Lynch, David
Regista cinematografico statunitense, nato a Missoula (Montana) il 20 gennaio 1946. L. è senza dubbio uno dei registi più innovativi del cinema contemporaneo. I suoi film si sono sempre caratterizzati come luoghi misteriosi, difficili da decifrare, frutto di una ricerca continua e orientata in più direzioni sul potere evocativo e significante dell'immagine in movimento. Cineasta molto amato in Europa è stato premiato al Festival di Cannes con la Palma d'oro per Wild at heart (1990; Cuore selvaggio) e con il premio per la miglior regia per Mulholland Dr. (2001; Mulholland drive).
Poiché il padre svolgeva l'attività di ricercatore per il Ministero dell'agricoltura, L. trascorse l'infanzia spostandosi in varie località di montagna degli Stati Uniti. Interessatosi alla pittura sin dagli anni del liceo, iniziò a frequentare istituti d'arte e a realizzare i primi dipinti. Dopo un viaggio deludente compiuto in Europa insieme all'amico Jack Fisk, futuro art director e regista, si trasferì a Philadelphia e si iscrisse alla Pennsylvania Academy of Fine Arts, impegnadosi in lavori saltuari per pagarsi gli studi. Influenzata dalla lezione di F. Bacon ed E. Hopper, la sua pittura cominciò a evolversi e L. sviluppò l'idea di creare delle pitture in movimento (films painting), ricerca che diede origine a Six figures (1967), breve film della durata di un minuto che, proiettato in loop su una scultura composta da sei teste, creava l'effetto di animare le membra umane scolpite. Grazie a questo primo cortometraggio ottenne dei finanziamenti e cominciò a lavorare sulle potenzialità dell'immagine in movimento. Nel 1968 realizzò così The alphabet, cortometraggio che univa animazione e riprese dal vero, e nel 1970 Grandmother, opere entrambe caratterizzate da una crescente complessità strutturale e narrativa. Sin dai primi lavori, L. mostrò infatti un'attenzione particolare per il cinema come luogo di sperimentazione di forme, di messa in scena del corpo e della materia; tale attenzione si delineò subito attraverso una particolare elaborazione della forma pittorica, evidenziando così come per L. l'esigenza di fare cinema nascesse proprio dai problemi posti dalla pittura. Nel 1970 si trasferì a Los Angeles dove seguì i corsi del Center for Advanced Film Studies. Fu qui che, dopo cinque anni di lavoro e numerose difficoltà produttive, portò a termine il suo primo lungometraggio quasi completamente autoprodotto, Eraserhead (1977; Eraserhead ‒ La mente che cancella). Dopo una prima uscita fallimentare nei circuiti commerciali, il film divenne un oggetto di culto, tanto da essere proiettato per anni e con successo negli spettacoli di mezzanotte. In Eraserhead L. lavorò non tanto sulla tradizione cinematografica precedente, quanto sulle possibilità del cinema di mettere in scena la materia organica e inorganica, mentale e fisica, sovrapponendo diversi livelli di realtà. Ogni elemento del film si presenta connotato da una forte carica simbolica e, al contempo, dotato di una consistenza materiale: è un oggetto o un corpo fisico e reale e non semplicemente un segno o un simbolo astratto. Il regista e produttore Mel Brooks, rimasto colpito da quest'opera, volle affidare a L. la regia di The elephant man (1980), la storia vera di un uomo affetto da una rara malattia che ne deturpava orribilmente il volto e il corpo, ambientata nella Londra vittoriana. Il film fu un grande successo e ottenne otto nominations all'Oscar e vari premi in festival internazionali. Caratterizzato da una narrazione lineare e dalla presenza di attori prestigiosi, The elephant man venne criticato dagli estimatori del regista come un cedimento alle leggi del mercato. In realtà il film sviluppa in altro modo la costruzione del mondo cinematografico di L.: la Londra della fine del 19° sec. diventa, attraverso il suo punto di vista, il luogo in cui convivono uomini e tecnologie. L'attenzione che egli pone alla strumentazione tecnica, ai macchinari dei primi impianti industriali, al fumo e alla caligine che ricopre i corpi è pari alla cura con cui mette in scena lo spettacolo del corpo di John Merrick (interpretato da John Hurt), l'uomo dall'aspetto mostruoso che attira su di sé una molteplicità di sguardi diversi: dalla pietà al raccapriccio, dallo scherno all'odio, dalla paura al disgusto. Il successo del film spinse il produttore Dino De Laurentiis a contattare L. per dirigere un film tratto da un romanzo dello scrittore di fantascienza F. Herbert. Dopo una lunga serie di vicissitudini produttive, Dune (1984) uscì sugli schermi di tutto il mondo, ma con numerosi tagli e rimaneggiamenti in fase di montaggio e fu un insuccesso, in gran parte dovuto al prodotto finale, lontano dalle intenzioni dell'autore. Pur trattandosi di un'opera ibrida, Dune mostra, però, ancora una volta l'attrazione di L. per il cinema come luogo di una visione alterata ‒ trovando in questo un punto d'incontro con Herbert ‒ in cui i corpi e gli sguardi subiscono continue e molteplici trasformazioni. L'idea di una metamorfosi del corpo come forma per indagare i livelli molteplici della realtà troverà spazio anche in Blue velvet (1986; Velluto blu). Quest'opera, per la quale ha ottenuto una nomi-nation all'Oscar per la regia, ha fatto molto discutere, soprattutto per una scena di nudo di Isabella Rossellini, allora moglie del regista. Blue velvet è in realtà un noir dallo stile personale in cui l'inquietudine costante che lo domina viene costruita da L. attraverso un linguaggio filmico innovativo: l'ambiguità tra l'evento reale e la dimensione onirica, quasi astratta, della rappresentazione giunge qui a un'ulteriore fase di perfezionamento. In quegli anni l'attività di L. ha spaziato in diverse direzioni: dalla televisione, dove ha diretto o prodotto serie come Twin Peaks (1990-91), On the air (1991-92) e spot pubblicitari, alla pittura e al disegno (ha realizzato, tra l'altro, una striscia giornaliera dal titolo The angriest dog in the world per un quotidiano di Los Angeles). Lungi dal rivelarsi semplici lavori su commissione, i prodotti televisivi di L. si presentano come ulteriore forma di sperimentazione del linguaggio audiovisivo. Twin Peaks (uno dei suoi maggiori successi) ha scardinato i codici del serial televisivo, permettendo al suo autore di estendere la durata della narrazione e alla vicenda di svilupparsi in molteplici direzioni, assumendo il ritmo di una deriva continua. La consacrazione internazionale di L. è giunta con Wild at heart (1990; Cuore selvaggio), basato su un romanzo di B. Gifford. Il film mette in scena il mondo visto dai due protagonisti, Sailor e Lula, in perenne fuga da una costa all'altra degli Stati Uniti. Lo sguardo deformante della macchina da presa lascia emergere un mondo fiabesco e crudele al tempo stesso, che scorre al ritmo frenetico del montaggio e della musica di Angelo Badalamenti, diventato uno dei collaboratori fissi di L. a partire da Blue velvet. Negli anni successivi il regista è tornato alle atmosfere e ai luoghi di Twin Peaks, realizzando un film sugli ultimi giorni della vita di Laura Palmer (il serial iniziava con la scoperta del suo cadavere), Twin Peaks: fire walk with me (1992; Fuoco cammina con me), la cui complessità narrativa e la cui oscurità hanno sconcertato i fan della serie televisiva dimostrando però ancora una volta la capacità di L. di utilizzare il cinema come dispositivo in grado di destrutturare i codici e le forme preesistenti. In questo caso, infatti, anziché sfruttare commercialmente il successo del serial, il regista ha utilizzato la struttura narrativa per sperimentare le diverse possibilità temporali offerte dal cinema. La sua ricerca nell'ambito delle strutture generative della 'settima arte' è proseguita con i successivi Lost highway (1996; Strade perdute), The straight story (1999; Una storia vera), Mulholland Dr., opere in cui è il movimento stesso, inteso come forma del cinema, a essere esplorato in una ideale trilogia sulla velocità e la lentezza dell'immagine. In Lost highway l'avvicendarsi vertiginoso degli eventi culmina con la problematica crisi del soggetto della narrazione (il protagonista, interpretato da Bill Pullman, si trasforma in un altro personaggio, interpretato da Balthazar Getty). Nel film gli elementi si sovrappongono gli uni agli altri, in una sorta di accelerazione continua e circolare, al fine di decostruire ogni forma di narrazione lineare, rendendo impossibile la spiegazione razionale degli eventi mostrati. In The straight story, avvertito dalla critica e dal pubblico come un prodotto anomalo rispetto alla restante filmografia del regista, la linearità della vicenda rovescia in maniera speculare l'impostazione del film precedente, e nasconde l'intenzione di L. di mostrare, attraverso la storia di un lungo viaggio attraverso gli Stati Uniti compiuto da un uomo malato che guida un tagliaerbe, la possibilità per il cinema di rallentare la propria velocità, di soffermarsi su particolari inediti e di mostrare, allo stesso tempo, il mondo come fonte di inquietudine e mistero. Mulholland Dr., a conclusione della trilogia, riprende lo statuto ambiguo del cinema secondo L., che qui si rivela sospeso tra la percezione soggettiva e lo sguardo oggettivo di due donne, ognuna delle quali può essere, alternativamente, reale o il prodotto del desiderio dell'altra. Nel film è la finzione stessa del cinema (la vicenda è ambientata a Hollywood) a svelare l'impossibilità ‒ per lo spettatore come per le due protagoniste ‒ di distinguere ciò che è reale e ciò che non lo è. Un'oscillazione che permette all'immagine di liberarsi dalla pretesa di oggettività e di creare un dispositivo in grado di mostrare vari livelli di rappresentazione, da quello del desiderio, a quello del ricordo, sino a quello dell'immaginazione.
David Lynch. Film, visioni e incubi da Six figures a Twin Peaks, a cura di F. Chiacchiari, D. Salvi, Roma 1990.
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