DE BIANCHI DOTTULA, Giordano, marchese di Montrone
Nacque a Montrone (Bari), feudo del suo casato, il 31 genn. 1775 da Luigi e da Francesca Dottula.
Entrambi i genitori vantavano antiche ed illustri origini. I De Bianchi erano originari di Bologna: un ramo della famiglia si era trasferito nel Regno di Napoli alla fine del Seicento. La famiglia Dottula si estinse nei De Bianchi che ne aggiunsero il cognome.
Fu il primo di otto figli, tra cui Alessandro, che indossò l'abito dei teatini e studiò matematica; Donato, ufficiale di marina; Giuseppe, che percorse una brillante carriera: nel 1812, già ufficiale delle guardie d'onore, combatté con Napoleone nella campagna di Russia; sostenne poi, nella campagna d'Italia. del 1814-15,due importanti missioni militari, l'una delle quali presso lord Bentinck; raggiunse infine il grado di generale di brigata e morì a Montrone il 1° giugno 1865.
Il D. trascorse la giovinezza in Puglia, dove venne educato sotto la guida dello scolopio Ermenegildo Guarnieri. All'età di tredici anni venne iscritto a Napoli nel collegio dei padri delle Scuole pie. Proseguì i suoi studi a Roma, dove si trasferi all'età di diciassette anni e completò il suo curriculum con la lettura di classici italiani, latini e greci. La rivoluzione partenopea lo attirò a Napoli e lo vide protagonista sulle rampe del Brancaccio per tutto un giorno (18 dic. 1798) a capo d'una batteria d'artiglieria. Successivamente giudice del tribunale rivoluzionario, presieduto da G. B. Manthoné, istituito dal governo provvisorio di Championnet per ripristinare l'ordine nelle città (V. Cuoco, Saggio storico sulla Rivoluzione napoletana del 1799, Firenze 1926, p. 226). E "in quell'ebbrezza repubblicana volle il Montrone cambiar nome, facendosi chiamare Timoleone de' Bianchi" (P. Vitucci, G. D., p. 11).
Il D. riuscì a scampare alla sanguinosa repressione seguita alla caduta della Repubblica partenopea andando esule in Francia; evitò così la decapitazione cui furono invece condannati i compagni. La passione rivoluzionaria non si esaurì comunque con l'esilio, anzi si riaccese con la campagna napolconica in Italia; si arruolò volontario e partecipò valorosamente alle battaglie di Marengo e del Mincio (giugno e dicembre 1800), dove si concluse la sua carriera militare. Infatti, incalzato dai suoi, il D. lasciò le armi e si ritirò a Bologna: qui si fermò fino al 1814 presso i De Bianchi, suoi parenti.
Iniziò così l'attività di uomo dedito alle lettere e ai viaggi. Soggiornò infatti a lungo in Svizzera e soprattutto in Francia, dove s'impadronì alla-perfezione della lingua francese.
Si ricorda a proposito l'aneddoto onde Maria Carolina Murat soleva dire: "Quando parlo col Montrone, mi pare di stare a Parigi" (G. De Ninno, p. 173), e il giudizio del Giordani, in una lettera al Brighenti del 1807,sullo stile penetrato di "modi francesi" del D. (P. Giordani, Sullo stile poetico del signor marchese di Montrone, in Opere, I, Bologna 1821, pp. 63-86).
Il soggiorno bolognese completò da un lato la formazione intellettuale del D., dall'altro segnò l'inizio della sua attività sociale di letterato: le prime importanti opere che lo immisero nell'allora fervido circuito dell'intelligencija ruotante attorno a P. Giordani e ai classicisti tout court, sono di questo periodo. Visitando le principali città d'Italia, venne infatti a contatto, oltre che col Giordani, col Marchetti, col Costa, con lo Schiassi, col Giusti, con lo Strocchi, col Lamberti, col Monti, col Foscolo ed altri illustri, coi quali dibatté su problemi letterario-linguistici e coi quali intrattenne una abbondante e vivace corrispondenza.
Il D. giocò anzi un ruolo di vero e proprio protagonista nel dibattito culturale contemporaneo, soprattutto in due circostanze. L'una nel promuovere una sorta di progetto linguistico unitario che riportasse la lingua italiana alla toscanità trecentesca e cinquecentesca, progetto esemplificato nella riduzione a miglior lezione corredata di note dell'antico poema in ottava rima La Passione di Nostro Signore (Napoli 1827), attribuito al Boccaccio.
Tale lavoro porta come prefazione il Discorso sullo stato presente della lingua italiana, che si, può considerare il manifesto linguistico dell'intransigente purismo del De Bianchi. In un secondo tempo egli modificò il primitivo avviso, accostandosi alla Proposta (1817-26) del Monti e ai due Trattati (1818) del Perticari. Si può leggere infatti nella lettera in risposta al Puoti, premessa al Volgarizzamento di Sallustio (Napoli 1858): "Buona fu adunque l'opinione del Perticari, il quale voleva che uno fosse il linguaggio comune a tutti gli italiani. Se non che per fare cessare le gare provinciali, egli avvisò bene nel costituir centro la Toscana, a cui concorrere doveano le linee, cioè gli altri paesi d'Italia, quella come punto di mezzo, gli altri come raggi a quello rivolti".
In occasione del ritorno a Bologna nel 1809 di Antonio Canova, il D. propose di comporre un libro in tre canti, di cui il suo intitolato Prometeo, preceduti da una lettera dedicataria del Giordani e offerti all'"immortale Restauratore della scultura" (G. Petroni, p. 165). Al lungo soggiorno bolognese, intervallato dai frequenti spostamenti nell'Italia centrale, risalgono pure i pregevoli sonetti petrarcheschi di soggetto amoroso, politico, religioso, dedicati a Leuconoe, ispiratrice anche della prima importante opera poetica, il Peplo, poema in quattro canti, composto in morte del conte Ludovico Vittorio Savioli, suo vecchio amico.
Il Peplo fuedito la prima volta a Milano nel 1804dal Silvestri; una seconda volta nel 1807a Bologna dal tipografo Marsigli, che lo stampò in splendidi caratteri bodoniani e lo ornò del ritratto dell'autore intagliato dal Tomba; questa edizione fuaccompagnata da una breve prefazione, del Giordani (poi ampliata nella lettera citata al Brighenti del 1807) e da un secondo volume contenente le rime.
Al 1811, come si inferisce dalla lettera a sua moglie premessa alle Odi di Orazio (Napoli 1857), risalgono pure sia un primo saggio di traduzione da Orazio, stimolato e lodato dal Foscolo (G. Petroni, p. 165), sia l'avvio di un velleitario poema in terza rima, rimasto incompiuto e inedito, condotto fino al XVII canto, su Lorenzo il Magnifico, "rinvenuto" dal Vitucci "tra gli altri manoscritti, nella Biblioteca Nazionale di Napoli, cui lo donò la nipote del marchese, duchessa di Airola" (P. Vitucci, p. 51). Il perno attorno a cui si svolge il poema, condotto sul modello dell'Odissea, è il viaggio di Lorenzo a Napoli nel 1478 alla corte di Ferdinando d'Aragona.
I felici e fertili anni bolognesi vennero interrotti da un secondo imperativo familiare che impose al D. il rientro a Napoli. Coincise con tale drastica svolta la traduzione da Giovenale, che lo accompagnò per tutti gli anni trascorsi nel Sud tra Napoli, Bari e il feudo di Montrone, ora presso i familiari ora presso la corte del nuovo sovrano Murat. Nonostante le iniziali reticenze opposte alle sue sollecitazioni, il D. finì con l'accettare gli incarichi offertigli dal re: ciambellano di corte, commendatore dell'Ordine delle Due Sicilie, presidente del Consiglio generale della provincia di Bari, ordinato il 10 ott. 184, addetto ai ricevimenti alle feste di corte. Infine gli fu anche affidato l'importante incarico di accompagnare Pio VII di ritorno in patria.
L'illuminato governo di Murat trovò integralmente solidale il D., che proprio ad esaltazione delle iniziative murattiane scrisse un poemetto ispirato a Manfredire, "che tanto fu simile al Murat per l'avversa fortuna di non poter recare ad effetto il suo concetto della unità d'Italia: "Destin che a lui vietò seguir l'ardita impresa di far sua l'Ausonia unita"" (G. Petroni, pp. 166 s.).
Il D. combatté ancora valorosamente al Panaro e al Reno l'ultima guerra di Murat; si allontanò poi esule da Napoli, di nuovo verso Bologna, dopo essere passato da Roma in visita al Canova. Risale a questo periodo la pubblicazione di cinquanta sonetti e due capitoli su la Morte di Cristo Salvatore e la Concezione di Maria Vergine (in Rime).Compose inoltre intorno al 1816 un discorso sul Cinismo, che venne letto il 4 giugno 1820 all'Accademia Pontaniana e pubblicato nello stesso anno a Napoli con la decima satira di Giovenale, i Voti tradotta in terza rima.
La presenza in corte di un avo materno, Giordano Dottula, fedelissimo ai Borboni (aveva seguito i sovrani in Sicilia al tempo della rivolta giacobina), valse al D. nel 1820, anno del suo rientro a Napoli, la nomina a gentiluomo di camera e maggiordomo di settimana. Risale a questo periodo l'incontro con la futura moglie Teresa Gaetani. di Laurenzana, figlia del conte Luigi e di Anna Maria de Ferdinando, per la quale scrisse un poemetto di quarantasei stanze, IlPlenilunio di mezza notte a 26 luglio 1828, che riecheggia le ottave delle Stanze del Poliziano che dipingono Simonetta. Nel 1831 fu nominato reggente della provincia di Bari da Ferdinando II. I primi atti liberali del nuovo monarca gli ispirarono un canto Alla Virtù (Bari 1834), composto di sessanta stanze di ottave.
Il canto è paradigmatico di quella che si può definire la seconda produzione del D., in bilico tra mitologia classica e mitologia cristiana per una definitiva adozione, in ultimo, del "discorso" cristiano. Proprio tale opzione, apparentemente contraddittoria in rapporto alla ideologia manifestamente classicista, ne fece un romantico in facto. Ne fa testimonianza anche la non scarsa produzione religiosa, concernente traduzioni dalla Bibbia e componimenti originali, quasi tutta raccolta ed edita dal B. Fabricatore nel volume Poesie sacre tolte dalla Bibbia e recate in rima dal marchese di Montrone colla giunta di alcune rime sacre di esso traduttore (Napoli 1857). Il volume contiene una dedica del curatore a mons. Giuseppe De Bianchi de' marchesi di Montrone, arcivescovo di Trani e di Nazaret, e una circostanziata Prefazione dello stesso D. sulle motivazioni etiche e esistenzialì che lo avevano determinato nella scelta del testo religioso: una liquidazione della deludente vanitas giovanile per una interrogazione, desiderosa di risposte certe, delle Scritture. La raccolta contiene diciotto Salmi tradotti in terza rima, sei Cantici quasi tutti in ottave, alcune Profezie, i Treni di Geremia, l'Ecclesiaste in terza rima, il Magnificat in ottave e le Rime sacre del D.: i sonetti e i due capitoli già citati.
Il recupero della mitologia cristiana può senz'altro leggersi come un segno dei medievalismo romantico, anche per quanto concerne i Sonetti tutti di argomento biblico, ispirati a Dante e ancora al Petrarca rivisitato però in chiave di pentimento religioso. Quanto al ruolo del demiurgo emergente da questa produzione, esso sembra essersi trasferito dai giovanili ideali pragmatico-politici - Lorenzo il Magnifico e Manfredi re - dietro i quali sicuramente aleggia il mito napoleonico-murattiano, a quello tutto trascendente e morale del Cristo Signore, dipinto, secondo l'assunzione di un cristianesimo attivo e aggressivo, come sterminatore di eserciti e vendicatore.
Una consistenza assai marcata assumerà l'intensa e intelligente attività amministrativa del neointendente: nel campo dell'agricoltura con la promozione del rimboschimento; dell'edilizia stradale con la costruzione di nuove strade per agevolare le comunicazioni fra i comuni della provincia e con la metropoli; dell'edilizia portuale nelle città di Mola, Monopoli, Trani, Molfetta e Barletta. Si dedicò anche all'organizzazione dell'istruzione, con l'incremento dello studio della filosofia e delle lettere nel liceo, già avviato da Murat, e all'ordinamento di un corpo delle guardie urbane che avesse carattere di milizia cittadina. Non risparmiava le sue cure agli ospedali, ai conservatori, all'igiene. Il suo illuminato governo durò dieci anni, turbato due volte dal colera di cui la prima epidemia scoppiò a Trani nel 1836.
Il D. trascorse gli ultimi anni a Napoli dove si era trasferito nel 1842, dopo essere stato promosso consultore di Stato, per motivi di salute; e, benché tormentato dalla gotta, compose il Cinto (Napoli 1844) per le nozze della cognata Costanza Gaetani con Giacinto de' Sivo. Si legge a chiusura del canto: "Così con voce fioca, ma con cuore affettuoso lo cantava il 29 settembre 1844, di sessantanove anni". Si pose quindi a riordinare i suoi scritti che raccomandò alla moglie di affidare al Puoti, dopo averle dettato una prefazione, ultima sua composizione, il 10 febbr. 1846.
Morì a Napoli nella notte del 19 febbraio dello stesso anno. Le esequie furono celebrate nella chiesa di S. Ferdinando, dopo che Basilio Puoti aveva tenuto il discorso funebre; Tito Angelini scolpì la tomba.
Tra le opere precedentemente non menzionate si ricordano: La gratitudine in Cimento, una cantata musicata dal duca Riario Sforza (Venezia 1805),di mediocre qualità con riecheggiamenti metastasiani nelle ariette e un latente humus romantico nella raffigurazione della protagonista femminile Elvira; il Discorso al Consiglio provinciale di Bari (Bari 1834); una serie di poemetti tra cui l'Ercolano, stampato in parte nella strenna L'Iride, Napoli1839;delle Stanze per la morte di Giovanni Paisiello, Napoli 1816, pp. 61-70; Alcune lettere di G. De Bianchi marchese di Montrone al cavaliere Salvatore Betti, Roma 1846, pp. 7-16.
Fonti e Bibl.: P. S. Mancini, G. D. marchese di Montrone, in Giorn. enc. napol., I (1840), 1, pp. 164-67; [C. A. De Rosa] Marchese di Villarosa, Notizie di alcuni cavalieri del S. O. Gerosol. ill. per lettere..., Napoli 1841, pp. 39 ss.; N. Morelli, Biografia di G. D. marchese di Montrone, in Opere, III,Napoli 1846, pp. 67-72; S. Baldacchini, Proposta di una storia della poesia in Napoli in questi ultimi trent'anni, in Foglio settim. di scienze, lettere ed arti, I, 22 giugno 1839, p. 188; Id., Prose, I, Napoli 1873, pp. 115 ss.; G. Petroni, Della vita e delle opere di G. D. marchese di Montrone, in Atti dell'Accademia Pontaniana, XV (1883), 2, pp. 155-177; D. Giusto, Diz. bio-bibl. degli scrittori pugliesi viventi e dei morti nel presente sec., Napoli 1893, pp. 28 s.; P. Vitucci, G. D. marchese di Montrone, Bari 1899 (al quale si rinvia per ulteriori informazioni bibliografiche); C. Villani, Scrittori ed artisti pugliesi.... Trani 1904, pp. 135-38, 1212; F. Nicolini, N. Nicolini e gli studi giuridici nella prima metà del secolo XIX, Napoli 1907, pp. 302 s.; G. De Ninno, Imartiri e i perseguitati politici di terra di Bari nel 1799, Bari 1915, pp. 171-175; E. Cione, Napoli romantica, Milano 1942, pp.233 ss. e passim;G. Mazzoni, L'Ottocento, Milano 1973, I, pp. 45, 357 s.