Darwin e che fu in grado di inglobarlo nel sistema della 'filosofia sintetica'.
Autore oggi secondario, Spencer ebbe un'influenza enorme sulla cultura dell'Ottocento e con più di una ragione è stato indicato come il vero padre del darwinismo sociale. Anch'egli, al pari degli antropologi, prese le mosse dall'insoddisfazione nei confronti dell'utilitarismo, la cui ipotesi di una natura umana immutabile portava a postulare un'unica possibile soluzione ai problemi del bene e dell'utile, che la storia al contrario smentiva. Spencer trovò la soluzione nella teoria di un'evoluzione del sentimento morale, inserita in una metafisica naturalistica che faceva dell'evoluzione una legge cosmica. Al di là di suggestioni idealistiche, egli fondò il suo sistema su tre teorie scientifiche: il principio di conservazione dell'energia, formulato in termini generali da Hermann von Helmholtz, che gli fornì il modello di un universo dinamico in cui la continua trasformazione di materia in energia crea equilibri momentanei sempre rinnovati; la biologia di von Baer, il cui schema di sviluppo da forme di vita semplici e omogenee a forme complesse e differenziate gli indicò la direzione della dinamica universale; il lamarckismo, infine, che, con la teoria della trasmissione ereditaria dei tratti acquisiti, gli mostrò i meccanismi dell'evoluzione nel mondo animale.
Un evoluzionismo, quindi, fondato sul processo cosmico del continuo passaggio dall'omogeneo all'eterogeneo, che ricomprendeva necessariamente l'uomo, spiegandone la storia nei termini di un necessario progresso verso la perfezione, definita come razionalità efficiente dei singoli nel coprire ruoli sociali vieppiù differenziati. Un principio in cui era evidente l'influenza delle teorie economiche sulla divisione del lavoro filtrate attraverso i principî dell'etica protestante. Questo processo, pur benefico e necessario, non appariva a Spencer senza ostacoli e traumi, per la presenza della lotta per l'esistenza che gli scienziati, a partire da Lyell, ritenevano una legge di natura, pur senza darle un significato evolutivo. Egli, di conseguenza, fin da Social statics (1850), sostenne che la moderna società industriale è più benefica verso i suoi membri delle antiche, autoritarie e meno evolute società militari, e che i suoi complessi meccanismi di spontanea collaborazione fra i singoli non possono essere ostacolati. Ciò implicava una radicale difesa del laissez faire, forma tipica del contemporaneo stadio storico, e la denuncia degli interventi pubblici diretti a salvare dall'estinzione gli individui incapaci dell'autodisciplina necessaria a sopravvivere.
L'onnicomprensività dell'evoluzionismo spenceriano e il suo procedere per via analogica, sfruttando le irrisolte ambiguità che lo percorrono, gli consentirono di inglobare anche il darwinismo, facendone un supporto ulteriore alle proprie tesi. I complessi modi in cui ciò avvenne, attraverso una parziale accettazione della selezione naturale nella struttura lamarckiana dei Principles of biology (1867), non interessano in questa sede. Qui importa che il darwinismo con Spencer si trasformò da teoria probabilistica della mutazione in tassello di una metafisica naturalistica finalisticamente orientata a interpretare la storia umana. Il meccanismo della selezione naturale, ribattezzata da Spencer "sopravvivenza del più adatto" (survival of the fittest), divenne così un principio con cui spiegare la causazione naturalistica delle istituzioni e individuarne il necessario percorso. Un adattamento della concezione di Darwin a quella di Spencer in cui è già del tutto delineato il modello del darwinismo sociale.
Integrazione instabile di filosofia spenceriana, interazionismo ambientale lamarckiano, antropologia e darwinismo, il darwinismo sociale potrebbe dirsi consistere all'origine in un tentativo di rifondazione del sapere sociale allo scopo di dare una base naturalistica alla filosofia politica liberale. Le sue connotazioni di partenza non sono necessariamente conservatrici e corrispondono ai fini antiaristocratici e di secolarizzazione propri dell'ideologia progressista borghese. Non per nulla esso sorse ed ebbe un ruolo dominante in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, dove l'individualismo liberale aveva più salde radici.Come ha dimostrato Greta Jones, l'impalcatura intellettuale del darwinismo sociale venne costruita, oltre che da Spencer, il quale muoveva da posizioni radicali e libertarie, dai liberali inglesi, quel party of progress che continuava le battaglie della prima metà del secolo per la liberalizzazione e la secolarizzazione della società. Ai loro occhi il darwinismo costituiva una filosofia progressista perché forniva gli strumenti per collegare l'origine delle facoltà sociali e morali a un'interazione naturale fra i sensi e l'ambiente, impostando, inoltre, un'interpretazione evolutiva che premiava lo sviluppo di comportamenti razionali.
Nel 1872 Walter Bagehot, uno dei più eminenti intellettuali vittoriani, pubblicò con il titolo Physics and politics una serie di saggi in cui delineava lo sviluppo della società e dello Stato combinando sapientemente Darwin, Maine e Lamarck. Assunta la selezione naturale come principio guida e data per scontata l'analogia fra variazioni biologiche e innovazioni socioculturali, Bagehot vide nella capacità di produrre queste ultime la via che ha condotto al passaggio da società dispotiche basate sulla forza a società come quella romana, fondata sul diritto, fino al government by discussion inglese, culmine evolutivo della libertà e della ragione. A suo avviso, però, l'evoluzione non è stata un processo intenzionale, perché le innovazioni, spesso prodotto della cosciente creatività dei singoli, vengono integrate nella società attraverso un inconscio processo di imitazione sociale.
In questo modo egli forgiò uno strumento di analisi che gli consentì di concepire naturalisticamente sia il delicato equilibrio liberale tra individuo e società, sia la spontaneità della coesione sociale. Fondando quest'ultima su sentimenti inconsci e sulla loro conseguenza psicologica collettiva - il carattere nazionale - egli intese anche risolvere un problema classico del pensiero sociale inglese, quello del rapporto fra interesse individuale e morale pubblica, dimostrando che la selezione naturale nell'uomo è compatibile con comportamenti non egoistici e che l'evoluzionismo può dar vita a una morale secolarizzata.La questione era tanto importante che a essa si applicò lo stesso Darwin, il quale, in The descent of man, si servì della psicologia associazionista per individuare le cause naturali dell'altruismo nel valore di rinforzo che comportamenti di questo tipo assumono già nella vita sociale degli animali.
Un ulteriore svolgimento delle posizioni di Bagehot e Darwin può essere considerata The science of ethics (1882) di Leslie Stephen, opera nella quale l'autore individuava la molla dell'evoluzione umana nella morale, forza integratrice della comunità. Quest'ultima, che ha raggiunto il suo più alto livello evolutivo nella razza - concetto di matrice più culturale che biologica in Stephen -, è un "tessuto vivente" le cui cellule sono gli individui e che è tenuto assieme da catene di istituzioni e di valori trasmessi dalla famiglia. Sotto la pressione della lotta fra i gruppi, la morale si razionalizza e consente la crescita della libertà individuale. In questo modo si è giunti al sistema costituzionale britannico e Stephen prevede che l'umanità, rendendosi conto di dover lottare unita per la propria sopravvivenza, finirà con l'abolire le guerre.
Durante gli anni ottanta, con l'acuirsi dello scontro sociale in tutta l'Europa e con l'ondata nazionalista che accompagnò la competizione coloniale fra le maggiori potenze, il socialdarwinismo liberale si dimostrò incapace di adeguare il proprio metodo alla nuova realtà. Spencer, convinto che socialismo e imperialismo stessero facendo regredire l'Inghilterra allo stadio militare, in The man versus the State (1884) e in opere successive difese quasi istericamente un individualismo assoluto, onde evitare la paralisi del meccanismo progressista della selezione naturale; ma ottenne il solo risultato di divenire uno dei simboli della crisi del liberalismo classico e di dar vita allo stereotipo del socialdarwinismo conservatore.
Nel frattempo la teoria del "plasma germinale" del biologo tedesco August Weismann, secondo cui il materiale ereditario passa di generazione in generazione senza alcun rapporto con l'ambiente, diede un colpo gravissimo al lamarckismo sempre affiorante nei socialdarwinisti liberali e contribuì a rilanciare il dibattito in due direzioni opposte. Colpendo indirettamente l'idea naturalista della continuità fra evoluzione animale e umana, essa rilanciò la tesi di Alfred A. Wallace (a cui si deve con Darwin la scoperta dell'evoluzione) secondo cui esiste una discontinuità fra le due, dal momento che quella umana ha carattere 'spirituale' o 'culturale'. Su queste basi ci si avviò in una direzione che finì col confluire nell'evoluzionismo spiritualista.
Nel 1893 Thomas H. Huxley in Evolution and ethics sostenne che l'umanità, con l'esclusione dei suoi primissimi stadi, si è sviluppata attraverso la crescita di sentimenti razionali di solidarietà, in una infinita lotta dell'uomo contro la natura che non ha una precisa tendenza di progresso. L'anno successivo Benjamin Kidd, con Social evolution, capovolse la tesi di Huxley, facendo dell'evoluzione umana una lotta contro la ragione che, nel suo egoismo utilitarista, distruggerebbe la società. Spinto dal suo istinto sociale, l'uomo si affida a un elemento "ultrarazionale", la religione, che difende la sua socialità e le sue capacità evolutive. Nell'opera di Kidd, che nega i capisaldi della centralità della competizione individuale e dello sviluppo della razionalità nell'evoluzione, può scorgersi la dissoluzione del tentativo liberale di dotarsi di un'ideologia naturalista. Il liberalismo evoluzionista inglese poté uscire dalla propria crisi solo muovendo, attraverso l'idealismo di Thomas H. Green, verso l'evoluzionismo spiritualista di Leonard T. Hobhouse, il cui new liberalism, matrice del riformismo inglese del Novecento, interpreta l'intero processo evolutivo come sviluppo della 'mente' nella storia (Development and purpose, 1913; Mind in evolution, 1901).
Non è però a personaggi pur significativi come Hobhouse che ci si deve riferire trattando di socialdarwinismo, perché in essi il naturalismo è ormai stemperato al punto da perdere consistenza; bensì alle teorie che costituiscono l'altra interpretazione delle tesi di Weismann sull'ereditarietà, quella che, nel clima dei dibattiti di fine secolo sull'irrazionalismo e sull'imperialismo, portò alla ribalta i temi dell'istinto e della razza. In quest'ottica occorre guardare all'eugenetica, che Francis Galton creò per individuare, con strumenti statistici e antropometrici, in quali gruppi sociali si trovino le caratteristiche socialmente desiderabili e per incoraggiare, con l'intervento dello Stato, tali gruppi a riprodursi il più possibile per migliorare la struttura genetica della razza (Hereditary genius, 1869; Natural inheritance, 1889).
Sebbene si proponesse alcuni fini propri del movimento liberale, come la lotta all'aristocrazia - i cui privilegi considerava 'disgenici' -, l'eugenetica si fondava su premesse intimamente illiberali. Ciò non tanto per l'accettazione dell'intervento pubblico o per l'arbitrarietà dei criteri di valore assunti, quanto perché negava la rilevanza dei fattori culturali e dell'attività cosciente dei singoli, legava l'evoluzione alla volontà programmatrice di gruppi sociali autodichiaratisi geneticamente adatti e tendeva a chiudere l'individuo in un destino ereditario senza scampo.Galton, sebbene le sue teorie mostrino il piano inclinato su cui il fallimento del socialdarwinismo liberale aveva posto l'avventura del naturalismo evoluzionista, era un positivista che fondava l'evoluzione su comportamenti e valori razionali che intendeva promuovere favorendo la riproduzione di chi geneticamente li possedeva.
L'eugenetica non è, pertanto, assimilabile a buona parte delle teorie istintuali a essa contemporanee, nelle quali la predisposizione naturale a determinati tipi di comportamento è legata al continuo riemergere di istinti primitivi che minacciano la civiltà, dando luogo a una lotta fra natura e cultura. È questo che afferma, ad esempio, Wilfred Trotter in Instincts of the herd in peace and war (1916), sostenendo che l'istinto del branco - dipinto in modo simile alla 'folla' di Gustave Le Bon - tende costantemente a sopraffare l'individuo emancipato. Sebbene non mancassero tesi, come quella dello psicologo William McDougall (Body and mind, 1911), che davano spazio alla forza dell'intelligenza, capace di modificare l'istinto, le teorie istintuali fornirono soprattutto materiale per una visione pessimistica della 'natura' umana - termine quanto mai lontano dallo spirito darwiniano - e per un'interpretazione gerarchica della società e dei rapporti fra le società umane.
Il razzismo implicito nelle teorie istintuali emergeva già in Stephen, il cui liberalismo era condizionato dalla nozione del ritardo evolutivo della razza negra; ma il suo ragionamento aveva ancora basi razionali e positive. A fine secolo lo stereotipo dell'inferiorità dei Negri venne slegandosi dal presupposto di un ritardo in qualche modo colmabile in tempi storici, per divenire un'apologia dell'inferiorità della 'natura' dei Negri, istintivi e perciò irrazionali. In questo può vedersi un mutamento della stessa nozione di istinto - in parte attribuibile al clima creato dalla filosofia di Henri Bergson -, non più visto come predisposizione a dati tipi di comportamento legata al meccanismo evolutivo, ma come forza ultrarazionale o irrazionale che, pur necessaria a fondare la coesione di gruppo, impedisce, ove non intervengano mutazioni genetiche del tipo di quelle intervenute nella razza bianca, lo sviluppo di una razionalità cosciente.
Su questa base il razzismo si collegò alla teorizzazione dell'imperialismo, come nel caso dell'antropologo Alfred C. Haddon, il cui The study of man (1898) collega l'osservazione sul campo alle teorie istintuali ed eugenetiche, per concludere che vi è una connessione diretta fra struttura fisica delle razze e cultura, e che fra le razze e le nazioni si istituisce una gerarchia naturale di comando legata alle rispettive caratteristiche psicofisiche.La parabola dal socialdarwinismo liberale a quello imperialista e razzista si svolse in parallelo alla crisi del liberalismo classico e al polarizzarsi della lotta politica inglese, che portò da un lato alla nascita del Partito Laburista e dall'altro a un conservatorismo che tradusse la diffidenza liberale verso la democrazia in una reazione spaventata davanti all'avanzare delle masse, nemiche della civiltà e manipolabili in vista della sua distruzione perché geneticamente regressive.Con queste teorie il naturalismo evoluzionista veniva a risolversi in una geremiade sulla decadenza della società occidentale.
Negli Stati Uniti l'applicazione dell'evoluzionismo alle teorie sociali seguì una scansione storica simile a quella inglese; ma ebbe toni tanto conflittuali da farne la nazione ove lo stereotipo conservatore del socialdarwinismo raggiunse la maggior diffusione. Dagli anni sessanta ai primi anni ottanta del secolo scorso il darwinismo, il cui implicito materialismo scardinava i presupposti della cultura intensamente cristiana d'oltreatlantico, parve il corrispondente intellettuale delle forze apparentemente caotiche che stavano trasformando gli Stati Uniti in potenza industriale sconvolgendone la società.
Tuttavia la profonda fede americana nel progresso e la tradizionale alleanza fra protestantesimo e baconianesimo consentirono di recepire il darwinismo, ma solo dopo averlo 'tradotto' nei termini di un processo teleologico leggibile in chiave religiosa. L'operazione, iniziata dal principale teologo presbiteriano, James McCosh (Christianity and positivism, 1871), che accettò l'evoluzionismo, anche se soltanto per il mondo animale, venne portata a termine dal predicatore Henry Ward Beecher, il cui Evolution and theology (1883) interpretò la redenzione come evoluzione dell'uomo dallo stato animale allo stato spirituale, obliterando in pratica la nozione di peccato originale.
L'assimilazione dell'evoluzionismo avvenne, però, soprattutto attraverso lo spencerismo, in quanto la 'filosofia sintetica' era più facilmente riconducibile a una visione cristiana, o almeno teistica, e il lamarckismo di Spencer veniva visto con favore da una cultura che sull'interazione con la natura fondava la propria morale individualistica di autenticità e di duro lavoro. Edward L. Youmans, fondatore nel 1872 di "Popular science monthly", e suo fratello William furono i principali portavoce dello spencerismo, con cui intendevano costruire una morale scientifica in grado di mettere ordine nel caos che industrializzazione, urbanizzazione e immigrazione provocavano nel tessuto sociale. Al pari dei liberali inglesi, anche se in un contesto assai diverso, essi interpretavano la lotta per l'esistenza in termini morali più che economici, in ciò affiancati dal popolarissimo John Fiske, il cui spiritualismo indica la svolta che la cultura americana impresse al positivismo.
In Outlines of cosmic philosophy (1874) egli introdusse l'idea di un Dio immanente nelle operazioni della natura e negò, con Wallace, l'applicabilità della selezione naturale all'uomo, il meccanismo della cui evoluzione scorse nella sua capacità di trasmettere cultura ai figli.L'assimilazione dell'evoluzionismo all'ideologia americana del progresso, pur potendosi ritenere un fatto compiuto a partire dagli anni ottanta, si scontrò con i problemi dell'individualismo liberale in modo ancor più netto di quanto non avvenne in Inghilterra. L'ideologia dominante, che legava indissolubilmente individualismo e democrazia, parve infatti sfaldarsi negli ultimi decenni dell'Ottocento, di fronte al prepotente crescere di gruppi economici il cui potere sembrava negarli entrambi, all'alterazione dei ruoli sociali e all'immigrazione di massa da paesi di cultura assai diversa da quella anglosassone. Un capitalista eterodosso come il magnate dell'acciaio Andrew Carnegie, preoccupato per le conseguenze sulla democrazia della sfrenata lotta in campo economico, volle combinare, in The gospel of wealth (1889), spencerismo e ideale cristiano del 'servizio' al fine di dare un ruolo socialmente positivo ai grandi industriali; ma il suo tentativo non ebbe seguito.
La critica sociale identificò, infatti, individualismo e darwinismo e, pur mantenendosi nell'alveo dell'evoluzionismo, attaccò l'applicazione della selezione naturale alla società umana e, in particolare, l'autore divenuto simbolo del socialdarwinismo conservatore, William Graham Sumner.Sumner era, in realtà, un pensatore in buona parte autonomo da Spencer e Darwin. Rigido positivista, malthusiano, egli intese indagare le leggi scientifiche dell'evoluzione al fine di comprendere gli sconvolgimenti in corso in una prospettiva universale. Il suo contributo alla teoria sociale dell'evoluzione consistette nel distinguere la 'lotta per l'esistenza' che, in termini malthusiani, la razza umana combatte contro la natura, dalla 'concorrenza' fra gli uomini, che è un fatto sociale.
In What social classes owe to each other (1883) egli ne dedusse che la prima è una lotta socializzante, nella quale i gruppi sono spinti a rafforzare la propria coesione interna, la seconda, invece, nasce dal fatto che molti individui non posseggono le virtù del sacrificio e dell'autodisciplina necessarie a sopravvivere utilmente e debbono pertanto scomparire. L'antagonistic cooperation su cui, a suo parere, si fonda la società lo portò su quelle posizioni di laissez faire e di assoluto antistatalismo che spinse i riformatori a costruire su di lui la categoria polemica del socialdarwinismo; ma gli consentì anche di studiare i 'costumi' elaborati dai gruppi per mantenere la coesione sociale. Da ciò nacque il suo capolavoro, Folkways (1906), che lo pone fra i pionieri della sociologia novecentesca. Quest'opera giunse, però, quando si erano ormai consolidati sia la sua fama di conservatore, sia il suo pessimismo circa la democrazia, legato al sorgere dell'imperialismo e al declino dei 'virtuosi' cittadini della classe media di fronte all'incalzare dei grandi capitalisti.
Gli attacchi a Sumner e a quanti vedevano l'evoluzione umana come il prodotto della sopravvivenza del più adatto nel mercato provennero dai riformatori utopisti, quali Henry George e Edward Bellamy, dai teologi progressisti del Social gospel, come Washington Gladden, e dagli scienziati sociali che, negli Stati Uniti, fecero la loro comparsa durante gli anni ottanta e novanta. Tutti definirono il darwinismo individualista una teoria materialista e fatalista che sottoponeva l'uomo alla regola della vittoria del più forte e negava il solidarismo che essi consideravano necessario a superare il caos sociale. Ciò nonostante rimasero evoluzionisti, anche se cercarono di spingere la teoria evoluzionista verso approdi cristiani servendosi di Wallace e di St. George J. Mivart. Fra tutti spicca Lester Frank Ward, padre della sociologia americana, che respinse il biologismo del survival of the fittest a favore di un approccio psicologico basato su fondamenti neolamarckiani.
In Dynamic sociology (1883), Pure sociology (1903), Applied sociology (1906) egli distinse nettamente fra la dispendiosa, lenta e conflittuale evoluzione genetica che si dà in natura e quella 'telica', cosciente ed efficiente propria dell'uomo. Sebbene quest'ultima non possa fare a meno del conflitto e della selezione fra individui e razze - un punto su cui Ward segue i sociologi austriaci Gumplowicz e Ratzenhofer -, il processo telico sostituisce a poco a poco quello genetico e ciò porta a una crescita della solidarietà che, come dimostra il sorgere di servizi pubblici e di un sistema di istruzione pubblica, punta verso una sociocrazia razionale ed efficiente che costituisce il futuro prossimo dell'umanità. Accanto a lui gli economisti della scuola storica, come Richard T. Ely, e gli altri maggiori esponenti della nascente sociologia, da Edward A. Ross ad Albion Small, si servirono di un'impostazione evoluzionistica per approdare all'idea che l'evoluzionismo liberale, che restava il loro punto di riferimento, per non cadere nella barbarie del dominio del più forte o nella lotta di classe deve servirsi di 'meccanismi artificiali', cioè di istituzioni razionali affidate a esperti capaci di organizzare in modo efficiente i singoli comparti della vita sociale.
Con teorie di questo genere un'importante corrente dell'evoluzionismo americano superò l'impasse in cui vennero a trovarsi i darwinisti liberali inglesi, i quali, per aver voluto rimanere tecnicamente all'interno dei principî dell'evoluzionismo biologico, non riuscirono a trovare risposte alla svolta provocata dal conflitto di classe, che aveva dato carattere eversivo alla concorrenza economico-sociale fra gli individui postulata come fonte di ordine dal liberalismo classico. Meno rigorosi, gli evoluzionisti d'oltreatlantico si rivelarono più creativi e svilupparono teorie sociali che, abbandonando gradualmente il naturalismo biologico a favore di approcci psicosociologici, si dimostrarono in grado di misurarsi con le trasformazioni in corso e con gli aspetti potenzialmente eversivi della lotta politica, ideando riforme tecnocratiche e solidaristiche che divennero tipiche del liberalism americano.
A questo proposito è senza dubbio utile ricordare che da radici evoluzioniste uscì anche la filosofia pragmatista; così come non si può dimenticare il più originale economista americano del periodo, Thorstein Veblen, il cui contributo al superamento dell'economia classica in direzione di un approccio istituzionale (The theory of the leisure class, 1899) nacque da un'analisi, di ispirazione darwiniana, del susseguirsi storico delle istituzioni economiche, determinate da interessi economici anch'essi da storicizzare in base ai principî della selezione naturale.
Quanto detto finora non significa che negli Stati Uniti, così come in Inghilterra, non ci sia stato fra i due secoli un darwinismo sociale razzista e imperialista. Oltreatlantico la tematica evoluzionistica della gerarchizzazione delle razze e delle culture - denunciata da McCosh - assunse aspetti di drammatica attualità a causa dell'immigrazione e del problema negro. La prima spinse i maggiori fra i sociologi, come Ward e Ross, a teorizzare l'organizzazione efficiente della società anche per impedire la sovversione della cultura americana da parte di immigrati culturalmente o razzialmente inferiori. Il secondo, negli anni in cui si risolveva il problema politico dei rapporti fra Bianchi e Negri con la segregazione razziale, diede vita a due correnti di pensiero evoluzionista.
Una, dai toni neolamarckiani, vedeva la possibilità di una rapida evoluzione per i Negri attraverso l'educazione (Charles A. Ellwood, Sociology and modern social problems, 1910). L'altra, della biologia neodarwiniana, la negava sostenendo, con Frederick L. Hoffman (Trends and tendencies of the American negro, 1896) e William Smith (The color line, 1905), che ogni forma di aiuto economico o politico ai Negri andava contro i loro stessi interessi evolutivi, che, in nome della selezione naturale, consistevano nella progressiva eliminazione di tutti gli individui di razza negra psichicamente inadatti.
Negli ultimi due decenni del secolo il nazionalismo statunitense, costruito attorno all'idea del 'destino manifesto' degli Americani di portare a perfezione la democrazia, secondo la volontà divina, prese a nutrirsi di idee legate alla missione civilizzatrice degli anglosassoni. In questa direzione mosse Fiske, che notava come fossero stati i popoli di lingua inglese a creare lo stadio evolutivo più avanzato, quello della società industriale. Nel 1885 gli fece eco il pastore Josiah Strong che, con Our country, intendeva sostenere lo sforzo missionario protestante nel mondo per giungere a una federazione di popoli guidati da quelli di cultura inglese. Simili tesi costituiscono l'humus dello specifico imperialismo americano, in cui i motivi economici si sommano alla volontà di democratizzare secondo il modello statunitense i popoli meno avanzati.
Un humus che sottende i temi del dibattito sull'annessione o meno delle colonie spagnole conquistate con la guerra del 1898 e che si ritrova negli scritti dei teorici della nascente potenza navale americana, Stephen B. Luce e Alfred T. Mahan. Con The influence of sea power upon history, 1660-1783 (1890) di Mahan siamo, però, ai limiti estremi in cui il socialdarwinismo si stempera in un linguaggio evoluzionista che fa semplicemente da supporto a un approccio politico originale, quello geopolitico: a riprova di quanto detto sulla diffusione di un paradigma culturale che con il pur sfuggente metodo socialdarwinista non è affatto identificabile.
L'evoluzionismo divenne una 'lingua franca' anche nell'Europa continentale. Qui, però, interagì con tradizioni politiche e culturali assai diverse da quelle angloamericane, per cui, sebbene in Inghilterra e negli Stati Uniti venissero spesso definiti come 'socialdarwinisti' il nazionalismo e l'espansionismo tedeschi, risulta difficile parlare di un coerente darwinismo sociale, anche nei termini generali in cui se ne è trattato finora.La Francia fu senza dubbio la nazione che, per la sua tradizione positivista, si appropriò con maggiore efficacia del darwinismo, che assunse un ruolo rilevante nell'ideologia repubblicana della III Repubblica. Si trattò di una recezione che, per quanto ufficializzata dalle direttive del Ministero della Pubblica Istruzione per l'insegnamento scientifico e sociale, non fece del darwinismo lo strumento concettuale di un tentativo di rinnovata analisi teorica, come avvenne per i liberali inglesi, ma lo usò all'interno di teorie già costituite. La profonda tensione fra i termini liberté e fraternité, propria del repubblicanesimo e che questo risolse esaltando il secondo attraverso il nazionalismo e mantenendo il primo in campo economico, in un contesto di secolarizzazione della società e di statalismo burocratico, si rifletté in un uso dell'evoluzionismo in cui la solidarietà acquistò preminenza sul conflitto interindividuale.
Così Clémence-Auguste Royer, la prima traduttrice di Darwin (1862), accettò l'evoluzionismo ai fini di una forte polemica antireligiosa e per sostenere il laissez faire, ma nelle opere successive, fino a Le bien et la loi morale (1881), diede sempre maggior spazio alla subordinazione degli interessi individuali a quelli collettivi e alla solidarietà nazionale, necessaria alla Francia nella competizione con gli altri Stati. Questa posizione, intesa a combattere sia la destra che la sinistra, si ritrova negli scritti di uomini politici come Clémenceau e Jules Ferry e venne tradotta in termini darwiniani e spenceriani da pubblicisti quali Alfred Fouillée e Ferdinand-Camille Dreyfus. Un ancor più forte accento sugli esiti solidaristici dell'evoluzione si trova fra i repubblicani radicali, il cui principale esponente, Léon Bourgeois, proclamò in Solidarité (1896) che l''unione', non la lotta per la vita, era il principio sociale evolutivamente adatto al mondo contemporaneo.
La compenetrazione tra idee darwiniane e spenceriane e ideali repubblicani, nonché la posizione ufficiale dell'evoluzionismo nella cultura dominante di fine secolo non devono far dimenticare che è al di fuori dei circoli repubblicani che troviamo i tre autori ai quali i contemporanei attribuirono l'appellativo di 'darwinisti sociali'. Il sociologo cattolico Edmond Demolins, in À quoi tient la supériorité des Anglo-Saxons? (1897), assunse il punto di vista della selezione naturale per invitare i Francesi ad abbandonare il tradizionalismo e accettare in politica, come in economia e nell'educazione, il vigile individualismo anglosassone al fine di modificare il loro carattere nazionale e divenire più competitivi. Gustave Le Bon non accettò l'approccio culturale di Demolins e seguì la via di un rigido determinismo biologico che lo portò a sostenere l'inevitabilità del conflitto nella storia umana.
Egli, quindi, non solo accettò l'antistatalismo in nome della sopravvivenza del più adatto, ma, in Les premières civilisations (1889), sostenne contro Spencer che la guerra è evolutivamente necessaria e in Lois psychologiques de l'évolution des peuples (1894) si rifece ancora al determinismo biologico per stabilire, contro i teorici dell'interazionismo ambientale, la superiorità genetica della razza indoeuropea. Nella sua opera più famosa, La psychologie des foules (1895), infine, trattò la decadenza delle civiltà, che si verifica quando, come nelle democrazie di massa, l'individualismo cede il passo alle folle, irresponsabili, manipolabili e pronte ad arrendersi allo Stato.Le Bon segna la svolta verso quel superamento del liberalismo classico che abbiamo visto incidere profondamente anche sul mondo angloamericano.
Nello smarrimento che accompagnò questo fenomeno si diedero commistioni teoriche il cui principale risultato fu l'attacco a ogni forma di democrazia e di eguaglianza. Esempio di tali commistioni fu Georges Vacher de Lapouge, la cui convinzione circa l'ineguaglianza fra gli uomini come conseguenza della selezione naturale lo portò per un certo periodo al socialismo, nella speranza che esso avrebbe rimosso le forme di selezione sociale - religione, economia, guerra - che nelle società moderne impediscono quella naturale. Successivamente, però, con L'Aryen (1899), egli mosse verso un programma eugenetico radicale, destinato a rafforzare i dolicocefali assediati dalle inferiori razze brachicefale. Con le sue "undici leggi dell'antroposociologia" Vacher de Lapouge divenne uno dei principali esponenti del razzismo europeo e sviluppò anche un acceso antisemitismo, individuando negli Ebrei, razza 'artificiale' perché fondata solo sulla cultura, gli unici potenziali avversari del dolicocefalo Homo europaeus.Il mondo tedesco non si sottrasse all'influenza dell'evoluzionismo.
Tuttavia, per le condizioni politiche ed economiche degli Imperi germanico e austroungarico e per la scarsa omogeneità tra le loro principali correnti culturali e l'individualismo liberale, l'evoluzionismo naturalista non vi divenne matrice di un'elaborazione teorica dominante nel campo delle scienze sociali. Esso dovette, pertanto, adattarsi e incorporarsi nella complessa trama esistente, tanto che risulta obiettivamente difficile, a causa della loro complessa matrice, definire socialdarwiniste, se non in senso polemico, le teorie sulla grandezza germanica di autori quali il generale Friedrich von Bernhardi o l'antropologo Felix von Luschan, che pur esaltarono la guerra servendosi del concetto di lotta per l'esistenza, teorie che i contemporanei etichettarono come socialdarwiniste. Conviene allora estrapolare alcune tendenze dall'intricato disegno del periodo.
La prima è la commistione, assai più accentuata che altrove, fra evoluzionismo e organicismo (basti pensare all'opera di Albert Schäffle, Bau und Leben des sozialen Körpers, 1875-1878); la seconda è l'accento posto sul conflitto fra gruppi a preferenza di quello fra individui; la terza è il ripudio o almeno il sospetto nei confronti della metafisica naturalistica che costituisce il nucleo del positivismo evoluzionista. Su queste basi l'evoluzionismo venne incorporato nella cultura tedesca; il che non toglie sia possibile individuare una corrente di pensiero positivista, erede della tradizione materialistica tedesca, che più di ogni altra si avvicina alle elaborazioni darwiniane. Il biologo Ernst Haeckel (Anthropogenie oder Entwicklungsgeschichte des Menschen, 1874; Die Lebenswunder, 1904) e il chimico Wilhelm Ostwald (Der energetische Imperativ, 1912) formularono, infatti, teorie universali dell'evoluzione nelle quali l'uomo era descritto come il fine del processo evolutivo e la scienza come la massima espressione delle sue capacità, lo strumento con cui costruire la pace sotto la guida delle nazioni più avanzate e, per Haeckel, sotto quella di aristocrazie biologiche.
Un'identica fede nella scienza e nel progresso si ritrova nell'opera di Franz Carl Müller-Lyer, il quale, prendendo le mosse dalle concezioni di Spencer e Morgan, tentò di delineare le fasi dello sviluppo della cultura umana, il cui meccanismo evolutivo egli ritrova nell'effetto liberatore dei contatti, pur spesso violenti, fra gruppi umani.Questo tema, tratto da Ludwig Gumplowicz, ci riporta alla sociologia austriaca del conflitto, la più influente scuola evoluzionista germanica, di cui lo stesso Gumplowicz, insieme a Gustav Ratzenhofer, fu il principale esponente. Gumplowicz (Grundriss der Soziologie, 1885; Die soziologische Staatsidee, 1892) definì la sociologia come la scienza dell'interazione fra i gruppi e delineò l'evoluzione del processo interattivo dall'orda primitiva fino allo Stato, servendosi di un modello conflittuale fondato sulla lotta per l'esistenza.
Influenzato da Comte e da Gobineau, oltre che da Darwin, negò l'inevitabilità del progresso e, pur individuando nello Stato una forma evolutivamente superiore, aderì a una visione ciclica della storia. Ratzenhofer (Wesen und Zweck der Politik, 1893; Soziologie: positive Lehre von der menschlichen Wechselbeziehungen, 1907) si colloca in una posizione prossima a quella di Gumplowicz e incentra la sua analisi sull'ostilità evolutivamente inevitabile fra gli uomini, da cui trae la conseguenza di una necessaria gerarchia fra le razze e le nazioni; tuttavia conserva la fiducia nel progresso, capace di trasformare conquista e sfruttamento in una partecipazione equa e attiva di tutti ai vantaggi della civiltà.
Un cenno finale merita lo psicologo Wilhelm Wundt, fondatore dell'evoluzionismo spiritualista. Wundt non appartiene certo all'ambito del darwinismo sociale, ma è un esempio - come Hobhouse in Inghilterra - dell'intreccio che si venne a creare fra evoluzionismo e altre correnti di pensiero fino all'esaurirsi del nocciolo naturalista e positivista del primo. Per Wundt, infatti, l'evoluzione consiste in un processo di 'sintesi creativa' da cui emergono formazioni psichiche nuove e sempre più alte che danno luogo ai valori (Logik, 1880-1883). Di conseguenza, il progresso si realizza attraverso i motivi psicologici che agiscono nei singoli e nelle comunità, e la storia può essere considerata una forma di psicologia applicata (System der Philosophie, 1889; Elemente der Völkerpsychologie, 1912).
Il caso dell'Italia è tutto sommato periferico nell'ambito europeo, anche se è indubbio che positivismo ed evoluzionismo giocarono un ruolo importante nella modernizzazione della cultura italiana postunitaria. In questo quadro non è facile trovare contributi originali al darwinismo sociale, né a quello liberale, né a quello razzista o imperialista. La vocazione tutto sommato moderata della cultura italiana è compendiata nell'atteggiamento prudente di Giovanni Canestrini, primo traduttore (1864) e principale sostenitore di Darwin in Italia, il quale in rare occasioni accettò di discutere le conseguenze sociali del darwinismo, che riteneva, a ogni modo, puntassero nella direzione di un riformismo socialisteggiante (Per l'evoluzione, 1894).
Nell'ampia, anche se non innovativa, letteratura è chiara la tendenza ad accentuare gli aspetti cooperativi, più che quelli conflittuali, dell'evoluzione. Così nel caso di Paolo Mantegazza, per il quale la legge universale dell'evoluzione realizza un'idea umanistica di progresso, come in quello di Michelangelo Vaccaro (La lotta per l'esistenza e i suoi effetti per l'umanità, 1901), che considera inaccettabile l'idea che l'adattabilità a un determinato ambiente costituisca un criterio di valore per determinare chi è migliore, onde nel mondo umano la competizione non deve prevalere su ogni altra considerazione, o, infine, nel caso di Enrico Ferri (Socialismo e scienza positiva, 1894), noto a livello internazionale per aver sostenuto la compatibilità tra Darwin, Spencer e Marx, nonché gli esiti socialisti dell'evoluzionismo.
I due nomi a cui resta legata la memoria del positivismo evoluzionistico italiano sono, però, quelli del filosofo Roberto Ardigò e del criminologo Cesare Lombroso. Quest'ultimo è quello a cui meglio si adatta la qualifica di socialdarwinista. Ardigò, pur muovendo da Spencer, propose una fondazione psicologica, non biologica dell'evoluzione, che riteneva fosse un continuo processo per cui l'"indistinto" diviene distinto, pur rimanendo sempre un ineliminabile orizzonte che, a suo parere, dovrebbe sostituire l'"inconoscibile" di Spencer (La psicologia come scienza positiva, 1870; La dottrina spenceriana dell'inconoscibile, 1898). Lombroso, fondatore dell'antropologia criminale, trasse da basi strettamente biologiche ed evoluzionistiche la teoria dell'atavismo, secondo la quale in gran parte dei criminali si ripresentano i caratteri di antenati remoti della specie umana, per cui i criminali stessi rappresenterebbero un caso di evoluzione regressiva (L'uomo delinquente, 1876). Nelle sue opere troviamo influssi diversi, anche predarwiniani (la teoria della ricapitolazione e la teratologia, ad esempio), un'ulteriore prova della complessità del naturalismo ottocentesco. Proprio per questo Lombroso resta un esponente dei più tipici della cultura positivista europea, come testimonia la notorietà internazionale da lui raggiunta.
Non è contraddittorio con l'impostazione data a queste pagine dedicare alcune considerazioni al rapporto fra socialdarwinismo e socialismo, pur essendo vero che fra le due correnti vi fu una sorta di guerra naturale. Basti ricordare, nell'Ottocento, lo sprezzante appellativo di "grande eunuco" dato da Antonio Labriola a Spencer e gli attacchi di Filippo Turati a Lombroso a proposito della natura sociale della delinquenza; nonché, nel secondo dopoguerra, il tono liquidatorio con cui György Lukács denunciò la natura ideologica dell'evoluzionismo sociale e del suo tentativo di oggettivare naturalisticamente il conflitto di classe. Ciò nonostante, il darwinismo, che negava l'idea dell'uomo come imago Dei e metteva in crisi quella di un disegno divino nella natura, non poteva non interessare gli autori socialisti. Karl Marx colse proprio questi punti e Friedrich Engels riprese i temi di The descent of man, così come sposò l'antropologia di Morgan. Entrambi confutarono, però, l'automatica trasposizione alla società dei principî della selezione naturale, che avrebbero portato a un individualismo antidialettico e ideologico. Su questo tema si soffermò appunto Engels nell'Anti-Dühring (1878), nel momento stesso in cui ribadiva un approccio di tipo naturalista ed evoluzionista.
Il complesso rapporto fra darwinismo e dialettica in Engels e Marx diviene più fluido in altri autori. Ciò è particolarmente vero per Karl Kautsky, il quale mosse da Haeckel a Darwin alla ricerca di una soluzione materialista al problema dell'origine dei sentimenti morali e della solidarietà di gruppo, e da qui pervenne al marxismo e a una concezione della storia come insieme di leggi oggettive che si svolgono con necessità naturale (Ethik, 1906; Die materialische Geschichtsauffassung, 1927). La facilità con cui Kautsky intreccia darwinismo e marxismo lo porta a una sorta di determinismo storico parallelo a quello spenceriano e non allontana il sospetto che egli abbia abbracciato con eccessiva spigliatezza due prospettive teoriche sostanzialmente contrastanti. Diverso è il caso di quegli autori, revisionisti o ai margini del marxismo, che da Darwin e dalle sue teorie sulle origini della solidarietà di gruppo trassero conseguenze favorevoli al socialismo. Gli esempi sono numerosi, a partire dal famoso scontro a distanza fra Haeckel e Rudolf Virchow del 1878, in cui quest'ultimo, pur non essendo socialista, difese contro il primo la compatibilità fra darwinismo e socialismo, al nostro Ferri, all'economista belga Émile de Laveleye, che, attaccando Spencer, fu tra i primissimi a usare l'espressione "darwinismo sociale" (L'État et l'individu, 1885), al francese Georges Renard (Régime socialiste, 1898), all'americano Ernest Untermann (Science and revolution, 1905).
L'elenco potrebbe continuare e dovrebbe comprendere il socialismo inglese, che, interpretando la rivoluzione essenzialmente come fenomeno morale, si sposa al fabianesimo. La più forte e internazionalmente nota valutazione della natura darwiniana del principio cooperativo venne dall'esule anarchico russo Pëtr Kropotkin, che, in una serie di saggi culminati in Mutual aid (1902), intese capovolgere la tesi di Huxley sull'ostilità fra natura e cultura, dipingendo della prima una immagine benevola in cui si moltiplicano gli esempi di cooperazione all'interno delle diverse specie, per giungere ad affermare la necessità evolutiva del mutual aid anche per la specie umana.
L'excursus fin qui compiuto è stato diretto a mostrare che le cautele della storiografia più recente sulla concettualizzazione del darwinismo sociale sono essenzialmente corrette, ma che è, tuttavia, possibile individuare, all'interno del naturalismo scientifico ottocentesco, un approccio definibile socialdarwinista. Tale approccio fu uno dei prodotti della volontà positivista di dar vita a una visione del mondo fondata su un insieme integrato di grandi leggi scientifiche capaci di spiegare e organizzare razionalmente i diversi ambiti della vita umana. Di conseguenza esso divenne strumento - non unico - del processo di secolarizzazione della cultura europea e di ridefinizione del significato di quest'ultima in rapporto alle culture che gli Stati europei incontravano nella loro espansione coloniale e imperialista.
A partire da queste proposizioni generali è possibile cogliere la vicenda socialdarwinista, nei suoi complessi e contraddittori incroci fra scienza, ideologia e politica, come parabola di un approccio che si rivelò fecondo, ma al tempo stesso incapace di darsi un'organizzazione coerente e in grado di ricomprendere in sé i rapidi mutamenti politici e scientifici che si diedero nei decenni fra Ottocento e Novecento.Del tutto assodata appare ormai la matrice liberale e liberalizzante, non conservatrice, del darwinismo sociale, così come il carattere etico del suo individualismo razionalista e secolare. I socialdarwinisti liberali instaurarono, infatti, una stretta analogia fra principio biologico della selezione naturale e principio economico del mercato sulla base di quello che per loro era un fondamento creatore di moralità presente in entrambi: la sempre maggior razionalità di comportamento che i due principî provocano nei singoli. Non sminuisce quanto appena detto il riconoscere la natura ideologica assai più che scientifica di tale analogia; anzi, ciò contribuisce a farne cogliere tutto lo spessore politico.
Altrettanto vero è che la rigida applicazione dell'analogia, nonché del principio naturalista dell'assoluta continuità fra evoluzione naturale e umana, impedì di dare un fondamento scientificamente valido alle specifiche caratteristiche umane della volontarietà dell'azione e della socialità. Il principio dell'altruismo, identificato da Spencer e Darwin, non poteva, infatti, bastare a colmare l'assenza nell'evoluzionismo di una specifica teoria della società e della cultura. Cosa che non mancarono di rilevare né Marx, né il fondatore dell'antropologia funzionalista, Franz Boas. Le conseguenze di questa strozzatura - già rilevata, e risolta in senso spiritualista, da Wallace - balzarono alla ribalta con la crisi dello Stato liberale negli anni ottanta e novanta, che spezzò l'originario tentativo di sintesi socialdarwinista proiettandone i frammenti, come si è visto, nelle direzioni più diverse.
Esemplare risulta, da questo punto di vista, il caso statunitense in cui i riformatori si servirono del socialdarwinismo per la loro "rivolta contro il formalismo" delle scienze giuridiche, economiche e politiche del liberalismo classico (v. White, 1949). Da essa scaturirono - debitrici dell'impianto evoluzionistico, anche se a esso ormai estranee - la visione processuale della società tipica del pragmatismo di John Dewey e quella del riformismo progressista di Herbert Croly e Walter Weyl, che intese contemperare difesa dell'individualismo e presenza della mano pubblica a sostegno dei diritti sociali del singolo e di quelli della comunità. È vero, come abbiamo visto, che del progressismo americano fecero parte anche teorie sulla superiorità culturale e razziale dei Bianchi e, in particolare, degli anglosassoni; il che deve renderci edotti del fatto che il pregiudizio culturale e razziale fu uno dei presupposti e degli esiti necessari della ricostruzione dell'identità europea, in cui il socialdarwinismo ebbe parte essenziale.
Ciò che s'intende qui rilevare è che l'approccio socialdarwinista non si esaurisce in esso, anche se lo perseguì e se sue componenti lo teorizzarono fino alle estreme conseguenze.Il tentativo di applicare alle scienze sociali i principî del naturalismo evoluzionista risulta, pertanto, essere stato un episodio ad ampio spettro e dalle molteplici implicazioni, centrale non tanto per le scienze sociali, quanto per la cultura sociale e politica europea, e, come tale, merita di essere studiato con attenzione. Se non lo si deve giudicare né una teoria, né una scuola, lo si può utilmente considerare come ambito di ricerca storica diretto a illuminare un nodo delle vicende dell'Ottocento europeo.
(V. anche Evoluzionismo).
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