DE MARINI (Marini), Giovanni Agostino
Nacque a Genova nel 1572 da Gerolamo di Francesco e Maria Cattaneo, ultimogenito dopo Giovanni Ambrogio (poi senatore della Repubblica), Domenico (vescovo di Albenga, arcivescovo di Genova e infine patriarca di Gerusalemme), Francesco (padre dello scrittore politico Gerolamo), Ottavio, Nicolò e tre sorelle (questi ultimi poi entrati tutti in Ordini religiosi).
La famiglia, di antica nobiltà di origine feudale, aveva formato "albergo" nel 1528, riunendo sotto il proprio nome ventotto componenti, provenienti anche dalle famiglie Pessagni, Castagna, Castagnola e Veggi. All'epoca della guerra civile e della riforma del 1576, il padre del D. fece parte dei Consiglio dei centol estratto senatore nel 1594, fu governatore della Repubblica.
Si ignora quali studi il D. abbia compiuto: certo, secondo la tradizione familiare, furono accurati e vasti e compresero lettere, eloquenza e diritto, senza trascurare una specifica educazione militare. Come tutti i giovani nobili di Genova, prima di accedere alla carriera politica vera e propria, dovette fare pratica economico- amministrativa presso il Banco di S. Giorgio, nonché nei feudi di famiglia, poiché era anche marchese di Castelnuovo Scrivia e signore di Gontardo e di Pescarolo e di altri paesi vicini a Cremona nello Stato di Milano. Ebbe il primo incarico ufficiale di rappresentanza nel 1604, quando con altri tre giovani patrizi assistette don Francesco Priuli, ambasciatore veneto per la Spagna, durante il suo passaggio per Genova. Nel decennio successivo, alternò cariche giuridico-amministrative ad incarichi militari. Nel 1606, 1608 e 1614 fece parte del magistrato degli Straordinari, nel 1607 e 1611 fu provvisore del Vino; nel 1609 revisore dei Libri criminali; nel 1611 magistrato di Terraferma, addetto alla costruzione del nuovo lazzaretto; nel 1614 sindicatore della Riviera di Levante e nel 1616 ai Cambi. Come militare fu capitano della città nel 1610, capitano della giurisdizione del Bisagno nel 1614 e commissario delle armi a Voltri nel 1615, membro del magistrato delle Milizie nel 1616. Nel 1614 aveva ricoperto un secondo più importante incarico di rappresentanza: venne inviato, insieme a Bernardo Clavarezza Cibo ad incontrare in alto mare Emanuele Filiberto di Savoia, ammiraglio del re di Spagna, per accompagnarlo con la flotta nel porto di Genova.
Nel 1616 la carriera politica del D. sembrò definitivamente compromessa, a causa del suo intervento a favore del fratello Domenico, appena nominato arcivescovo di Genova. L'episodio, al di là della apparente chiarezza della sua dinamica esterna, lascia piuttosto perplessi e per l'interpretazione della condotta del D. (che la recente storiografia reputa un nobile "innovatore") e delle sue scelte ideologiche, e per il silenzio delle fonti sulla vera natura della "colpa" del De Marini. Il fratello del D. fece il suo ingresso in città, proveniente dalla diocesi di Albenga, il 14 nov. 1616, tra i festeggiamenti generali. Ma, con atto di aperta provocazione, pochi giorni dopo, l'arcivescovo si recò ad una funzione religiosa circondato da una corte armata, contravvenendo a precise disposizioni in materia e suscitando quindi clamorose proteste da parte delle autorità civili. Il Clavarezza Cibo, allora doge, invece di affrontare direttamente il prelato, ritenne opportuno ricorrere alla mediazione del D., affinché persuadesse il fratello a desistere dall'atteggiamento provocatorio. Ma il D., invece che delle prerogative giurisdizionali dello Stato, prese le difese di Domenico e, dopo l'incontro ufficioso col fratello, riferi al Clavarezza che questi aveva agito in virtù dei decreti del concilio di Trento e che perciò non riteneva di dover modificare la propria condotta. E tale posizione l'arcivescovo sostenne anche con i due inviati ufficiali della Repubblica, che si vide costretta a intraprendere una lunga battaglia giuridico-diplomatica con Roma prima di veder riconosciuti i propri diritti.
Il D. fece le spese del contrasto: il giorno dopo l'ultimo suo incontro col Clavarezza venne arrestato e, senza processo, senza una accusa specifica, "ex informata conscientia" condannato e chiuso nella torre. Il governo genovese, di fronte anche alle insistenti richieste di Roma, negò sempre che la causa fosse stata il diverbio con l'arcivescovo, allegando invece imprecisate ragioni politiche segrete.
Di quale natura fossero queste ragioni, è rimasto un mistero: si ipotizza di offese rivolte dal D. a qualche senatore o al Clavarezza stesso, nella foga della discussione in difesa del fratello; ma forse si trattò di qualche più precisa accusa politica e comunque appare innegabile la natura di ritorsione del provvedimento adottato dal governo nei confronti del fratello dell'arcivescovo ribelle. Curiosa appare anche la sentenza: condanna all'esilio in Corsica, senza determinazione della data di decorrenza dello stesso. Ma poiché, dopo diciassette giorni di torre, il D. era caduto gravemente malato, il padre Gerolamo e Costantino Doria, parente della moglie del D., inoltrarono una supplica per ottenere la conversione della condanna negli arresti domiciliari: dopo molti contrasti in seno ai Collegi (che possono essere interpretati come volontà di colpire il D. personalmente, almeno da una buona parte della nobiltà), la domanda fu accolta, dietro cauzione di 10.000 lire. A guarigione avvenuta, il partito giurisdizionalista, o che comunque giustificava così la propria condotta nei confronti del D., chiese che si desse effetto alla condanna all'esilio. Il D., il 10 apr. 1617, chiese almeno la modifica della sede; poi, ottenuta Venezia, essendogli sgradita anche questa sede, chiese o Bologna o Milano; e il 15 aprile venne accontentato, ma per il periodo di un mese, dopo il quale avrebbe dovuto trasferirsi in una città del Veneto, sotto pena di 10.000 scudi. Tutta la procedura, dalla iniziale inesorabilità alla cedevolezza conclusiva, lascia perplessi, ma potrebbe suggerire l'esistenza di due partiti, uno favorevole e uno contrario al D., evidentemente personaggio politico già più importante di quanto non appaia.
Il D. partì subito per Bologna, dove risiedette nel collegio gesuitico di S. Lucia, e dopo un mese si trasferì a Venezia. Da quel momento la famiglia, il padre e Costantino Doria da una parte, e la moglie Bianca Maria Doria dall'altra, cominciarono a tempestare di suppliche i Collegi per ottenere la revoca della condanna, motivando la necessità del ritorno del D. con le precarie condizioni di salute, danneggiate dal clima di Venezia. Il 9 luglio 1617 la moglie ottenne per lui la grazia, proprio mentre da Roma giungeva al governo della Repubblica il benestare contro le pretese dell'arcivescovo.
Dopo due o tre anni di assenza dalla vita politica, il D. venne nominato nel 1620 capitano e commissario di Sarzana; e già l'anno successivo, segno di un riacquistato prestigio in seno al gruppo di governo, venne eletto ambasciatore presso l'imperatore.
Il momento internazionale era di grande tensione, originata dalla occupazione spagnola della Valtellina, nell'ambito della guerra dei Trent'anni, e, tra timori e speranze, Genova cercava di ritagliarsi qualche piccolo vantaggio territoriale, da lungo tempo agognato: nella fattispecie, il marchesato di Zuccarello, cui aspirava anche il duca di Savoia, in quel momento schierato contro Spagna e Impero. Il marchesato fu ceduto a Genova per 220.000 fiorini.
Al ritorno da Vienna, dopo essere stato aggregato nel 1623 al magistrato dei Provvisori dell'olio, il D. venne chiamato dal doge Federico De Franchi Toso a formare con Bernardo Clavarezza Cibo una commissione incaricata di trattare la politica da seguire con l'Impero. Il D. appare ormai una pedina importantissima nel delicato gioco politico-diplomatico della Repubblica: nel 1624 fece parte della legazione di quattro oratori a papa Urbano VIII.
Ufficialmente la legazione doveva ringraziare il papa per aver ascritto alla nobiltà di Genova la famiglia Barberini. In realtà le istruzioni fanno riferimento ad altri problemi politico-economici, quali il riconoscimento dei diritti genovesi su Zuccarello, la regolamentazione delle fiere di cambio di Piacenza nella difficile situazione determinata dalla guerra e i contrasti con Firenze. Partiti il 20 aprile, il D. e i compagni furono ricevuti da Urbano VIII in due udienze: una pubblica il 4 maggio ed una privata il 7; la loro ultima lettera, del 31 maggio, ne annuncia il ritorno.
Pochi mesi dopo, quando nella primavera 1625 la guerra coinvolse direttamente il territorio ligure, il D. venne inviato come commissario d'armi ad Oneglia, insidiata dal duca di Savoia.
Per le simpatie dimostrate verso i Piemontesi, la città era stata occupata e saccheggiata dagli Spagnoli, con il pretesto di operare nell'interesse di Genova: l'invio del D. mirava perciò a ristabilire l'autorità diretta della Repubblica contro il pericolo piemontese, ma anche contro il troppo invadente aiuto spagnolo. Compiuto brillantemente il proprio compito, facilitato dal sopravvenuto accordo di Monzon tra Spagna e Francia, il D. nella primavera del 1626 ritornò a Genova.
In questo periodo, tra il commissariato onegliese e il ritorno, il D. venne a contatto col problema, vero o presunto o costruito per compiacenza verso la Spagna, delle spie franco-sabaude infiltrate tra la borghesia e la piccola nobiltà. Proprio sulla attività di zelante sventatore di congiure il D. costruirà d'ora in avanti la propria immagine pubblica, non senza affiancarvi una intelligente politica di fiscalizzazione dei patrimoni, di rilancio della competitività armatoriale e di moderata apertura delle iscrizioni nobiliari. Nel novembre 1627 venne estratto senatore ed aggregato al Collegio dei governatori, e, meno di un anno dopo, nell'ottobre 1628, venne chiamato a presiedere il magistrato degli Inquisitori di Stato, istituito dopo la scoperta, nella primavera del 1628, della congiura di Giulio Cesare Vachero.
Proprio l'intervento del suocero dei D., il potente e ricchissimo Stefano Doria, ottenne la condanna del Vachero come risposta politica alle minacce sabaude e al pesante intervento diplomatico spagnolo che le aveva affiancate. E il D., primo presidente dei primo tribunale dell'Inquisizione, dimostrò subito altrettanta inflessibilità e maggiore intraprendenza nello scoprire tutta una serie di congiure minori. La più interessante risulta, nel febbraio del '29, quella del dottor Vincenzo Ligalupo che, con alcuni nobili onuovi", Giovan Battista Zoagli, Luca Assarino e Giovan Bernardo Levanto, si era rivolto al re di Spagna perché, quale coautore e garante della costituzione di Casale del 1576, intervenisse a difendere i diritti del popolo genovese contro gli arbitri dell'aristocrazia, specialmente in materia di ascrizioni alla nobiltà. Benché non si potesse neppure definire una congiura, i colpevoli dell'iniziativa ebbero pene severe: dall'esilio perpetuo al Ligalupo al confino con cauzione allo Zoagli. Nella sua attività di investigatore, il D. fece arrestare un tale Frugone, e furono incarcerati altri due anonimi "congiurati", accusati di aver attentato alla persona del D. stesso per incarico del duca di Savoia. La controffensiva del D. e dei suoi colleghi si spostò anche nelle Riviere, a Ponente come a Levante: fecero arrestare a Ventimiglia i Gandolfi, fratelli del vescovo della città, in quel momento ambasciatore sabaudo al re di Spagna (sottoposti a tortura, furono poi scarcerati per mancanza di prove); fecero arrestare a Chiavari, il 24 maggio '29, il colonnello Bartolomeo Sartore, anche lui torturato e scarcerato. Ma, nonostante il loro zelo, non impedirono (o consentirono?) che il 21 aprile, per la prevista cerimonia pasquale in duomo, venisse trovato un ordigno pronto ad esplodere sotto il soglio del doge.
Col termine del biennio di presidenza del D., l'attività sediziosa pubblica sembra placarsi. Nel decennio successivo il D. ricoprì poche cariche, ma prestigiose e politicamente qualificanti: nel 1631 fu eletto conservatore delle Leggi e nel 1634 sindicatore supremo. Dopo aver ospitato splendidamente nel proprio palazzo, per incarico del governo, l'ambasciatore di Spagna nel 1639, tra il 1640-41 tornò nel Banco di S. Giorgio, tra i protettori, probabilmente per preparare il progetto di riarmamento. Quindi, il 14 ag. 1641, dopo diciassette giorni di sede vacante, e con una contrastatissima votazione, con 170 voti venne eletto doge.
Il D. raccolse probabilmente i voti dei nobili del "nuovo corso": questi, pur legati ai "vecchi" dalla politica di repressione delle agitazioni popolari, chiedevano di sperimentare una più dinamica presenza di Genova nel quadro europeo: la sovranità sul mar Ligure garantita da un adeguato armamento, la costruzione di adeguate difese contro i pericoli franco-piemontesi, l'assunzione del titolo regio costituivano i punti del loro programma. E il D. si impegnò per non venire meno alle speranze deì suoi elettori, almeno quanto le resistenze dei "vecchi" e la oggettiva fragilità della Repubblica glielo consentivano.
Al principio del suo dogato la Dieta di Ratisbona confermò il titolo regio a Genova e quello di serenissimo al doge (non senza che si inviasse il dono di 20.000 doppie all'imperatore per la sua lotta contro gli eretici). Quindi il D. costituì una deputazione incaricata di raccogliere fondi per il riarmamento delle galee presso confraternite, Comunità, cittadini.
L'operazione ebbe tanto successo che in breve furono raccolti fondi per l'assetto di venti galee. E di fronte all'esempio di singoli nobili, come l'ex doge Giacomo Lomellini e il marchese Anton Giulio Brignole Sale, che ne allestirono una ciascuno, anche il D. versò il denaro sufficiente per una intera galea. Anche le Comunità rivierasche versarono forti contributi: tra le altre, Savona armò due galee, e il D. stesso intervenne alla cerimonia di consegna, con un gesto molto apprezzato dai Savonesi: segno che la politica del D. si segnalava anche per un nuovo modo di intendere il rapporto città-dominio. Per propagandare il proprio progetto politico il D. seppe intelligentemente sfruttare anche gli apporti della cultura borghese: perciò conferì premi ed onori ad un Pietro Battista Borgo che, con una pubblicazione del '41, De dominio serenissimae Reipublicae Genuensis in mari Ligustico, dedicato al D. e ai Collegi, si affiancava alla vasta pubblicistica politica contemporanea.
Il D. modificò con leggi inveterate norme di comportamento: anche i nobili furono obbligati a levarsi il cappello nel salutare i popolari. Furono improntati al rigoroso rispetto delle leggi dello Stato i rapporti del D. con la curia arcivescovile. Dopo la morte dei fratello del D. nel 1635, l'arcivescovo Durazzo aveva ripreso il braccio di ferro sul problema della scorta armata; e, nonostante l'intervento di Virginia Bracelli Centurione presso il D., questi, nella sua qualità di doge, si attenne alle scelte dei Collegi, rinunciando anche al tentativo di mediazione che avrebbe personalmente auspicato. L'intensa attività del D. fu interrotta dalla malattia e, dopo un mese, dalla morte, avvenuta a Genova il 19 giugno 1642.
Dalla moglie Bianca Doria il D. ebbe due figli, Francesco e Francesca. Francesco fu sacerdote, nel 1650 vescovo d'Albenga, poi di Molfetta e nel 1676 di Teodosia. In occasione dell'elezione ducale del D., fece rappresentare a palazzo ducale, recitata da giovani dell'aristocrazia, una commedia da lui composta, Il fazzoletto. Ambientata a Costantinopoli, di intreccio plautino a carattere esotico-sentimentale, come i contemporanei romanzi di Giovanni Ambrogio Marini, la commedia contiene alcune parti in dialetto per i personaggi popolari ed un intermezzo composto da Anton Giulio Brignole Sale sulla favola di Orfeo. La commedia, lodata dallo Spotorno, si conserva manoscritta presso la Civica Biblioteca Berio di Genova (m.r. II. 2.2). La figlia Francesca fu affidata alle cure di suor Giovanna Vittoria Lercari nel convento di S. Sebastiano di Pavia in Genova e morì nubile.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Genova, Mss. 454, cc. 4, 56v, 57;Genova, Civica Bibl. Berio, m.r. X. 2. 168:L. Della Cella, Famiglie di Genova, c. 924; Istruzioni e relaz. degli ambasciatori genovesi, a cura di R. Ciasca, III, Roma 1951, p. 12;F. M. Accinelli, Compendio delle storie di Genova, Genova 1750, I, pp. 115, 168; F.Casoni, Annali della Repubblica di Genova, V, Genova 1800, pp. 35, 178, 181, 252, 254, 257;G. B. Spotorno, St. letteraria..., ibid. 1824-58, ad Ind.;C. Varese, St. d. Rep...., ibid. 1836, 1.23, p. 326;R. Della Torre, La congiura di G. C. Vachero, a cura di C. L. Bixio, in Arch. stor. ital., Appendice, III (1846), pp. 545-640, passim;F. Donaver, La storia della Repubblica di Genova, Genova 1913, II, p. 279, n. 2;V. Vitale, Diplomatici e consoli della Rep. di Genova, in Atti d. Soc. lig. di storia patria, LXIII (1934), p.14; A. Cappellini, Dizionario biogr. di genovesi illustri, Genova 1936, p. 50; C. Costantini, La Repubblica di Genova nell'età moderna, Torino 1978, pp. 283 s.