DE LAUGIER, Cesare Niccolò Giovacchino, conte di Bellecour
Nacque a Portoferraio il 15 ott. 1789 da Leopoldo, capitano comandante di quella piazzaforte granducale, e da Francesca Coppi.
I De Laugier erano un ramo di una nobile famiglia lorenese, stabilitasi in Toscana al seguito di Francesco I di Lorena. Nella sua opera più nota, Concisi ricordi di un soldato napoleonico italiano (I-II, Firenze 1870; ed. ridotta a cura di R. Ciampini, Torino 1942), lo stesso D. mette in risalto che la sua nascita coincise con l'inizio della Rivoluzione francese che doveva travolgere anche uno zio abitante a Nancy e finito sulla ghigliottina, mentre i beni della famiglia furono confiscati. Assai diversa fu la sorte del padre che, essendosi opposto, nel luglio del '96, al tentativo inglese d'impossessarsi di Portoferraio, fu sospeso dal servizio. All'arrivo in Toscana dei Francesi, il grave stato di indigenza in cui versava la famiglia spinse Leopoldo a passare al loro servizio. Le precarie condizioni economiche sono confermate da una supplica alle autorità francesi (Arch. di Stato di Firenze, Presidenza del Buongoverno 1799, Governo francese, Negozi di polizia, filza 6, af. 679) perché il figlio venisse accolto gratuitamente in un collegio.
Il giovane D., che già si era rivelato poco docile nel periodo di studi presso gli scolopi, fu collocato nel collegio degli Angioli. Qui però ricevette una educazione retriva, fatta di "chiesa, coro, poco studio, verberazioni smodate e continue", alla quale reagì al punto da venire espulso dal collegio. Dopo l'"insorgenza aretina" il padre fu imprigionato e compromessi politici furono pure due zii materni, sospetti giacobini.
Nelle sue memorie, il D. insiste su queste prime dolorose esperienze dalle quali gli sarebbe derivata la sua ferma avversione per l'Austria e, forse, il suo anticlericalismo. Comunque la madre riuscì ad ottenere che il marito venisse trattato con minore durezza; infine, le autorità granducali, ritenendo che la miseria lo avesse spinto a servire i Francesi (Arch. di Stato di Firenze, Presidenza del Buongoverno 1799, Periodo granducale, Negozi di polizia, filza 14, af. 796), lo rilasciarono. Certo simili vicende influirono anche sul carattere, già ribelle, del ragazzo che si trovò spesso abbandonato a se stesso, in una situazione di estrema indigenza.
La vittoria napoleonica di Marengo ristabilì la fortuna della famiglia; e, sempre per l'intervento della madre, il D. passò nel monastero di Monte Oliveto, dove, però, trovò un tipo di educazione altrettanto rigida di quelle già sperimentate. Se ne liberò tornando alla casa paterna. Negli anni successivi si dedicò allo studio delle lingue, della musica e della scherma, ma seguì anche lezioni di diritto civile con l'intenzione di dedicarsi alla carriera legale, mentre si abbandonava disordinatamente ad ogni sorta di letture, soprattutto di libri storici.
Il 26 dic. 1806 la regina reggente di Etruria lo nominò cadetto del reggimento Carlo Ludovico; cominciò per il D. la sua avventurosa carriera militare. Gli inizi furono però particolarmente infelici, a causa di un evento le cui conseguenze continuarono a pesare a lungo sulla sua reputazione: la sera del 10 apr. 1807 uccise in duello un altro cadetto, Stefano Bendini.
La ricostruzione dell'episodio fatta dal D. nei Ricordi (Firenze 1870), e nello scritto inedito Ragguaglio del fatto successo la sera del 10 aprile 1807 disteso da C. D. Laugier autore del medesimo..., conservato nelle sue carte, Firenze, Bibl. e Arch. del Risorgimento, Carte De Laugier, fasc. 992), appare confermata dall'inchiesta condotta da parte della Consulta di Stato (Arch. di Stato di Firenze, Segreteria di Guerra, filza 375, Protocollo degli affari risoluti da S. Maestà la Regina reggente, ott. 1807, n. 54), dalla quale risulta che egli fu veramente provocato dal suo avversario.
Il Consiglio di guerra il 28 aprile lo condannava alla radiazione dal corpo e a cinque anni di confino a Volterra. Il ricorso del D. e le suppliche dei genitori, che gli avevano ottenuto l'arruolamento nei veliti del Regno italico, indussero la regina a concedergli l'11 ott. 1807 la commutazione della pena in un ugual periodo di esilio, e il giovane poté recarsi a Milano. Qui prese servizio come velite il 27 seguente, e il 26 novembre vide per la prima volta Napoleone, l'uomo che per sempre doveva essere il suo mito. All'indomani il reggimento era già in marcia per raggiungere la divisione italiana combattente in Spagna.
Le memorie del D. danno largo spazio alla sua partecipazione alla campagna e agli atti di eroismo compiuti. Quanto scrive è confermato dal suo stato di servizio (Carte De Laugier, fasc. 997) che testimonia come si distinguesse subito nei combattimenti in Catalogna. Per il suo comportamento ottenne l'onorificenza di cavaliere della Corona di ferro il 23 ag. 1808, e il 21 novembre la nomina a caporale. Nell'inverno 1808-09 partecipò a nuovi combattimenti intorno a Barcellona, ove le truppe italiane erano accerchiate; successivamente il gen. G. Lechi lo nominò suo segretario; poi, il 27 apr. 1809, il D. durante un combattimento a Esquirolls salvò la vita al generale, che già allora l'avrebbe proposto per la Legione d'onore. Il 9 luglio successivo si segnalò ancora a Gerona, rimanendo nuovamente ferito; il che gli valse la promozione a sergente (10 luglio 1809). Nel settembre combatté con i resti del reggimento, alla guardia ai ponti sul Ter.
Caduto ammalato, fu rimpatriato e giunse a Milano il 18 nov. 1809. La sua successiva carriera fu rapida: il 1° dic. 1810 fu nominato sottotenente, viceaiutante maggiore; e il 24 aprile dell'anno seguente tenente in secondo, sempre dei veliti. Con questo reggimento partì per la campagna di Russia, il 28 febbr. 1812. Partecipò alla marcia verso Mosca, combattendo anche a Borodino.
Giunto a Mosca il 14 settembre, egli vi restò per quasi un mese; e di lì inviava alcune lettere alla madre, interessanti per le sue considerazioni sulle vicende della guerra e sulla città (alcune in appendice alla cit. ed. del Ciampini dei Ricordi, altre in Ciampini, I primi anni...; ma moltissime, che abbracciano l'intero periodo dell'Impero, sono ancora inedite in Carte De Laugier, fasc. 1201-1213). Nel corso della successiva disastrosa ritirata il D. si batté a Malojaroslavec e alla Beresina. Non è possibile seguire le sue avventurose vicende sino all'arrivo a Villa: ferito nei combattimenti di Kowno (Kaunas), pochi giorni dopo si ammalò e fu costretto al rimpatrio.
Giunto a Milano, all'inizio del 1813, il viceré l'incaricò di organizzare un nuovo reparto di veliti, dei quali, il 12 marzo, fu nominato tenente in primo. Sempre con la Guardia partecipò ai combattimenti in Slovenia, presso Lubiana; e, nominato il 18 ottobre aiutante maggiore del reggimento, continuò a militarvi durante la campagna d'Italia del 1813-14, nel corso della quale venne proposto due volte per la Legion d'onore. Si trovava a Milano il 28 febbr. 1814, quando il ministro della Guerra, A. Fontanelli, l'incaricò di recare un messaggio segreto a Napoleone. Partito per la via della Svizzera, il D. fu sorpreso da un attacco austriaco e fatto prigioniero. Venne liberato solo il 3 maggio; ma al suo ritorno a Milano, il 5, il Regno d'Italia era già stato occupato dagli Austriaci.
Come molti altri ufficiali del Regno italico, il D. fu mantenuto in servizio, nonostante fosse un suddito straniero; ma è probabile che valesse in suo favore la parentela con Charles de Laugier, figlio dello zio ghigliottinato e colonnello austriaco. Nominato capitano del primo reggimento italoaustriaco Wimpfen di stanza a Como (29 giugno 1814), assunse servizio, nonostante la sua repugnanza a militare sotto l'Austria; né sono chiare le ragioni che lo indussero a chiedere il congedo, accordato il 26 ottobre.
Nei Ricordi (pp. 70 s.), il D. parla di un incontro a Milano con il gen. G. Lechi che l'avrebbe messo al corrente di una vasta congiura in atto tra gli ex militari del Regno italico, allo scopo di preparare lo sbarco in Italia di Napoleone e proclamarlo "Imperatore romano". Di questa congiura si è molto discusso da parte degli storici, anche in relazione al tentativo di cospirazione militare a Milano stroncato dagli Austriaci, con l'arresto di numerosi ex ufficiali. Comunque il D. afferma di aver promesso al Lechi di dimettersi dall'esercito austriaco; ma un incidente gli avrebbe impedito di avere parte nella congiura frattanto scoperta.
Da una lettera del gen. G. G. Strassoldo (in Carte De Laugier, f.1179), risulta però che si dimise, certo di poter entrare nelle truppe granducali toscane. Lasciò così Milano per tornare in Toscana; ma, nel frattempo, la situazione era mutata ed egli cercò inutilmente di prendere servizio nell'esercito granducale. Il precedente del duello e la sua fama di bonapartista non giocarono in suo favore; anzi fu consigliato dal ministro V. Fossombroni a continuare la sua carriera nell'armata del Murat. È significativo che in onore del Fossombroni, al momento della sua morte, il D. scrivesse un Tributo rispettoso del dolore di un soldato toscano alla memoria d'un grand'uomo (inedito, in Carte De Laugier, fasc. 1217). Il 21 genn. 1815 gli fu rilasciato il passaporto e il permesso di servire il re di Napoli. Dopo un avventuroso viaggio, il D. entrò il 23 febbraio come capitano nel 12° di linea napoletano; prima della caduta del Murat si segnalò, ottenendo il 7 marzo la medaglia d'onore, e il 7 maggio l'Ordine reale delle Due Sicilie. Si trovò poi assediato in Capua; dopo l'armistizio di Casalanza, fu escluso dall'esercito napoletano e considerato prigioniero di guerra dagli Austriaci, nonostante si fosse offerto di servire nell'esercito inglese delle Indie. Con una lunga peregrinazione fu condotto prigioniero in Ungheria, a Pest, dove ebbe la ventura di incontrare il cugino colonnello austriaco. Risale al breve passaggio dalla Toscana un'informativa della polizia che lo descrive di carattere altero, irreligioso e tendente ad una "vita libertina" (Arch. di Stato Firenze, Buongoverno segreto 1814-1815, filza 13, af. 202). Nell'ottobre 1815 fu rilasciato e rientrò in Toscana.
Tutta la sua giovinezza era trascorsa nella grande avventura napoleonica, attraverso un seguito di imprese guerresche che avevano definitivamente formato il suo carattere. In effetti il D. restò sempre un tipico ufficiale della "Grande Armée", continuando a coltivare sogni di grandezza, rimpiangere il tempo dell'Impero e conservare le memorie eroiche della giovinezza. Anzi, tra gli ex ufficiali italiani dell'Impero, fu colui che più si impegnò a mantenere vivo il ricordo delle imprese compiute dagli Italiani, ad esaltarne le gesta e a riaffermare sentimenti di orgoglio nazionale, mostrando di anteporre queste sue convinzioni alle opportunità della carriera.
Poco dopo il suo ritorno, il granduca, "posto un velo sopra i suoi giovanili trascorsi" (Carte De Laugier, fasc. 1002), il 6 febbr. 1816 gli concesse il mezzo stipendio, riservandosi di riassumerlo in servizio. Ma, certo, dovevano correre sul conto del D. sospetti di natura politica che sembrano confermati da una più tarda informativa di polizia del 1822 (Arch. di Stato di Firenze, Buongoverno segreto 1822-24, filza 4, af. 40), nella quale si parla di una sua presunta affiliazione alla carboneria, avvenuta durante il suo servizio a Napoli, e di una sua opera di proselitismo presso ufficiali toscani. Potrebbe convalidare l'ipotesi il fatto che, nel 1820-21, seguì con molto interesse gli eventi napoletani e piemontesi, scrivendo un Piano d'offesa e di difesa del regno di Napoli, e un Prospetto del piano che a mio parere dovrebbe adottarsi dal campo di Alessandria (inediti, in Carte De Laugier, fasc. 1219). In ogni modo il gen. I. Casanova, comandante dell'esercito toscano, lo incaricò (1817), di stendere i Regolamenti e istruzioni per le truppe di fanteria del Granducato di Toscana (Firenze 1818). Infine, il 30 dic. 1819, fu richiamato in servizio come capitano e destinato al comando di una compagnia di cacciatori a Piombino; poco dopo tornava a Firenze, comandante dei granatieri che costituivano la guardia del granduca.
Cominciò così la sua lenta carriera nell'esercito di un piccolo Stato, privo di efficienza militare. Solo il 10 giugno 1835 fu nominato maggiore e destinato a Livorno (dove si segnalò in occasione di un'epidemia di vaiolo); l'anno successivo fu all'Elba; il 20 febbr. 1841 venne promosso tenente colonnello presso il 2° reggimento fanteria, a Firenze e, il 5 febbr. 1847, colonnello del 1° reggimento fanteria a Livorno. Durante questi anni non si hanno notizie di una sua attività politica, ad eccezione dei sospetti ricordati.
La sua dovette essere la vita monotona di un ufficiale di guarnigione, ben diversa da quella del tempo dell'Impero, intramezzata da avventure amorose le da litigi con altri ufficiali, di cui restano tracce nei documenti di polizia (Arch. di Stato di Firenze, Buongoverno segreto 1847, filza 27, af. 177). Vi sono, però, alcuni fatti che mostrano come il D. continuasse a mantenere relazioni con il mondo napoleonico: i suoi rapporti di familiarità con alcuni dei Bonaparte che, in quegli anni, soggiornavano in Toscana, come l'ex regina di Spagna, Giulia, e la figlia Carlotta.
In questo ambiente ebbe modo d'incontrare, alla vigilia dei moti del 1831, Napoleone Luigi, figlio dell'ex re di Olanda, con il quale avrebbe condiviso speranze politiche. Poi, il 10 genn. 1831, incontrò a Firenze anche il fratello, Carlo Luigi Napoleone, il futuro Napoleone III, in procinto di partecipare all'insurrezione romagnola. Pochi mesi dopo, lo stesso D. si recava in Francia per sostenere i suoi diritti all'eredità di una parte del "miliardo" d'indennizzo per le vittime della Rivoluzione. Il viaggio attraverso la Liguria e il Piemonte e, poi, il soggiorno parigino gli permisero di sperimentare la nuova realtà politica europea dopo le "giornate di luglio"; nella capitale francese incontrò diversi esuli italiani, tra i quali G. Sercognani, P. D. Armandi ed E. Misley. Da Parigi passò a Londra, ove ebbe contatti con Gabriele Rossetti e Filippo Buonarroti. Di ritorno a Parigi, poté assistere, ai primi di giugno del 1832, ai moti repubblicani repressi dal maresciallo Soult; avrebbe partecipato, il 17 settembre, al tentativo insurrezionale provocato dal mancato intervento francese in Polonia. Tornato a Milano, s'incontrò con ex ufficiali napoleonici che speravano in un radicale mutamento. Nondimeno, il D. sottolineò sempre di non aver mai partecipato a "conventicole rivoluzionarie" o società segrete, ma di essere rimasto sempre un soldato ligio al suo giuramento, nonostante avvertisse la diffidenza nei suoi riguardi del granduca Leopoldo II.
Il D. non si abbandonò alla vita oziosa di tanti ufficiali, soffocata dall'atmosfera grigia dell'età della Restaurazione: anzi, in questi decenni si dedicò ad una esuberante attività di pubblicista e, a suo modo, di storico che aveva come fine la rivendicazione del contributo militare italiano alle guerre dell'Impero.
Relativamente alle sue opere, è necessario premettere che, come notò il D'Ancona (1902, p. 81), molte date indicate dall'autore nei suoi Ricordi spesso non corrispondono a quelle delle edizioni che ci sono note; il problema è, inoltre, aggravato dal fatto che alcuni scritti furono pubblicati anonimi o clandestini e di taluni di essi non si trova traccia. Comunque, per i problemi della datazione e attribuzione di alcune opere incerte, si veda lo scritto già cit. del D'Ancona e la pref. del Ciampini ai Concisi ricordi. S'indicheranno qui, prima le opere di sicura attribuzione, secondo la data delle edizioni tuttora controllabili; poi si riferiranno i titoli e le date supposte delle opere di attribuzione incerta.
Già nel 1817, il D. pubblicava a Firenze le Osservazioni sull'arte della guerra; nel 1818 la stampa delle Ephémérides militaires di L.-E. d'Albans, che a suo giudizio denigravano il comportamento dei soldati italiani dell'Impero, provocò una sua risentita Lettera d'un uffiziale italiano agli autori dell'Efemeridi militari di Francia, pubblicata anonima (Italia [ma Firenze] 1819); e data da questo tempo la decisione di raccogliere documenti e testimonianze sulle milizie napoleoniche italiane, delle quali si servì per stendere Gl'Italiani in Russia, Memorie di un uffiziale italiano per servire alla storia della Russia, della Polonia e dell'Italia nel 1812, pubbl. anonima (I-IV, Italia [ma Firenze] 1826-27; ora rist. in edizione ridotta in C. De Laugier-G. Bedeschi, Gli Italiani in Russia 1812, 1941-1943, Milano 1980, pp. 15-190; tr. francese parziale La Grande Armèe, di M.-H. Lyonnet, Paris s. d. [ma 1910]) che ebbe eccezionale successo. Ciò lo incoraggiò a proseguire nella sua attività componendo un'altra grossa opera, Fasti e vicende degl'Italiani dal 1801 al 1815 o Memorie di un'uffiziale italiano per servire alla storia militare italiana, pubbl. anonima (I-II, Italia [ma Firenze] 1829; III-XIII, Firenze 1830-1838); più tardi, dal 1842 al 1847, sempre a Firenze, stampò, in quattro volumi, Le guerre dal 1792 al 1815incremento a civilizzazione e concordia europea (ma dal II vol. il titolo muta in Fasti militari ossia Guerre dei popoli europei...). Secondo quanto dice lo stesso D. in una sua autobiografia ancora inedita (Carte De Laugier, fasc. 1127), avrebbe scritto anche un'altra opera sulle truppe italiane in Spagna, ma, avendo saputo che Camillo Vacani aveva già composto un'opera simile, non l'avrebbe pubblicata, regalando al Vacani il materiale raccolto.
Il successo indubbio di questi scritti, non solo tra gli ex militari e funzionari dell'Impero, indusse il D. a coltivare anche altre ambizioni letterarie e a tentare la via del romanzo e del dramma storici. Iniziò nel '30, pubblicando anonimo, a Firenze, il romanzo Cosimo e Lavinia, o La caduta della Repubblica veneta; nel 1840 stampò a Livorno il dramma Cosimo del Fante o Nove anni della vita di un Livornese, a cui fece seguire altri drammi: Bianchini o Un eroe italiano (Firenze 1841), La marchesa e l'aiutante (Livorno 1842), Il seduttore e il conte Alfieri, citato anche come Il seduttore e l'altare (Badia Fiesolana 1843), Antonio Biella e Teresa Silva (Badia Fiesolana 1844), L'assedio di Barcellona o la calunnia del fanatismo (Firenze 1846), un'opera nella quale mirava soprattutto a scagionare il gen. G. Lechi dalle accuse corse sul suo conto durante la campagna di Spagna. Né vanno dimenticati due scritti sicuri, l'uno pubblicato a Livorno nel 1841, Brevi cenni storici, di un testimone oculare, al tentato recupero del piroscafo sardo Il Polluce (fallita operazione alla quale il D. aveva assistito, avendovi anche una certa parte); l'altro, una breve raccolta di lettere e documenti pubblicati nel 1846, sempre a Livorno, Documenti storici intorno ad alcuni fatti d'arme degl'Italiani in Monte Video. In questo secondo scritto il D. volle esaltare l'azione della legione italiana e del suo comandante Garibaldi nella guerra tra la Repubblica di Montevideo e il dittatore argentino Rosas. L'operetta contribuì a diffondere in Italia la fama del futuro condottiero dei Mille.
Dai suoi Ricordi risulta che avrebbe composto vari altri scritti, alcuni inediti, altri affidati a una circolazione clandestina, quasi sempre indicati con date errate o incontrollabili: prima del 1817, una Storia guerresca del nostro paese dal 1794 al 1815 (da identificarsi forse con Fasti e vicende degl'Italiani dal 1801 al 1815); nel 1818, Waterloo e Bourmont (che sarebbe stato la traduzione e il commento del poema di A. M. Barthélemy e J. Mery dedicato al gen. L. de Bourmont, pubblicato in realtà a Parigi nel 1829); nel 1833, La rivoluzione italiana del 1831 (clandestino); nel 1834, il romanzo L'esule italiano (clandestino). Il Ciampini gli attribuisce, con forti probabilità, le Osservazioni, aggiunte, schiarimenti, emende e considerazioni all'operadel signor cavalier Vacani (ossia alla Storia delle campagne e degli assedi degl'Italiani in Spagna dal 1808 al 1813, Milano 1825), apparsa anonima a Firenze nel 1828, e non esclude che sia suo un racconto pubblicato anonimo a Milano, nel 1837, Il prigioniero di Narva, diario di un italiano trascinato in cattività in Russia.
Alle sue supposte opere va aggiunta anche L'arte di non farsi uccidere né ferire in duello che, secondo il Marcotti (1898, p. 332) fu pubblicato nel 1828.
Una questione particolarmente importante è legata poi ad altre due opere di cui il D. parla nelle sue memorie. La prima, che fa risalire al 1819, è uno scritto sulla battaglia di Waterloo che, secondo quanto narra, avrebbe "composto" dopo aver incontrato a Firenze, in casa di Tito Manzi, il gen G. Gourgaud, già aiutante di Napoleone, di passaggio per recarsi a Sant'Elena; e aggiunge ancora di avere avuto da lui notizie sulla congiura italiana del 1814, mirante a fare di Napoleone il re d'Italia. È certo che questa opera fu davvero stesa dal D., il quale chiese alle autorità il permesso di pubblicarla. Dalle carte di polizia (Arch. di Stato di Firenze, Presidenza del Buongoverno 1820, Negozi di polizia, filza 47, af. 2000) risulta che aveva presentato alla censura "tradotto dal francese... un ragguaglio della campagna del 1815 che dette luogo alla giornata di Waterloo ed alla seconda caduta dì Napoleone", il cui originale il regio censore, Mauro Bernardini, attribuiva al Gourgaud. La censura non ritenne opportuno autorizzare la pubblicazione per timore che certe osservazioni risultassero offensive per il governo britannico; sicché il D. avrebbe deciso di non insistere nel progetto e di regalare allo stampatore Batelli un'altra opera, non presentata alla censura, intorno alla supposta congiura italiana del 1814. Tale scritto sarebbe stato pubblicato alla macchia lo stesso anno 1819, procurando allo stampatore un notevole profitto (Ricordi, pp. 94, 121). In realtà, di questa edizione fiorentina non si sono trovate finora tracce, Mentre esiste un opuscolo che, dieci anni dopo, apparve sotto la finta indicazione di Bruxelles, Tarlier, 1829, dal titolo Delle cause italiane nell'evasione dell'imperatore Napoleone dall'Elba. Intorno a questo opuscolo è stato molto discusso, sia riguardo all'effettiva realtà della congiura, sia per quanto concerne la paternità dello scritto e i suoi rapporti con un testo in francese, La verité sur les cent jours principalement par rapport à la renaissance projetée de l'Empire romain par un citoyen de la Corse, edito, questo, veramente, a Bruxelles e dal Tarlier, nel 1825. Di quest'ultimo fu sicuramente autore Giorgio Libri Bagnano (o Bagnasco); ed è questione ancora non risolta se l'opuscolo in lingua italiana del 1829 (di cui è autore, con forte probabilità, il D.) sia la traduzione del testo del Libri, o se questo sia la versione francese della supposta edizione del 1819 che il generale si attribuisce, o se entrambe dipendano da altra fonte. Elementi che permettano di risolvere il problema non sono stati ancora trovati; e, invero, anche il racconto dell'ormai vecchio D. è piuttosto confuso e sembra discutibile, anche per quanto concerne il soggiorno fiorentino del Gourgaud. Del resto su tutta la vicenda politica narrata nei due opuscoli sussistono fortissimi dubbi, aggravati dalle contraddizioni presenti in entrambi. Si potrebbe opinare che tali operette avessero uno scopo politico, servissero, cioè, a promuovere la circolazione di concezioni di carattere "nazionale", durante le repressioni seguite agli eventi del 1821.
Quanto a un giudizio complessivo sull'ampia e spesso prolissa produzione del D. va detto che essa non ha né valore stilistico, né effettivo valore storiografico, ma che rappresentò tuttavia un notevole contributo alla conservazione di memorie, ricordi, documenti per la storia dell'Italia napoleonica ed ebbe una sua indubbia efficacia politica, testimoniata anche dal successo delle sue opere memorialistiche scritte con maggiore spontaneità.
Col 1847 cominciò una nuova fase della vita di questo già anziano militare, quella che ne ha tramandato il ricordo. Al primo delinearsi delle agitazioni politiche che, anche in Toscana e specialmente a Livorno, ebbero una notevole intensità, il D. assunse un atteggiamento rigido, richiamando a Livorno un altro battaglione del suo reggimento e facendo intendere la sua disponibilità a sedare ogni disordine. Il suo comportamento sembrò imprudente alla stessa polizia livornese e suscitò reazioni tra i dimostranti. Quando, il 13 maggio 1847, ebbe luogo una clamorosa manifestazione di piazza, il suo deciso intervento per scioglierla causò ancora violento malumore. Contro il D. corsero non solo minacce, ma pasquinate che mettevano in ridicolo il suo fare "soldatesco e arrogante", e gli fu dato il soprannome di "general Medoni", dal nome di un capocomico particolarmento istrionesco. Anche alcuni ufficiali del suo reggimento si schierarono contro di lui, e nuove manifestazioni popolari spinsero il governatore don Neri Corsini a consigliargli di abbandonare la città. Le successive concessioni del granduca non lo trovarono altrettanto avverso, tanto che scrisse un'operetta, Teoria che potrebbe esser idonea per laGuardia civica italiana, pubblicata a Livorno, quello stesso 1847, e seguita, l'anno successivo sempre a Livorno, dal Regolamento generale per il "servizio di piazza" della Guardia toscana.
Non si ha però alcun documento che alluda a una sua partecipazione agli eventi politici di quell'anno, probabilmente non congeniali al suo temperamento di militare. Sappiamo però che manteneva buone relazioni anche con personalità democratiche, come E. Mayer che fu poi suo segretario al fronte, e con il quale rimase sempre in rapporti di amicizia, giungendo ad una sostanziale comunanza di idee su molte vicende italiane (numerose lettere del Mayer al D. si trovano in Carte De Laugier, fasc. 1133-1143).
Quando la crisi politica precipitò con la rivolta milanese, l'intervento del Piemonte e l'invio delle truppe toscane in Lombardia, il D. era ammalato e non poté partire subito con lo scaglione che, il 3 aprile, mosse verso la Lunigiana. Raggiunse il suo reggimento a Reggio Emilia, dove cadde nuovamente ammalato; ma già da questa città si preoccupava di scrivere al comandante in capo toscano, gen. U. D'Arco Ferrari, sui gravi pericoli che correva lo schieramento delle fragili forze sul lungo fronte tra Curtatone e Montanara, e di dare consigli per una loro diversa disposizione. Ristabilito in salute, il 28 aprile giunse al fronte, assumendo il comando delle truppe a Curtatone. Subito spedì i suoi reparti a cercare viveri e foraggi, scontrandosi con avanguardie austriache. La sua iniziativa non fu benvista dal D'Arco Ferrari che mise in dubbio l'importanza dell'azione, provocando da parte del D. una risentita risposta. Dopo la ritirata dei Toscani su Goito, nella notte tra l'8 e il 9 maggio, e l'immediato ritorno sulle linee precedenti, nello scontro con gli Austriaci per rioccupare le posizioni il D. si segnalò nuovamente. Al termine dell'operazione occupò la posizione di Montanara, attaccata il 13 dagli Austriaci che minacciarono di circondare alcuni reparti. Anche in questa occasione il D. partecipò al combattimento, riuscendo a disimpegnare le truppe minacciate. L'indecisione dimostrata dal D'Arco portò alla sua sostituzione; così il comando del corpo toscano fu affidato al D., promosso generale maggiore onorario.
Il ministro della Guerra, Neri Corsini, non era del tutto soddisfatto di affidare il comando ad un uomo che aveva doti di coraggio, ma che, per il suo carattere altero e impulsivo, avrebbe potuto creare problemi sia nei confronti del ministero sia della truppa e degli ufficiali. Ed infatti egli propose che il D. fosse sottoposto alla "strettissima sorveglianza" del generale sardo E. Bava, al cui corpo erano aggregate le truppe toscane (per tale questione cfr. soprattutto Oxilia, 1904).
La nomina del D. fu accolta con soddisfazione dall'esercito, le cui condizioni erano peggiorate anche per la crescente indisciplina dei volontari. Il D. non ebbe il tempo di provvedere a una riorganizzazione delle forze al fronte (progettava di incorporare i Toscani nelle divisioni sarde e di sostituirli a Curtatone e Montanara con battaglioni piemontesi che fossero loro di esempio), perché si trovò a fronteggiare il 29 maggio l'offensiva austriaca condotta con forze preponderanti. Gli avvenimenti di quella giornata si conclusero con la confusa ritirata su Goito delle truppe toscane, che però resistettero con indubbia tenacia, facendo fallire la manovra strategica austriaca.
Sull'azione di comando del D. in quel giorno, le opinioni dei contemporanei e degli storici militari furono molto discordi, anche se nessuno mise in dubbio il suo coraggio e la sua partecipazione al combattimento in prima linea. Durante la battaglia, nel tentativo di fermare la ritirata della cavalleria toscana, fu travolto e ferito e corse il rischio di essere ucciso o fatto prigioniero. Fu salvato dal coraggioso intervento del suo aiutante di campo, Giuseppe Cipriani. Il suo comportamento fu premiato con l'unica medaglia d'oro sarda attribuita all'armata toscana, e con la nomina a commendatore dell'Ordine di S. Stefano. Del resto, a determinare l'esito del combattimento contribuirono non poco gli ordini contraddittori o, per lo meno, poco chiari che il D. ricevette dal comando piemontese che non fornì gli aiuti promessi. Ricoverato in ospedale, il D. dettò a L. Cempini il suo rapporto sulla battaglia, chiuso con le parole di Francesco I: "Tutto è perduto fuorché l'onore".
Nei giorni successivi le truppe toscane, sempre più disordinate, ebbero l'ordine di recarsi a Brescia, per riordinarsi. Il D. insisté nel suo proposito di "piemontesizzare" i Toscani e rinviarli al fronte; ma la loro debolezza consigliò il comando sardo a tenerle in retroguardia. Il 13 luglio i Toscani erano a Villafranca, con la divisione sarda Boyl; il 23 combatterono a Sommacampagna, ma dovettero ripiegare. Non combatterono a Custoza; e quindi iniziarono una ritirata che li portò in Lunigiana e Garfagnana. Qui ebbe luogo l'episodio più grave della campagna, l'uccisione del ten. col. G. Giovannetti, comandante di una delle colonne. In questa occasione il D. affrontò coraggiosamente le truppe che stavano per ammutinarsi, individuando l'assassino dell'ufficiale. Il "General Comando" si spostò poi da Fivizzano a Massa, ove rimase per tutto il resto dell'anno.
Con la formazione del governo democratico, il ministro della Guerra M. d'Ayala meditò di sostituirlo, ma nonostante che il 15 dicembre il D. chiedesse il ritiro, sembra che D. Guerrazzi preferisse mantenerlo nel comando. Dopo la fuga del granduca e la formazione del governo provvisorio, si rifiutò di prestare giuramento e impedì che lo facessero le sue truppe. Questo atteggiamento indusse il governo a dichiararlo pubblicamente traditore, ma gli valse la fiducia del granduca che stava trattando con Carlo Alberto l'intervento sardo in Toscana. Il 15 febbr. 1849 Leopoldo II, da Porto Santo Stefano, gli inviò una lettera autografa, ordinandogli di porsi a disposizione di Carlo Alberto e unirsi alle truppe sarde. Il D. rese noto il contenuto della lettera e annunziò, con un proclama, il prossimo arrivo dei Piemontesi. Questo disegno fallì per l'opposizione dell'Austria, provocando, a Torino, la caduta del ministero Gioberti. Così, il 20 febbraio, un'altra lettera del granduca comunicò al D. che l'intervento non sarebbe avvenuto; e, pur invitandolo a non provocare una guerra civile, gli chiese di mantenere le posizioni con le truppe ancora fedeli. Lo nominò, inoltre, tenente generale e commissario speciale (le due lettere autografe, conservate in Carte De Laugier, fasc. 1145, sono edite in C. Ridolfi, 1972-73, I, pp. 279-80; II, pp. 123-24, insieme al proclama del D., I, p. 282, e ad altre lettere e documenti). Il D. si trovò così privo di qualsiasi aiuto, mentre le truppe defezionavano e il Guerrazzi si recava personalmente a Lucca, inviandogli contro una colonna comandata dal ge. D. D'Apice. Solo pochissimi soldati rimasero con il D. che riuscì, a stento, a sfuggire all'arresto e rifugiarsi in territorio sardo, a La Spezia (cfr. C. De Laugier, Compendiosi ragguagli dei fatti toscani dall'8 febbraio al 23 detto, in Il Risorgimento [Torino], 6 marzo 1849). Qui si trovava alla ripresa della guerra ed al momento della disfatta sarda a Novara. Poco dopo, l'8 aprile, s'imbarcò per Gaeta, dove si era rifugiato Leopoldo II; ma non vi trovò l'accoglienza sperata. Però, tornato a Firenze, il 24 maggio fu nominato ministro della Guerra nel governo Baldasseroni, con il difficile incarico di riorganizzare le truppe toscane e tenere i rapporti con il maresciallo C. D'Aspre, comandante del corpo d'occupazione austriaco.
Nelle sue memorie il D. afferma di aver assunto l'incarico contro la propria volontà e solo per impedire soluzioni peggiori, tra le quali il dissolvimento dell'esercito toscano. Certo, nello svolgimento del suo ufficio, si trovò presto in contrasto con le sue antiche convinzioni antiaustriache e i suoi indubbi sentimenti nazionali: costretto ad accettare la soppressione del tricolore, a sottostare all'assoluta supremazia del D'Aspre, e a collaborare con lui nel tentativo di catturare Garibaldi sconfinato in Toscana.
Certamente il D. dové sentire l'intollerabilità della sua posizione che lo rendeva inviso non solo ai democratici, ma anche agli stessi moderati. Non a caso, il 3 luglio del 1849, chiedeva al granduca di esser posto in ritiro; ma le insistenze degli elementi più aperti del governo lo indussero a mantenere la carica, nonostante si trovasse in aspro contrasto anche con il gen. D'Arco Ferrari che, valendosi del suo grado superiore, si rifiutava di ubbidirgli. Il 20 maggio del 1850, anche il D. ebbe finalmente la conferma del grado di tenente generale. Ma la sua presenza nel governo diventava sempre più insostenibile, via via che il ministero inclinava verso posizioni filoaustriache e filoclericali, culminate con il concordato con la S. Sede, che egli riteneva inaccettabile. Così, il 10 ott. 1851, ottenne dal granduca il ritiro dal ministero e dall'esercito, contemporaneamente alla concessione della commenda dell'Ordine di S. Giuseppe e al raddoppio della commenda di S. Stefano. Ma non gli fu concesso di inviare un suo ordine del giorno alle truppe; ed è significativo che lo stesso giorno, mentre G. Baldasseroni assumeva il ministero della Guerra, fosse nominato comandante generale dell'esercito il tenente colonnello austriaco Federico Ferrari da Grado. Così il D. uscì definitivamente dalla scena politica e militare della Toscana.
Aveva però, già da tempo, ripreso la sua attività di pubblicista, stampando vari scritti sulla campagna toscana in Lombardia, per difendere dalle vivaci e talvolta aspre polemiche la sua opera di comandante e il comportamento delle truppe durante la campagna del 1848 e, specialmente, nella battaglia di Curtatone e Montanara.
Alle critiche sollevate contro di lui da un opuscolo anonimo (ma si seppe essere di Niccolò Marescotti), pubblicato dopo il 29maggio, aveva subito e vivacemente steso una Risposta al libello infamatorio contro di lui pubblicato dalla tipografia Tofani in Firenze (Firenze s. d.). In seguito pubblicò opere più impegnative, Le milizie toscane nella guerra di Lombardia nel 1848 (Pisa 1849); Racconto storico della giornata campale pugnata il dì 29 maggio 1848 a Montanara e Curtatone in Lombardia dettato da un testimone oculare (Firenze 1854; opera sicuramente del D., anche se l'autore è indicato solo con le iniziali C. D. L.); In memoria di Giuseppe Cipriani soldato d'Italia (s. n. t.). Nel fasc. 1127 delle Carte De Laugier si trovano, anche se disordinati, vari altri scritti inediti relativi al 1848-49.
L'approssimarsi della crisi militare e politica del 1859 sembrò offrire al D. l'occasione per uscire dal suo ritiro. Secondo quanto egli scrisse, l'11 aprile sarebbe stato pregato dal granduca di riassumere il ministero della Guerra; ed avrebbe accettato, ponendo quale condizione l'alleanza con il Piemonte, come aveva sostenuto nel suo scritto Riflessioni d'un soldato italiano intorno all'opuscolo Napoleone III e l'Italia, steso dopo la pubblicazione dell'opuscolo del La Guéronnière, L'Empereur Napoléon III et l'Italie, e da lui datato 20 febbraio. Tra le condizioni poste era anche l'allontanamento degli elementi austriacanti dall'esercito e il rinnovamento totale del ministero. Tutto ciò egli avrebbe esposto, il 12, al Baldasseroni, in un colloquio ricostruito nei Ricordi; ma tali idee sono esposte anche nello Scritto d'onesto cittadino (edito, insieme al precedente, con il titolo Guerra, durata, a chi vittoria? Riflessioni e modesti presagi d'antico soldato napoleonico, Livorno, 5 maggio 1859) che avrebbe cercato di far avere al granduca. Le sue proposte non furono accolte. Del resto, il 27 aprile, il granduca fuggiva da Firenze dove si formava un governo provvisorio. Nei giorni seguenti il D. aderì al nuovo regime ed alla guerra all'Austria, con una lettera del 27 maggio, apparsa sul Monitore toscano del 29, nella quale dichiarava di porsi a disposizione del governo ed offriva una somma per le famiglie dei soldati. Nondimeno, il 28 aprile, aveva pure scritto una lettera al principe ereditario toscano, Ferdinando, scongiurandolo di non aver alcun rapporto con gli Austriaci e di appoggiarsi a Napoleone III. Il Ricasoli non ritenne, comunque, di servirsi del D.; e questi, messo da parte, poté solo pubblicare una Lettre d'un vétéran italien à l'honorable Monsieur E. Legauvé (Livorno 1859), ove esaltava il cameratismo tra soldati italiani e francesi e diceva che la Provvidenza aveva riservato a "un Napoléon" di "resusciter l'Italie". Dopo il plebiscito che unì la Toscana "alla monarchia di Vittorio Emanuele", il 23 marzo, scrisse una lettera al re per dichiarare la sua devozione e fedeltà (Carte De Laugier, fasc. 1088).
Negli anni successivi attendeva alla stesura dei suoi Ricordi, pubblicava il breve scritto Prometto morire (in I funerali di Santa Croce, Canti del popolo e fiori, Firenze 1860, pp. 43-44) e il Breve squarcio di storia toscana del corrente secolo indicato per sommi capi (Firenze 1863); probabilmente risale pure a questo periodo lo scritto ancora inedito (Carte De Laugier, fasc. 1226) Succinto cenno, o breve cronaca della storia d'Italia dal 1860 al settembre 1862. Uscì dal suo ritiro solo in occasione di un Discorso pronunziato il 29 maggio 1862 nell'atrio universitario di Pisa nella circostanza d'inaugurazione della lapide commemorativa i nomi degli universitari gloriosamente periti il 29 maggio 1848 (Firenze 1862).
Non cessò però, sino alla sua fine, di chiedere a Vittorio Emanuele II il riconoscimento dei suoi diritti come antico cavaliere della Corona di ferro. Morì nella sua villa di Camerata (Fiesole) il 25 maggio 1871.
Fonti e Bibl.: Oltre alle fonti già citate nel testo, si veda Arch. di Stato di Firenze, Ministero della Guerra - Miscellanea, filze IV, n. 12; XVII, n. 36; XXXI, n. 66; e le filze del Min. della Guerra (di difficile consultazione, perché non ordinate) indicate da D. Marzi, Altre notizie intorno alla campagna toscana del 1848, cit.; inoltre molte lettere inedite dei D. a vari corrispondenti sono conservate alla Biblioteca Labronica di Livorno in Autografoteca Bastogi, Carteggio Malenchini, e Fondo E. Chiellini; v.anche G. Lombroso, Biografie dei primari generali ed ufficiali la maggior parte italiani che si distinsero nelle guerre napoleoniche in ogni angolo d'Europa, Milano 1843, pp. 197-208; A. Zanoli, Sulla milizia cisalpina italiana. Cenni storico-statistici dal 1796 al 1814, Milano 1845, I, p. 259; II, pp. 47, 76, 395; A. Zobi, Storia civile della Toscana dal 1737 al 1848, V, Firenze 1852, pp. 584 ss., 651-59, 667-86, 708-46, e Appendice, V, pp. 401-13, 420-30; L. G. Cambray Digny, Ricordi sulla Commiss. governativa toscana del 1849, Firenze 1853, Documenti, p. 15; C. A. Vecchi, La Italia. Storia di due anni 1848-1849, I, Torino 1856, pp. 169, 175-79, 210; G. Livi, Napoleone all'isola d'Elba, Milano 1888, p. 37; G. Nerucci, Ricordi stor. d. battaglione universitario toscano alla guerra di indipendenza del 1848, Prato 1891, pp. 147, 224, 245, 247 s., 256-76, 325, 346 ss., 359-62; G. Marcotti, Cronache segrete della polizia toscana 1814-15, Firenze 1898, pp. 330-333; Le Assemblee del Risorgimento, III, Toscana, Roma 1911, pp. 479 s.; L. Cipriani, Avventure della mia vita, a cura di L. Mordini, Bologna 1934, I, pp. 134-47, 156, 161; Epistolario di G. Montanelli dal 22 marzo al 29 maggio 1848, a cura di U. Mondello, in Rass. stor. d. Risorg., XXIV (1937), pp. 1332 ss.; F. Martini, Il Quarantotto in Toscana. Diario ined. del conte L. Passerini de' Rilli, Firenze 1948, ad Ind.; G. Baldasseroni, Mem. 1833-1859, a cura di R. Mori, Firenze 1959, ad Ind.; G. Montanelli, Mem. sull'Italia e specialmente sulla Toscana dal 1814 al 1850, Firenze 1963, ad Ind.; C. Ridolfi, Giornale della mia emigraz. politica dalla Toscana nel 1849, a cura di S. Camerani, in Rass. storica toscana, XVIII (1972), pp. 279 ss.; XIX (1973), pp. 117 ss.; P. Schiarini, Per un dimenticato. C. D., in Riv. militare ital., XXXVIII (1893), pp. 31-49; E. Barbarich, C. D. e le armi toscane..., ibid., XI, (1895), pp. 579-99, 675-98; F. Agostini Della Seta, Le milizie toscane alla guerra del Quarantotto. Lettere, Pisa 1898, ad Ind.; A. Lumbroso, Il generale d'armata conte Teodoro Lechi da Brescia (1778-1866) e la sua famiglia (Documenti inediti), in Riv. stor. d. Risorg. ital., III (1898), pp. 354 s.; G. Sforza, Un fratello di Napoleone III morto per la libertà d'Italia, ibid., pp. 438-41; A. Linaker, La vita e i tempi di E. Mayer, Firenze 1898, ad Ind.; A. Taddei, Lettera al direttore, in La Nazione, 30 maggio 1902; A. D'Ancona, Il generale C. 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