DE CAPITANI D'ARZAGO, Giuseppe
Nacque a Milano il 15 febbr. 1870 da Giulia Buttafava e da Alberto, discendente da un'antica e nobile famiglia con titolo marchionale che. annoverava tra i suoi antenati l'arcivescovo di Milano Ariberto. Di condizione possidente, dopo essersi laureato in giurisprudenza, il D. acquisì abbastanza presto un peso nella vita pubblica milanese, dedicandosi, tra l'altro, all'amministrazione di istituti di beneficenza. Nel 1909 si presentò candidato alle elezioni, ma senza successo. Riuscì invece ad essere eletto nel 1913 come esponente dello schieramento liberale nel collegio di Milano I, dove ottenne 3.955 voti battendo nel ballottaggio il candidato repubblicano Eugenio Chiesa.
In Parlamento il D. aderì al gruppo liberale di destra guidato da Antonio Salandra, occupandosi prevalentemente di questioni economiche e sociali. Ben presto il D. divenne autorevole portavoce di quegli ambienti liberalconservatori milanesi che avversavano la politica giolittiana e puntavano con sempre maggior convinzione su Salandra.
Alla vigilia delle elezioni amministrative del 1914 il D. espose a Salandra un progetto per la ricostituzione di "un grande partito liberale" (lettera del 20 maggio 1914, in B. Vigezzi), aperto agli apporti dei liberaldemocratici ed anche dei cattolici, ma chiuso nei confronti dei radicali e dei riformisti. Questo schieramento moderato avrebbe potuto contare, secondo il D., sul sostegno del Corriere della sera di Luigi Albertini e di altri importanti giornali come la Perseveranza, l'Italia, Il Sole. L'impegno del D. in questa direzione era particolarmente rivolto a contrastare i socialisti, che, a suo parere, stavano minacciando "l'avvenire quieto ed industre di Milano" (ibid.). Contro i socialisti il D. scese in piazza, guidando una manifestazione di nazionalisti e conservatori ai tempi della "settimana rossa".
A Milano, a differenza che altrove, i socialisti ottennero alle elezioni un risultato più che buono e Giolitti attribuì la sconfitta dei liberali milanesi proprio alla loro "cronica intransigenza". Questi non ritennero tuttavia di dover mutare indirizzo politico e il D. si mostrò più che mai convinto della validità di tale strategia. L'8 febbr. 1915 egli fu addirittura officiato socio dell'Associazione antisocialista milanese, un sodalizio costituito da industriali. Insieme ad Ettore Ponti il D. cercò di rianimare il partito dopo la crisi che seguì la sconfitta elettorale. Costituì una sezione giovanile allo scopo, tra l'altro, di addestrare i giovani liberali "al comizio, al contraddittorio" (lettera al Salandra del 25 ott. 1914, in Vigezzi), ai compiti nuovi che si ponevano dopo l'avvento del suffragio universale e la prepotente comparsa sulla scena politica delle grandi masse. Nel contempo, di fronte alla prospettiva della partecipazione dell'Italia al conflitto, il D. si premurava di tenere al corrente Salandra circa gli atteggiamenti dell'opinione pubblica, rassicurandolo, forse eccessivamente, di una "calma e riservatezza" prevalenti (ibid.).
Sensibile come sempre agli orientamenti degli ambienti economici, il D. fu inizialmente molto cauto sulla possibilità dell'intervento, manifestando semmai una propensione alla neutralità. Quando però in quegli ambienti maturò la scelta interventista, il D. ritenne di cogliere come prevalente una diffusa fiducia nei confronti del governo: "Venga la pace o la guerra, - scrisse a Salandra - noi sappiamo di essere in buone mani, che se l'una o l'altra ci darà, sarà pel solo ben del Paese" (lettera del 7 febbr. 1915, ibid.).
Il D. condivise anche la decisione di Salandra di nominare Albertini senatore, ritenendo ciò utile ai fini di un riavvicinamento del Corriere della sera alla grande maggioranza del partito liberale, dopo le polemiche a proposito dell'intervento.
Dopo l'entrata in guerra il D. si allineò completamente sulle posizioni degli interventisti più convinti e, nel dicembre 1917, aderì al Fascio Parlamentare di difesa nazionale, i cui componenti erano appunto fautori della continuazione della guerra contro ogni ipotesi di pace separata e propugnatori, sul piano interno, di una politica di ferrea disciplina e di una lotta a fondo contro le "forze antinazionali".
Nel dopoguerra il D. si ritrovò ancora in prima fila nell'agitazione antisocialista e il 15 apr. 1919 prese parte con Mussolini e F. Vecchi alle manifestazioni che culminarono nell'assalto alla sede milanese dell'Avanti!. Confermato nel seggio parlamentare nelle elezioni del novembre 1919, il D. cominciò a svolgere un importante ruolo di collegamento tra Salandra e Mussolini. Perseguiva infatti l'obiettivo di una saldatura di tutta la destra politica.
"Il De Capitani era a Milano il più caro fra i miei amici, alla Camera non si era mai distaccato da me; - scrisse Salandra nelle sue Memorie - ma era pure intimo amico di Mussolini, presso il quale rappresentava sentimenti e interessi dei conservatori milanesi... L'ideale di De Capitani era una completa intesa, a tutti gli effetti tra Mussolini e me".
Nelle elezioni del 1921 il D. venne rieletto a Milano insieme con Mussolini nella medesima lista dei Blocco nazionale. Dal 28 febbraio al 1° agosto 1922 fu sottosegretario al Tesoro nel primo governo Facta. In seno alla compagine ministeriale egli rappresentava, insieme col ministro dei Lavori Pubblici Vincenzo Riccio, la destra più conservatrice e filofascista. Nel secondo governo Facta, nell'agosto 1922, il D. venne spostato al sottosegretariato alla Pubblica Istruzione con competenze in materia di antichità e belle arti. Forse perché considerava questo spostamento un declassamento, il D. si dimise dall'incarico appena quindici giorni dopo la nomina.
Fuori dal governo egli ebbe modo di seguire e d'intervenire con maggiore libertà sugli sviluppi della situazione politica. Il 23 ott. 1922 il D. promosse un incontro tra Salandra e Mussolini. Quando poi, in seguito alle dimissioni di Facta, il re conferì l'incarico di formare il governo a Salandra, il D. si recò da Mussolini insieme ad un gruppo di esponenti politici ed economici milanesi (Benni, Olivetti, Conti, Crespi) per convincerlo a collaborare con il presidente designato. Una volta che l'incarico venne infine affidato a Mussolini, il D., sempre interprete delle posizioni degli industriali milanesi, intervenne con tutta probabilità sul capo del fascismo per indurlo a non inserire nel governo esponenti della Confederazione generale del lavoro. Invitato egli stesso ad entrare nel governo, il D. fu consigliato da Salandra ad accettare il portafoglio: il 31 ott. 1922 venne nominato ministro dell'Agricoltura nel primo governo Mussolini.
Come responsabile di questo importante dicastero il D. tenne in gran conto gli interessi della conservazione agraria, sopprimendo le commissioni governative incaricate di negoziare e di arbitrare le controversie di lavoro in agricoltura. Nel periodo in cui il D. resse le sorti dell'agricoltura italiana, oltre alla soppressione delle organizzazioni sindacali e politiche nelle campagne, si ebbero l'abolizione delle previdenze contro la disoccupazione agricola, il reintegro di clausole vessatorie per mezzadri e compartecipanti e la revoca del decreto Visocchi per l'occupazione delle terre incolte.
Il 31 luglio 1923 il D. lasciò il ministero dell'Agricoltura in seguito all'accorpamento di questo con i dicasteri dell'Industria, del Commercio e del Lavoro nel nuovo ministero dell'Economia nazionale.
Al momento di abbandonare la carica, il D, ricevette da Mussolini elogi per l'opera svolta e attestazioni di rinnovata amicizia: "sono sicuro - gli scrisse il capo del fascismo - che anche oggi e domani posso e potrò annoverarti fra gli amici più fedeli". Mussolini fu infatti prodigo di riconoscimenti e di cariche per De Capitani.
Nel gennaio 1924, allorché venne posta sotto inchiesta per presunte irregolarità amministrative la Società umanitaria di Milano, il D. venne nominato commissario di questa istituzione che da anni ben operava nel campo dell'assistenza ai lavoratori. Ma a Milano il D. fu presto chiamato a ricoprire la ben più importante carica di presidente della Cassa di Risparmio delle Province Lombarde. Tale nomina avvenne nel 1924 e nel marzo di quello stesso anno il D. si fece promotore di un nuovo incontro tra Mussolini e Salandra, allo scopo di creare tra i due una salda intesa politica in vista delle elezioni del 6 aprile, nelle quali il D. venne poi rieletto deputato per la Lombardia. Ma proprio allora tra Salandra e il D. cominciò a manifestarsi un netto dissidio politico, che si accentuò con la crisi Matteotti. Il 4 ott. 1924 si svolse a Livorno il congresso del partito liberale. La maggioranza approvò un ordine del giorno, in cui si richiedeva il ripristino delle libertà statutarie e si espresse contro le milizie armate di parte. La minoranza di destra, nelle cui posizioni si riconosceva il D., si costituì allora in gruppo parlamentare autonomo. Mentre Salandra assumeva un atteggiamento di opposizione, l'Associazione liberale lombarda manifestò, il 28 dic. 1924, piena fiducia nel governo. La rottura tra i liberali era ormai insanabile e lo stesso Salandra confidò a Giolitti di non essere più in grado di controllare il suo gruppo, allorché Mussolini si presentò, il 3 genn. 1925, in Parlamento per assumersi la responsabilità politica e morale di quanto era accaduto.
Nel marzo 1925 il D. ribadì la sua adesione alla politica mussoliniana firmando il manifesto degli intellettuali fascisti redatto da Giovanni Gentile. A maggio il D. ed altri deputati che si erano rifiutati di seguire Salandra all'opposizione e che erano stati, per questo, espulsi dal partito liberale, costituirono il Partito liberale nazionale. La piattaforma di questo partito era tutta incentrata sul concetto che "il bene della patria" e l'autorità dello Stato dovessero prevalere "anche sulla libertà". Il P.L.N. ebbe vita effimera e buona parte dei suoi membri passarono, ai primi del 1926, al fascismo; tra essi il D., che ebbe la tessera fascista ad honorem, retrodatata al 23 marzo 1919 "in segno di riconoscimento della costante azione svolta per la rivalorizzazione nazionale". Il 6 sett. 1928, alla carica di presidente della Cassa di risparmio delle province lombarde, il D. cumulò quella di podestà di Milano. Poiché le due cariche erano incompatibili, il D. intervenne su Mussolini per mantenerle entrambe, mostrando comunque di preferire quella bancaria. Il 24 genn. 1929 fu anche nominato senatore, mentre l'eccessivo potere concentrato nella sua persona suscitava malcontento. Egli stesso mise al corrente Mussolini di "subdole manovre" che a Milano sarebbero state attuate ai suoi danni. Dopo lunghe tergiversazioni Mussolini si risolse a confermarlo alla testa della banca, ponendo però fine al suo mandato podestarile il 12 nov. 1929. Secondo un rapporto dei carabinieri, le dimissioni del D. vennero accolte con soddisfazione poiché egli era da molti ritenuto "persona facilmente influenzabile, non atta, quindi, a guidare una città quale Milano". Il 25 ott. 1931 il D. venne nominato ministro di Stato e dal 1934 fu vicepresidente del Senato; tra il gennaio e l'ottobre dello stesso anno fu commissario della Confederazione nazionale fascista del credito e assicurazione. Divenuto anche presidente della Federazione nazionale fascista delle Casse di risparmio e dell'Istituto internazionale del risparmio, il D. si poteva a quel punto considerare una delle figure più in vista del mondo finanziario italiano.
Ed in tale veste egli intervenne in varie sedi, sulla stampa e con memoriali inviati a Mussolini, sulle principali questioni economiche ed in particolare su quelle attinenti all'agricoltura. Nel 1936 sostenne i provvedimenti che regolavano il mercato del grano; nel 1937 scrisse un saggio a sostegno della campagna autarchica; nel marzo 1943 inviò a Mussolini una memoria tecnica sulle affittanze agrarie.
Sempre nel 1943 il D. si ritrovò a fianco di settori del mondo cattolico che ambivano a raccogliere l'eredità dischiusa dalla crisi ormai imminente del fascismo. Personaggi del regime fascista e del mondo cattolico si ritrovarono nel Comitato nazionale italiano per il XXV anniversario della consacrazione episcopale di Pio XII, i cui membri, tra essi il D., furono ricevuti dal pontefice il 4 luglio 1943. Dissociandosi dal fascismo ed avvicinandosi agli ambienti cattolici, il D. probabilmente mirava ad esentarsi dalle responsabilità che gli sarebbero state attribuite per la parte avuta durante il regime. Tuttavia egli non sopravvisse che pochi mesi alla definitiva sconfitta del fascismo: morì infatti a Paderno Dugnano (Milano) il 17 nov. 1945.
Tra le opere del D. vanno ricordate: I liberali e il ministero nazionale, Milano 1923; La lotta contro la delinquenza minorile, ibid. 1927; Il concetto etico del risparmio, ibid. 1938-39.
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