De arte venandi cum avibus
Il trattato De arte venandi cum avibus, relativo alla caccia praticata con l'ausilio di uccelli rapaci, compilato da Federico II nel corso di circa un trentennio ‒ rimasto verosimilmente incompiuto a causa della morte dell'imperatore ‒, è unanimemente riconosciuto quale una delle opere scientifiche più significative del periodo che abitualmente viene definito Medioevo.
Poiché si tratta dell'unica opera redatta personalmente dal sovrano, essa si configura quale fonte di straordinaria rilevanza da più punti di vista: testimone, oltreché della passione totalizzante che egli nutrì per l'ars della caccia con i rapaci, elevata a filosofia di vita, della sua profonda cultura naturalistica, dell'ansia di conoscere ea que sunt sicut sunt, dell'inesauribile desiderio di misurarsi con una disciplina teorica e pratica di estrema complessità, quasi uno specchio dell'attività politica al vertice dell'Impero, l'ars venandi cum avibus fridericiana poco ha in comune con le tradizionali pratiche venatorie, alle quali sovrani e aristocrazie, in Oriente come in Occidente, dedicavano e avrebbero dedicato per molti secoli ancora gran parte degli spazi lasciati liberi dalle attività di governo e da quelle militari. Manifestazioni di coraggio personale, di abilità, di sprezzo del pericolo, le cacce dei sovrani che affrontavano personalmente e all'arma bianca il bersaglio grosso (cinghiali, orsi, uri, ecc.) erano lo specchio delle loro virtù militari, un'altra faccia della guerra; in seguito lo furono di differenti caratteristiche connesse con l'immagine che dell'esercizio del potere re e principi intesero trasmettere. Strettamente correlata all'esaltazione dell'astuzia e della destrezza, la caccia al cervo con l'arco divenne una moda sempre più diffusa tra le aristocrazie nei secoli centrali del Medioevo, in quanto sinonimo di intelligenza piuttosto che di forza e dunque esercizio più adeguato per sovrani che intendevano dare di sé l'immagine del re saggio. Le cacce dei re si trasformarono in seguito in momenti di esibizione della magnificenza degli apparati delle corti divenendo prevalentemente lussuose escursioni nelle grandi riserve popolate di selvaggina, esibizioni compiaciute, soprattutto in presenza di ospiti di alto rango, di superbe mute di cani, di sapienti capicaccia, di cacciatori provetti.
Nel panorama delle cacce principesche di tutti i tempi l'ars venandi fridericiana si staglia come un unicum, in quanto è sì attività venatoria di grande impatto, ma è prin
cipalmente una modalità intellettuale complessa attraverso la quale l'imperatore, il Gran Falconiere, si esprime grazie a un personalissimo modo di rapportarsi con i rapaci, con le prede, con il territorio in cui esercita l'ars e che risponde a una finalità profonda, certamente non conclusa entro l'orizzonte venatorio: cacciare, per Federico II, equivale a conoscere la natura per dominarla da falconiere e, al tempo stesso, da scienziato e da imperatore.
Il trattato, composto in un limpido latino, si giova dell'uso sapiente di una terminologia, come afferma l'autore, da lui stesso sovente coniata per sopperire ai vuoti di un lessico tecnico ancora in parte da definire: "Quest'arte, infatti, possiede come tutte un proprio lessico; e quando Noi non abbiamo saputo trovare nella lingua latina i termini appropriati ad ogni situazione, ci siamo serviti di quelli che Ci sono sembrati esser più vicini a fare comprendere il nostro pensiero" (De arte venandi, 2000, p. 5).
Quando il giovane Federico, secondo il costume dei re, venne addestrato anche alla caccia, a ogni genere di caccia, certo apprese la falconeria e l'astoreria, cioè la caccia 'di alto volo' e quella 'di basso volo' (i falconidi attaccano la preda dall'alto, in picchiata, gli astoridi in linea retta, volando bassi), dagli esperti, soprattutto arabi, che risiedevano alla corte di Palermo, ove questo svago era molto in voga e dove i sovrani normanni avevano commissionato alcuni fra i più importanti trattati di falconeria redatti nel sec. XII (quali il Dancus rex, il Guillelmus falconarius, e probabilmente il Gerardusfalconarius). Federico II ebbe dunque modo di conoscere teoria e pratica della falconeria e, come osserva nel Prologo dell'opera, valutò, allorché ne progettò la stesura, le profonde lacune dei trattati che egli conosceva fin da giovane, muovendosi con l'intenzione non solo di integrarle, ma di elevare quel tipo di caccia dal rango di ars mechanica a quello di un'ars senza aggettivi, ove teoria e pratica trovassero un necessario, perfetto equilibrio.
"Ad affrontare (la compilazione di) quest'opera, chiarissimo M.E., ci ha indotto la tua pressante sollecitazione, il desiderio di correggere gli errori circa il presente oggetto (la falconeria) dei molti che praticano quest'arte in modo improprio, senza possederne i fondamenti, seguendo taluni testi erronei e lacunosi, e l'intento di tramandare ai posteri una trattazione sistematica della materia di questo trattato […]" (ibid., p. 3).
Questa la sfida che pose a se stesso e che propose al suo nobile pubblico, esortandolo con una modestia di maniera a fare meglio di quanto egli stesso nel trentennale lavoro aveva potuto fare: "Il fatto che, nonostante che le opere e gli autori siano molto numerosi, pochi siano i trattati intorno a quest'arte, sta a significare che si tratta di un'arte assai complessa e non ancora sistemata. Aggiungiamo che, se alcuni nobili, meno occupati di Noi, vorranno attendere con impegno a quest'arte, con l'ausilio di questo trattato ne potranno comporre uno migliore, dal momento che, continuamente, si evidenziano nuovi e complessi problemi circa tutto ciò che concerne quest'arte. Chiediamo, poi, ad ogni nobile lettore che debba rivolgersi a questo libro fondandosi sulla sua sola nobiltà, che lo faccia leggere e esaminare da qualche esperto di scienze, portando indulgenza per le cose meno ben dette" (ibid., p. 5).
Dell'arte di cacciare con gli uccelli rapaci, Federico subì dunque per tutta la vita il fascino, arrivando a praticare quasi esclusivamente la falconeria. La considerò la più nobile tra le venationes, come afferma nel Prologo al libro I del trattato (ibid., pp. 6-11) e per praticarla impegnò notevolissimi capitali: per procurarsi ovunque i migliori rapaci; per mantenere falconieri in grado di allevare, addestrare e curare i rapaci; per costruire dimore per gli uni e per gli altri, e per sé residenze di caccia e relative riserve soprattutto nelle zone umide della Capitanata; per far viaggiare falconieri e rapaci ‒ che necessitano di particolare attenzione nel trasporto ‒ ovunque si spostasse anche con l'esercito. Stava cacciando con i falchi insieme agli uomini del seguito e al giovane Manfredi quando l'accampamento di Vittoria fu saccheggiato dai parmensi nel 1248. Della totalizzante passione per la falconeria sono testimoni i numerosissimi mandati relativi a falchi e falconieri contenuti nell'unico registro superstite della sua cancelleria (1239-1240). La perdita di tutti gli altri registri della cancelleria ci priva di notizie anche per questo importante aspetto della vita dell'imperatore e della corte siciliana.
Preliminare ad ogni considerazione è un cenno alla tradizione manoscritta del trattato. Il De arte venandi cum avibus ci è pervenuto in due redazioni, denominate dalla critica redazione "breve" e redazione "lunga", ascrivibili a due dei figli di Federico II, rispettivamente Manfredi ed Enzo. Della redazione "breve", che comprende i due libri iniziali dell'opera, di cui restano in tutto sei libri, possediamo due soli testimoni: il ms. R (il Pal. Lat. 1071 della Biblioteca Apostolica Vaticana), databile alla seconda metà del sec. XIII, ornato di pregevoli miniature che si devono alla cura di re Manfredi, e una sua copia assai tarda (della fine del sec. XVI), il ms. W (Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, ms. 10948).
Il ms. R fu fatto eseguire da Manfredi che vi si fece effigiare in una delle prime miniature e che in questo manoscritto e nella sue copie risulta anche il petitor dell'opera. Il re è anche l'autore di dodici brevi aggiunte al testo, precedute dall'appellativo rex o rex Manfridus. La redazione del manoscritto è dunque ascrivibile agli anni in cui lo stesso Manfredi fu re di Sicilia (1258-1266).
Il manoscritto accompagnò verosimilmente il suo possessore durante le infauste imprese militari nelle quali fu coinvolto: ciò potrebbe spiegare la precoce perdita di tre fascicoli, le lacerazioni nelle prime carte e le vistose macchie di umidità che ne deteriorano le prime trentacinque. Esso cadde probabilmente nelle mani del nemico a Benevento, il 26 febbraio 1266, giorno fatale per l'erede di Federico. Agli inizi del secolo successivo risulta, infatti, appartenere al signore francese Giovanni II di Dampierre e di Saint-Dizier, i cui parenti erano stati a Benevento con Carlo d'Angiò. Appassionato di falconeria, Giovanni ne dispose una traduzione in antico francese che fu completata, dopo la sua morte, dal figlio Guglielmo, che la fece corredare, sulla falsariga del manoscritto manfrediano, da uno splendido apparato di miniature di mano del maestro Simon d'Orliens.
Successivamente il manoscritto è testimoniato in Germania. Nel 1594 apparteneva a un noto medico naturalista di Norimberga, Joachim Kammermeister (Camerarius) che se ne privò per due anni al fine di permettere a Markus Welser di curarne un'edizione a stampa: nel 1596 essa vide la luce ad Augusta dall'editrice "ad insigne pinus" diretta da Welser e David Höschel: è l'editio princeps del trattato (redazione "breve"). Pochi anni dopo il prezioso codice entrò a far parte, a Heidelberg, della biblioteca dei principi elettori del Palatinato, verosimilmente per il tramite di Ludwig, figlio di Joachim Camerarius, per molti anni al loro servizio. Infine, dopo la conquista e il saccheggio della città di Heidelberg da parte del conte di Tilly (1622), fu donato, insieme a tutta la Biblioteca palatina, dal duca Massimiliano di Baviera a papa Gregorio XV.
Da una delle addizioni di Manfredi all'opera paterna è possibile evincere dati assai importanti circa lo stato di completamento del De arte venandi alla morte dell'imperatore. Nella sesta addizione, che si situa all'inizio del libro II, introdotto, come il I, da un Prologo assai articolato, Manfredi dichiara di avere tra le mani una parte dell'opera paterna che presenta lacune ed errori; egli si industria allora di colmarli e correggerli ricorrendo a carte paterne che fatica a trovare e, tra l'altro, scrive: "IL RE. […] mentre stavamo cercando quaderni e annotazioni di quest'opera, perché avevamo riscontrato che aveva bisogno di essere corretta, a causa di errori dello scriba, abbiamo trovato in alcune carte un capitolo intitolato: 'Il piumaggio dei falchi…'" (De arte venandi, 2000 pp. 1138-1139).
Manfredi dunque corresse gli errori riscontrati nel testo paterno di cui disponeva, colmò le lacune attraverso gli appunti del padre. Tuttavia, a proposito del suo intervento sull'opera, restano aperti molti interrogativi. Perché fece ricopiare solo i primi due libri dell'opera? disponeva solo di quelli o aveva sottomano anche il resto del trattato? e, nella seconda e più verosimile ipotesi, quanto esteso era quel 'resto'? Alcune risposte, seppure parziali, possono essere fornite da un altro testimone pressoché coevo, il ms. B, databile anch'esso alla seconda metà del sec. XIII e conservato alla Biblioteca Universitaria di Bologna (Lat. 717). Si tratta del più antico codice della redazione "lunga" del trattato. Edito di recente da chi scrive (l'edizione contiene la collazione con il Pal. Lat. 1071 della Vaticana), è ascrivibile alle cure di un altro dei figli di Federico II, Enzo re di Sardegna. Nella storia della tradizione testuale dell'opera fridericiana, l'intervento di Enzo, già legatus totius Italie, sul testo paterno è di grande significato e ha consentito, in questi ultimissimi anni, di approfondire un tema fino a oggi trascurato: l'influenza culturale esercitata dal figlio dell'imperatore, prigioniero per ventitré anni a Bologna, sull'ambiente variegato e complesso della città e dello Studium, dove poeti, uomini di legge e intellettuali potevano frequentare l'illustre prigioniero che si era formato alla poliedrica corte paterna. A Bologna, dove la reclusione non gli impedì di avere contatti con l'esterno, Enzo aveva fatto venire, attraverso gli amici cremonesi, i suoi libri, i suoi appunti, le sue sostanze: risale ai primissimi anni della sua detenzione l'incarico affidato a Daniel Deloc, cremonese, di tradurre dal latino in francese il trattato di falconeria noto come Moamin che suo padre, l'imperatore Federico II, aveva fatto tradurre (collaborando egli stesso all'operazione) dall'arabo al latino da Teodoro di Antiochia nei primi anni Quaranta del Duecento.
Il ms. 'enziano', redatto in una chiara littera bononiensis, è articolato in sei libri: i primi due ricalcano, con differenze non sostanziali, i due del manoscritto manfrediano che appare più corretto, dal punto di vista ortografico, di quello bolognese. Alcune pregevoli miniature e bei fregi ornano le iniziali di ciascun libro: sono certamente da considerare ritratti dell'imperatore le figure a cavallo delle cc. 1r, 2v e 125r; resta il dubbio se si possa ravvisare Enzo nel giovane aristocratico della c. 35r. Quanto al petitor, che nel Prologo del manoscritto manfrediano è lo stesso Manfredi (egli amò farsi chiamare dal padre "Manfredi, figlio carissimo"), nel manoscritto bolognese esso è indicato con le iniziali "M.E". Probabilmente il petitor è "magister Encius", il gran maestro falconiere della corte fridericiana, elemento di spicco tra i collaboratori dell'imperatore. Il manoscritto bolognese e le sue copie restituiscono un trattato articolato in sei libri che tuttavia, stando a quanto previsto nei due proemi (ai libri I e II), non contiene tutto quanto l'imperatore dichiara di voler trattare: non vi sono cenni all'astoreria, non all'addestramento dei cani, manca del tutto un elemento che caratterizzava la precedente trattatistica: le cure per i rapaci, che egli dice di volere affrontare. C'erano tra i fogli paterni di cui parla Manfredi nella succitata addizione anche appunti su queste materie? o magari addirittura capitoli completi? Il problema resta aperto in quanto esso non trova soluzione neppure nella redazione "lunga" del trattato.
Se si confronta l'apparato iconografico del manoscritto bolognese, che consta solo di sette miniature, con quello del manoscritto vaticano, non si può non paragonare la diversa fortuna dei due figli-diffusori dell'opera paterna: l'uno re di Sicilia, l'altro detenuto. Le precarie condizioni di prigioniero, seppure di rango, gli impedirono di far corredare il manoscritto da un adeguato apparato illustrativo, quale egli forse aveva visto ornare le pagine del 'secondo' Falkenbuch (v. infra) paterno o forse la copia imperiale del De arte venandi, completata o no che fosse nel maggio 1249, data della cattura di Enzo che precedette di un anno e mezzo circa la morte di Federico II. Enzo fece redigere un testamento nel quale affidava i suoi libri ad alcuni amici bolognesi: è dunque verosimile che il manoscritto non si sia mai allontanato da Bologna, dove Enzo morì in povertà.
Nell'introduzione all'edizione del ms. Lat. 717 della Biblioteca Universitaria di Bologna, collazionato per i primi due libri con il Pal. Lat. 1071 della Vaticana, si è ridimensionato, accettando e rafforzando le ipotesi fortemente circostanziate di J. Fried, il peso che la critica, a partire da C.A. Willemsen fino a B. van den Abeele, ha attribuito a una fonte significativa per chi abbia riflettuto sulla tradizione testuale del De arte venandi fridericiano: la lettera attraverso cui il mercante milanese "Bottatius" offriva a Carlo d'Angiò un manoscritto che gli era stato venduto dopo il saccheggio dell'accampamento imperiale di Vittoria. Egli lo descrive con dovizia di particolari, definendolo "nobilis liber" in due volumi "argenti decore artificiose politus, et imperatorie maiestatis effigie decoratus […]"; lo dice appartenuto al defunto imperatore Federico e osserva che l'opera, per "compositam capitulorum distinctionem docet ancipitrum, falconum, ierofalconum, asturum, et ceterarum nobilium avium et canum omnium cognitionem, nutrituram, erudutionem, et eorum omnium infirmitates et earum causas, signa et curationes similiter earumdem; illic etiam ostenditur quomodo si quis ab aucupe fugerit possit et debeat mirabiliter rehaberi; venationes insuper describit et quomodo versari venator se debeat ad perfectionem artis venatorie […]" (edita da C.H. Haskins, The 'De arte venandi cum avibus' of the Emperor Frederick II, "English Historical Review", 36, 1921, pp. 334-355).
A lungo si è creduto che questa descrizione fosse riferita alla copia imperiale perduta del De arte venandi cum avibus. È invece assai più probabile che il mercante milanese descrivesse un altro Falkenbuch appartenuto a Federico II, un'opera miscellanea composta dal Moamin latino, libri I-III (ossia i libri sugli uccelli da caccia), a cui seguivano due brevi trattati di falconeria compilati in ambito normanno siciliano, il Dancus rex e il Guillelmus falconarius, quindi il Moamin, libri IV-V (ossia i libri sui cani), in conclusione il trattato di Guicennas sulla caccia, il De arte bersandi, compilato presso la corte fridericiana. L'opera offerta dal mercante all'Angiò si configurerebbe come una miscellanea di testi sulla falconeria ‒ il cui contenuto collima perfettamente con la descrizione compilata dal mercante, mentre non collima per molti aspetti con il De arte venandi ‒ fatta confezionare dall'imperatore; egli stesso ne fu in parte ispiratore, in parte artefice (importante fu la sua collaborazione con Teodoro di Antiochia nella traduzione dall'arabo del Moamin). Quest'opera e non il De arte venandi dovette essere quella offerta da "Bottatius" all'Angiò: di essa c'è un testimone importante, il ms. Lat. 368 (1459) del Musée Condé di Chantilly: un codice miniato che reca a margine dei testi sopra descritti, nell'ordine in cui sono stati presentati, miniature marginali di falchi, cani, ghepardi, un'opera che collima con il codice trafugato a Vittoria tanto da fare pensare che, se non fosse di secoli più 'giovane', potrebbe essere proprio quel pregevole manoscritto.
Del ms. B. restano quattro copie complete e una parziale. Anche la traduzione francese del trattato ebbe una certa fortuna: se ne conoscono cinque copie.
Questa, in estrema sintesi, la materia contenuta nel trattato, articolato in sei libri. Il libro I è un trattato di ornitologia ove vengono classificati, secondo il metodo aristotelico, ma con alcune ben evidenziate correzioni, gli uccelli, suddivisi in acquatici, terrestri e intermedi, in rapaci e non rapaci, e se ne illustrano le qualità specifiche. Si tratta poi delle migrazioni, quindi delle loro caratteristiche biologiche e morfologiche: accoppiamento, nidificazione, deposizione delle uova, cova, allevamento dei pulcini; si descrivono gli organi esterni e interni delle varie specie, con particolare attenzione alle ali; quindi si tratta del piumaggio e delle particolarità del volo. Il libro II (che reca, nel ms. R, un differente inizio rispetto al ms. B, ove si tratta di rapaci, abitudini, comportamenti e caratteristiche morfologiche delle varie specie) è dedicato alla falconeria e si apre con la descrizione delle attrezzature che occorrono per esercitare l'arte; si tratta poi delle modalità della cattura dei falchi e della loro nutrizione; si descrive il procedimento della cigliatura (ovvero della cucitura delle palpebre per renderli più docili), dell'ugnatura, e ci si sofferma sull'impiego degli attrezzi indispensabili all'addestramento. Si indicano quindi le caratteristiche fisiche e psicologiche del perfetto falconiere e si forniscono consigli sull'addestramento del falco senza cappuccio. Il libro III si apre con una minuziosissima descrizione delle complesse fasi dell'addestramento del falco al logoro, sia a piedi, sia a cavallo, quindi alla traina, e si chiude con notazioni sull'addestramento dei cani da caccia. Il libro IV è dedicato prevalentemente alle modalità della caccia alla gru con il girifalco, il grande falco bianco del Nord Europa. Il libro V è incentrato sull'addestramento del falco sacro alla caccia all'airone. Il libro VI concerne la caccia agli uccelli acquatici ‒ anatre e simili ‒ con il falco pellegrino.
Soprattutto i libri III-VI si caratterizzano per la descrizione minuziosa di tutte le fasi dell'addestramento e della caccia. È come se si aprisse dinanzi al lettore uno schermo cinematografico dove viene proiettato un lungometraggio girato 'in tempo reale', ove nessun passaggio, dalla cattura al trasporto, dall'addestramento alla caccia, viene dato per sottinteso: uno scenario che si apre sui vari terreni di caccia, quelli pianeggianti e quelli umidi, inquadrati nelle varie stagioni e nelle differenti condizioni climatiche, con il vento e senza il vento, con i venti favorevoli e con quelli contrari, e che ha quali protagonisti i falchi (girifalchi, pellegrini e sacri, coadiuvati dai levrieri) e gli esperti falconieri, i quali compiono, con un rigore matematico, le operazioni necessarie a fare confluire un lungo e paziente lavoro, che inizia dalla cattura del falco, nell'istante magico in cui il rapace, che scende in picchiata a una velocità che arriva a sfiorare i 500 km orari, cattura la preda e la fa piombare a terra dopo averla uccisa o ferita a morte.
Tutti ‒ falchi, cani, falconieri ‒ sono diretti da un grande regista, l'imperatore Federico II che conosce fin nelle pieghe più nascoste i segreti dell'ars venandi, così come conosce l'arte di governare gli stati e i popoli che gli sono stati affidati da Dio.
Volendo considerare la fortuna del trattato ricordiamo che otto manoscritti latini e cinque francesi tramandano le due redazioni del trattato ("breve" e "lunga"): numero certamente non trascurabile di testimoni che, tuttavia, risulta esiguo se posto in relazione con quello di trattati anteriori quali il De cura accipitrum di Adelardo di Bath, l'anonima Epistola Aquile, Symachi et Theodotionis ad Ptolomeum, ovvero il già ricordato Dancus rex, di cui restano sedici manoscritti latini e versioni in sei lingue.
Se il trattato fridericiano fu effettivamente copiato più volte, va sottolineato come la sua influenza fu scarsissima per non dire nulla sulla trattatistica relativa alla caccia con il falco delle età successive: l'opera dell'imperatore non risulta mai citata nei trattati latini di falconeria posteriori, neanche in quelli francesi: ciò non può non meravigliare, atteso che esso fu tradotto in quella lingua e certo esemplato in non pochi manoscritti, cinque dei quali sono pervenuti al nostro tempo.
Anche in Italia il De arte venandi risulta essere caduto nel più completo oblio: non ne vennero fatti volgarizzamenti, neppure parziali, e, come accadde per l'ambito francese, dove la falconeria era, come in Italia, assai in voga, tutti i trattati di falconeria redatti durante il Basso Medioevo e fino a tutto il sec. XVI non ne fanno menzione. Ricordiamo tra i tanti l'anonimo Trattato del governo delle malattie e guarigioni de' falconi astori e sparvieri, i Ruralium commodorumlibri XII del bolognese Pier de' Crescenzi, che dedica un libro alla falconeria, i Tre Libri de gli Uccelli da rapina di Francesco Sforzino da Carcano, stampato a Venezia nel 1568. Unica, ma tarda eccezione, l'Ornithologia di Ulisse Aldrovandi, illustre scienziato bolognese (1522-1605) che riporta ampi passi dell'opera fridericiana e che, assai verosimilmente, poté avere tra le mani l'edizione welseriana del trattato attraverso l'amico umanista che ne fu l'ispiratore, Joachim Camerarius (il già ricordato possessore del manoscritto manfrediano che studiò e si laureò a Bologna in medicina, nel 1562, sotto la guida di Aldrovandi, con cui rimase in contatto anche dopo il suo ritorno in Germania).
Si può dunque parlare di plurisecolare isolamento del trattato il cui grande valore scientifico, la ricchezza di osservazione, la chiarezza di dettato, la capacità di sistemazione di una materia così vasta, senza l'ausilio di modelli in alcun modo paragonabili cui potersi ispirare, sono oggi universalmente riconosciuti dagli specialisti: dagli esperti di falconeria, agli zoologi, agli etologi. In molte osservazioni circa la migrazione degli uccelli Federico II è stato superato solo nel secolo scorso da Konrad Lorenz.
Forse la causa principale del silenzio dei contemporanei e dei posteri sta in quella che il filologo svedese Lindner definì: "la tragedia della monumentalità", e a buona ragione: a eccezione del solo Maomin latino che tuttavia non è, quanto a dimensioni, assolutamente paragonabile con la versione "lunga" del trattato fridericiano, il De arte venandi s'impone su tutta la trattatistica precedente e posteriore per la sua ampiezza, ma, ancor più, per il suo essere espressione limpida di un pensiero ove, rispetto alla tradizione ‒ sovente in contrasto con essa, seppure entro i confini di un sapere profondamente radicato nelle conoscenze del tempo ‒, domina, prepotente, il gusto della sperimentazione, dell'osservazione e dell'esperienza diretta. Impossibile per altri autori confrontarsi con un'opera che non si esita a definire 'imperiale', frutto di una visione complessiva dell'universo sublunare, di una straordinaria ed originalissima competenza teorico-pratica; opera che è un ibrido in quanto unisce il metodo classificatorio della naturalis scientia con una parte pratica estremamente diffusa.
Nel lungo destino di isolamento del De arte venandicum avibus non è difficile scorgere il Leitmotiv che caratterizzò l'agire complessivo dell'imperatore: l'aver pensato in grande nella politica, nella legislazione, come nell'opera scientifica, fu a un tempo il segno forte della sua personalità e la causa dei molti insuccessi nell'immediato della sua azione di sovrano, re e imperatore. Pensare in grande significò anche correre il rischio di lasciar molto di incompiuto, e la vita, che Federico II si augurava di avere sufficientemente lunga per trattare di altri argomenti di caccia, non fu troppo generosa con lui. La morte prematura interruppe quasi certamente la stesura del trattato: incompiuto lo trovò Manfredi, che rispettosamente intervenne sul testo lasciandoci la straordinaria testimonianza di un codice miniato tra i più noti e forse tra i più amati del nostro Medioevo; incompiuto lo dovette trovare anche Enzo che lo ebbe compagno nella lunga prigionia bolognese.
fonti e bibliografia
Sulla tradizione manoscritta, le edizioni, le traduzioni, i facsimili, l'ampia bibliografia: C.A. Willemsen, Über die Kunst mit Vögeln zu jagen. Kommentar zur latienischen und deutschen Ausgabe, Frankfurt a.M. 1970; De arte venandi cum avibus. L'art de la chace des oisiaus. Facsimile ed edizione critica del manoscritto fr. 12400 della Bibliothèque Nationale de France, a cura di L. Minervini, Napoli 1995; De arte venandi cum avibus. L'arte di cacciare con gli uccelli. Edizione e traduzione italiana del ms. lat. 717 della Biblioteca Universitaria di Bologna collazionato con il ms. 1071 della Biblioteca Apostolica Vaticana, a cura di A.L. Trombetti Budriesi, Roma-Bari 2000; 'L'art de chasser avec les oiseaux', le traité de fauconnerie 'De arte venandi cum avibus', a cura di A. Paulus-B. van den Abeele, Nogent-le-Roi 2000; sul 'secondo' Falkenbuch di Federico II e sulla redazione 'enziana': J. Fried, Kaiser Friedrich II. als Jäger, oder, Ein zweites Falkenbuch Kaiser Friedrichs II.?, "Nachrichten der Akademie der Wissenschaften in Göttingen. I, Philologisch-Historische Klasse", 1996, nr. 4; Id., '…correptus est per ipsum imperatorem'. Das zweite Falkenbuch Friedrichs II., in Mittelalterliche Texte. Überlieferung- Befunde-Deutungen, a cura di R. Schieffer, Hannover 1996, pp. 93-124; A.L. Trombetti Budriesi, La figura di Re Enzo, in Federico II e Bologna. Atti della giornata di studio, marzo 1995, Bologna 1996, pp. 203-240; J. Fried, Kaiser Friedrich II. als Jäger, in Jagd und höfische Kultur im Mittelalter, a cura di W. Rösener, Göttingen 1997, pp. 149-166; A.L. Trombetti Budriesi, Per una edizione critica del'De arte venandi cum avibus' di Federico IIdi Svevia, in Filologia Romanza e cultura medievale. Studi in onore di E. Melli, a cura di A. Fassò-L. Formisano-M. Mancini, II, Alessandria 1998, pp. 225-247; Ead., Introduzione, a De arte venandi [...], Roma-Bari 2000, pp. IX-CXLVII; Ead., Una città e il suo 're': storia e leggenda, in Bologna re Enzo e il suo mito, a cura di A.I. Pini-A.L. Trombetti Budriesi, Bologna 2001, pp. 19-48.