Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La filosofia di David Hume segna profondamente la cultura illuminista europea per il tentativo di costruire una scienza dell’uomo che, muovendo dalle premesse teoriche poste dalla filosofia induttivo-sperimentale di matrice newtoniana, si estende alla comprensione della mente umana e delle sue molteplici azioni morali, sociali, estetiche e storiche. L’associazionismo delle idee, sorretto da esperimenti e osservazioni, è il metodo filosofico applicato al mondo delle emozioni, dei sentimenti e delle passioni di cui è principalmente fatta la natura umana, per dare sistematicità a un magmatico universo istintuale e mutevole.
David Hume: vita e opere
David Hume nasce il 26 aprile del 1711 a Edimburgo, dove morirà il 25 agosto 1776. Trascorre la giovinezza nella residenza di famiglia a Ninewells (Berwickshire). Secondogenito di una famiglia di piccola nobiltà, non ha diritto a ereditare né titolo né patrimonio, ed è quindi costretto a cercarsi una professione. Esclusa la carriera ecclesiastica (“the Church is my aversion”) e quella militare, poco promettente, intraprende studi di diritto. Dopo una breve esperienza lavorativa presso un mercante, lascia Edimburgo per recarsi in Francia al collegio di La Flèche, dove già aveva studiato Descartes. Entra così in contatto con la cultura europea e ha l’opportunità di conoscere i testi di autori francesi come Nicolas Malebranche, René Descartes, Pierre Nicole e Antoine Arnauld. Queste letture costituiranno il background culturale del suo pensiero.
Al ritorno in Gran Bretagna, pubblica il Trattato sulla natura umana (i primi due libri nel 1739, il terzo nel 1740). Hume non ha ancora trent’anni, è desideroso di fama e successo ed è convinto di aver scritto un capolavoro. La delusione è però cocente perché il libro non suscita pressoché alcuna reazione. Come egli stesso afferma nella sua Autobiografia, “Il trattato cadde nato morto dal torchio, senza neppure meritarsi la dignità di suscitare un mormorio tra i devoti”. La delusione non frena lo slancio del giovane Hume, che da quel momento si impegna a trasformare il suo ponderoso trattato in una serie di pubblicazioni snelle e più comprensibili non solo al tradizionale pubblico maschile ma anche a quello femminile, diventato consumatore attento anche di libri a soggetto, in senso lato, filosofico.
Nel 1741 e nel 1742 Hume pubblica due volumi di saggi, Saggi morali e politici, che ottengono immediato successo. Nel 1745 tenta la carriera accademica candidandosi alla cattedra di filosofia morale all’università di Edimburgo che però gli viene negata a motivo delle sue idee antireligiose. Lo scacco subito spinge Hume ad accettare un posto come tutore del marchese di Annandale e, nel 1746, come segretario del generale James St. Clair, che segue in una spedizione militare sulle coste francesi, e quindi in missione diplomatica per un paio di anni a Vienna e Torino.
Negli anni successivi Hume accresce costantemente la sua produzione filosofica. Nel 1748 compaiono i Saggi filosofici sull’intelletto umano (ribattezzati Ricerca sull’intelletto umano nel 1758). Seguono nel 1751 la Ricerca sui principi della morale e nel 1752 i Discorsi politici. Nel 1753 esce la prima edizione collettanea dei suoi Saggi e trattati e nel 1754 il primo dei sei volumi della Storia d’Inghilterra, che lo renderanno famoso in Gran Bretagna e in Europa. Il successo editoriale avanza di pari passo con le molte controversie filosofiche e religiose sorte nelle cerchie dei letterati e delle gerarchie ecclesiastiche: in particolare a causa delle considerazioni contenute nel saggio su I miracoli, e dei suoi ripetuti attacchi alla Chiesa cattolica, alla superstizione e all’entusiasmo nel primo volume della Storia. La sua fortuna economica migliora quando viene chiamato nella sua città come bibliotecario presso la facoltà degli avvocati, incarico che gli consente l’accesso a una straordinaria biblioteca. All’età di quaranta anni, ricco e famoso, incarna la figura dell’uomo di lettere che vive del proprio mestiere di scrittore. Alla fine degli anni Cinquanta, Hume si trasferisce a Londra, capitale editoriale e culturale della Gran Bretagna. Al seguito di Lord Hertford compie un viaggio a Parigi, centro dell’élite filosofica e scientifica del Settecento europeo. Qui incontra, oltre ai philosophes Denis Diderot (1713-1784) e Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert, anche Jean-Jacques Rousseau il quale da amico sincero si trasforma ben presto in suo fiero oppositore. Nel tentativo di sopperire alle sue difficoltà economiche, Hume gli offre asilo in Inghilterra, ma a causa del carattere ombroso di Rousseau, il rapporto si incrina e si conclude con uno scambio di pubbliche accuse. Dal 1767 al 1768 Hume ricopre l’incarico di sottosegretario di stato al Dipartimento del nord nel governo di William Pitt, e per il resto della vita sarà costantemente impegnato nella cura delle edizioni delle sue opere.
Il metodo sperimentale applicato alla filosofia: la nuova scena di pensiero
Il sottotitolo del Trattato recita così: “Un tentativo di introdurre il metodo sperimentale di ragionamento negli argomenti morali”. A Hume interessa riconoscere prioritariamente il legame che le scienze in generale hanno con la natura umana, anche quelle ritenute oggettive come la matematica e la filosofia naturale. Occorre sempre partire dal principio, già ribadito a suo tempo da John Locke, che i progressi nella scienza dell’uomo sono ammissibili solo a condizione che si conoscano la portata e i limiti dell’intelletto e si indaghi sulla natura delle idee e delle operazioni mentali su cui esse si basano. Questa indagine sulla natura, di carattere psicologico ed epistemologico, fa di Hume uno dei grandi teorici ispiratori delle scienze umane e sociali come si configureranno nell’Otto e Novecento. La scienza dell’uomo è la base di tutte le altre scienze; essa si fonda sull’esperienza e l’osservazione, secondo il modello newtoniano, cui Hume dichiara di ispirarsi nella costruzione della sua “nuova scena del pensiero”. La mente è ritratta come una collezione di percezioni, una sorta di teatro, dove le diverse percezioni compaiono in successione. Aderendo, nella scia di Locke, alla teoria dell’associazione delle idee, Hume ne modifica profondamente gli effetti. Le percezioni si articolano in impressioni e idee, che differiscono per l’intensità con cui si presentano. Ad apparire per prime alla mente sono le impressioni, ovvero le sensazioni, le passioni, le emozioni e le immagini, mentre le idee sono le copie illanguidite delle impressioni. Memoria e immaginazione operano per rappresentarci le idee e richiamarle alla mente o nella forma primigenia o in una forma modificata. Le proprietà che danno origine all’unione fra le idee in modo tale che da una si generi un’altra, sono la rassomiglianza, la contiguità nel tempo e nello spazio, la causa e l’effetto. Quest’ultima è la più estensiva perché coinvolge la maggior parte delle relazioni umane e sociali, si estende sia nel passato sia nel futuro, inglobando ciò che è direttamente presente al senso e alla memoria. Compito del filosofo è primariamente quello di esaminare gli effetti più che ricercare le cause. La forza dell’associazione e la ripetizione delle osservazioni inducono gli uomini a ritenere sostanziale il legame fra i fenomeni percepiti e conseguentemente a credere che sia possibile stabilire una deduzione logica l’uno dall’altro. In questo modo di rappresentarci i fenomeni Hume introduce i concetti di inferenza e di probabilità. Non abbiamo nessuna prova certa che la serie degli eventi osservati si ripeterà nella stessa modalità di oggi anche nel futuro, ma per un principio di economia gli uomini tendono ad inferire per il futuro accadimenti simili da eventi simili. Siamo convinti che le questioni di fatto si adeguino alle questioni di ragione, proprie delle scienze matematico-geometriche. La connessione fra due o più eventi, però, è opera della mente umana e non una proprietà intrinseca alle cose. L’evento x che nella nostra esperienza precede l’evento y non può essere indicato come la sua causa; esso appartiene a una combinazione attestabile tramite l’esperienza ma non affermabile a priori. Elementi extrarazionali, come l’abitudine e la credenza, sono considerati da Hume determinanti ai fini dell’orientamento gnoseologico della specie umana nel mondo, ma non scientificamente fondanti i principi del sapere. La credenza è basilare nella fondazione dell’esistenza di corpi esterni e dell’identità personale, che viene paragonata a “un fascio o collezione di percezioni differenti, unite da certe relazioni che si susseguono, sebbene erroneamente, dotate di una perfetta semplicità e identità” (Trattato I, IV, 2, in Hume, Opere filosofiche, a cura di E. Lecaldano, Laterza, Bari-Roma, 1992, vol. I, p. 220). Tali prese di posizione aprono la discussione sull’interpretazione della natura dello scetticismo humiano (moderato o radicale, ovvero “pirroniano”), da intendersi o quale unico strumento principe dei meccanismi mentali sottesi alla sostanzializzazione del mondo interno ed esterno dell’uomo e delle conseguenti forme di validazione, o in alternativa, quale metodica rigorosa per mantenere entro legittimi confini scientifici l’argomentazione probabilistica nei vari ambiti della ricerca umana.
David Hume
Le due classi della percezione umana
Trattato sulla natura umana - Sull’intelletto, Parte I, sez. I
Tutte le percezioni della mente umana si possono dividere in due classi, che chiamerò impressioni e idee. La differenza fra esse consiste nel grado diverso di forza e vivacità con cui colpiscono la nostra mente e penetrano nel pensiero ovvero nella coscienza. Le percezioni che si presentano con maggior forza e violenza, possiamo chiamarle impressioni: e sotto questa denominazione io comprendo tutte le sensazioni, passioni ed emozioni, quando fanno la loro prima apparizione nella nostra anima. Per idee, invece, intendo le immagini illanguidite delle impressioni, sia nel pensare che nel ragionare: ad esempio le percezioni suscitate dal presente discorso, eccettuate quelle dipendenti dalla vista o dal tatto e il piacere o dolore immediato ch’esso può causare. Non credo che siano necessarie molte parole per spiegare questa distinzione. Ognuno vede subito da sé la differenza tra il sentire e il pensare. In generale è facile distinguere la loro diversità di grado, anche se in certi casi particolari è però possibile che si trovino estremamente vicini l’uno all’altro. Così nel sonno, nella febbre, nella pazzia o in qualsiasi violenta emozione dell’anima, le idee possono avvicinarsi alle impressioni; e, dall’altra parte, talvolta accade che queste siano così deboli e tenui da non poterle distinguere dalle idee. Ma malgrado questa stretta rassomiglianza che troviamo in alcuni casi, esse sono in generale tanto diverse che nessuno può farsi scrupolo di classificarle separatamente e assegnare a ciascuna un nome speciale per metterne in rilievo la differenza.
David Hume, Opere filosofiche, Bari, Laterza, 1739
David Hume
Differenze tra memoria e immaginazione
Trattato sulla natura umana - Sull’intelletto, Parte III, Sez. V
Quando cerchiamo quel che distingue propriamente la memoria dall’immaginazione, ci accorgiamo che la differenza non può consistere semplicemente nelle idee che con la memoria abbiano presenti: poiché entrambe queste facoltà ricavano le loro idee semplici dalle impressioni e non possono mai oltrepassare la percezione originaria. E neppure basta a distinguerle l’ordinamento diverso delle idee complesse; poiché è ben vero che proprietà peculiare della memoria è di conservare l’ordine primitivo e la posizione delle idee, mentre l’immaginazione le traspone e cambia a suo piacimento; ma questa differenza non è sufficiente per distinguerne le operazioni e la natura, poiché è impossibile richiamare alla mente le impressioni passate per confrontarle con le idee presenti e vedere se l’ordinamento è esattamente lo stesso. Se, quindi, la memoria non ci si mostra tale né per l’ordine delle sue idee complesse né per la natura delle sue idee semplici, ne segue che la differenza fra essa e l’immaginazione sta nella superiorità della sua forza e vivacità. Un uomo può abbandonarsi alla sua fantasia e fingere che gli sia accaduta una serie di avventure: egli non può distinguere queste dal ricordo di altre simili, se non perché le idee di queste, immaginarie, sono più deboli e oscure.
David Hume, Opere filosofiche, Bari, Laterza, 1739
Passioni e morale: la natura degli affetti
Il II libro del Trattato è dedicato alle passioni, la cui analisi costituisce la premessa per affrontare il tema della morale. In linea con i teorici del moral sense, Anthony Ashley Cooper conte di Shaftesbury e Francis Hutcheson, dispiega il suo anti-intellettualismo etico nell’esame delle radici emotive della natura umana e dei meccanismi associativi che ruotano principalmente attorno al sentimento della simpatia.
Sino a oggi, scrive Hume, la discussione sui fondamenti della morale si è sviluppata attorno alle tesi che ne attribuiscono l’origine ora alla ragione ora al sentimento. Per Hume, se le discussioni sulle distinzioni morali – virtù/vizio, buono/cattivo – sono poste in modo apodittico dalla ragione, non sarà mai possibile muovere all’azione gli uomini. Il giudizio morale, ove fosse anche opera della razionalità, non potrebbe contrastare quella struttura di sentimento caratteristica della natura umana: “La ragione è, e deve solo, essere schiava della ragione, e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di servire e obbedire a essa” (Trattato II, 3, 3, p. 436). Coerentemente con la sua impostazione filosofica che nega validità al metodo razionalistico sostenuto da Samuel Clarke e William Wollaston, in quanto incapace di costruire una teoria “veritiera” della natura umana, data la variabilità e la mutabilità di questa, Hume ritiene la morale oggetto prevalentemente di sentimento piuttosto che di giudizio e valuta le questioni morali come questioni di fatto. E definisce virtuosa ogni qualità e azione della mente che sia accompagnata dalla generale approvazione dell’umanità; mentre viziosa ogni qualità che sia oggetto di biasimo o di censura da parte di tutti. L’accento si sposta così sul biasimo o l’approvazione del comportamento da parte degli altri come chiave per comprendere cosa rende un uomo oggetto di stima e di affetto, oppure di odio o di disprezzo. Il linguaggio stesso ci offre un catalogo delle qualità umane, che racchiude in sé le categorie morali; attraverso il ragionamento sarà facile elencare e raggruppare i comportamenti con criteri semplici, seguendo il metodo sperimentale, cioè traendo massime generali dal raffronto con casi particolari. Le passioni esaminate sono a coppie – orgoglio e umiltà, odio e amore – ed esaminate nei mutamenti che provocano in noi. Esse ci motivano costringendoci sovente a un giudizio che di solito è il risultato di un compromesso tra ragione e sentimento. Il vizio e la virtù non sono qualità intrinseche ma qualità della nostra mente, cui si devono aggiungere l’utile e il gradevole. Attraverso la distinzione fra virtù naturali (amore di sé e benevolenza) e artificiali (obblighi che regolano la proprietà, la giustizia e il governo, o la castità delle donne per rendere coesa la società), Hume crea un ponte tra la politica e l’economia. Un particolare ruolo svolge la simpatia come meccanismo di rafforzamento degli affetti attraverso un rapporto reciproco.
L’estetica del gusto
Affine al senso morale, che nasce spontaneamente e risponde a un sentimento di piacere, è il senso estetico. Hume offre un’analisi del giudizio di gusto – in particolare nel Trattato, nelle Ricerche, e nel saggio La regola del gusto (1757) – muovendo dall’esperienza e tenendo fede all’impostazione della scienza dell’uomo in cui egli ha collocato, accanto alla logica e alla morale, il criticismo, cioè l’estetica. All’idea di bellezza elaborata dalla trattatistica di primo Settecento – Lord Shaftesbury e Francis Hutcheson fra gli altri – come ordine, proporzione, armonia tra le parti rinvenibile in natura o in qualsiasi opera creativa dell’uomo, Hume affianca nel Trattato un’idea di bellezza come “comunicazione”, o relazione. È questo il caso in cui la simpatia viene detta parte determinante del piacere estetico dello spettatore, generato dalla considerazione della funzione utilitaristica e del vantaggio pratico impliciti nell’oggetto contemplato: così che il piacere per la vista di una casa, ad esempio, sarebbe in realtà determinato dall’immaginare il piacere di esserne proprietari e abitarvi.
In seguito, nel saggio La regola del gusto, Hume giunge a riconoscere che, pur affidato al sentimento individuale, il giudizio sulla bellezza sembra fondarsi su dati empirici i cui effetti di piacere o dispiacere risultano invariati nel pubblico d’ogni tempo e luogo: il che giustifica la ricerca di un criterio normativo in base al quale raccordare l’elemento soggettivo del gusto con la validità “oggettiva” del prodotto, e stabilire la maggior veridicità di alcuni giudizi su altri: se pure la bellezza non è nelle cose ma solo “negli occhi di chi guarda”, non tutte le impressioni hanno pari autorevolezza. Ne deriva che il vero giudizio estetico, in quanto attività intellettuale, è appannaggio solo di critici esperti, nei quali il gusto si è fondato e sviluppato sulla base di canoni e standard non dedotti aprioristicamente ma inferiti dall’esperienza: delicatezza di gusto, serenità di spirito, familiarità con gli oggetti dei quali si occupa, libertà dal pregiudizio grazie al controllo del buon senso. Una volta raggiunti simili requisiti, il critico può cogliere i processi mentali (disegno e riflessioni) che hanno presieduto alla realizzazione di un’opera d’arte, valutando in modo imparziale l’artista e la sua opera, insieme alle condizioni storiche del processo creativo e all’accoglienza da parte del pubblico.
La religione
Nelle due opere dedicate espressamente al tema della religione, Storia naturale della religione, pubblicata nel 1757 – una della Quattro dissertazioni – e I dialoghi sulla religione naturale, pubblicati postumi nel 1779, Hume affronta la questione da due punti differenti ma complementari, mostrando il suo atteggiamento profondamente critico nei confronti del fenomeno religioso. Nella Storia naturale della religione, come rivela il titolo, viene applicato il metodo in seguito definito da Dugald Stewart (1753-1828) “storia congetturale”, e impiegato da altri autori dell’Illuminismo scozzese, secondo cui occorre esaminare quali motivazioni psicologiche e sociali spingano gli uomini ad abbracciare il credo religioso. Quest’ultimo – sostiene Hume – non ha alcun fondamento diretto nella natura umana ed è spiegabile solo in quanto portato secondario delle passioni e del sentimento, come è ben illustrato dalle relazioni di viaggio degli esploratori nelle società primitive. La tesi principale del saggio ribalta un’opinione molto diffusa non soltanto fra i Gesuiti, ma anche tra i deisti: il monoteismo visto come religione originaria dell’umanità. Nelle società primitive la religione originaria è rappresentata piuttosto dal politeismo con le sue molteplici divinità, che rappresentano, reificati, i bisogni primari degli uomini, esseri fragili, ansiosi circa il futuro, alla ricerca spasmodica di protezione. Il monoteismo sorge in epoche successive grazie a un processo di razionalizzazione che investe soltanto l’élite intellettuale e colta della società, e non il popolo semplice e superstizioso, che finisce con l’affidarsi a figure di intermediari tra sé e l’essere assoluto. Il continuo e capriccioso flusso e riflusso di politeismo e teismo caratterizza le variazioni nelle forme della mentalità religiosa.
Nei Dialoghi Hume sceglie la forma dialogica per meglio rappresentare le varie posizioni in materia di religione naturale, attribuendo a ciascun personaggio tesi e caratteri differenti, rendendo la discussione simile a una rappresentazione teatrale e lasciando al lettore infine il compito di realizzare la sintesi tra i diversi punti di vista. Demea è un rigido dogmatico esponente del misticismo, Cleante un deista illuminato e Filone uno scettico spregiudicato. Il tema in discussione è la possibilità di conoscere gli attributi di Dio e i disegni della provvidenza, attraverso il lume naturale, in particolare attraverso l’uso dell’analogia, che comporta differenze oltre che somiglianze. La prova dell’esistenza di Dio e della sua natura infinitamente intelligente è sostenuta da Demea mediante il ragionamento a priori, e successivamente da Cleante mediante quello a posteriori. Cleante fa proprie le argomentazioni del teismo scientifico, ampiamente utilizzate anche dalla teologia razionale di Samuel Clarke. L’argumentum from design, adottato da Cleante e popolare nel corso del XVIII secolo, fa leva sulla perfetta corrispondenza dei mezzi ai fini, sulla funzionalità di ogni singola parte rispetto alla totalità dell’universo e sull’evidenza empirica del disegno delineato dal supremo architetto. “Volgete gli occhi intorno a voi sul mondo”, dice Cleante, “contemplatene l’insieme e ogni singola parte; troverete che esso non è altro che una grande macchina, suddivisa in un numero infinito di macchine più piccole le quali, a loro volta, ammettono ulteriori divisioni fino a un grado che supera ciò che i sensi e le facoltà umane possono scorgere e spiegare […] La singolare corrispondenza dei mezzi ai fini in tutta la natura rassomiglia esattamente, pur sorpassandole di molto, alle produzioni dell’artificio umano, dei propositi, del pensiero, della saggezza e dell’intelligenza umana” (Dialoghi sulla religione naturale, a cura di M. Dal Pra, Bari-Roma, Laterza, 1983, pp. 22-23). L’analogia fra la composizione dell’universo e la costruzione dei manufatti umani e delle opere d’arte porta la mente ad attribuire cause simili a effetti simili. A Demea e a Cleante si oppone Filone, che rappresenta l’istanza antimetafisica, cioè l’esigenza di non oltrepassare i confini della conoscenza umana. Nel dialogo inoltre non mancano i riferimenti al tema della presenza del male nel mondo, del finalismo e della tendenza umana all’antropomorfizzazione della divinità. L’esito del dialogo è di natura scettica, in quanto afferma l’indecidibilità delle questioni discusse in campo religioso.
La politica, l’economia e la storia
La teoria politica, cui Hume si ispira, è principalmente contenuta nei Discorsi politici (1752). Hume tenta la definizione di una scienza politica che contribuisca più delle altre scienze al pubblico bene e che si ponga lo scopo di suggerire previsioni sull’alternarsi delle forme politiche destinate, come le forme viventi, a nascere e a morire. Una scienza non prescrittiva che imponga valori politici, ma descrittiva, costituita di massime e leggi in grado di spiegare il comportamento dell’uomo in società. Contro la teoria contrattualistica whig sull’origine dello Stato da un lato, e contro quella dell’origine divina del potere sostenuta dai Tory dall’altra, Hume traccia la possibilità di uno sviluppo di diverse forme costituzionali che mirino principalmente alla difesa della proprietà privata e della stabilità sociale, in nome di una costituzione accettata da tutti i partiti, contro la faziosità dei gruppi.
Anche in ambito economico Hume ha il merito precipuo di affrontare alcuni temi chiave della nascente economia politica, come la teoria stadiale della società, il ruolo della moneta, il debito pubblico, la ricchezza originata dalla produzione umana, l’analisi dei settori fondamentali della produzione economica – agricoltura, manifattura e commercio – l’importanza del libero scambio contro le teorie mercantilistiche allora in voga, la necessità dell’interazione tra Stati nello scambio delle merci al fine di superare il divario esistente fra Paesi poveri e Paesi ricchi. Oscurata nei due secoli successivi dalla fama di Adam Smith, la teoria economica di Hume ha in seguito ritrovato ampi riscontri.
L’impossibilità di ottenere una posizione accademica nell’università di Edimburgo è tra i fattori che nel 1745 inducono Hume a dedicarsi agli studi storici. Dal 1752, nel ruolo di conservatore presso la facoltà degli avvocati, può disporre di una biblioteca di oltre 20 mila volumi. In dieci anni la Storia d’Inghilterra è conclusa; grande è il successo di pubblico: sette edizioni complete durante la sua vita. L’opera muove dall’invasione di Giulio Cesare alla Gloriosa rivoluzione. L’alternanza tra autorità e libertà, che si è incarnata nel conflitto fra corte e parlamento inglese, costituisce il tema generale. L’intento metodologico di Hume è di riscrivere la storia en philosophe. Le questioni cruciali sollevate alla luce della sua filosofia scettica sono la ricerca dell’autenticità delle fonti e il vaglio critico delle testimonianze e delle prove evidenti a supporto dei fatti. Gli eventi storici offrono testimonianze utili a chiarire le leggi della natura umana e offrono dati empirici a sostegno della spiegazione dei movimenti religiosi politici e dei processi economici che guidano in ultima istanza lo sviluppo delle arti e dei costumi. Il filosofo deve non solo cogliere la dinamica delle leggi generali ma anche analizzare la struttura in cui esse operano, il che significa studiare la natura umana nel suo divenire. La storia si presenta così come la disciplina più utile alla costruzione della scienza umana in quanto integra conoscenze che sarebbero troppo limitate se circoscritte solo al presente. È evidente l’influenza di Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu, il quale, pur criticato da Hume nel suo saggio Dei caratteri nazionali, in l’Esprit de lois (1748) imposta la storia in termini di “idealtipi”. Secondo Montesquieu lo spirito di un popolo è non già un’essenza, bensì un processo in continuo divenire. Per Hume lo storico deve saper descrivere l’influenza delle leggi sulla religione, della religione sui costumi, dei costumi sulle leggi per creare fra storia e natura un circolo virtuoso di reciproca contaminazione.
David Hume
La Giustizia deriva dall’egoismo e dalla limitata generosità
Trattato sulla natura umana - Sulla morale, Parte II, Sez. II
Ho già osservato che la giustizia trova la sua origine nelle convenzioni umane e che queste ultime vanno intese come un rimedio a certi inconvenienti che derivano dal concorso di certe qualità della mente umana e della situazione degli oggetti esterni. Le qualità della mente sono l’egoismo e una generosità limitata; e la situazione degli oggetti esterni è data dalla loro facilità di cambiare possessore e dalla loro scarsezza rispetto ai bisogni e ai desideri degli uomini. [...] E possiamo facilmente concludere che se gli uomini fossero forniti di tutto con la stessa abbondanza, o se tutti avessero per tutti gli altri lo stesso affetto e la stessa tenerezza che provano per se stessi, la giustizia e l’ingiustizia sarebbero egualmente ignote agli uomini.
Ecco quindi una proposizione che ritengo possa essere considerata certa: la giustizia deriva la sua origine solo dall’egoismo e dalla limitata generosità degli uomini oltre che dalle insufficienti risorse che la natura ha predisposto per la soddisfazione dei loro bisogni.
David Hume, Opere filosofiche, Bari, Laterza, 1739