CASTELLI, David
Nacque a Livorno il 30 dic. 1836 da Abramo Isacco e da Rachele De Medina. Il padre, un avvocato, era figlio di Samuele Castello, figlio, a sua volta, di Abramo Isacco Castello, poeta e predicatore.
Il padre impartì personalmente i primi rudimenti di ebraico al figlio il quale frequentò poi il collegio rabbinico di Livorno, ove fu allievo del rabbino maggiore Abramo Benedetto Piperno (morto neì 1863), noto soprattutto per essere stato l’editore della lettera mēm dell’enciclopedia talmudica di Isacco Lampronti (1679-1756), Pāḥad Yiṣḥaq (“Il timore di Isacco”: Gen., 31, 42) e di Elia Benamozegh. “Piperno, était un érudit, mais aucunement un philologue, et monsieur Castelli a dú refaire sa méthode sur Ewald et Gesenius”, scriveva pochi anni dopo Angelo De Gubernatis, e gli interessi del Benamozegh erano prevalentemente di carattere filosofico e cabbalistico.
Purtuttavia, questa prima istruzione, a carattere tradizionale, ha una non trascurabile importanza nella formazione del C. poiché, se è certamente per reazione ad essa che egli avvertirà l’esigenza di dare un carattere scientifico e filologico alle proprie ricerche sulla tradizione culturale ebraica, l’attenzione che egli rivolgerà ad aspetti di quella tradizione che, almeno in Italia, erano stati, per lo più, o interamente accettati o interamente rifiutati, ha, in ultima analisi, la stessa radice e la discussione sulla Cabbala che aveva contrapposto Samuele David Luzzatto ed Elia Benamozegh (si veda Y. Colombo, La polemica col Benamozegh, in Nel primo centenario della scomparsa di S. D. Luzzatto, in Rass. mensile di Israel, XXXII [1966], pp. 179-204) sarà da lui spostata dal piano teologico a quello storico, si che il suo nome è stato a buon diritto posto accanto a quelli di Jellinek e di Graetz, di coloro, cioè, che hanno dato inizio allo studio scientifico della mistica ebraica.
Dal 1857 al 1863 il C. fu insegnante di ebraico e di italiano nella scuola ebraica di Livorno e, come ricorda Achille Cohen, per la morte prematura del padre dovette sobbarcarsi a un pesante lavoro di insegnante privato di italiano, latino e filosofia per sopperire alle necessità della famiglia. Già fin d’allora è comunque chiara la sua determinazione di non seguire la carriera rabbinica: Angiolo Orvieto parla di una “crisi psicologica che determinò il Castelli ad abbandonare la via del rabbinato”. Nel 1861 conseguì, infatti, presso la Scuola normale superiore di Pisa l’idoneità all’insegnamento della filosofia nei licei e, l’anno successivo, quella all’insegnamento delle lettere latine e italiane nei ginnasi. Nell’agosto del 1863 si trasferì a Pisa, chiamato a esercitare la funzione di cancelliere della comunità israelitica; contemporaneamente insegnava lettere latine e italiane nell’istituto Pereyra di quella città. Completava, intanto, la propria formazione filologica frequentando, presso l’università, i corsi di lingue semitiche comparate che Fausto Lasinio vi teneva dall’anno precedente. E al Lasinio, col quale strinse una amicizia che, alimentata dalla reciproca stima, doveva durare fino alla morte, è dedicata la prima opera scientifica del C.: Il libro del Cohelet, volgarmente detto Ecclesiaste, tradotto dal testo ebraico con introduzione critica e note, pubblicato nel 1866 a Pisa a spese dell’autore.
Nella dedica è già tutto il programma al quale il C. si manterrà fedele: “La Bibbia non è più ai giorni nostri, o almeno più non dovrebbe essere, soltanto un soggetto di religiosa polemica o di teologica controversia: è un monumento storico dell’antichità che devesi, a mio credere, esaminare e studiare con quello stesso procedimento di analisi e con la stessa indipendenza che si usa per i Vedas e il Mahābhārata, per il Zendavesta, per l’Iliade, per il Corano e per l’Edda” (p. 4). L’impostazione non piacque al Benamozegh, il quale non mancò di esprimere al riguardo il proprio dissenso, ma nella Revue critique H. Zotenberg segnalò il libro qualificandolo come un “travail consciencieux et bien exécuté”. Nel medesimo anno, su Il Politecnico (parte scientifico-letteraria, s. 4, I [1866], 1, pp. 685-708), pubblicò una lunga recensione alla traduzione francese della introduzione al Vecchio Testamento di Abraham Kuenen, uscita in quell’anno a Parigi con introduzione di E. Renan: I libri del Vecchio Testamento e la critica storica. In questo scritto giovanile, pur accettando già molti dei risultati della scuola wellhauseniana, il C. prospetta uno schema di sviluppo della religione ebraica al quale in seguito – pur correggendolo parzialmente – rimarrà sostanzialmente fedele; schema che è ispirato a una concezione dello sviluppo piuttosto positivistica che hegeliana e dialettica: il profetismo segue e non precede il legalismo. “Quale di queste due fasi del Mosaismo crediamo noi che precedesse all’altra? Certo la jeratica; perché la profetica denota un progresso, un avanzamento, un maggior grado dì civiltà” (p. 703). Contemporaneamente fece richiesta al ministero della Pubblica Istruzione per ottenere un insegnamento “preferibilmente di filologia semitica” presso qualche università.
L’interesse che il C. porterà sempre alla letteratura ebraica postbiblica è documentato da una raccolta di Leggende talmudiche (Pisa 1869), traduzione di una serie di brani a carattere haggadico tratti dal trattato Bĕrakōt del Talmud babilonese e preceduti (pp. 1-74) da una introduzione in cui è dato un quadro chiaro ed esauriente della letteratura rabbinica nel suo insieme. Completano questo lavoro altri due pubblicati come articoli nell’Annuario della Soc. ital. per gli studi orient. (I [1873], pp. 51-79 e II [1874], pp. 63-731, il primo col medesimo titolo del libro, l’altro su La leggenda di Rabbi Eliezer. Stranamente questi scritti non sono registrati nella bibliografia della Einleitung in Talmud und Midraš dello Strack.
Nel 1870 il C. rivolse istanza al ministero della Pubblica Istruzione per ottenere la cattedra di lingue semitiche presso il R. Collegio asiatico di Napoli, riorganizzato l’anno precedente; il ministro chiese un parere sulla sua opera scientifica a . De Benedetti, professore di ebraico a Pisa dal 1862, il quale rispose: “non si può negargli valore critico, ardito e non avventurato, erudito senza che l’erudizione o il desiderio di francarsi dal giogo di lei gli offuschino il buon senso”, ma la cosa non ebbe seguito.
Nel 1874 venne pubblicato a Firenze Il Messia secondo gli Ebrei, la prima ricerca storica di ampio respiro del Castelli. Dedicata anch’essa al Lasinio, come dice il C. stesso (p. IX), l’opera era nata da un suggerimento del Comparetti.
Ad una solidissima erudizione, che gli permette un uso sistematico delle fonti, e a una conoscenza amplissima della letteratura moderna fa riscontro in quest’opera una chiara incertezza metodologica attribuibile, in parte, anche all’ancora non del tutto compiuta formulazione del problema del messianismo ebraico da parte della critica d’Oltralpe, ma che, come vedremo, caratterizzerà anche le ricerche successive del Castelli. Il libro è, infatti, diviso in due parti: nella prima vengono analizzati i passi messianici, o tradizionalmente considerati tali, del Vecchio Testamento, separatamente nel Pentateuco, nei libri storici, nei profeti; nella seconda, in una serie di capitoli, vengono discussi i vari problemi relativi alla figura del Messia nella letteratura postbiblica fino alle soglie del Medioevo e oltre. In questa seconda parte la letteratura rabbinica è oggetto di una accuratissima disamina (Literar. Centralblatt: “importanti aggiunte al materiale raccolto da Schöttgen in poi”) e, in appendice (pp. 295-355), sono riportati molti passi relativi al Messia tratti essenzialmente da Midrāshīm minori, tradotti dall’edizione dello Jellinek (Bet hammidrāš, Leipzig-Wien 1853-1877), ma l’insieme della letteratura pseudoepigrafa – sotto questo riguardo già oggetto di una fondamentale ricerca dello Hilgenfeld (1857), rimane quasi totalmente ignorata, “grave lacune qu’on a de la peine à s’expliquer”, scriveva Maurice Vernes nella sua recensione all’opera, mentre A. Kuenen fece una netta distinzione tra la prima parte, ove l’autore “non dice nulla di nuovo”, e la seconda ove in lo scrittore è sul suo terreno”. Il libro, comunque, più volte citato dallo Schürer, rappresenta, sotto il particolare aspetto che si è detto, un contributo indubbiamente importante e sarà utilizzato ampiamente dal Klausner nella sua dissertazione di Heidelberg del 1903 sulle concezioni messianiche nel periodo dei tannaiti. Il suo contributo più originale e, indubbiamente, di grandissima importanza consiste nell’aver per la prima volta messo chiaramente in evidenza che al tardo giudaismo è estranea la figura di un Messia sofferente. G. Dalman ha scritto: “David Castelli ha il merito, implicitamente riconosciuto da T. K. Cheyne (The Prophecies of Isaiah, London 1884, pp. 218 ss.), di aver posto in chiaro in Il Messia secondo gli Ebrei (Firenze 1874, pp. 224 ss.) che una simile distinzione tra le figure di un re-messia sofferente e di un re-messia glorioso non corrisponde a quanto affermato dagli antichi rabbini”. Quanto, però, il problema storico del messianismo ebraico nel suo complesso gli fosse sostanzialmente sfuggito, può ricavarsi facilmente dalle pagine conclusive del libro, ove si legge (p. 290): “Questo Messia adunque, questo aspettato Redentore che vive da secoli, che può apparire ogni giorno, è l’uomo, l’umanità stessa che soffre a vicenda e trionfa, che espia i peccati propri non meno che gli altrui, che redime se stesso dal male”; “M. C. a cédé, ici comme ailleurs, trop facilement à son désir de retrouver dans l’Ancien Testament l’expression d’idées universalistes”, come osserva ancora il Vernes. Carattere a sé ha la lunga recensione di Elia Benamozegh. Questi non prese assolutamente in esame l’opera come ricerca storica, ma ne criticò – aspramente – ipresupposti teologici e, più ancora, filosofici, richiamando singolarmente, negli argomenti addotti, talune confutazioni cattoliche della Vie de Jésus di Renan. in “La prefazione... ci fa conoscere lo spirito di cui l’opera si impronta; e questo spirito è sciaguratamente quello del criticismo e del positivismo”, cioè “la indifferenza sistematica di ogni intrinseca verità o falsità... la relatività insomma in tutta la sua estensione, ossia il sistema Egeliano trasportato nella storia”.
Nel 1871, intanto, Fausto Lasinio era stato chiamato alla cattedra di lingue semitiche comparate presso il Regio – Istituto di studi superiori e pratici di Firenze, istituita col riordinamento dell’anno precedente (Ministero della Pubblica Istruzione, Monografie delle università e degli istituti superiori, II, Roma 1913, p. 191, ove ricopriva, per incarico, anche la cattedra di ebraico, istituita contemporaneamente. Nel 1875 egli lasciò l’incarico di ebraico per assumere quello di arabo e vi chiamò il Castelli. L’anno successivo venne bandito il concorso per professore straordinario di lingua ebraica presso lo stesso Istituto superiore di Firenze. La commissione era composta da Michele Amari, ormai a riposo dal 1866, che la presiedeva, Fausto Lasinio, Salvatore De Benedetti, Pietro Perreau, dal 1860 direttore della collezione derossiana della Biblioteca Palatina di Parma, di cui sarebbe diventato bibliotecario l’anno successivo, e Giuseppe Ghiringhello, un sacerdote torinese professore di Sacra Scrittura e lingua ebraica nell’università di Torino, noto come autore di una confutazione della Vita di Gesù, “romanzo” di Emesto Renan (Torino 1864). Solamente quest’ultimo espresse, nella sua relazione, un apprezzamento negativo sul C. che, pure, non verteva sul contenuto scientifico delle sue opere: “la sua esegesi si troverà non di rado in opposizione con le credenze cristiane con iscandalo o pericolo della piú gran parte degli uditori”, ma l’Amari, nella sua relazione finale, ribatteva: “Io spero che l’Italia non avrà mai ministro né Consiglio superiore della Pubblica Istruzione che veggano pericoli di tal natura, temendo il libero esame nello studio di libri ebraici, più tosto che in quelli delle scienze naturali”. Dell’Amari il C : serberà grato e devoto ricordo e parecchi anni più tardi recensirà il carteggio dello storico siciliano pubblicato da A. D’Ancona (Arch. stor. ital., s. 5, XVIII [1896], pp., 448-452). Con decreto ministeriale 20 dic. 1876 il C. fu nominato professore straordinario di ebraico presso l’Istituto di studi superiori di Firenze. Diverrà ordinario nel 1882.
Nel 1877 ebbe luogo un altro episodio della polemica col Benamozegh. Sabato Morais si chiede se possa essere stato un certo qual risentimento per la recensione al Messia a spingere il C. a scrivere nella Rivista europea (VIII [1877], 4, pp. 169-181) una recensione decisamente negativa a un opuscolo pubblicato dal Benamozegh ad uso della scuola rabbinica: Teologia dogmatica e apologetica, I, Dio (Livorno 1877). In realtà la polemica era quasi inevitabile tra due uomini le cui posizioni sul piano razionalistico erano diametralmente opposte: mentre il Benartiozegh aveva raccolto in pieno la tradizione cabbalistica della comunità livornese giungendo perfino a scrivere, nel 1855, una confutazione dell’opera anticabbalistica di Leone da Modena ’Arī nohem (Il leone ruggente), che il Fürst aveva scoperto e pubblicato a Lipsia nel 1840, il C., con astratta ingenuità, qualificava come “errori deliranti” le speculazioni dei mistici. Un certo qual puntiglio polemico da parte sia dell’uno sia dell’altro va probabilmente spiegato tenendo conto del non facile distacco tra due uomini che dovevano essere stati molto vicini: il C. stesso, accennando al Benamozegh (Leggende talmudiche, p. 3), lo aveva definito “l’amico nostro” e il Benamozegh nel pur breve cenno autobiografico, pubblicato in ebraico a Varsavia nel 1889 (se ne veda la traduzione di D. Lattes in E. Benamozegh, Scritti scelti, a cura di A. S. Toaff, Roma 1955, pp. 17-28), sentì il bisogno di rammentare l’episodio (ibid., p. 21): “Contro una parte della Teodicea muoveva una fiera critica il dotto David Castelli, professore a Firenze, come io avevo fatto contro la sua opera Il Messia secondo gli Ebrei; io gli ho reso la pariglia, rincarando la dose, con la mia replica intitolata Una critica criticabile [Replica ad un articolo del Professor Castelli... (Livorno 1878)]”.
La recensione del C. al libro del Benamozegh merita di essere letta con attenzione ed è importante per cogliere esattamente non soltanto il suo atteggiamento nei confronti del maestro, ma la sua stessa posizione di fronte al problema scienza-fede. Come il Benamozegh aveva criticato da un punto di vista teologico e filosofico il libro sul Messia del C., che era un libro di storia, così ora il C. critica da un punto di vista storico un libro che è, e vuol essere, teologico e filosofico. Il Benamozegh aveva infatti creduto di poter ritrovare le tradizionali prove dell’esistenza di Dio nella letteratura biblica e rabbinica, con argomentazioni prive di qualsiasi base scientifica. Di conseguenza, il C. scrive: “saranno bellissime e ingegnose interpretazioni secondo il metodo del Midrash, ma la buona e sana esegesi anche tra i giudiziosi commentatori ebrei ne ha pronunziato da molto tempo la condanna”, ove l’allusione a Rašī è molto significativa e, di fronte alle molte etimologie fantastiche, ai numerosi accostamenti arbitrari del Benamozegh, la reazione dei C. rende evidentissima la contrapposizione tra i due uomini: “ma le regole grammaticali e l’esame dei fatti, sono inezie da menti piccole, bisogna fare la metafisica sublime”. Purtuttavia questa carica polemica tra i due uomini non deve far perdere di vista il fatto che, per altri riguardi, il C. subì una non trascurabile influenza da parte del Benamozegh: nella sostanza, la sua prospettiva religiosa secondo la quale l’ebraismo conterrebbe gli elementi essenziali di una futura religione universale discende da concezioni benamozeghiane e questi, nell’introduzione a Israel et l’humanité pubblicata a Livorno nel 1885 poteva affermare (p. 68): “nous sommes heureux de pouvoir enregistrer entre les penseurs qui croient encore à la vitalité et à l’avenir de l’Hebraïsme le prof. Castelli qui dans son livre sur la Poésie hebraïque dit pour cette religion que "peut étre elle renferme encore les germes de celle qui pourra étre la religion mondiale de tous les, hommes” (p. 3).
Le lezioni dei primi due anni accademici, vertenti sulla poesia nell’antico Israele, vennero rielaborate e pubblicate in volume a Firenze nel 1878 col titolo Della poesia ebraica. Dedicato anch’esso al Lasinio, il lavoro reca una chiara impronta divulgativa, dando largo spazio alle traduzioni. “Poesia” è, per il C., quella tradizionalmente tramandata come tale e distinta in šir, “canto”, e mạšal, “parabola”: poesia lirica e poesia gnomica, classificazione propria, perloppiù, di tutti i manuali del tempo (per es. De Witte-Schrader, Berlin 1869, pp. 512 ss.) e che risale al Lowth, pur con qualche attenzione ai frammenti poetici contenuti nel Pentateuco, ma con totale esclusione dei libri profetici. Non sembra che il C. abbia avuto conoscenza dei più recenti studi di metrica ebraica (soprattutto J. Ley, Die metrischen Formen der hebr. Poesie, Leipzig 1866, che formulò l’ipotesi accentuativa aprendo le strada alle ricerche del Budde e del Sievers). L’artificiosità della classificazione derivata dalla storiografia precedente non è in alcun modo corretta dal tentativo di ricollocare questo materiale poetico entro lo schema di uno sviluppo storico della religione ebraica, ciò che appare particolarmente evidente per quanto riguarda la datazione dei salmi: “en revendiquant pour David et son temps près de la moitié du recueil, il dépasse décidément la limite du conservatisme admissible” scriveva ancora il Vernes nella sua recensione al libro. Ma, a parte questi specifici problemi, taluni accenni (“Giobbe non era un abitante della Palestina... era certo un Terachide di quelli che avevano conservato il culto antico monoteistico proprio di quelle genti, senza che fosse stato ampliato e modificato dalla legge mosaica...”, pp. 549 s.) mostrano chiaramente come il C., pur buon conoscitore della letteratura critica tedesca, fosse ben lungi dall’aver colto l’importanza dei più recenti sviluppi di essa: nel medesimo anno in cui egli pubblicava Della poesia biblica, usciva a Berlino la Geschichte Israels, I, del Wellhausen che, dalla seconda edizione del 1883, avrebbe assunto il titolo di Prolegomena zur Geschichte Israels.
In Italia, comunque, il libro ebbe una certa risonanza e Domenico Comparetti gli dedicò una lunga recensione in Rassegna settimanale di politica, scienze, lettere ed arti, che sarà ristampata dal Croce nella Critica e, successivamente, nella raccolta di scritti comparettiani Poesia e pensiero nel mondo antico, curata da G. Pugliese Carratelli. Acutamente, il maestro fiorentino osservava al suo più giovane collega che l’aver lasciato egli fuori dell’orizzonte poetico dell’antico Israele le parole dei profeti equivaleva a non aver compreso “ciò che essi sono per noi, che li consideriamo non più nella tendenza del loro ufficio, ma nella natura assoluta della loro produzione”. Più che una puntuale discussione dell’opera del C., lo scritto del Comparetti è, come ben apparve al Croce, un momento della sua mai intermessa meditazione sull’origine delle grandi epopee nazionali.
Ma la posizione del C. nei confronti della critica tedesca, in special modo per quanto riguarda il problema centrale della composizione del Pentateuro, si chiarisce meglio tenendo presente l’introduzione premessa ad uno scritto di alcuni anni posteriore: La legge del popolo ebraico nel suo svolgimento storico (Firenze 1884), ove si legge (p. XV): “Sul quale punto però dobbiamo avvertire che un più accurato studio delle recenti critiche ricerche ci ha fatti persuasi di ciò che da prima non tenevamo vero, e di che poi lungamente abbiamo dubitato, cioè che il Deuteronomio sia anteriore a gran parte delle leggi contenute nell’Esodo, nel Levitico e nei Numeri”. Vi è, da parte del C., un evidente sforzo per adeguare la propria visione religiosa del mondo ebraico a quella risultante dall’ormai accertata seriorità del codice sacerdotale, ma è onesta accettazione di risultati, non, però, del metodo storico che a quei risultati aveva condotto e al quale egli rimarrà sempre sostanzialmente estraneo. In La profezia nella Bibbia (Firenze 1882), ancora riteneva (p. 139) che, se Amos disapprova i sacrifici, ciò deve significare che, al suo tempo, essi dovevano essere regolati da leggi ben precise, affermazione che giustifica pienamente la recensione di H. Oort, il quale osserva come il C. non abbia affatto una chiara visione dello sviluppo storico della religione ebraica.
E, in effetti, se in questo libro non riesce a cogliere lo specifico significato che, nello sviluppo della religione ebraica durante lo monarchia hanno i grandi profeti scrittori, nella già citata Legge del popolo ebraico, mentre, ormai, dispone ed ordina la materia secondo la cronologia wellhauseniana, al tempo stesso descrive i vari istituti in maniera del tutto tradizionale partendo dal testo bibIico e seguendone la trasformazione nei testi rabbinici, sì che gli sfugge completamente il significato e la funzione della legge nella genesi e nella formazione del giudaismo. “M. Castelli est surtout préoccupé de l’examen comparatif qu’il institue avec l’interprétation talmudique... et... cette comparaison est vraiment le trait caractéristique de l’ouvrage” scriveva giustamente A. Revel. E. Montet definiva l’opera un “veritable répertoire de jurisprudence hebraïco – judaïque”, giudizio questo che caratterizza bene il libro presentandolo nel suo aspetto più positivo, laddove ancora l’Oort osservava che “l’autore non ha una chiara visione della composizione del Pentateuco”.
Durante questi anni ebbe luogo una nuova polemica col Benamozegh, a proposito, questa volta, delle validità di un testamento secondo la legge ebraica. Il tono si inasprì. Nel cennato schizzo autobiografico (p. 22) il Benamozegh scriveva: “Quietatasi poi l’ardente controversia intorno all’eredità del Caid Nissim Samama, io scrissi, a sostegno della validità del suo testamento, Le fonti del diritto ebraico e il testamento Samama [Livorno 1882]. Alla confutazione, fattane da David Castelli [Nullità secondo la legge ebraica del testamento del fu Caid Nissim Samama, Firenze 1882], io ribattei con una Controreplica [Livorno 1883]. E dopo che egli, per dimostrare che io mi ero contraddetto, ebbe pubblicato alcune mie note che molti anni prima gli avevo comunicato e nelle quali io avrei sostenuto secondo lui la nullità del testamento stesso [Nullità secondo la legge ebraica del testamento del fu Caid Nissim Samama. Replica di Elia Benamozegh al parere del rabbino Funaro, a cura di D. Castelli, Firenze 1883] io replicai con un breve articolo Della pubblicazione abusiva del prof. Castelli [Livorno 1883]”. È un aspetto che si rivela certamente secondario, ma che non è trascurabile, degli interessi del C., non indipendente, forse, dalla professione esercitata dal padre. Tra i numerosi scritti a carattere giuridico – tutti concernenti direttamente o indirettamente la causa Samama – vanno ricordati Il diritto di testare nella legislazione ebraica (Firenze 1878), e, soprattutto, la traduzione dei passi, rilevanti per il processo del Šulḥān ‘aruk (La tavola imbandita) di Giuseppe Caro (1488-1575), una raccolta di decisioni rabbiniche che, in quasi tutto il giudaismo, ha conservato il valore di autorità incontestata fino ai giorni nostri: Testi del codice del Dr. Joseph Caro (Shulhan Aruch), tradotti annotati e giurati da D. Castelli (Firenze 1879).
Nel 1880, nelle pubblicazioni del R. Istituto di studi superiori e pratici di Firenze, sezione di filol. e di filos., accademia orientale, n. 7, comparve Il commento di Sabbatai Donnolo al libro della creazione, pubblicato per la prima volta nel testo ebraico con note critiche e introduzione (G. Scholem, Bibliographia kabbalistica, Berlin 1933, p. 33). Si tratta dell’edizione, condotta su quattro codici (Med. Laur. 14 - Pluteo 44 della Biblioteca Laurenziana; Ebr. 399 e 417 della Palatina di Parma ed Ebr. 88 - cat. Pasini - della Biblioteca reale di Torino), del commento al Sēfer yĕṣirāh, intitolato Sēfer ḥakmonī (Il libro sapiente), composto nel 946 da un medico e astrologo vissuto nell’Italia meridionale, Shabbetai ben Abrahani ben Y‘o’ēl, che avrà una notevole importanza soprattutto negli ambienti del bassidismo renano.
Il lavoro, quasi certamente, deve essere stato intrapreso su suggerimento del Lasinio dal momento che, dall’epistolario del Luzzatto, risulta che questi aveva segnalato al dotto maestro padovano il manoscritto della Laurenziana contenente lo scritto del Donnolo (si veda la lettera del 26 apr. 1853 al figlio Filosseno, Epistolario italiano, francese, latino, Padova 1890, pp. 751 s., ed anche la lettera al Lasinio stesso del 16 febbr. dello stesso anno, ibid., pp. 728 s.). D’altra parte va rammentato che, nel 1867, M. Steinschneider aveva pubblicato dal Med. Laur. 37 - Plut. 88, un’altra opera del Donnolo, il Sēfer hayaḳar (Il libro prezioso), un trattato di farmacologia. Nell’introduzione il C. analizza minutamente l’opera, sì che Lazarus Goldschmidt, nell’introduzione alla sua edizione Sēfer yĕṣirāh (Das Buch Schöpfung..., Frankfurt 1894), può esimersi dal parlarne e rimandare ad essa, definendo il C. “ein vorzüglicher Gelehrter der Gegenwart” (p. 32). Anche la parte dell’introduzione del C. concernente specificatamente il Sēfer yĕṣirāh è definita dal Goldschmidt “das Beste und Ausführlichste was bisher geschrieben wurde” (p. 45). La recensione dell’Oort non contiene osservazioni di rilievo. Il testo stabilito dal C. dell’opera del Donnolo venne ristampato nel 1884 a Varsavia in una edizione del Sēfer yĕṣirāh con dieci commenti rabbinici a cura di Samuele Loria.
Concernono analogamente la pubblicazione di testi gli unici due scrittì del C. in e ebraico, comparsi in quegli anni su Jerusalem, un annuario per la diffusione della conoscenza della Palestina antica e moderna, pubblicato da A. M. Luncz a Vienna. Il primo (I [1882], pp. 166-219, della parte ebraica) è una Lettera di viaggio di Rabbi Mešullam figlio del nostro onorato maestro Rabbi Menaḥem di Volterra dell’anno 1481 tratta dal ms. Laur., cod. IX, 44, pp. 44 ss., diario dì un viaggio in Terrasanta compiuto tra l’aprile e l’ottobre del 1481 da Bonaventura di Manuele da Volterra. Sul personaggio e sullo scritto si veda U. Cassuto, Gli Ebrei a Firenze nell’età del Rinascimento, Firenze 1918, pp. 266 ss., con diverse precisazioni circa l’edizione (ibid., p. 266 n. 5); in appendice (app. LXXV, pp. 425 ss.), il Cassuto ha ripubblicato la parte del testo relativa alla descrizione dei resti del tempio gerosolimitano con questa nota: “pubblico il passo direttamente dal ms.; l’ed. Castelli è in più luoghi inintelligibile”. Il secondo (III [1889], pp. 93-104 della parte ebraica) è una Copia della lettera che inviò l’onorato Rabbino Israel [Aškenazi] di Gerusalemme all’onorato Rabbino Abraham di Perugia, eseguita il 20 Ab 1523, interessante descrizione di usi religiosi e folkloristici degli Ebrei di Gerusalemme e della città stessa, tratta dal ms. Laur. cod. II, 35, pp. 28, 1 - 30, 2, ma già pubblicata da A. Neubauer (Ḳobeš ‘al Yad, IV [1888], pp. 25-32). Si veda al riguardo: A. Toaff, Gli Ebrei a Perugia, Perugia 1975, pp. 131 ss., 153 n. 11.
Con la Storia degli Israeliti dalle origini fino alla monarchia secondo le fonti bibliche criticamente esposte (2 voll., Milano 1887-1888), il C. dà un ampio quadro della storia ebraica arcaica dalle origini alla fine del periodo dei giudici (volume I) e del periodo monarchico (volume II). Dedicata all’Amari, l’opera è preceduta da una lunga esposizione critica delle fonti, alla base della quale appare ormai Die Composition des Hexateuchs del Wellhausen (1876-1877, in Jahrbüh. für deutsche Theol.), ciò che non giustifica, però, l’affermazione del Salvatorelli (Gli studi di storia del cristianesimo, in Cinquant’anni di vita intellettuale italiana 1896-1946, Napoli 1046, II, p. 316), secondo il quale “l’assorbimento dell’alta critica è anche la solida base della sua Storia degli Israeliti...”. Se, infatti, la trattazione storica vera e propria appare caratterizzata, ciò che non è da trascurare, da una notevole attenzione portata, specie nel primo volume, alle recenti scoperte nel campo dell’archeologia mesopotamica, sì che, nel suo insieme, l’opera appare sostanzialmente modellata piuttosto sulle contemporanee ricerche di François Lenormant che sulla più recente ed autorevole storia ebraica tedesca, quella dello Stade (1881), la mancanza di una precisa distinzione tra leggende e tradizioni storiche mostra chiaramente l’insufficienza della ricostruzione storica vera e propria, sì che non appare del tutto ingiustificata la durissima recensione dello Oort ed un semplice confronto con la Geschichte des Volkes Israels di Rudolf Kittel, il cui primo volume e del 1888, mostra assai bene i limiti di questo libro, specie per quanto concerne la storia arcaica.
Interessanti osservazioni linguistiche sono contenute in una nota: Dell’autenticita dell’iscrizione moabitica di Mesha, comparsa nel Giorn. della Soc. asiatica ital., I (1888), pp. 99-103.
Nell’ottobre di quello stesso anno Claude Goldsmid Montefiore aveva, intanto, fondato a Londra la Jewish Quarterly Review, associandosi nella direzione l’anno successivo Israel Abrahams. Il C. vi pubblicò, nel primo volume (p. 286), A conjecture on Job VI, 4 e (pp. 314-352) una ricerca su The future life in rabbinic literature. La circostanza fa pensare che vi possa essere stata, da parte del Montefiore, una richiesta di collaborazione, ma è difficile precisare al riguardo. Lo scritto si riconnette a quello sul Messia, ma è storicamente meglio articolato, anche se le premesse bibliche non sono esaurientemente esaminate e l’attenzione è portata solamente di sfuggita su apocrifi e pseudepigrafi. La parte centrale del lavoro è un ampio commento a Sanhed., 10.1-4 (coloro che avranno o non avranno parte nel mondo avvenire), con traduzione e discussione della gĕmārā’ e degli altri passi della letteratura rabbinica riguardanti il problema. Benché la presentazione dei passi appaia, in realtà, sostanzialmente ordinata a mostrare che “una delle dottrine fondamentali del giudaismo è l’immortafità dell’anima e la ricompensa e la punizione in una situazione futura”, il materiale raccolto e discusso è, indubbiamente, di notevole interesse e integra, in certo senso, il capitolo dedicato da George Foot-Moore all’argomento (Judaism in the first centuries of the Christian Era..., Cambridge, Mass., 1927, II, pp. 287-322) carente proprio per quanto riguarda la letteratura rabbinica vera e propria. Neppure questo articolo è citato nella bibliografia dello Strack.
Altre opere di questi anni sono una traduzione con introduzione e commento del Cantico dei Cantici, Firenze 1892, ove viene respinta l’ipotesi (sostenuta da Ewald e Delitzsch) che vede in esso un testo drammatico, nonché quella reussiana, ed oggi prevalentemente accettata, che si tratti di una raccolta di testi poetici diversi, nella recensione della quale C. Siegfried caratterizzò il C. come “der auch in Deutschland wohlbekannte Verfasser”, e, in Arch. stor. ital., s. 5, XI (1893), pp. 398-404, basandosi su una copia settecentesca del documento, dette una accurata descrizione dei capitoli con i quali, nel 1524, un banchiere toscano, Daniele di Isacco da Pisa, regolò la comunità ebraica di Roma, ove l’arrivo di molti ebrei dopo la cacciata dalla Spagna (1492) e dalle province dell’Italia meridionale (1510-1511) aveva dato luogo a forti contrasti tra la vecchia comunità e i nuovi venuti: Notizie di un documento sulla storia degli Ebrei a Roma (con pubblicazione, in appendice, del breve di promulgazione di Clemente VII del 12 dic. 1524), questione contemporaneamente trattata da A. Berliner, Geschichte der Juden in Rom., II, 1, Frankfurt 1893, pp. 89-95 e, in seguito, da A. Milano nella Rass. mens. di Israel, X (1935-1936), pp. 324-338 e 409-426. Sulla Rev. des Etud. Juiv., XXVIII (1894), pp. 212-227 e XXIX (1894), pp. 100-110, pubblicò, dal ms. Med. Laur. DXXXIV (ora n. 1219), pp. 75-91, il Sēfer šekel ṭob (Il libro del buon intendimento), un riassunto della grammatica ebraica di Mosè Kimḥi, morto nel 1190 a Narbona, fratello del più noto David (anche in questo caso il manoscritto gli era stato segnalato dal Lasinio: si veda Zeitschr. für deutsche Morgenl. Gesell., XXVI [1872], p. 807) e, sulla Zeitschr. für alttest. Wiss., XVII (1897), pp. 337 s., avanzò una proposta di emendamento a un passo del “Canto di Mosè” (Deut., 32, 5).
Nel 1897, riprendendo un tema già affrontato nel volume sulla poesia biblica, il C. pubblicò a Firenze Il poema semitico del pessimismo (Il libro di Job), tradotto e commentato (rist. Lanciano 1916). Con la maggior parte della critica considerava, come già nel libro sulla poesia ebraica, interpolazione posteriore i discorsi di Elihu (32-37); ipotesi, si può dire oggi, quasi non più discussa (da ultimo il Fohrer in Archiv für Orientalforsch., XIX [1959-1960], pp. 83-94), e datava, con più precisione, lo scritto al periodo dell’esilio. Poco benevolmente, il Loisy così valutava l’opera nel suo complesso: “le tout constitue un assez bon travail de vulgarisation, où l’on n’a guère à signaler de vue originale ni de défaut saillant”, ma si veda anche il giudizio di C. Siegfried e quello di X. Koenig, secondo il quale: “ce petit ouvrage de M. C. fait honneur h la science italienne”.
Dedicato a Pasquale Villari, comparve a Firenze nel 1898 l’ultimo e, probabilmente, il meno felice dei suoi libri: Gli Ebrei. Sunto di storia politica e letteraria. Esso consta di due parti distinte: la prima parte è una narrazione della storia ebraica fino alla distruzione di Gerusalemme; l’ultima parte (pp. 333-447) è una rapida sintesi del resto della storia ebraica fino ai giorni nostri. Nell’introduzione il C. afferma di non voler dire nulla di nuovo e, osserva A. Brückner, “l’affermazione corrisponde esattamente alla realtà”, ma il vero limite dello scritto non è tanto quello di essere una esposizione di opinioni altrui, quanto quello di mancare del tutto di una reale prospettiva storica. “Spesso – scrive C. Steuernagel – l’autore pone l’accento sul fatto che l’importanza storica d’Israele sta nella sua religione e nella su” a etica. Ma ciò che dice della religione è dei tutto insufficiente – “ist áusserst dúrftig” – e mostra come egli abbia compreso assai poco di essa”. È un giudizio duro che, però, appare estremamente calzante non solamente per l’opera cui è applicato, ma per tutti gli scritti ove il C. tenta una sintesi storica. Si vedano, inoltre, le recensioni di Montet e quella dell’Oort, che pone l’accento sulla facilità con la quale il C. appare disposto ad accettare acriticamente dati leggendari della tradizione, come, ad esempio, la favola della visita di Alessandro a Gerusalemme. “Se, vi è detto, il C. mostra di aver conoscenza di moltissime opere storiche, egli non vi ha certo imparato ciò che vi era da imparare”.
Ebreo non credente, seppure pervaso da un senso intimo e profondo della religiosità, egli volle essere, e fu, perfettamente assimilato: in Italia era, si può dire, la regola. E tale volle essere anche sul piano culturale; non identificò, quindi, le proprie posizioni con quelle illuministicopositivistiche che caratterizzavano la parte più avanzata della cultura ebraica tedesca (Zuntz, Frankel, Geiger, per fare qualche nome), la cui problematica storica si era venuta elaborando e svolgendo parallelamente e indipendentemente al grande filone De Wette-Vatke-Kuenen-Wellhausen; fu, però, incapace, forse anche per la sua stessa formazione, di comprendere la svolta radicale avvenuta nella storiografia tedesca di matrice protestante durante il corso degli anni Settanta. L’Italia gli offriva poco o nulla e questa circostanza non va sottovalutata: è in questa prospettiva che la indiscutibile debolezza della sua produzione storiografica trova, in certo senso, una giustificazione e può essere meglio compresa.
L’ideale che ispirò tutta la sua ricerca fu sempre Né Bossuet né Voltaire (in Rivista d’Italia, III [1900], 1, pp. 604-619), in quanto, come aveva detto Renan, “Bossuet, en persécutant Richard Simon avait cru délivrer l’Eglise de France d’un grand danger. Il préparait Voltaire”: “Quel sublime divino che si è voluto trovare ad ogni costo in ogni frase della Bibbia l’ha fatta cadere nel ridicolo umano. Dal quale può solo salvarla la critica razionale...” (p. 610), affermazione questa che si ritrova, durante lo scorcio del secolo passato e l’inizio di questo, in non pochi scritti di cattolici italiani ansiosi di colmare quella scissura sempre più profonda che il positivismo aveva aperto tra la scienza e la fede; e di tale travaglio spirituale il C. fu, senza dubbio, profondamente partecipe.
Le ultime sue fatiche, di cui non vide la pubblicazione, furono una comunicazione (che fu letta dal Lasinio; vedi Il Vessillo israel., XLVIII [1900], p. 43) al XII congresso degli orientalisti, tenuto a Roma nell’ottobre del 1899, su Gli antecedenti della Cabbala nella Bibbia e nella letteratura rabbinica (in Actes du douzième congrès international des orientalistes - Rome 1899, Florence 1902, III, 1, pp. 57-109) e il Catalogo dei codici ebraici magliabechiani e riccardiani di Firenze, in Giorn. della Soc. asiatica ital., XV (1902), pp. 169-175.
La memoria presentata al congresso degli orientalisti merita particolare attenzione: si tratta di una ricostruzione del processo di formazione nel tardo giudaismo, attraverso un’analisi della letteratura targumica, talmudica e darašca, della teoria delle ipostasi divine e delle altre concezioni, come il trono divino, che diverranno i temi centrali delle spculazioni cabbalistiche. La prospettiva in cui il C. si pone è quella di vedere nella Cabbala una forma di. gnosi giudaica, intuizione acuta anche se poi non viene prospettato il problema dell’importanza che queste speculazioni hanno avuto nella formazione della gnosi vera e propria; va comunque ricordato che, dopo le ricerche in questa direzione di Graetz (1846) e di Joël (1880), il primo vero e proprio tentativo di impostare il problema in questi termini – da parte di Moritz Friedländer – è del 1898; lo Scholem, Ursprung und Anfänge der Kabbalah, Berlin 1962, pp. 55 ss., giustamente cita, accanto a quelli ora ricordati, anche questo scritto del Castelli.
Il C. morì, dopo lunga malattia, la mattina del 13 genn. 1901 a Firenze nella sua casa di via dei Servi al numero 53; volle essere cremato (il che testimonia indubbiamente un distacco profondo dal giudaismo tradizionale).
Furono suoi allievi Giuseppe Gabrieli e Salvatore Minocchi. Ambedue hanno lasciato dell’uomo un pensoso ricordo. “Ci parlava – scrive il primo, che volle porre il nome del C. in testa al suo Italia Judaica (Roma 1924) “in segno di memore riconoscenza affettuosa” – della storia e della letteratura d’Israele con parola piana e pura, con semplicità spassionata, esponendo con modesta fermezza le sue convinzioni, i risultati delle ricerche sue e altrui, evitando o temperando con tatto delicato ogni espressione che potesse offendere il sentimento religioso, quale che fosse, dei suoi ascoltatori”. “Seguace del più puro metodo critico – si legge nel necrologio che ne scrisse il Minocchi – il Castelli parlava e scriveva a fine del tutto oggettivo e mirabilmente sereno. Filosofo positivista, abbandonò la fede nell’ebraismo, pur senza ufficialmente abiurarla, e non abbracciò finché visse, alcun’altra religione sociale. Razionalista moderato, le opinioni sue, dal lato critico e storico, erano perloppiù in armonia con quelle di molti cattolici moderni. Del resto, egli sentiva per «il Cristianesimo una simpatia profonda”.
Fonti e Bibl.: Una bibliografia abbastanza completa degli scritti del C. si trova in un opuscolo, segnalato in Rev. des études juives, XLV (1902), p. 137, ove sono raccolti i necrologi comparsi su varie riviste; D. C., pubblicato in occasione del primo anniversario della morte per cura del figlio Guido (Livorno 1902), pp. 3-7; una bibliogr. degli scritti strettamente scientifici è data da U. Cassuto, in Riv. degli studi orient., V (1913), pp. 41-43 (si v. A. Marx, in Jew. Quart. Rev., n. s., XI [1920-1921], pp. 116-119). Per alcune recensioni non indicate nelle cennate bibliogr., si veda M. Schwab, Répertoire des articles relatifs à l’histoire et à la littér. juives..., Paris 1914-1923, p. 71. Le notizie sulla carriera accademica del C. sono tratte dal fascicolo personale: Roma, Arch. centr. dello Stato, Min. Pubblica Istruz., Personale, busta 385. Sul C. si veda, oltre ai necrologi: A. e A. Orvieto, Il nostro maestro, in Il Marzocco, 20 genn. 1901, p. 3; F. Lasinio, D. C., ibid., 27 genn. 1901, pp. 1-2 e, sulla commemor. tenuta all’Accademia fiorentina La Colombaria dal Lasinio stesso, A. Alfani, in Rassegna nazion., 1° nov. 1901, pp. 15 s.; S. Minocchi, D. C., in Riv. degli studi relig., I (1901), pp. 162-169; A. Coen, D. C., in Arch. stor. ital., s. 5, XXVII (1901), pp. 199-205; A. Orvieto, Di D. C. e della sua opera, in Riv. d’Italia, IV (1901), 2, pp. 255-273; R. Candiani, Le Renan d’Italie, in Revue Bleu, s. 4, XVI (1901), p. 192 b; anche A. Lattes-A. Toaff, Gli studi ebraici a Livorno nel sec. XVIII. Malahì Accoen (1700-1771), Livorno 1909, p. 17 n. 1; A. De Gubernatis, Matériaux pour servir à l’histoire des études orientales en Italie, Paris-Florence-Rome-Turin 1876, p. 102; Joh. de le Roi, Neujüdische Stimmen über Jesum Christum, Leipzig 1910, p. 29; sulla polemica col Benamozegh: G. Lattes, Vita e opere di E. Benamozegh, Livorno 1901, pp. 57, 95; S. Morais, Italian Hebrew Literature, New York 1926, pp. 212-221; sul processo Samama: R. Attal, Samama Nissim, in Encyclopaedia Judaica, Jerusalem 1971, XIV, col. 772; l’elenco degli scritti relativi alla controversia giuridica è in Revue des études juives, XVIII (1889), pp. 156 s., da integrarsi con Hebräische Bibliogr., XIX (1879), p. 101. Le più importanti recens. a opere del C. sono le seguenti: a Il libro del Cohelet: E. Benamozegh, Il Coelet e i suoi critici, in L’Israelita, I (1886), pp. 206-216, 225-231; H. Zotenberg, in Revue critique, I (1866), 2, p. 278; M. Steinschneider, in Zeitschr. für hebräische Bibliogr., IX (1896), p. 556; a Leggende talmudiche, in Literar. Centralblatt, XXI (1870), col. 1200; M. Steinschneider, in Zeitschr. für hebr. Bibl., IX (1896), p. 156; a Il Messia secondo gli Ebrei: in Literar. Centralblatt, XXV (1874), col. 1033; M. Vernes, in Revue critique, VIII (1874), 2, pp. 214-220; A. Kuenen, in Theol. Tijdschr., IX (1875), pp. 577 ss.; E. Benamozegh, Giornale napoletano di filosofia e lettere, scienze morali e politiche, I (1875), 2, pp. 329-346 (v. anche J. Drummond, The Jewish Messiah, London 1877, p. 185, e G. H. Dalman, Der leidende und der sterbende Messias der Synagoge im ersten nachchristl. Jahrtausend, Berlin 1888, p. 2); a Della poesia ebraica: M. Vernes, in Revue critique, XII (1878), 2, pp. 394-397; D. Comparetti, in Rass. sett. di polit., scienze, lettere ed arti, I (1878), 2, coll. 303-305 (ristampato in La Critica, XXV [1927], pp. 411-417; e in Poesia e pensiero nel mondo antico, Napoli 1944, pp. 226-233); a La profezia nella Bibbia: H. Oort, in Theol. Tijdschr., XVII (1883), pp. 485-489; a La legge del popolo ebraico: A. Revel, in Revue de théol. et de phil., XIX (1886), pp. 298-311; E. Montet, in Revue d’hist. des relig., II (1885), pp. 94 ss.; H. Oort, in Theol. Tijdschr., XIX (1885), pp. 657-665; in Revue des études juives, XI (1885), pp. 275 s.; a Il commento di Sabbatai Donnolo: H. Oort, in Theol. Tijdschr., XV (1881), pp. 575-579 (cfr. anche A. Neubauer, in Revue des études juives, XXII [1891], pp. 213-218); a Storia degli Israeliti: E. Montet, in Revue d’hist. des relig., XV (1887), pp. 218 ss.; XVIII (1888), pp. 103 s.; H. Oort, in Theol. Tijdschr., XXII (1888), pp. 555-558; a Il Cantico dei Cantici: C. Siegfried, Deutsche Literaturzeit., XIII (1892), col. 936; a Notizie di un docum. sulla storia decli Ebrei a Roma: D. Kaufmann, in Revue des études júives, XXXIX (1894), pp. 143-146 (cfr. anche A. Milano, Rass. mensile di Israel, X [1935-1936], p. 328 n. 1); a Il poema semitico del pessimismo: A. Loisy, in Revue critique, XLIV (1897), p. 442; C. Siegfried, in Deutsche Literaturzeit., XLV (1897), coll. 1760; X. Koenig, in Revue d’hist. des relig., XXXIX (1898), p. 241; a Gli Ebrei. Sunto di storia polit. e letteraria: A. Brückner, in Literar. Centralblatt, L (1899), coll. 886 s.; C. Steuernagel, in Deutsche Literaturzeit., XXI (1900), coll. 1002 s.; E. Montet, in Revue d’hist. des relig., XXXVIII (1898), p. 241; H. Oort, in Theol. Tijdschr., XXXIV (1900), pp. 167-170; G. Gabrieli, A proposito degli Ebrei in un recente libro di storia, in Rivista politica e letter., IX (1899), pp. 103-113- Si veda, inoltre: J. Winter-A. Wünsche, Die júdische Literatur seit Abschluss des Kanons, III, Trier 1896, pp. 747, 771, 844; I. Singer, in The Jew. Encycl., III, New York-London 1902, p. 607; S. Winiger, Grosse jüdische Nationalbiographie, I, Cernauti 1925, p. 512 a; U. Cassuto, in Encycl. Jud., V, Berlin 1930, coll. 84 s.; A. M. Rabello, in Encycl. Jud., V, Jerusalem 1971, col. 238.