DE LUCA, Antonio Maria
Nacque a Celle di Bulgheria (Salerno) il 20 ott. 1764 da Francesco e Maddalena Grippi. Avviato alla carriera ecclesiastica, compì i primi studi sotto la guida dello zio monsignor Lippi e li proseguì nel seminario di Caposele dove venne ordinato sacerdote. Entrò poi nella Congregazione del Redentore dove, pare, abbia avuto come maestro Alfonso Maria de' Liguori. Conseguita la laurea in teologia il 21 marzo 1791, insegnò tale dottrina nel seminario di Policastro Bussentino e per alcuni anni si dedicò anche alla predicazione delle sacre missioni, girando per diverse province del Regno, allacciando rapporti e amicizie in tutti i paesi dove teneva le predicazioni.
Venne nominato canonico della cattedrale di Policastro, conquistandosi per la sua dottrina, per la forza oratoria della sua predicazione, per l'impegno che metteva nell'assolvimento dei suoi doveri ecclesiali grande popolarità tra i fedeli. Influenzato da idee giacobine iniziò un'intensa attività di organizzazione politica, che da Policastro estese a Celle di Bulgheria, a Vallo, a Centola, a Montano Antilia e ad altri paesi del Cilento, conquistando nuovi proseliti alla causa della libertà e coinvolgendo nell'affività politica clandestina altri membri della sua famiglia: il padre, il.fratello Saverio, gli zii, il nipote Giovanni De Luca, anch'egli giovane sacerdote, il quale, dopo il fallimento dei conato rivoluzionario del 1828, subirà con lo zio la stessa condanna alla pena capitale.
Per l'intensificata e febbrile azione clandestina il suo nome venne rapidamente conosciuto dai patrioti a Napoli e nelle altre province dei Regno, ma la sua azione non sfuggì neppure all'occhio vigile della polizia che nel 1798 lo arrestò per la prima volta assieme ad altri patrioti. Venne liberato all'arrivo dei Francesi ma dopo la caduta della Repubblica Partenopea fu arrestato di nuovo e rinchiuso a Castel dell'Ovo nella fossa detta del coccodrillo. Nel periodo murattiano aderiva alla carboneria, divenendone un attivo esponente.
Il ritorno, nel 1815, sul trono di Napoli di re Ferdinando, dopo gli eventi del 1799 e il successivo periodo francese, aveva suscitato speranze e aspettative nelle popolazioni e in alcuni settori delle stesse organizzazioni segrete della carboneria. Ma le speranze e le aspettative andarono presto deluse e la lotta si riaccese in tutte le province. Sotto la pressione degli avvenimenti e delle concrete richieste, dei patrioti nel 1820 il sovrano fu costretto a concedere la costituzione spagnola ed il 22 luglio, con apposito decreto, furono indette le elezioni per il Parlamento di Napoli.
Il D. venne eletto deputato per il distretto di Vallo della Lucania, assieme ad altri sei rappresentanti della provincia di Salerno. Ma, chiusa quella breve parentesi di regime costituzionale, egli si vide costretto a risiedere a Napoli in condizione di libertà vigilata.
Ciò però non impedì al D. di mantenere i contatti clandestini con gli altri patrioti della capitale fra cui si distingueva Antonio Gallotti di Ascoli Satriano il quale era stato già corrispondente del D. da Salerno. Le riunioni si tenevano nella casa del D. e più spesso nel caffè Greco fornito di due ingressi, il che consentiva ai congiurati di scappare dalla porta situata dietro l'edificio quando la polizia si affacciava nel locale. Intanto si era giunti al 1828 e nel Cilento gli emissari del D. andavano preparando l'insurrezione che secondo il piano dei patrioti da questa zona si sarebbe dovuta estendere poi rapidamente alle altre province del Regno.
Il D., frattanto - che dal suo soggiorno obbligato di Napoli aveva sviluppato e intensificato i rapporti con gli esponenti maggiori della carboneria e con i rappresentanti dei Filadelfi, una organizzazione questa che era stata portata in Italia dai Francesi e che aveva trovato largo seguito, soprattutto fra i giovani, non solo a Napoli e a Salerno, ma anche nei piccoli centri del Cilento - avvalendosi di una sua precedente domanda di rimpatrio accolta dalle autorità, decise di far ritorno a Celle suo paese nativo. Il viaggio avvenne verso la fine di aprile con una breve sosta a Vietri dove il D. s'incontrò con il colonnello del genio Antonio Blanco il quale, assieme al figlio capitano dei cacciatori, avrebbe dovuto guidare le schiere dei rivoltosi. Altri contatti e brevi incontri egli ebbe nel corso del viaggio verso il Cilento. La polizia che conosceva le mosse dei rivoluzionari avrebbe potuto arrestare subito il D. e invece lo lasciò partire, così come lasciò indisturbati gli altri capi delle sette per... "seguire le tortuosità dei principali capi della cospirazione", come ebbe ad esprimersi il ministro di polizia Intonti.
Il ritorno del D. nel Cilento fece rompere ogni indugio per la definitiva decisione di dare il via alla rivolta che venne fissata per la notte fra il 27 e il 28 giugno 1828.
Ma la polizia ne fu subito informata da un delatore, tale cavalier Carlo Iovine di Angri, al quale si era ingenuamente confidato Antonio Gallotti ritenendolo un, patriota. Intanto gli insorti del Cilento alla data stabilita marciarono su Palinuro dove occuparono facilmente il forte, fecero prigionieri gli uomini della guarnigione e si impossessarono delle poche armi che vì si trovavano. La polizia da parte sua dopo la delazione dello Iovine, arrestò subito tutti i capi carbonari e gli altri patrioti nella capitale, a Salerno e a Vallo della Lucania. Riuscirono a sottrarsi alla cattura soltanto il Gallotti, i fratelli Capozzoli di Capaccio e il D. che si era tempestivamente nascosto in una casa di campagna lontana da Celle e dal suo nascondiglio continuava a dare le necessarie disposizioni ai capi della rivolta. Ma quando si rese conto che l'insurrezione era ormai fallita il D. diede ordine di desistere e di sottrarsi ad ogni costo alla cattura.
Francesco I con la formula dell'alter ego aveva affidato al maresciallo di campo Francesco Saverio Del Carretto l'incarico di stroncare la rivolta con tutti i mezzi. Il maresciallo stabilì subito il suo quartier generale a Vallo della Lucania, dando inizio ad una feroce repressione, infierendo con spietata durezza contro tutti gli indiziati, mettendo a sacco e fuoco i paesi del circondario di Vallo sospettati di nascondere e aiutare i rivoltosi. Furioso per non essere riuscito a catturare il D., minacciò di incendiare e radere al suolo Celle, così come aveva già fatto con il villaggio di Bosco dove ogni casa, ogni edificio era stato dato alle fiamme e gli abitanti dispersi. A tale minaccia il D., per evitare al suo paese una sorte spaventosa, decise di uscire dal suo nascondiglio e di costituirsi e a tal uopo fece sapere al vescovo di Policastro che era pronto a consegnarsi alle autorità. Dopo qualche giorno il vescovo rispose assicurandolo che si era interessato di lui e che pertanto egli sarebbe stato trattato con la "decenza e il rispetto dovutogli". Ma non fu così. Il D., sereno e fiducioso, si recò dal vescovo assieme al nipote Giovanni De Luca, sacerdote anche lui, ma il vescovo li consegnò subito agli emissari di Del Carretto. Sottoposto a sevizie d'ogni genere il D., sempre lucido e fermo, dimostrò una forza di carattere e una serenità di spirito eccezionali, non rivelando nulla che potesse danneggiare e coinvolgere i suoi compagni di sventura.
Rinchiuso assieme al nipote e ad altri otto patrioti nel carcere di Vallo della Lucania, dopo un sommario processo venne condannato, come tutti gli altri, alla pena di morte sotto l'accusa di "sovvertire l'ordine pubblico e di attentato alle persone dell'Augusto Sovrano e della Real Famiglia". Gli otto condannati laici vennero fucilati all'alba del 19 luglio mentre l'esecuzione del D. e di suo nipote Giovanni venne rinviata perché essendo essi sacerdoti dovevano prima essere sconsacrati. Per questa odiosa e grottesca operazione il Del Carretto si rivolse prima al vescovo di Policastro e poi a quello di Capaccio, ma entrambi si rifiutarono adducendo varie scuse. Allora i due sacerdoti per ordine del maresciallo furono trasferiti a Salerno dove l'arcivescovo C. Alleva, pronto sempre a rendere anche i più bassi servizi alla Corona, accettò il tristo incarico.
La grottesca messa in scena si svolse nella sacrestia del duomo dove furono condotti i due sacerdoti vestiti dei sacri paramenti e con il calice e l'ostia nelle mani. Il vescovo strappò prima il calice dalle mani dei due condannati e poi con un pezzo di vetro rasecò loro la tonsura e i polpastrelli del pollice e dell'indice. Il D., guardando fisso negli occhi il vescovo gli gridò "ora non siamo più preti?". I due condannati furono poi rinchiusi nella cappella detta del Monte dei morti, assistiti per tutta la notte da un frate. A costui il D. affidò un messaggio pregandolo di riferire al suo vecchio amico carbonaro, Ludovico Coscia, che egli moriva tranquillo "per il bene comune e che lo sceglieva come vendicatore del sangue proprio e dei compagni".
All'alba del 24 luglio 1828 i due condannati, legati e bendati, furono condotti al supplizio. Il D. tentò di togliersi la benda e di parlare al popolo, ma la sua voce venne soffocata dal rullo dei tamburi e dai colpi dei fucili dei soldati.
Bibl.: M. Mazziotti, La rivolta del Cilento nel 1828, Roma 1906, pp. 1-136 passim;R. Moscati, La rivolta del Cilento del 1828, in Arch. stor. per la prov. di Salerno, n.s., II (1933), p. 44;A. Moscati, Il volto del canonico D., in Il Picentino, V (1961), pp. 22-25; C. Spellanzon, Storia del Risorg. e dell'Unità d'Italia, II, Milano 1934, pp. 128, 130 ss., 136 s.; Encicl. novissima, Milano 1971, III, p. 129; IV, p. 718; Diz. storico politico ital., Firenze 1971, p. 447; G. De Crescenzo, Dizionario salernitano di storia e cultura, Salerno 1949- 1960, pp. 144 s.