DE GENNARO (De Jennaro), Pietro Iacopo
Nacque a Napoli nel 1436 da Giorgio, primogenito di Menillo e di Catella di Monforte, e da Maddalena di Gaeta, figlia di Carlo - presidente della Regia Camera della Sommaria - e damigella d'onore della regina Giovanna II d'Angiò, dalla quale ricevette in dono alcune proprietà nel quartiere di Porto, precisamente nella regione detta d'Acquario (o Fontanula).
La famiglia apparteneva alla più antica nobiltà napoletana, ascritta fin dal sec. XIII al seggio di Porto, di cui il D. si vanta di far parte nel son. XCII del Canzoniere (vv. 5 s.). Giorgio, che nel 1452 ebbe la carica di maestro razionale, era signore della rocca delle Fratte, poi ereditata dal D., e della rocca di Evandro, nella diocesi di Gaeta, concesse ambedue da Alfonso I per i servizi prestati durante la conquista del Regno.
Sposata Lucrezia Scarcia (Scarza), di famiglia nobile dello stesso seggio di Porto, il D. ne ebbe Maria, moglie di Giovan Francesco Griffe e successivamente di Baldassarre D'Alessandro, e Alfonso, che come il padre fu presidente della Camera della Sommaria e poeta molto lodato dagli storici napoletani per il Carmen Sacrum. A un terzo figlio morto prematuramente, il D. accenna nelle Sei etate (II, 1, 55 ss.), ove immagina di incontrarlo nell'oltretomba.
Educato nello studio delle scienze giuridiche insieme con i fratelli minori (Galeazzo, morto giovane e senza figli, e Pandolfo, poi abate della ricca badia di S. Maria a Cappella fuori la Porta di Chiaia), il D. si dedicò ben presto anche all'esercizio della poesia. Fino al 1468 alternò i suoi soggiorni fra Napoli e le Fratte. Infatti datate da qui sono tre lettere a Giovanni Cantelmo conte di Popoli (IV, V, VII dell'edizione Corti) - all'ultima, il conte di Popoli rispose in data 20 ag. 1468 - con le quali gli inviava alcuni componimenti poetici (4, 6, 9-11 della stessa edizione).
Tutti questi testi, rime e lettere, sono conservati nel ms. Ital. 1035 della Bibliothèque nationale di Parigi, unico testimone dei componimenti del D. ivi contenuti: oltre a sette lettere, nove barzellette e due strambotti di tono popolareggiante e in lingua letteraria di koinè, che ci mostrano un D. incline alle tenzoni poetiche come quelle con il calabrese Coletta di Amendolea e con F. Galeota (Corti, 1a-1d).
Il primo incarico pubblico del D. di cui siamo a conoscenza fu un'ambasceria a Pesaro (Tafuri, p. 287). Probabilmente dovuto ad analoghe incombenze fu un suo soggiorno a Ferrara nel 1471-72: se da una parte, infatti, i componimenti LXIII, LXV, LXXV, LXXVI, LXXVIII, LXXXIII del Canzoniere sono incentrati sul tema della lontananza dalla patria e dall'amata (nella sestina LXIII come nel son. LXXVIII, a Paolo Siscar, incolpa la Fortuna di tenerlo lontano da Napoli), col son. LXXVI a Piattino Piatti, poeta e uomo d'armi milanese (cfr. A. Simioni, Un umanista milanese, P. Piatti, in Arch. stor. lomb., XXXI [1904], pp. 5 ss., 227 ss.), il D. si scusa di non potersi trovare, per un'improvvisa malattia, "in mezzo al campo armato" dove l'amico "rege l'empresa".
Ora è noto che il Piatti, uscito dal carcere in cui l'aveva imprigionato Galeazzo Maria Sforza nel 1470, si era recato a Ferrara nel gennaio 1471, e qui vinse un torneo prima dell'ottobre 1472 (Simioni, cit., p. 233). Il dato cronologico è inoltre confermato dall'inclusione, fin dal 2 sett. 1471, nella libreria ducale di Ferrara, del Clepsimoginon, scritto dal D. in lode di Ercole I, genero del re Ferdinando. Il codice contenente l'opera passò nell'800 alla collezione Phillipps a Cheltenham (ove recava il numero 9288), e fu poi acquistato dalla ditta antiquaria londinese William H. Robinson, e di recente è stato venduto all'asta. Si tratta di un poemetto (il codice conta 89 cc.) di tre canti in ottave sopra gli amori di Elena e Paride che risente notevolmente dell'influenza del Boccaccio, ed è preceduto dalla canzone CXVII, anch'essa dedicata a Ercole I, mutila per caduta della prima carta contenente fra l'altro il nome dell'autore. Nel 1470 il D. aveva probabilmente già composto anche la Plutopenia, dedicata a Federico d'Aragona ancora giovinetto. È un dialogo a contrasto di tipo medievale, fra Povertà e Ricchezza al cospetto di Onestà, di cui la seconda parte è conservata anche nel ms. XIV. A. 28 della Nazionale di Napoli, che conobbe la fortuna di una stampa (di cui rimangono due soli esemplari, uno alla Nazionale di Napoli e l'altro all'Estense di Modena), mancante di note tipografiche, ma uscita forse a Napoli, per i tipi di Sisto Riessinger, fra il 1470 e il '71 (vedi M. Fava, in Rivista delle biblioteche e d. archivi, IV [1893], pp. 45 s.).
Nel son. LXXVII, in cui afferma di star solcando l'Adige "con tante altere nave", il D. lascia un ricordo del viaggio intrapreso il 28 febbr. 1472 per recarsi a Venezia con Ercole I e il suo seguito (di cui facevano parte anche il Piatti e il napoletano Fabrizio Carafa), per ringraziare la Repubblica degli aiuti concessi nella contesa contro gli Sforza per il dominio di Ferrara (vedi Diario Ferrarese dall'anno 1409 sino al 1502, in Rerum Italic. Scriptores, 2 ed., XXIV, 6, a cura di G. Pardi, pp. VII, 78). Nel 1479, quando era già presidente della Regia Camera della Sommaria, il D. venne nominato commissario generale delle terre di Bari e Otranto, ma raggiunse le sedi del suo commissariato solo nel 1481, come egli stesso afferma nel terzo libro (unico superstite) dell'Opera de li huomini illustri sopra de le medaglie - scritta nel 1504 - serbato, forse in esemplare di dedica, nel ms. I. C. 17 della Nazionale di Palermo.
Nell'anno 1481, per decisione regale, il D. subì la confisca delle Fratte, le cui vicende narrerà nella Pastorale. La vendita del feudo (5 giugno dell'anno successivo) da parte di Ferrante I a Onorato Caetani duca di Fondi per 10.000 ducati, doveva contribuire a rimpinguare le dissestate finanze del Regno, di cui fanno fede anche parecchie ricevute di danaro (di cui una risale al luglio 1497), prestato dal D. al suo re, che si conservano tra le Cedole di Tesoreria.
Della requisizione delle Fratte il D. incolpò Antonello Petrucci, segretario di Ferrante, e il conte di Sarno Francesco Coppola, consigliere regio, i quali, approfittando dell'assenza da Napoli del duca Alfonso, impegnato nella guerra di Ferrara (1482-84), avrebbero malconsigliato Ferrante, abusando del potere di cui si trovavano investiti (alla sottrazione e ai due responsabili si accenna anche nelle Sei etate, II, 1, vv. 100 ss.).
Non oltre il 1481 è forse da porsi la composizione del De regimine Principum, contenuto nel ms. B. 218 della Forschungsbibliothek di Gotha. Infatti sia nel Proemio di dedica ad Alfonso duca di Calabria sia nella Epistola accompagnatoria a Francesco Petrucci, apposta in chiusa del libretto, il D. dice di trovarsi "in alpestre montagne dannato... non da experti et notabili viri anzi da agriculi et larvati bifulchi accompagnato", cioè probabilmente proprio nel suo feudo delle Fratte, appartenutogli appunto fino al 1481. Sostiene inoltre nel Proemio che, se nella sua adolescenza ha compilato varie "opere in prosa et in rima" di argomento amoroso, ora, che è nell'età della "iuventù", gli si confanno argomenti più seri: situando dunque, secondo la partizione classica della vita umana, l'età giovanile tra i venti e i quaranta anni circa, si arriverebbe come terminus ante intorno al 1476. L'opera è condotta sulla falsariga della prima parte del De regimine Principum di Egidio Romano, la cui struttura sarà ripresa per intero nella V cantica delle Sei etate, ove si parla del "regimento del princepe, republice e familiare".
Nel 1482 il D. fu capitano della città di Cosenza; ebbe poi l'incarico di commissario del Molise (1487-95), della Basilicata e di Cosenza (1497).
Il D. morì a Napoli nel 1508.
Membro dell'Accademia Pontaniana (P. Napoli Signorelli, Vicende della cultura delle due Sicilie, III, Napoli 1810, p. 430; C. Minieri Riccio, Cenno storico delle Accademie fiorite nella città di Napoli, in Arch. stor. per le prov. napol., V [1880], p. 364), il D. incarna la tipica figura dell'intellettuale di condizione nobile - della nobiltà di seggio - allo stesso tempo funzionario di Stato e poeta, che è comune ad altri scrittori napoletani dei suoi tempi. Il suo Canzoniere, che rivela un'indubbia preparazione letteraria e umanistica, è notevole soprattutto per la consapevole ricerca di una lingua letteraria che prenda le distanze dalla koinè locale e trasmetta l'immagine di un poeta perfettamente integrato nella vita di corte dell'epoca. La raccolta, messa insieme intorno al 1486, comprende testi risalenti fino al 1464 (nel son. LVII dice di avere "vintottanni"), ed è dedicata a Giovanni Tommaso di Moncada conte di Adernò (il D. lo chiama "Maestro Justicero de Sicilia", carica da lui coperta nel 1463, e dal 1497 al 1501). È trascritta alle cc. 114r-173r del ms. XIII. G. 37 della Nazionale di Napoli, contenente anche una silloge di egloghe e l'Arcadia del Sannazaro, che Giovan Francesco da Montefalcione cominciò a copiare nel settembre 1489 nella prigione di Castel Nuovo, dove era rinchiuso per aver preso parte alla congiura dei baroni. Metricamente molto selettivo, il Canzoniere comprende sonetti, canzoni e sestine, e al suo interno si può fare press'a poco la seguente ripartizione: a una prima parte, il vero e proprio canzoniere d'amore per una catalana di nome Bianca - di lei sappiamo solo che era maritata (son. XXI), e il poeta, che nella canz. XXXII dice di amarla da più di cinque anni, nel son. CVI ne piange la morte - succede una seconda ove è raggruppata la quasi totalità dei componimenti di vario argomento (politico, religioso, ecc.). Stilisticamente più omogenei e linguisticamente più evoluti risultano i testi del primo gruppo, a proposito dei quali il Marti ha avanzato l'ipotesi di una revisione linguistica, in senso toscaneggiante, da collocare fra il 1464 e il 1489. Il poeta vi appare in rapporti di amicizia e di corrispondenza letteraria con Giuliano de' Perleoni (Rustico Romano) rifugiatosi a Napoli in seguito alla chiusura dell'Accademia romana di Pomponio Leto (vedi E. Pèrcopo, in Arch. stor. per le prov. napol., XIX [1894], pp. 757 ss.), e Giovanni Aloisio, a cui invia un sonetto (Canzoniere, XVI) in morte dell'amata del poeta, Carina Misallia, che si legge anche in appendice al canzoniere dell'Aloisio (ms. 3220 [Philol. 194] della Nationalbibliothek di Vienna, c. 92v). Legami di amicizia il D. ebbe anche col poeta senese Iacopo Tolomei (l'identificazione è dovuta al Dionisotti) alle rime del quale, composte nel carcere di Castel Sant'Angelo, dove rimase prigioniero dal 1464 al 1471, si fa riferimento con accenti di solidarietà nel son. CIII. I due ebbero certamente modo di incontrarsi quando il Tolomei, appena liberato dal carcere, si recò nel Regno di Napoli dove ottenne uffici di ragguardevole importanza.
La confisca delle Fratte nel 1481 spinse il D. a cimentarsi nel genere pastorale e a scrivere quelle egloghe destinate allo sfogo del "tanto inhumanemente offeso animo" che poi faranno parte della Pastorale. La Corti ha dimostrato come l'opera si costituisca attraverso tre successive redazioni: immediatamente dopo la confisca, il D., deciso a vendicarsi, scrisse alcune egloghe (le prime cinque della Pastorale), che circolarono sciolte, come egli stesso afferma nella prosa iniziale, Il transcorso del voluntario exilio, dalla quale anche appare chiaro che furono composte prima del ritorno in patria di Alfonso, avvenuto il 3 nov. 1484 (ma la IV, che ha come interlocutore il Piatti, ed è priva, tranne un generico accenno negli ultimi cinque versi a un "impio ladro rio", di allusioni alle vicende del feudo, sarà forse da far retrocedere, perlomeno in prima stesura, al periodo ferrarese). Tornato il duca di Calabria, la Pastorale viene progettata, forse anche allo scopo di farsi restituire il feudo, tra il 1484 e il 1486, anno in cui questa è compiuta, secondo quanto si afferma nel Prohemio. In questa fase i toni minacciosi dei primi componimenti risultano attenuati, venuto a mancare l'obiettivo principale dell'astio del poeta, il Petrucci, che fu arrestato insieme con i figli e col conte di Sarno, accusato di complicità nella congiura dei baroni ribelli, il 13 ag. 1486, e decapitato l'11 maggio dell'anno successivo. La terza redazione coincise con la stampa dell'opera, uscita a Napoli nell'agosto 1508 presso Giovanni Antonio de Caneto (se ne conservano due esemplari, uno incompleto alla Trivulziana, l'altro completo alla Bibliothèque nationale di Parigi), in edizione postuma, curata dal figlio Alfonso, quando le Fratte erano passate per decreto regale a Prospero Colonna. In quest'ultima fase il D. aggiunse tre egloghe religiose e di rassegnazione, e rivide linguisticamente i testi - revisione certo sollecitata dall'uscita, nel 1504, dell'Arcadia toscanizzata - e dedicò l'opera al conte di Monteleone Ettore Pignatelli, consigliere di Ferdinando il Cattolico.
La Pastorale, che consta di un Prohemio, della prosa iniziale e di 15 egloghe in terzine, adombra dietro il camuffamento bucolico le vicende personali dell'autore, celato sotto gli umili panni di un pastore, Gianuario, costretto dalla "rapace furia" di "lupi famelici" ad abbandonare i propri campi ed a vagare, come si narra nel Transcorso, dalla Campania al Lazio e all'Abruzzo fino al sospirato ritorno in patria.
Esplicito appare il richiamo ai bucolici senesi, la cui influenza, tramite il D., agirà anche sul più giovane Sannazaro, per il quale, come ha dimostrato la Corti confutando la tesi del Pèrcopo (che la Pastorale fosse un'imitazione della più famosa Arcadia), importante risulterà agli inizi la lezione del D.; in un secondo momento del resto sarà il Sannazaro a prestare motivi e soluzioni al De Gennaro. Per i rapporti fra i due, che tacciono l'uno dell'altro, è interessante la notizia del perduto gliommero sannazariano Pietro Jacobo mio, non so che fare, di cui G. B. Bolvito cita tre versi (Variarum rerum, II, c. 20r, nel ms. S. Martino 442 della Biblioteca nazionale di Napoli), e che probabilmente era diretto proprio al De Gennaro. Non tutto il materiale poetico relativo alla vicenda del feudo è confluito nella Pastorale, essendo rimaste inutilizzate le egloghe Montano et Collano e Alphanio e Cicaro - presenti nell'antologia bucolica del citato ms. napoletano XIII. G. 37, che comprende anche i testi I, IV, V, VIII della Pastorale testimonianti la prima redazione dell'opera - rivendicate al D. rispettivamente dal Santagata e dalla Corti.
I vv. 48-109 di Alphanio e Cicaro, che risale secondo la Corti al 1487-89, si leggono anche in un foglietto incollato in fondo a un esemplare lacunoso dell'edizione del 1502 dell'Arcadia (conservato alla Nazionale di Roma), recante l'indicazione "Impressum Neapoli per Sigismundum / Mayr Alemanum Anno Domini / MCCCCCIII Die XXVI Ianuarii". Il gusto per il linguaggio municipale e per le forti tinte realistiche, contrassegni tipici dello stile del D., ha recentemente consentito a G. Parenti di ascrivergli il gliommero Eo non agio figli né fittigli, presente alle cc. 75r-79r del ms. Riccardiano 2752, contenente anche il son. XCVIIa del Canzoniere e l'egloga V della Pastorale. Il gliommero, cronologicamente anteriore al 1486, è il vivace racconto in prima persona dell'avventura capitata al protagonista, sorpreso in una situazione imbarazzante in un vicolo di Napoli, e non è privo di una sottile vena satirica verso la dinastia al potere, che si esplicita in una chiara rampogna nella Pastorale.
L'interesse per l'esercizio della poesia dialettale ed espressionistica, da non considerarsi più come un episodio isolato nella sua attività di scrittore, permise al D. anche una incursione nel genere burchiellesco, con lo strambotto Ricipe bianco marmo e ben lo pista, a lui attribuito dal ms. Vat. lat. 5170 (c. 37v), segnalato per primo da G. Velli.
Entrambe le opere degli ultimi anni di vita del D., il Regimento dell'Opera de li huomini illustri sopra de le medaglie e il poema Le sei etate de la vita humana, nascono invece da uno stesso intento erudito e dall'insistente attenzione al mondo classico e medievale, e rivelano i principali pregi e difetti del loro autore: da un lato una non comune cultura umanistica, dall'altro un'eccessiva seriosità e fiacchezza d'ispirazione. L'Opera de le medaglie (contenuta nel ms. I. C. 17 della Biblioteca nazionale di Palermo), preceduta da un son. "indiriczato alo excellente S. Misser Loyse Sanchez Consigliero et Thesaurero generale del catolico Re Ferdinando de Aragonia", inizia da Romolo edificatore di Roma e rievoca, in un succedersi di fatti degni di lode, le gesta di vari personaggi romani, ammaestrando i contemporanei attraverso i loro nobili esempi e l'autorità degli antichi. L'imponente poema delle Sei etate, composto da 47 canti in terzine distribuiti in 16 cantiche, ciascuna preceduta da un'epistola dedicatoria in prosa, è scritto ad imitazione della Divina Commedia e dei Trionfi di Petrarca. L'opera, edita interamente solo in tempi recenti, è conservata nel ms. Ashburnham 1039 della Laurenziana di Firenze, di cc. 198 non numerate, e, per il Proemio ad Andrea Carafa e i primi 4 capitoli dell'ultima cantica, anche nel ms. 1699 della Casanatense di Roma. Il poema, le cui sei parti vanno dall'età della "infancia" a quella della "decrepitudine", narra il viaggio nell'oltretomba del poeta, che infine si risveglia fra il Sebeto e l'Averno, ed è interessante per lo sfoggio di cultura scolastica (in VI, 1 introduce a parlare s. Paolo, in VI, 7 s. Tommaso d'Aquino e in VI, 11 s. Gennaro, patrono di Napoli e della famiglia De Gennaro). Notevole dal punto di vista documentario è inoltre la singolare prodigalità di notizie che l'autore ci offre intorno ai suoi tempi: in III, 5, ad es., per bocca di Vincenzo Belprato, il D. fa una rassegna dei musicisti più famosi dall'antichità fino alla sua epoca; in IV, 5 menziona vari letterati suoi contemporanei (fra cui il Panormita, il Filelfo, Giusto de' Conti, il Pontano), e varie personalità illustri sono chiamate a trattare particolari argomenti. A chiusura del poema si leggono un'epistola gratulatoria e un sonetto del famoso giurista Tomaso Gramatico, di cui uno scambio di sonetti con il D. è attestato nel ms. C. 369. II della Marucelliana di Firenze, il canzoniere autografo dello stesso Gramatico.
Edizioni: F. Trucchi, Poesie italiane inedite di dugento autori, Prato 1847, III, p. 50 (pubblica la barzelletta Guardase ben che non sa); G. Barone, Il canzoniere di P. I. De Jennaro, Napoli 1883; F. Torraca, Rimatori napoletani del Quattrocento, in Aneddoti di storia lett. napol., Città di Castello 1925, pp. 203 ss. (pubblica lo strambotto 7 e la barzelletta 8a, numerazione dell'ed. Corti); M. Mandalari, Rimatori napol. del Quattrocento, dal cod. 1035 della Bibliothèque Nationale di Parigi, a cura di G. Mazzatinti-A. Ive, Caserta 1885 (v. la recens. di F. Torraca, in Giorn. stor. d. letter. ital., VII [1886], pp. 413 ss.); Arcadia di Iacopo Sannazaro, secondo i manoscritti e le prime stampe, a cura di M. Scherillo, Torino 1888 (pubblica in Appendice i testi I, IV, V, VIII della Pastorale e le egloghe Montano et Collano e Alphanio e Cicaro); E. Pèrcopo, La prima imitazione dell'"Arcadia", in Atti d. R. Accademia di archeologia, lett. e belle arti di Napoli, XVIII (1896-97), pt. 2, memoria n. 3, pp. 1 ss.; A. Altamura, Testi napoletani del Quattrocento, Napoli 1953, pp. 123 ss. (pubblica dalle Sei etate il cap. 10 della VI parte; dal Canzoniere i sonetti XXVII, LXIV, XCII dell'ed. Corti; dalla Pastorale i vv. 1-21, 103-26 dell'egloga II); P. J. De Jennaro, Rime e lettere, a cura di M. Corti, Bologna 1956 (vedi la recensione di M. Marti, in Giorn. stor. d. letter. ital., CXXXIV [1957], pp. 108 ss.; A. Altamura, Rimatori napoletani del Quattrocento, Napoli 1962, pp. 17 ss. (comprende i testi del D. presenti nel ms. Ital. 1035 di Parigi); A. Altamura, La "Plutopenia" di P. J. De Jennaro, in Studi di filologia italiana, Napoli, 1972, pp. 119 ss.; P. J. De Jennaro, Le sei etate de la vita humana, testo inedito del secolo XV, a cura di A. Altamura-P. Basile, Napoli 1976; G. Parenti, Un gliommero di P. J. De Jennaro: "Eo non agio figli né fittigli", in Studi di filologia italiana, XXXVI (1978), pp. 321 ss.; Id., "Antonio Carazolo Desamato". Aspetti della poesia volgare aragonese nel ms. Riccardiano 2752, ibid., XXXVII (1979), pp. 119 ss. (pubblica alle pp. 198 s. lo scambio di sonetti tra il D. e Tomaso Gramatico).
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