DE PONTE (Aponte, Da Ponte), Giovan Francesco
Figlio di Giovanni Antonio e di Costanza Lanario, nacque nel 1541 a Napoli o a Maiori. La famiglia, originaria della costiera amalfitana, ricca di beni e desiderosa di elevarsi socialmente, gli assicurò un'adeguata educazione indirizzandolo agli studi giuridici e il D. si dedicò all'avvocatura con buoni successi.
La sua famiglia apparteneva al ceto "civile" napoletano, che grazie alla cultura giuridica e alla possibilità di accesso alle più alte cariche, consentita dalla carriera ministeriale, si distaccava dal "popolo" e cercava di equipararsi alla nobiltà. Accedere all'aristocrazia ed essere ammessi nei suoi ranghi fu costantemente una delle massime aspirazioni sociali dei togati e nel 1576 anche il D. ottenne dal Sacro Regio Consiglio il riconoscimento nobiliare per la propria famiglia.
Divenuto assai noto e apprezzato come consulente legale, nel 1587 il D. fu nominato presidente della Sommaria. In un primo momento rifiutò l'ufficio, cercando di subordinarne l'accettazione al permesso di continuare a svolgere la professione privata, che gli garantiva lucrose entrate. Non potendolo ottenere, e allettato dalla possibilità di una brillante carriera, entrò in carica nel febbraio 1589. L'anno successivo fu sovrintendente alla Dogana delle pecore e commissario in Puglia e Basilicata per controllare l'afflusso dei cereali a Napoli; nell'agosto 1591 fu nominato avvocato fiscale della Sommaria. Durante la carestia del 1591-92 fu incaricato di sovrintendere alle principali strade del Regno, e in particolare a quelle pugliesi, attraverso le quali si assicurava l'approvvigionamento della capitale; nello stesso periodo si occupò anche delle galere e dell'arsenale. Nel 1590 fu chiamato a insegnare diritto feudale all'università. Sfruttando abilmente la propria posizione, seppe accrescere notevolmente il suo patrimonio e, nel 1595, acquistò per 58.000 ducati il feudo di Morcone da Antonio Carafa, col titolo di conte, tramutato poi da Filippo II in quello di marchese nel 1597.
La sua abilità e l'esperienza dimostrata, insieme con l'appoggio del viceré J. de Zuñiga, conte di Miranda e a quello di Giovanni Andrea Doria, ammiraglio del Regno, gli procurarono, nel luglio 1593, la chiamata al Consiglio d'Italia. Partito da Napoli nell'aprile 1594, il D. giunse a Madrid nel maggio e il 26 prestò giuramento. Rimase in Spagna per tre anni, sapendo acquistare un posto di rilievo in seno al Consiglio, dove la sua attività politica fu spesso improntata alla difesa degli spazi di autonomia del Regno napoletano.
Per definime le caratteristiche, ricordiamo le principali iniziative da lui caldeggiate e di cui fu promotore (informazioni che si ricavano da una sua "relazione" su Napoli, scritta nel 1594, e dal "memoriale" che inviò a Filippo II il 18 dic. 1595; cfr. Zotta, pp. 270-294; le stesse idee sono riecheggiate nei suoi Advertimientos de buen govierno, in Napoli, Bibl. nazionale, Fondo Brancacciano 5.D.14, ff. 1-17; cfr. Comparato, pp. 263 ss.). Affrontando il cronico problema finanziario che affliggeva la Corona spagnola, respingeva con fèrmezza ogni progetto di aumentare il carico tributario su Napoli, reputandolo già troppo gravoso. L'antifiscalismo fu un motivo ricorrente sia nell'attività politica sia nelle opere dottrinali del De Ponte. Per fronteggiare il deficit dello Stato spagnolo, pensava che andassero tagliate le spese. Era tuttavia contrario a ridurre gli stanziamenti militari per il Regno di Napoli, né voleva che fossero intaccati i fondi delle rappresentanze governative; era favorevole invece a riformare il sistema di approvvigionamento della capitale. Per prima cosa proponeva di abolire il prezzo politico del grano destinato a Napoli; anche in città il pane e il grano dovevano essere venduti a prezzo reale. Oltre che per il guadagno immediato che poteva assicurare, il D. considerava questo provvedimento assai utile anche rispetto a un altro problema che gli stava a cuore: l'eccessiva crescita demografica della città e lo spopolamento delle campagne, due mali interconnessi e profondi. Il pane più caro, pensava, avrebbe allontanato dalla capitale i molti che vi accorrevano, ed era favorevole anche a trasferimenti forzati verso le campagne, per allentare la pressione demografica su Napoli e per rinsanguare l'economia delle province. Per sanare l'Erario napoletano elaborò anche un progetto per diminuire gli interessi pagati ai possessori di titoli pubblici. Ai fini di una maggior razionalizzazione della pressione fiscale sui Comuni, propose di fare una nuova numerazione dei fuochi. Nel 1596, sulla scia della sua proposta, a Napoli si tentò di abbassare la rendita legata al debito pubblico, imponendo tassi più bassi, ma i "seggi" cittadini, fattisi portavoce degli interessi dei grandi speculatori, si opposero strenuamente e con successo. Parimenti, nel 1597-98, si opposero a un altro progetto patrocinato dal D.: la creazione di un archivio immobiliare generale.
Il 2 giugno 1595 il D. fu nominato reggente del Collaterale, ma si trattenne in Spagna ancora per due anni, e solo nell'agosto 1597 fece ritorno in patria per prender possesso della carica. A Napoli tornò a curare personalmente gli interessi della famiglia. La sua prima moglie (Feliciana Del Ponte, secondo il Giustiniani, donna legata ai Sanseverino secondo il Rovito) era morta già prima del suo viaggio in Spagna. Nel 1598 contrasse un nuovo matrimonio con Zenobia Cicinella, che gli recò una ricchissima dote. Nel 1601 fece sposare suo figlio Orazio con Caterina de' Medici, figlia di Alessandro, futuro principe di Ottaiano. La sua rapidissima carriera e il non meno rapido arricchimento gli avevano procurato intanto molti nemici.
Il D. era un uomo potente, primus fra i reggenti del Collaterale; era riuscito a pilotare la nomina al Consiglio d'Italia di G. C. Gallo e F. Di Costanzo, operazione che gli procurò nuovi aspri attacchi. A. Gizzarello lo accusò di corruzione, malversazione e, addirittura, di aver violato in gioventù un convento di monache. L. Vairo, vescovo di Pozzuoli, scrisse che aveva ricevuto 15.000 ducati dal Di Costanzo. Si diceva anche che quest'ultimo avesse assicurato al D. il proprio appoggio per favorirne l'accesso al seggio di Portanova.In effetti l'aggregazione a un seggio era il più alto e prestigioso apice dell'ascesa sociale e il D. la perseguì con tutte le sue forze. Il 15 maggio 1604 ottenne la "reintegrazione" al seggio di Portanova, ma dovette fronteggiare la resistenza accanita della vecchia nobiltà, sempre gelosissima e profondamente ostile ai parvenus, che si protrasse ancora per lunghi anni, dando vita a cause e ricorsi contro di lui.
Nel marzo 1604 il D. fu creato ministro delegato alla Regia Giurisdizione. Due episodi segnarono, dopo di allora, la parabola discendente della sua carriera. Fu infatti scomunicato dal papa e costretto a lasciare le sue cariche per irregolarità amministrative.
Nell'agosto 1604 il vicario vescovile Curzio Palumbo fece incarcerare un tal Gabriele Soriano, reo di bigamia. Era un caso di foro misto, in cui anche lo Stato aveva diritto di intervenire. Il D. chiese la consegna dei verbali processuali e, non avendo ottenuto soddisfazione, fece arrestare Giovan Camillo Preziuso, mastrodatti del tribunale ecclesiastico. Contro il D., appoggiato dal viceré conte di Bonavente e dal Collaterale, il vicario e il nunzio Giacomo Aldobrandini ricorsero al papa. Clemente VIII, con un breve, pretese la liberazione del Preziuso e lanciò la censura contro il ministro, intimandogli di presentarsi a Roma.
Il 21 settembre il D., con un atto di forza, stracciò tutti i cedoloni della scomunica che il S. Offizio aveva fatto affiggere per Napoli. Una prima composizione dello screzio si ebbe quando il Collaterale scarcerò il mastrodatti, sottolineando però che si trattava solo di un atto di pura clemenza, deciso su richiesta del pontefice, e impedendo formalmente al D. di recarsi a Roma. Il 22 settembre furono inviate anche lettere al papa, chiedendo una piena assoluzione per il D., e al re Filippo III, perché si interessasse del caso.
La questione si trascinò a lungo e stancamente. Per quanto riguardava i processi di bigamia il caso era assai controverso, e ognuna delle parti non fece che ribadire le proprie posizioni dottrinali; quanto al D., Napoli e l'ambasciatore spagnolo a Roma marchese di Villena insistevano per la piena assoluzione, mentre il S. Offizio si irrigidì nel chiedere il suo viaggio espiatorio a Roma, l'ammissione della colpa e l'impegno a non più trattare casi simili. Madrid non si occupò mai attivamente della vicenda, e il suo atteggiamento verso il caso del D. fu subordinato al più generale andamento dei propri rapporti con Roma. Quando, nell'estate del 1605, si ebbe l'impressione che la S. Sede fosse disposta a intavolare una trattativa globale sui temi della "retencion de bullas", del "recurso de fuerza" e della "monarchia sicula", dalla Spagna giunsero pressioni sul governo napoletano perché si disponesse a transigere e ad ammorbidire le sue posizioni, né si considerarono le proteste che, giustamente, facevano notare come a Napoli fossero in discussione le prerogative stesse dello Stato. Di contro, quando la prospettiva del negoziato con Roma tramontò e anzi furono compiuti nuovi gravi atti contro la giurisdizione statale, Madrid tornò a usare toni più duri e aggressivi. Roma, dal canto suo, non si smosse mai dalla propria intransigenza.
Il D. sperò in una prossima risoluzione quando, il 1º apr. 1605, ascese al soglio pontificio Leone XI (Alessandro de' Medici), di cui sua nuora era nipote, ma, morto il papa dopo soli pochi giorni, la questione tornò a complicarsi. Anche perché in quello stesso anno, come sovrintendente all'armamento delle galere, il D. aveva avuto nuovi screzi con le autorità ecclesiastiche in materia di competenze. Non aveva però trascurato di avviare trattative personali e, a poco a poco. seppe ricucire i suoi rapporti con la Chiesa. Nel novembre 1605 appoggiò in Collaterale alcune richieste del nunzio G. Bastoni circa il commercio dell'allume pontificio e nel 1606 aiutò a realizzare il desiderio di Roma che la nuova strada per la Puglia passasse anche da Benevento, territorio della Chiesa: favori che furono assai graditi. Il 21 luglio 1606 ottenne il breve di assoluzione. Altri due fatti influirono sulla decisione: il D., poco prima, aveva abbandonato le sue cariche pubbliche e aveva inoltre offerto alla S. Sede il suo aiuto nella "guerra delle scritture" contro Venezia. Alla fine dell'anno, infatti, si recò a Roma e, nel 1607, vi pubblicò il libro Iuris responsum super censura Veneta.
Rinnegando tutte le tesi regaliste precedentemente espresse, sostenne a spada tratta le ragioni romane nella lotta contro la Repubblica veneta. Le giustificazioni assai contorte che cercò di dare a questo suo comportamento confermano l'ipotesi che quell'opera fu essenzialmente un mezzo di scambio. Non solo infatti il D. ebbe l'assoluzione, ma il 20 maggio del 1607 suo figlio Pietrantonio ottenne il vescovato di Troia. Inoltre Paolo V e il cardinale Scipione Borghese raccomandarono la sua causa in Spagna: era infatti in corso l'indagine amministrativa su di lui, condotta dal visitatore generale J. Beltrán de Guevara.Erano emerse, in effetti, gravi irregolarità nell'operato ministeriale del De Ponte. Tra le accuse più gravi quelle di corruzione, concussione, malversazione, appropriazione indebita e circonvenzione di incapace ai danni di Niccolò Bernardino Sanseverino principe di Bisignano, dal quale aveva ricevuto 10.000 ducati. Lo stesso viceré J. A. Pimentel Herrera conte di Benavente, il 27 febbr. 1605, sollecitò un'inchiesta, proponendo nel contempo un indolore compromesso di facciata. Il D. provò a scagionarsi, accusando F. Di Costanzo e L. Orsini di complottare contro di lui e sostenendo la perfetta legittimità degli introiti non ufficiali. Ma le proposte ricevute erano buone, e così nel 1606 rassegnò le dimissioni, ottenendo in cambio di conservare titolo ed emolumenti e di sfuggire alle conseguenze della "visita generale". Fu la fine della sua carriera pubblica: inutilmente il nuovo viceré, P.F. de Castro conte di Lemos, nel 1611, lo propose come presidente del Sacro Regio Consiglio.
Il 4 ott. 1613 morì la sua seconda moglie; nel maggio 1614 il D. entrò nel convento dei teatini dei Ss. Apostoli di Napoli, dove prese gli ordini sacerdotali. Ivi morì il 26 giugno 1616.
Dopo il ritiro a vita privata, il D. si era dedicato agli studi giuridici. Nel 1595 aveva già pubblicato a Venezia il Consiliorum sive iuris responsorum in arduis maximorum principum caussis praesertim feudalibus editorum ... ; nel 1615 uscì a Napoli il secondo volume dell'opera (entrambi ristampati poi a Ginevra nel 1666 e 1667). Sempre a Napoli, nel 1611, pubblicò il De potestate Proregis Collateralis Consilii Regnique regimine (ristampato ancora a Napoli nel 1621) e nel 1612 il Decisionum Supremi Italiae Consilii Regiae Cancellariae et Camarae Summariae liber, unitamente alle Repetitiones feudales, una raccolta di ventidue sue lezioni di diritto feudale (volume ristampato a Ginevra nel 1666).
Uno dei temi più importanti trattati nelle sue opere era quello del controllo dei funzionari da parte del potere regio. Nella difesa delle "donationes remuneratoriae", del pieno diritto per i magistrati di percepire altri guadagni fuori dei propri uffici, nella condanna dei meccanismi delle visite generali, influiva senza dubbio la sua vicenda personale, ma il D. si collegava anche a una più antica e solida corrente di pensiero sostenuta dai giuristi napoletani, che su questi temi impegnati da decenni volevano difendere la propria autonomia e conquistarsi più ampi spazi politici. Acute sono le critiche all'inefficacia e alla nocività delle visite, inutili senza un costante controllo interno degli organi pubblici. Ma la preoccupazione moralista del D., influenzata dalla teologia neoscolastica spagnola, non approda che a generiche affermazioni di principio e alla difesa corporativa del proprio ordine. Maggior rilievo hanno le sue teorizzazioni sullo ius consuetudinario quale limite vincolante per l'assolutismo regio.
Nel De potestate, sua opera principale, il D. si impegnò a dare base dottrinale e orizzonte teorico ai nuovi equilibri emergenti nella prassi politica e ministeriale napoletana nei suoi rapporti con Madrid. Il ruolo del viceré, secondo il D., doveva essere strettamente legato a quello del Collaterale e, in pratica, a esso subordinato, trasformando quel Consiglio nel vero fulcro del potere decisionale. Il voto dei reggenti di Cancelleria, infatti, doveva essere vincolante su tutte le questioni di governo, giustizia e patrimonio, facendo del ministero togato l'autentico mediatore dell'autorità sovrana. Quest'opera influenzò a lungo la cultura giuridica napoletana, incentivandone le spinte autonomiste.
Altra opera che ebbe larghissima eco, benché rimasta manoscritta, fu il De iurisdictione ... tractatus (presente con vari titoli e in molteplici copie in varie biblioteche: cfr. Lauro, pp. 170, 235 s.).
Completata prima del 1610, raccoglieva diversi scritti del D. in materia giurisdizionale, che trattavano svariati casi di conflitto tra le leggi civili e quelle ecclesiastiche. Il D. riproponeva, benché in tono cauto e moderato, tesi chiaramente regaliste, auspicando anche una più netta separazione tra le sfere di influenza delle due giurisdizioni. Lo Iuris responsum fu aspramente criticato da P. Giannone (Istoria civile, Napoli 1770, cap. XXV, 2), ma il De iurisdictione, che esprimeva in effetti le reali posizioni dottrinali del D., ebbe un notevole influsso sulla successiva tradizione giurisdizionalista napoletana.
Bibl.: L. Giustiniani, Mem. istor. degli scrittori legali del Regno di Napoli, III, Napoli 1788, pp. 71-74; A. Lauro, Il giurisdizionalismo pregiannomano nel Regno di Napoli. Problema e bibliografia (1563-1723), Roma 1974, ad Indicem; V. I. Comparato, Uffici e società a Napoli (1600-1647). Aspetti dell'ideologia del magistrato nell'età moderna, Firenze 1974, ad Indicem; P. L. Rovito, La Respublica dei togati. Giuristi e società nella Napoli del Seicento, Napoli 1981, ad Indicem; S. Zotta, G. F. D. Il giurista politico, Napoli 1987.