MEDICI, de'
Famiglia fiorentina. Di origini oscure, doveva già avere non piccolo credito in Firenze, quando uno dei suoi membri, Bonagiunta, appare come testimone, in atti dell'8 e del 9 novembre 1221. I Medici avevano allora casa presso S. Tommaso in Mercato Vecchio; erano iscritti nell'arte di Calimala e, più tardi, in quella del Cambio. Erano gente di popolo, mercanti, cambiatori, prestatori di danaro, ricordati già nel 1240 fra i creditori del conte Guido Guerra e dell'abbazia di Camaldoli.
Entrano nella seconda metà del sec. XIII nella vita pubblica: nel 1261 sono ricordati fra i membri del consiglio generale; Ardingo è priore nel 1291, gonfaloniere nel 1296. E nelle maggiori cariche di Firenze appaiono, negli ultimi anni di quel secolo e nel seguente, parecchi dei M.; e altri tengono ufficio di podestà o di capitano nei comuni vicini, e un Costantino è vescovo di Orvieto (1250 circa-1257), un Matteo, di Chiusi (1299-1313): è tuttavia difficile determinare la parentela e anche dire se appartenessero tutti alla stessa famiglia. Nella crisi dell'inizio del sec. XIV sono fra i Neri più accesi, hanno parte principalissima nel tumulto del 4 novembre 1301 e appoggiano il tentativo di Corso Donati; Bonino di Lippo è gonfaloniere nel 1312, quando Enrico VII assale Firenze; Giovanni è fra le più illustri vittime del duca di Atene.
Ma, più che alla politica o alle cariche, i M. attendono per ora agli affari, di cui vanno allargando la cerchia; hanno case e fattorie a Genova, nella Romagna, a Treviso, a Gemona, a Nîmes, nel Delfinato, nella Guascogna. E quando, nella prima metà del 1300, le grandi case commerciali e bancarie fiorentine sono travolte dalle ardite speculazioni e dalle tempestose condizioni politiche d'Italia e d'Europa, i M., presso che soli, sormontano al naufragio. La ricchezza cresciuta per i "subiti guadagni" li colloca socialmente fra il "popolo grasso"; ma, nelle divisioni profonde che travagliano l'oligarchia dominante, alcuni dei membri della famiglia più combattivi e arditi si appoggiano al popolo minuto e alla plebe.
Salvestro (1331-88) si fa capo del popolo minuto contro la parte guelfa e scatena il tumulto dei Ciompi; più saggio, Vieri, quando nel 1393 il popolo si vuole levare nuovamente, si vale dell'autorità sua per calmarlo.
Poi, nel sec. XV, quando appare chiaro che a Firenze male si può vivere ricchi senza essere padroni della città, la cura per gl'interessi economici del banco e lo studio di dominare politicamente la città si congiungono in quel ramo della famiglia che, con Averardo detto Bicci, possedeva già dal sec. XIV Cafaggiolo in Mugello e da questa terra ebbe il nome. Giovanni di Bicci (1360-1429) riesce a creare una nuova fonte d'ingenti guadagni, traendo a sé gli affari della curia romana, e nel concilio di Costanza trova occasione di esercitare largamente il cambio e di annodare relazioni con la Germania e l'Ungheria: diviene forse il più ricco banchiere d'Italia. E pareva alieno dalla politica, sebbene avesse incarico di ambascerie e fosse più volte priore e nel 1421 gonfaloniere e prendesse parte attiva, quantunque non chiara, alla discussione per l'istituzione del catasto (1427). Ma, per le tradizioni familiari, per la gentilezza dei modi, per l'illuminata liberalita, ebbe per sé il favore del popolo, in un momento in cui la scarsa concordia e l'egoismo cieco della ricca borghesia e la gravezza delle imposte e la difficoltà delle condizioni politiche esterne facevano desiderare più forte e più equo governo, fosse pure il governo di un solo. E fino da allora egli assunse un compito, che a Firenze più che altrove era funzione dello stato, quello di proteggere l'arte: l'Ospedale degli Innocenti e S. Lorenzo furono dovuti a lui.
Cosimo ne ereditò le ricchezze, la popolarità, il mecenatismo; allargò ancora assai la cerchia degli affari del banco; e, abbandonando il riserbo del padre, trasse e tenne nelle mani sue e di una stretta cerchia di amici la signoria, e legò le fortune di Firenze con quelle dei Medici, così che lo stato si avvantaggiasse delle ricchezze e del credito mediceo e servisse a profitto economico, a consolidamento politico della famiglia. Furono collaboratori suoi i figliuoli Piero e Giovanni (1421-63), mentre l'illegittimo Carlo (morto nel 1492) si rendeva assai benemerito nella sua prepositura di Prato, e avevano l'onore della mitra altri congiunti: Donato a Pistoia (1436-74); Filippo ad Arezzo (1457) e a Pisa (1461-74). E si tenne con lui anche il fratello Lorenzo (1395-1440); il figliolo di costui, Pierfrancesco (1430-76), separò invece gl'interessi del suo ramo da quelli di Cosimo (1451) e, lontano dalla politica, si diede tutto agli affari.
La signoria medicea, dopo il debole governo di Piero, parve consolidata da Lorenzo il Magnifico, tanto più dopo quella congiura de' Pazzi, della quale fu vittima il fratello di lui Giuliano (1453-78); la Firenze medicea fu allora centro politico e culturale d'Italia. Ma, accostandosi la signoria alle forme esterne del principato, offendeva quei cittadini a cui era caro il nome di libertà, scontentava i partigiani stessi dei Medici, ch'erano posti nell'ombra, e, per la confusione del denaro pubblico col patrimonio privato dei Medici e per le crescenti gravezze, alienava da sé l'animo del popolo. E rovinava la fortuna del banco per le attitudini di Lorenzo, minori agli affari che alla politica, e per l'eccessiva larghezza di lui nello spendere, per la concorrenza dei rivali e degli stessi soci del banco, per il crescere dell'attività economica degli altri stati europei. La leggerezza di Piero di Lorenzo e la calata francese, che poneva i M. al bivio di consegnare alla Francia se stessi e l'Italia, o di resistere con rovina degl'interessi proprî e della città, affrettarono la catastrofe: la signoria crollò (9 novembre 1494) e fu con essa travolto il credito del banco mediceo. Ma fra i nemici di Piero, fra i gridatori di libertà, erano Lorenzo (1463-1503) e Giovanni (1467-98) di Pierfrancesco, che avrebbero voluto forse sostituire a Piero sé stessi, se il rapido affermarsi del governo democratico non li avesse indotti ad assumere apparenze e cognome di "Popolani" e a contentarsi di uffici minori e della tradizionale protezione alla cultura e all'arte.
Risorse, dopo le strettezze dell'esilio, la fortuna politica, se non la ricchezza, dei discendenti di Cosimo, quando il congresso di Mantova e la spedizione ispano-pontificia riaprirono ai M. le porte di Firenze (1512), e più quando Giovanni di Lorenzo, che ne era signore con il fratello Giuliano, divenne papa Leone X. Il nome dei M. si levò allora al suo più alto splendore. Non pure era data la porpora a Giulio, illegittimo dell'altro Giuliano, ma fino a un Niccolò Ridolfi, a un Giovanni Salviati, discendenti per via di donne dalla famiglia; per Giuliano il papa voleva creare uno stato nell'Emilia, a Lorenzo di Piero dava il governo di Firenze e il ducato di Urbino; anzi le ambizioni medicee si appuntavano più in alto, a Milano e a Napoli. Ma fu sogno generoso di Niccolò Machiavelli che la casa medicea potesse "pigliare la Italia e liberarla dalle mani de' barbari". Non lo permetteva al pontefice, oltre alla fiacchezza del carattere, lo stesso suo altissimo ufficio; né alcuno dei piccoletti principi era da tanto. Né lo era, sebbene eccellente nelle armi, quel Giovanni, che fu poi detto "dalle Bande Nere" (1498-1526), in cui rivivevano l'irrequietezza del padre Giovanni il Popolano e la fiera energia della madre Caterina Sforza. Giulio, papa Clemente VII, un'altra volta unì la tiara papale con la signoria di Firenze, dove lo rappresentavano due bastardi: Ippolito e Alessandro. Ma il sacco di Roma del 1527 spezzò il disegno del papa di sottrarre sé stesso e l'Italia alla servitù forestiera e spense nel sangue la luce della Roma medicea: Firenze stessa ne trasse occasione per abbattere di nuovo il dominio dei M.; anima della rivolta, fra altri antichi amici della famiglia, una donna dei M., Clarice di Piero, sposa a Filippo Strozzi (1413-1528).
Rientrarono i M. dopo l'assedio glorioso del 1530: il lodo di Carlo V del 28 ottobre costituiva "capo del governo e dello stato" Alessandro e, in mancanza di lui e dei figli, il prossimo maschio della famiglia, in infinito. E,quando Alessandro fu spento (1537), piuttosto per desiderio di fama che per amore di patria, da un discendente dell'altro ramo della stirpe di Cafaggiolo, da quel Lorenzino (1514-48), del quale rivivono nell'Apologia e nell'Aridosia il pronto ingegno e la scapigliata giovinezza, un cugino dell'uccisore, Cosimo, poté, con riferimento a quel lodo, raccogliere l'eredità dell'ucciso. Si congiungevano in lui i due rami della stirpe, perché egli era figliuolo di Giovanni dalle Bande Nere e di Maria Salviati, nata da Lucrezia primogenita del magnifico Lorenzo; e, ucciso Lorenzino (1548), mandato Giuliano fratello di lui (1520-88) a occupare i seggi episcopali di Béziers, di Aix, d'Alby, onorato di alti gradi nell'ordine di Santo Stefano Giulio, illegittimo di Alessandro (morto nel 1600), Cosimo restava unico rappresentante di quella stirpe, dalla quale solo per via di donne discendevano i Rucellai, i Salviati, i Ridolfi, gli Strozzi e, fuori di Firenze, i Cybo Malaspina, gli Appiano e, per il matrimonio di Caterina di Lorenzo con Enrico II, i sovrani di Francia. La famiglia mercantesca cingeva ora corona granducale (1569) e aveva poi (1691) titolo regio; in Firenze le ultime forme del governo repubblicano cadevano, lasciando il luogo a un illuminato assolutismo; la Toscana era pressoché tutta dominio dei M. e aveva dai primi granduchi impulso a risorgimento agricolo; Livorno rinnovata diveniva emporio di commercio; le galere dei cavalieri di Santo Stefano compivano onorevoli imprese contro i corsari e gl'infedeli; fiorivano gli studî e le arti.
La numerosa figliolanza dei granduchi serviva ad aumento di potenza e agli abili maneggi di una politica che, pure non repugnando apertamente alla Spagna, tendeva a renderne il giogo meno pesante. Rivestirono la porpora Giovanni di Cosimo I (1543-62), cardinale e amministratore della diocesi di Pisa nel 1560, la cui morte immatura, quasi a un tempo col fratello Garzia e con la madre, creò la voce di una tragedia domestica; Ferdinando, fratello suo, cardinale dal 1563 al 1587, nel quale anno salì al trono granducale, Carlo di Ferdinando (1596-1666), cardinale nel 1615, protettore di Spagna (1635), decano del S. Collegio (1652); Giovanni Carlo di Cosimo II (1611-63), prima "generalissimo del mare" di Spagna (1638), poi cardinale (1644); Leopoldo (1617-75), studioso e protettore di studî, ispiratore, col fratello Ferdinando II, dell'Accademia del Cimento e suo presidente (1657-67), cardinale nel 1667, attivo nell'amministrazione dello stato e sopratutto nelle opere di bonifica; ultimo, Francesco Maria di Ferdinando II (1660-1711) che ebbe la porpora nel 1686, ma nel 1709 la depose per tentare con un matrimonio tardivo di salvare le sorti della dinastia. Questi cardinali ebbero non piccola parte nei maneggi dei conclavi, ma, fuori di questo, esercitarono, come uomini di corte più che di chiesa, scarsa azione sulla vita ecclesiastica.
Altri dei M. del ramo granducale acquistarono fama nelle armi, come Giovanni, illegittimo di Cosimo I (1567-1621), che combatté per la Spagna in Fiandra e per gl'imperiali contro i Turchi e fu "governatore generale delle armi" veneziane contro gli Uscocchi, architetto della cittadella di Livorno e del mausoleo mediceo "delle pietre dure"; e Mattias di Cosimo II (1613-67), ch'ebbe parte nella guerra dei Trent'anni e in quella di Castro e fu, sotto Ferdinando II, a capo delle cose militari nel granducato.
Tra le donne, Isabella di Cosimo I, sposa di Paolo Giordano Orsini, ne fu vittima non incolpevole (1576); Lucrezia e Virginia, pure di Cosimo, andarono spose a principi di casa d'Este; Eleonora di Francesco e Caterina di Ferdinando I ai Gonzaga, Margherita di Cosimo II al Farnese di Parma, Claudia di Ferdinando I dalle nozze infelici con Federico Ubaldo della Rovere ebbe quella Vittoria che, sposa a Ferdinando II, recò alla casa granducale pretensioni all'eredità dei duchi d'Urbino. Di là dall'Alpi, le seconde nozze di Claudia con l'arciduca Leopoldo del Tirolo, e quelle di Anna di Cosimo II con Ferdinando Carlo, nato da quel connubio, legavano la casa medicea al ramo tedesco degli Asburgo, nel quale già Cosimo II si era cercato la sposa, mentre Maria di Francesco rinnovava sul trono di Francia la memoria di Caterina de' Medici. Poi la tabe ereditaria e i vizî infrollirono la dinastia; divenne fiacco il governo; furono meno feconde o infeconde le nozze. Vivo ancora Cosimo III, essendo morto senza prole il primogenito suo Ferdinando (1663-1713) e non avendone speranza il secondogenito Giangastone, né il fratello Francesco Maria, si discuteva della successione al trono granducale. Cosimo, dopo qualche anacronistica velleità di rimettere nelle mani del senato il potere, ne dichiarò nel 1713 erede la figliuola Anna Maria Luisa (1667-1743), sposa dell'elettore palatino. Ma le potenze ne disposero come di cosa propria, per don Carlo di Borbone prima, per Francesco di Lorena poi. Giangastone si spense (9 luglio 1737), quando già era in Toscana un presidio straniero. Anna Maria visse in Firenze fino al 1743, senza ingerenza politica, ma cinta ancora di tutto lo splendore dell'arte, cara al popolo per la sua beneficenza; nella convenzione del 31 ottobre 1737, ella, cedendo i beni della famiglia al nuovo granduca, aveva pattuito che le preziose collezioni medicee non potessero venire trasportate fuori della capitale e dello stato. Degna fine di una dinastia della quale la munificenza e la protezione della cultura erano state principalissimo vanto.
Rimanevano tuttavia altri rami della famiglia medicea, che si riannodavano a un Giovenco, morto nel 1320, fratello di Chiarissimo padre di Bicci. Da uno di questi rami era disceso Ottaviano (1482-1546), che aveva avuto parte notevole nei rivolgimenti politici del tempo suo; da costui e da Francesca Salviati, nipote di Leone X e zia materna di Cosimo I, erano nati Alessandro, ch'era stato papa Leone XI, e un Bernardetto, che nel 1567 aveva acquistato Ottaiano in Terra di Lavoro. I discendenti di questo ebbero il titolo di principi di Ottaiano e di duchi di Sarno e furono aggregati alla nobiltà napoletana: alla loro stirpe, che dura tuttora, appartenne quel Luigi che fu ministro di Ferdinando IV di Borbone. Altri tre rami erano in Firenze e per loro Anna Maria dispose un legato, ordinando che a uno di questi, riconosciuto come prossimo agnato, succedessero, estinguendosi il ramo, gli altri più vicini. Due dei rami, uniti in uno solo per un matrimonio, si estinsero nel 1846 e il cognome passò per via di donne ai Peruzzi. Il terzo ramo al quale erano appartenuti la beata Filippa francescana (morta nel 1488), Guido, castellano di S. Angelo al tempo del sacco di Roma, vescovo di Venosa (1527) e arcivescovo di Chieti (1528-1537), Giuliano, benemerito della sua archidiocesi pisana (1620-1636) per l'erezione del seminario, Raffaele (morto nel 1628) ammiraglio dei cavalieri di Santo Stefano e venuto in fama nelle guerre contro i Barbareschi, aveva già dal 1629 il titolo di marchesi della Castellina. I discendenti di questo ramo nella linea primogenita rappresentata ora dal marchese Cosimo e dal figlio di lui Aldobrando si considerano per diritto di agnazione eredi legittimi della casa medicea.
Bibl.: D. Moreni, Serie d'autori di opere riguardanti la celebre famiglia M., Firenze 1826; P. Litta, Famiglie celebri italiane, Milano s. a.; O. Meltzing, Das Bankhaus der M. und seine Vorlaüfer, Jena 1906; G. P. Young, The M., Londra 1909; J. Ross, Lives of the early M., Londra 1910; Tr. Trapesnikoff, Die portraitdarstellungen der Mediceer des XV. Jahrh., Strasburgo 1909; G. Pieraccini, La stirpe de' M. di Cafaggiuolo, Firenze 1924; articoli in Rass. naz., s. 2ª, VI-IX (1916-17), e in Arch. stor. ital., 1917, fasc. 2°.