WINSPEARE, Davide
WINSPEARE, Davide. – Nacque a Portici il 22 maggio 1775, figlio primogenito dell’intendente e ingegnere Antonio (v. la voce in questo Dizionario) e di Giuditta Scillitani.
Educato a Napoli nel Reale collegio del Salvatore, conseguì il titolo di dottore in legge e si dedicò all’avvocatura, fino a quando nel 1798 divenne fiscale delle Regie Poste e procacci. Il 17 gennaio 1799, quando il popolo invase la casa di Giuseppe Zurlo, sospettato di aver tradito la monarchia, Winspeare si presentò al suo posto e rischiò di essere condotto a morte. Dopo la proclamazione della Repubblica il 21 gennaio 1799, per ritorsione contro la nomina del padre a capo di bande realiste il 26 febbraio fu arrestato e fu rilasciato il 13 luglio (De Nicola, 1906, I, pp. 63, 241).
Nel 1801 fu inviato in Puglia, con l’incarico di vigilare al mantenimento del corpo di occupazione francese previsto dal trattato di Firenze del 1801. Nel 1803-04 ebbe l’incarico di sovraintendere alla restituzione dei beni alla restaurata Compagnia di Gesù. La sua carriera divenne tumultuosa durante il Decennio francese: avvocato fiscale presso l’Udienza di guerra e Casa reale (1806), procuratore generale della commissione istituita per l’applicazione della legge abolitiva della feudalità emanata da Giuseppe Bonaparte il 2 agosto 1806 (1808), sostituto procuratore presso la corte di appello di Napoli poi relatore al Consiglio di Stato (1810), membro della commissione incaricata della traduzione del codice penale francese, pubblicato nel 1810 (Codice d’istruzione criminale dell’Impero francese tradotto dalla Commissione creata da S.M. col decreto dei 22 Novembre 1810), membro della commissione generale degli archivi del Regno (1811), avvocato generale presso la Cassazione (1812) (Arnault et al., 1827; Masucci, 1883, pp. VIII-IX; Rizzo, 2004, pp. 58-60).
Nel 1807 uscì presso la stamperia simoniana Delle confessioni spontanee de’ rei: discorso per l’occasione di alcuni avvenimenti importanti, che ebbe nel 1840 una seconda edizione riveduta e corretta dall’autore e fu poi inserita nelle Dissertazioni legali del 1844.
Ironizzando sulle polemiche tra i sostenitori della tortura e gli scrittori che si atteggiavano a «difensori dell’umanità», accusava questi ultimi di voler togliere validità non solo alle confessioni estorte ma anche a quelle volontarie: un «abuso della filantropia» che finiva con indebolire la giustizia, lasciando impuniti anche «delitti atrocissimi». Sulla base di ampie considerazioni storiche e giuridiche sulla natura della testimonianza, discutendo casi e autori che dall’antichità arrivavano fino a Jacques-Pierre Brissot de Warville, Gaetano Filangieri, Mario Pagano, nell’ambito del diritto civile, penale e canonico, intendeva dimostrare che le confessioni rese senza alcuna minaccia esterna, ma per il «solo stimolo della coscienza», e senza coinvolgere altri, dovevano essere considerate dai giudici con una certezza relativa, come qualunque altra prova (1840, pp. 11-14, 98-100).
Nel 1811 uscì l’opera sua più famosa, la Storia degli abusi feudali, considerata un momento chiave «nello sviluppo della tradizione storicistica napoletana» (Galasso, 1988, p. 212). Fondata sulla ricca esperienza acquisita nell’ambito della commissione feudale, l’opera non si limitava a dar conto dei principi che avevano ispirato il suo operato, ma era anche una sorta di summa della storia dei feudi in Europa dagli ultimi tempi dell’Impero romano alle invasioni barbariche e alle monarchie moderne, e al tempo stesso delle polemiche riformatrici del XVIII secolo.
Dedicata a Gioacchino Murat, che gliela aveva commissionata, celebrato per aver portato a compimento l’abolizione dei feudi nel Regno di Napoli, la Storia intendeva dimostrare come per secoli si fossero fatti passare per diritti quelli che non erano altro che degli abusi. Presentata come una «storia generale della vita civile delle nazioni», non poteva al tempo stesso non considerare come sua « parte principale quella che illustra le particolari circostanze» del Regno di Napoli (p. XXXI), che aveva dovuto fare «l’esperimento de’ mali di tutte le nazioni» (p. 12). Densa ed efficace la storia che ne faceva, dal tempo dei Ducati all’invasione normanna, e via via dagli Svevi agli Angioini agli Aragonesi e agli Spagnoli e infine ai Borboni. La sua ricostruzione era tributaria di una lunga sedimentazione storiografica della quale dava conto in note fittissime: Ludovico Antonio Muratori, William Robertson, Pietro Giannone, Edward Gibbon, Montesquieu, Gabriel Bonnot de Mably e molti altri ancora. Seminascosta nelle note, non mancava la rivendicazione di una felice continuità tra la legislazione abolitiva francese e l’impegno settecentesco del ceto forense napoletano, dotato di una «coltura che non è certamente seconda a quella delle altre capitali di Europa» (p. 209 nota 122): in particolare ricordava Giacinto Dragonetti, Nicola Vivenzio, Giuseppe Zurlo (p. 221 nota 150). Ugualmente significativa era la polemica nei confronti dei pregiudizi che legavano la nobiltà ai soli feudi, laddove era sempre esistito un corpo nobiliare «cultore degli studj e d’ogni arte liberale» (p. 212 nota 129). Il minuzioso catalogo dei gravami baronali (pp. 223-259), preziosissimo oggi per gli studiosi, era la migliore testimonianza della molteplicità di abusi mascherati da diritti che impedivano qualunque libera attività economica.
Grazie al suo impegno nella commissione feudale, nel 1814 conseguì il titolo nobiliare.
Caduto Murat, decise di lasciare Napoli per sottrarsi «alle incertezze d’un cambiamento politico» e alle «disposizioni del minuto popolo all’anarchia», come scrisse da Trieste il 5 luglio 1815 al fratello Francesco Antonio (Rizzo, 2004, p. 232). Partito insieme a Zurlo, andò in Germania e visse per alcuni anni a Dresda, dedicandosi soprattutto agli studi e a progetti storici, fra i quali un’opera sulle Origini delle nazioni, che non vide mai la luce (Arnault et al., 1827, p. 289). Nel febbraio del 1817 raggiunse a Parigi il fratello Roberto, ufficiale nell’esercito russo. All’altro fratello, Francesco Antonio, il 5 luglio 1818 da Trieste scrisse di non nutrire alcun rimpianto per le cariche rivestite in passato (Rizzo, 2004, p. 66). Tornato a Napoli nel marzo del 1819, riprese l’attività forense, attestata da numerose memorie giudiziarie a stampa, alcune delle quali raccolte in un volume di Allegazioni (Napoli, presso Angelo Trani, 1829). Nello stesso anno e presso lo stesso tipografo-editore uscirono I libri delle leggi di Cicerone volgarizzati dal B. Winspeare, con testo originale a fronte (una seconda edizione riveduta dall’autore uscì nel 1846), alla cui traduzione aveva atteso durate l’esilio.
Nel 1820 partecipò attivamente al movimento liberale, fu membro della giunta provvisoria di governo istituita il 9 luglio dal vicario del re Francesco di Borbone e firmò il Manifesto della Giunta provvisoria di governo al Parlamento nazionale del 2 ottobre 1820 (pubblicato dal tipografo Trani), che ripercorreva gli eventi che avevano portato all’istituzione della giunta, illustrava il suo operato nelle numerosissime riunioni tenute nei mesi precedenti, in particolare la pubblicazione di un catechismo civile per l’istruzione del popolo nei diritti e doveri del cittadino (p. 17), riferiva dell’intensa attività svolta per arrivare alla formazione del Parlamento, al quale la giunta rimetteva i suoi atti, dichiarando concluso il suo mandato.
Negli anni successivi proseguì la sua attività forense, impegnandosi in cause tra privati, comuni, ex baroni, enti ecclesiastici, pubblicando numerose altre allegazioni, fra le quali Delle chiese ricettizie del Regno. Dissertazione del b. Winspeare da servire d’illustrazione alla controversia tra ’l comune di Scafati ed il vescovo di Nola nella Consulta di Napoli, pubblicata presso Trani nel 1833 e nel 1842, che affrontava un tema importante della tradizione giuridica meridionale.
Nel 1844 fu il nipote Giacomo Winspeare, figlio del fratello Francesco Antonio, a curare una raccolta di sue Dissertazioni legali, pubblicate a Napoli presso Gennaro Agrelli e riedite nel 1850.
Nella prima edizione, un «Avviso dell’Editore» faceva esplicito riferimento al «presente ozio letterario» dell’autore, ormai «ritirato da ogni pensiero del foro». La raccolta era in quattro volumi: «il primo conterrà le quistioni transitorie, alle quali ha dato luogo il cambiamento delle leggi, avvenuto tra noi dal 1806 insino al 1817. Il secondo conterrà materie di diritto Civile, sì antico, che moderno. Il terzo, materie di diritto Canonico, ecclesiastico, municipale antico, e del nuovo diritto amministrativo. Il quarto, materie di sostituzioni fedecommessarie e di diritto feudale, circa le quali ognun sa essersi l’autore per molti anni versato» (pp. n.n.).
In quegli anni Winspeare si dedicò soprattutto agli studi. Tra il 1843 e il 1846 pubblicò presso la consueta tipografia Trani tre volumi di Saggi di filosofia intellettuale: I, Introduzione allo studio della filosofia (1843); II, 1, Dizionario della ragione A-G (1844); II, 2, Dizionario della ragione I-Z (1846).
I Saggi ricostruivano la storia del genere enciclopedico a partire dal XVI secolo, per sottolineare che i dizionari filosofici settecenteschi, in particolare l’Encyclopédie di Denis Diderot e D’Alembert, certamente innovativi, avevano avuto tuttavia dei precedenti importanti, fra i quali spiccava particolarmente la Cyclopaedia di Ephraim Chambers (1728), che aveva avuto una «poco lodevole versione» a Napoli nel 1747 (Dizionario della ragione, II, 1, p. 7 nota a). L’Encyclopédie era un esempio evidente di come questo genere di opere fosse destinato a una rapida usura, dovuta al progresso inarrestabile delle scienze e delle arti. Proponeva perciò il suo Dizionario della ragione, volto a «spiegare l’essenza di tutte le cose» e i rapporti tra il linguaggio e le cose stesse (p. X), tanto più necessario in Italia dove la scolastica aveva a lungo impedito un adeguato sviluppo del linguaggio scientifico (Introduzione allo studio della filosofia, p. 442).
Celibe e senza figli, si preoccupò negli ultimi anni di assicurare ai suoi fratelli e ai loro discendenti il titolo baronale e il suo cospicuo patrimonio immobiliare, fino alla fine ampliato con nuove acquisizioni, a Napoli e nell’Aversano.
Morì a Napoli il 13 settembre 1847.
Fonti e Bibl.: Oltre alla corrispondenza conservata nell’Archivio privato Winspeare a Depressa (Tricase) nel Salento (sul quale Rizzo, 2004), documenti connessi ai suoi incarichi, in particolare a quello nella commissione feudale, sono nell’Archivio di Stato di Napoli.
A.V. Arnault et al., Biographie nouvelle des contemporains, XX, Paris 1827, pp. 286-289; F. Persico, Commemorazione dei giureconsulti napoletani, 5 marzo 1882, Napoli 1882, pp. 177-184; G. Masucci, Prefazione, in D. Winspeare, Storia degli abusi feudali, Napoli 1883, pp. V-XXII; C. De Nicola, Diario napoletano 1798-1825, I-III, Napoli 1906 (ristampa a cura di R. De Lorenzo, Napoli 1999), I, ad ind.; G. Pepe, Storia degli abusi feudali, in Archivio storico per la Calabria e la Lucania, XVII (1948), pp. 21-34, 133-150; G. Galasso, David W.: Il feudo come abuso e la storia come bipolarità, in Archivio di storia della cultura, I (1988), pp. 179-217; M.M. Rizzo, Potere e «Grandi Carriere». I Winspeare (secc. XVIII-XX), Galatina 2004.