De re metallica
Il rinascimento dei metalli
Il basso Medioevo e l’epoca rinascimentale furono caratterizzati da un forte aumento della domanda di metalli, frutto di uno sviluppo dei centri urbani e degli stili di vita che aveva portato a un incremento del loro uso: dall’edilizia agli utensili di lavoro, dalle armi da fuoco alle suppellettili, dall’oreficeria alla scultura. Il picco della richiesta si ebbe però con l’introduzione e la diffusione delle armi da fuoco, perché per rifornire con queste armi gli eserciti dei bellicosi sovrani e signori rinascimentali si rendeva necessario il reperimento continuo di ferro e bronzo. Durante questo periodo, l’attività minerario-metallurgica fu oggetto di grossi investimenti da parte di iniziative private (come quella tedesca dei Fugger e quella ungherese dei Thurzó, dal 1495 associate tra loro), alle quali si affiancarono compartecipazioni delle autorità sovrane; queste ultime intervennero anche con norme atte a regolamentare lo sfruttamento delle risorse minerarie. Il conseguente progresso dell’industria minerario-metallurgica, favorito anche da alcune innovazioni tecnologiche, nell’arco di mezzo secolo (tra la fine del 15° sec. e gli anni Quaranta del 16°) portò a quadruplicare il volume dei metalli immesso sul mercato europeo.
L’invenzione di nuovi sistemi per il pompaggio dell’acqua consentì di drenare le gallerie e di sfruttare i pozzi delle miniere più in profondità. L’introduzione di impianti di ventilazione ad azionamento idraulico e meccanico permise di migliorare l’efficienza dei forni e di applicare a livello industriale processi chimico-metallurgici come la liquazione, l’inquartazione e l’amalgama con il mercurio, e permise inoltre di immettere nel mercato enormi quantità di rame e argento, che andarono ad alimentare l’attività manifatturiera artistico-artigianale e l’industria militare.
L’abbinamento della ruota idraulica a dispositivi meccanici come la camma e la biella-manovella, permise lo sviluppo di pompe pneumatiche capaci di soffiare potenti e costanti getti d’aria nei forni e nelle forge, ma anche l’azionamento di magli e pestelli automatici per la lavorazione del ferro di seconda fusione e la frantumazione del minerale. Una tecnologia per la ventilazione dei forni alternativa al mantice, che trovò una certa diffusione in Italia, fu la tromba idro-eolica, la quale sembra essere stata introdotta nelle ferriere laziali intorno alla metà del 16° sec. (Baraldi 2001).
In ambito siderurgico, l’innovazione più importante riguardò l’aumento di dimensioni dei forni per la riduzione del minerale, i quali arrivarono fino a 6 m di altezza, triplicando così le dimensioni dei forni a manica medievali, che raggiungevano a malapena i 2 m. L’aumento dell’altezza dei forni, unito all’uso di un getto d’aria costante, permise l’attivazione di reazioni chimiche di ossidoriduzione, che favorirono la fusione del minerale e la formazione della ghisa, la quale veniva gettata in stampi direttamente dal forno. Le fonti più antiche sull’introduzione di questi forni fanno risalire questo processo agli inizi del 13° sec. per l’area cisalpina bergamasca e bresciana (Cima, in Una tradizione senese, 2000, pp. 77-84).
La possibilità di lavorare la ghisa tramite fusione favorì il suo impiego nella fabbricazione di manufatti di medie e grosse dimensioni – come le artiglierie, i proiettili, i fondi per camini, gli alari, le lastre tombali –, che ora venivano realizzati direttamente con il getto. Anche se le cattive qualità meccaniche di questa lega limitarono inizialmente il suo impiego nella produzione di armi da fuoco, sul suo utilizzo nella fabbricazione di cannoni esistono testimonianze risalenti alla metà del 15° sec., come, per es., la menzione di una «bombarda in ferro colato» nel Castello Sforzesco di Milano che troviamo in un’opera di Antonio Averlino, detto il Filarete (1400 ca.-1469 ca.), il Trattato di architettura, composto negli anni 1460-1464 (Firenze, Biblioteca nazionale centrale, Fondo nazionale II.I.140, f. 127v).
Nella penisola italica, l’attività siderurgica si sviluppò seguendo diverse tradizioni tecnologiche. Nell’area nord-occidentale prevalse la lavorazione del ferro al basso fuoco realizzata in fucine a tinozza di tipo catalano, mentre nell’area nord-orientale (lombardo-veneta) si diffuse il protoaltoforno nelle diverse versioni del cannecchio bresciano-bergamasco. Queste due tradizioni confluirono entrambe nelle aree minerarie dell’Italia centrale, nelle quali prima vi fu una diffusione delle lavorazioni al basso fuoco e in seguito, grazie soprattutto all’azione rinnovatrice portata avanti dal granduca di Toscana Cosimo I de’ Medici (1519-1574), furono gradualmente introdotti i cannecchi. Nelle aree minerarie meridionali e nelle isole si diffusero le ferriere di tipo catalano (Cima, in Una tradizione senese, 2000, p. 73).
Gli impianti di lavorazione del ferro al basso fuoco si erano mantenuti pressoché identici fin dall’antichità. Il cosiddetto modello a catasta di tipo catalano-ligure consisteva essenzialmente di un piano a forma di catino in materiale refrattario, sul quale si disponevano carbone e minerale a strati alterni. Nei modelli più evoluti, la combustione era alimentata con soffierie a mantice azionate da un motore idraulico; un tipo di impianto che troviamo rappresentato nel De machinis (scritto tra il 1430 e il 1449) di Mariano di Iacopo, detto il Taccola (1381-1453/58) e nel Codice Atlantico di Leonardo da Vinci (1452-1519). Un disegno di questo codice (Milano, Biblioteca Ambrosiana, f. 959r) presenta una vista in sezione della fornace, nella quale sono riprodotti anche il minerale, il combustibile e il metallo.
Le particolarità di questo sistema di produzione del ferro, che ne hanno favorito la diffusione e l’impiego continuato nel corso dei secoli, sono la semplicità della struttura e il fatto di poter essere impiegato anche per la riduzione del minerale. Questo tipo di fornace era talvolta abbinato al forno a manica e al cannecchio per l’affinazione del ferro di prima fusione. Il blumo di ferro, che si presentava come un ammasso spugnoso contenente ferro, acciaio, carbone incombusto e minerale, era riscaldato a circa 1000 °C, e veniva poi sottoposto a ripetute sessioni di martellatura, fino a quando le impurità non erano estromesse ed esso si mostrava alla frattura con una grana compatta e omogenea (Baraldi, in Il Rinascimento italiano e l’Europa, 2007, p. 205). Una variante di questo metodo è presentata nei ff. 18v-19r del De la pirotechnia (1540) di Vannoccio Biringuccio (o Biringucci, 1480-1537 ca.), ingegnere minerario e metallurgista originario di Siena; tale variante prevedeva di mantenere il massello di ghisa immerso in un «bagno di ferro» (ghisa fusa) nel quale venivano aggiunti alcuni correttivi per l’affinazione. Il trattamento durava circa sei ore, durante le quali il massello era sottoposto prima a ripetuti cicli di martellatura (per estrometterne le impurità) e poi a un trattamento di tempra.
Per quanto riguarda i metalli non ferrosi, gli sviluppi più importanti si ebbero nella produzione del rame e dell’argento. La tecnica tradizionale per estrarre l’argento da minerali di piombo argentifero, come la galena, era la coppellazione. Una tecnica che veniva applicata in speciali crogioli di materiale refrattario, in grado di assorbire il litargirio che si formava scaldando il piombo argentifero in presenza di aria, provocando, quindi, la separazione dell’argento, che rimaneva nel crogiolo allo stato metallico.
Verso la metà del Quattrocento vennero introdotti due nuovi metodi per l’estrazione dell’argento, basati l’uno sul processo di liquazione (detto anche processo Saiger) e l’altro sul processo di amalgamazione a freddo con il mercurio.
Il primo metodo, proveniente dall’area mineraria di Norimberga, fu alla base dell’espansione metallurgica dell’Europa centrale. Si trattava essenzialmente di una tecnica di segregazione basata sulla rifusione, in ambiente riducente, del rame argentifero di prima fusione (rame nero) insieme a del piombo, che veniva aggiunto in una proporzione variabile tra 1/3 e un 1/4. In questo modo si ottenevano dei ‘pani’ di metallo pesanti tra 150 e 200 kg, i quali, dopo essere stati caricati in una speciale fornace, venivano scaldati fino a quando il piombo, amalgamato con l’argento, fondeva e veniva convogliato in un crogiolo di raccolta. A questo punto, con la tecnica di coppellazione si separavano i due metalli. Una presentazione chiara di questo processo, corredata anche da interessanti xilografie che illustrano le strutture utilizzate, è data nel De la pirotechnia (ff. 53r-60r).
Il metodo di amalgamazione a freddo con il mercurio era, invece, una tecnica che permetteva di separare l’argento dai minerali e, più in generale, da tutti gli scarti di lavorazione metallurgica che può contenere questo metallo. Secondo la descrizione data nel De la pirotechnia (f. 142r), il minerale era frantumato insieme al mercurio per mezzo di grosse macine circolari azionate a mano, favorendo così il processo di amalgama dei due metalli; l’argento era infine recuperato facendo evaporare il mercurio. Biringuccio presenta questo metodo come un segreto che aveva appreso (dietro lauto pagamento) durante il suo soggiorno in Veneto del 1507. Il ritrovamento negli archivi veneziani di un privilegio concesso per tale metodo, e risalente proprio al 1507, induce a pensare che questa tecnica fosse stata inventata nei distretti argentiferi veneziani, dai quali fu poi esportata in Europa e nei cantieri minerari dell’America Latina (Vergani, in Il Rinascimento italiano e l’Europa, 2007, pp. 232-33).
Rinascita e sviluppo delle tecniche di fusione nel 16° secolo
Lo sviluppo e la diffusione delle arti minerario-metallurgiche che si ebbe nel 16° sec. fece da sfondo a uno sviluppo altrettanto significativo delle tecniche di fusione artistiche e militari. Durante il periodo delle cosiddette guerre d’Italia (1494-1559), inaugurato con la discesa nella penisola del re di Francia Carlo VIII, si ebbe l’espansione e il rinnovamento dei principali arsenali italiani, come quelli di Venezia e di Ferrara, che rimasero all’avanguardia in Europa sino alla fine del Cinquecento e nei quali si affermarono dinastie di fonditori, come i Conti e gli Alberghetti, che lavorarono al servizio delle principali corti e repubbliche d’Italia e d’Europa. A questi personaggi, che hanno lasciato scarse testimonianze scritte sul proprio lavoro e il cui nome resta talvolta celato all’interno dell’opera (ricordata soltanto con il nome dell’artista esecutore del modello), dobbiamo il recupero e lo sviluppo delle tecniche di fusione ereditate dall’epoca medievale, così come l’introduzione di nuovi metodi operativi.
La tecnica più diffusa durante questo periodo era il metodo a cera persa diretto, la cui caratteristica era quella di distruggere il modello in cera in seguito alla colata. È appunto con questo metodo che furono realizzati i principali bronzi creati durante il Rinascimento, a opera di artisti come Donatello (1386-1466), Lorenzo Ghiberti (1381-1455), Andrea Verrocchio (1435-1488), Benvenuto Cellini (1500-1571) e Jean Boulogne (in Italia Giambologna, 1529-1608).
Il metodo alternativo alla fusione diretta era quello a cera persa indiretto, il quale, pur risalendo all’antichità, era stato dimenticato durante il Medioevo. Se si esclude la produzione di fibbie e spille in alcune tradizioni metallurgiche nordeuropee (si veda De re metallica, 2005), tale metodo tornò a essere impiegato soltanto a partire dalla fine del Quattrocento. Si trattava di una tecnica più laboriosa, ma che consentiva di risparmiare il modello, costruito, ora, non più in cera, ma in un materiale persistente, come il marmo, il legno o l’argilla. Il nucleo di fusione veniva costruito a partire dal calco del modello, permettendo, quindi, che quest’ultimo venisse riutilizzato per eventuali rifusioni e servisse come riferimento durante la finitura del getto. Il metodo indiretto, inoltre, consentiva di fondere getti più sottili e quindi più leggeri ed economici. Una caratteristica importante, questa, visti i costi proibitivi del bronzo: si stima che un cannone in bronzo costasse tre o quattro volte di più di uno in ferro (Cipolla 1965, trad. it. 19992, p. 23). Quello del peso sembra sia stato anche uno dei principali criteri di scelta della commissione giudicatrice del concorso per la realizzazione della Porta Nord (o Porta del Paradiso) del battistero di S. Giovanni a Firenze, che aggiudicò il lavoro a Ghiberti, il cui modello, rispetto a quello del suo rivale Filippo Brunelleschi (1377-1446), era più leggero di circa sette chilogrammi Brunelleschi aveva fuso i personaggi della sua formella di bronzo pieno saldandoli successivamente sopra una lastra di bronzo. Ghiberti, invece, aveva realizzato la formella in un’unica fusione, rendendo cavi i personaggi (Lein 1999, p. 387).
Pur mancando una documentazione storica sul metodo impiegato da Ghiberti, recenti indagini di tipo archeometrico hanno dimostrato che le formelle della Porta del Paradiso furono fuse con il metodo indiretto (S. Siano, M. Miccio, P. Bertelli, F. Marinelli, S. Mugnaini, G.L. Garagnani, Studio sulla tecnica di fusione dei rilievi della Porta del Paradiso, «OPD restauro», 2006, pp. 285-300). La prima descrizione della tecnica di fusione indiretta per la realizzazione di un bassorilievo si trova nel De la pirotechnia (ff. 82v-83r).
Sulla base delle fonti pervenute, sembra che l’esperienza di Ghiberti sia restata comunque un caso isolato, e per avere un’ulteriore testimonianza sull’impiego di un metodo indiretto dobbiamo aspettare il 1485 circa, quando ne troviamo una descrizione parziale nel f. 976r del Codice Atlantico. Si tratta di un appunto probabilmente copiato dal quaderno di bottega di un maestro fonditore:
Toccare il gesso arà freddo soffiziente grossezza, e tu versa il resto e riempi di gesso e po’ disfa la forma e metti i ferri a traverso forando la cera e gesso; e poi rinetta la cera a tuo modo; di poi mettila in una cassetta e favvi su una forma di gesso lasc[i]ando li sfiatatoi e la bocca da gittare; per la qual bocca volta la forma sotto sopra e, quella infocata, potrà uscire la rinchiusa cera, e ’l vacuo ch’ella lascerà, potrai riempiere della tua materia fonduta, e la cosa gittata verrà busa. M[a] acciò che ’l gesso nel ricuocere non si disfacci, mettivi dentro quello.
Questa sintetica e chiara descrizione delle fasi di costruzione del nucleo di fusione induce a pensare si trattasse di un metodo già consolidato, che Leonardo stava studiando probabilmente nella prospettiva di realizzare il progetto per la fusione del monumento equestre al duca di Milano Francesco I Sforza, del quale gli sarebbe stato affidato l’incarico di lì a poco, in una data imprecisata tra il 1482 e il 1489.
Sulle modalità di recupero di tale metodo esistono ancora molti dubbi; tuttavia, è opportuno ricordare che una tecnica per il calco delle sculture allo scopo di riprodurle in bronzo è descritta, attribuendola a Lisistrato di Sicione, nel XXXV libro della Naturalis historia di Plinio il Vecchio, opera che nel 1476 fu pubblicata a Venezia in traduzione italiana a opera di Cristoforo Landino (Historia naturale di C. Plinio secondo, tradocta di lingua latina in fiorentina per Christophoro Landino fiorentino […], cap. XII, righe 90-100). Durante il Medioevo, per ragioni legate al generale regresso delle condizioni sociali e culturali dei territori dell’ex impero romano, si era contratta notevolmente la richiesta di opere in bronzo e, come mostrano i pochi reperti risalenti all’età carolingia, quelle realizzate erano comunque ben lontane dal livello qualitativo raggiunto dai bronzi dell’antichità. Fino al 15° sec., prima cioè dell’avvento su larga scala delle artiglierie e della diffusione della scultura in bronzo, gli unici manufatti bronzei di cospicue dimensioni realizzati mediante la fusione erano le campane, e il complesso procedimento di costruzione della loro forma costituì la base dalla quale si sviluppò la tecnica di fusione delle artiglierie e in generale di tutti i manufatti di grandi dimensioni.
Campane
Le campane sono manufatti che risalgono all’antichità. Dopo un primo periodo, durante il quale furono realizzate nella fucina con una lamina di ferro battuto, a partire dai secc. 7°-8° venne sviluppata una tecnica di fusione che sarebbe rimasta sostanzialmente inalterata fino ai tempi moderni. A seconda delle dimensioni delle campane, poteva rendersi necessaria anche la costruzione di fonderie appositamente progettate che, nel caso dei getti più pesanti, venivano realizzate nei pressi del luogo di installazione. Sono frequenti, infatti, i casi in cui, durante i lavori di restauro di una chiesa o di un monastero, sono stati ritrovati, alla base del campanile, la fossa di fusione e i resti dell’attività di colata. Casi esemplari sono la chiesa di S. Martino a Lonato (presso Brescia), l’Abbazia Celestina presso Perugia e la cattedrale romanica di Pavia: in quest’ultima si è ritrovata traccia di un impianto fusorio per due campane.
La storia della produzione campanaria in Italia risale, come detto, all’antichità, e si focalizza soprattutto in Toscana, nell’area pisano-lucchese (Zagari 2005, p. 167). Tuttavia, la tradizione vuole anche che l’etimologia del termine campana risalga alla regione Campania, un territorio che in epoca romana era noto per la lavorazione del bronzo, e per il quale, riguardo alla prima introduzione delle campane nelle chiese, abbiamo testimonianze che risalgono all’epoca di san Paolino da Nola (5° sec.).
Le fonti scritte che tramandano le tecniche di produzione delle campane adottate nei secc. 16° e 17° sono il De campanis fundendis, parte conclusiva del De diversibus artibus (1120 ca.) del monaco benedettino tedesco Teofilo, e un capitolo del De la pirotechnia.
In queste opere vengono codificati quattro diversi metodi per fondere una campana, provenienti da due diverse tradizioni: una mitteleuropea, nella quale si sarebbe mantenuta più a lungo la pratica di realizzare le campane di ferro fucinato, e una mediterranea, nella quale si sarebbe diffusa la pratica di fondere le campane con una lega ad alto contenuto di stagno, analoga a quella utilizzata per la fusione degli specchi (Neri 2006, pp. 27-73).
Nel De campanis fundendis è descritto un unico metodo, che è essenzialmente un processo di tipo diretto nel quale la forma di fusione è costruita a partire da un nucleo di argilla tornita con una sagoma calibrata. Sul nucleo vengono applicati dei fogli di cera per costruire il modello della campana (o ‘falsa campana’, come talvolta è chiamata), per poi procedere alla costruzione del mantello esterno, fatto di terra refrattaria rinforzata con una fitta legatura di filo di ferro.
Nel De la pirotechnia, che risale a oltre quattro secoli dopo, troviamo tre diversi metodi di fusione per le campane. Il primo, per la produzione di campane di piccole e medie dimensioni, ricalca in gran parte il metodo descritto nel De campanis fundendis, ma se ne differenzia perché la falsa campana viene costruita in argilla, con l’uso di un aggetto di cera per le sole decorazioni. L’impiego di un materiale persistente implica una riapertura della forma per rimuovere la falsa campana e una finitura separata delle parti costituenti la forma, che viene poi completata aggiungendovi il gancio per il battaglio e la forma della corona di ancoraggio. Dopo la finitura e la ricottura di ogni parte, si procede al loro definitivo assemblaggio all’interno della fossa di fusione, che quindi viene allestita per la colata.
Il secondo metodo illustrato nel De la pirotechnia è quello per fusione di campane di grandi dimensioni che, per il peso e l’ingombro eccessivi, non sono lavorabili al tornio orizzontale. In questo caso si utilizza una tecnica di formatura in verticale che prevede la costruzione della campana intorno a un asse verticale, sul quale viene montata una sagoma rotante al fine di controllare il profilo e le dimensioni durante la lavorazione prima del nucleo, poi della falsa campana e quindi della forma esterna. Sotto la base della campana è ricavato il focolare, che serve per cuocere di volta in volta gli strati di terra applicati. Ultimata la forma, si procede, come nel metodo precedente, alla finitura e al montaggio nella fossa di fusione.
Nel caso in cui le dimensioni siano tali da impedire lo spostamento della campana, con lo stesso metodo si opera direttamente all’interno della fossa di fusione. Una rara testimonianza illustrata di questo metodo di formatura della campana si trova in un manoscritto della fine del 15° sec., il cosiddetto Zibaldone di Buonaccorso Ghiberti (1451-1516), che nel f. 74v permette di visualizzare le parti essenziali del processo, come il perno centrale, la sagoma ruotante, la fornace di ricottura, i distanziatori per mantenere allineati la forma esterna con il nucleo, e infine la tecnica di costruzione del nucleo di fusione, realizzato in muratura con mattoni refrattari.
La terza tecnica, infine, è quella per il getto di campanelli di piccole dimensioni. Tale tecnica, secondo il De la pirotechnia, dev’essere eseguita a staffa, ricavando cioè il calco della campana in due cassette contenenti argilla fresca, che si chiudono a conchiglia intorno al nucleo (ff. 119v-120v).
Biringuccio inserì nel capitolo sulle campane del De la pirotechnia anche una dettagliata descrizione della tecnica geometrica per disegnarne il profilo, poiché, insieme alla lega e alle dimensioni, la precisione del disegno era una variabile da cui dipendeva la resa sonora dello strumento. Il bronzo da impiegare, chiamato tradizionalmente lega campana, secondo Biringuccio doveva contenere una percentuale di stagno tra il 23 e il 26%, a seconda delle dimensioni e del suono che si voleva ottenere (f. 74r).
Cannoni
Il 16° sec. si aprì con la diffusione su scala europea delle artiglierie di bronzo ad avancarica, che sostituirono le vecchie bombarde in ferro fucinato e quelle fuse in più sezioni. Per gli arsenali italiani, la data che segnò il punto di svolta per il rinnovamento tecnologico fu il 1494, quando Carlo VIII attraversò l’Italia con le sue truppe portandosi al seguito numerosi pezzi di artiglieria di nuova concezione che, per la loro maneggevolezza e mobilità, potevano tenere quasi il passo della cavalleria. Le cronache del tempo sottolineano il forte effetto suscitato dai nuovi cannoni e la conseguente corsa agli armamenti che in tutta la penisola italica scaturì dall’invasione francese. Le parole di Francesco Guicciardini (1483-1540) nella sua Storia d’Italia (20 libri, 1537-1540) esprimono bene l’impatto psicologico e tecnologico portato dalle nuove artiglierie:
Il nome delle maggiori era bombarde, le quali, sparsa di poi questa invenzione per tutta Italia, s’adoperavano nell’oppugnazioni delle terre; alcune di ferro alcune di bronzo, ma grossissime in modo che per la macchina grande e per la imperizia degli uomini e attitudine mala degli instrumenti, tardissimamente e con grandissima difficoltà si conducevano, piantavansi alle terre con medesimi impedimenti, e piantate era dall’uno colpo all’altro tanto intervallo che con piccolo frutto e comparazione di quello che seguitò da poi, molto tempo consumavano; donde i difensori dei luoghi oppugnati avevano spazio per poter oziosamente fare didentro ripari e fortificazioni […]. Ma i Franzesi, fabbricando pezzi molto più espediti né d’altro che di bronzo, i quali chiamavano cannoni, e usando palle di ferro, dove prima di pietra e senza comparazione più grosse e di peso gravissimo s’usavano, gli conducevano in sulle carrette, tirate non da buoi, come in Italia si costumava, ma da cavalli, con agilità tale d’uomini e di instrumenti deputati a questo servigio che quasi sempre al pari degli eserciti camminavano, e condotte alle muraglie erano piantate con prestezza incredibile; e interponendosi dall’un colpo all’altro piccolissimo intervallo di tempo, sì spesso e con impeto sì veemente percotevano quello che prima in Italia fare in molti giorni si soleva, da loro in pochissime ore si faceva: usando ancora questo più tosto diabolico che umano instrumento non meno alla campagna che a combattere le terre, e con medesimi cannoni e con altri pezzi minori ma fabbricati e condotti secondo la loro proporzione, con la medesima destrezza e celerità (ed. 1988, a cura di E. Mazzali, 1° vol., pp. 91-92).
Guicciardini metteva in risalto l’inadeguatezza della tecnologia bellica degli arsenali italiani; tuttavia, a prescindere dall’effettiva efficienza delle artiglierie francesi, è interessante notare come nella sua cronaca siano menzionati i principali elementi tecnologici che alla fine del 15° sec. determinarono il rinnovamento delle artiglierie e il miglioramento delle loro prestazioni (per es., l’aumento della cadenza di tiro): canne in lega di bronzo, proiettili di ferro realizzati in fusione, affusti dotati di due ruote.
Una delle fonti più importanti sulla tecnica di produzione e sulla sperimentazione delle armi da fuoco, sicuramente la principale per l’Italia di fine Quattrocento, è data dai manoscritti di Leonardo. Infatti, grazie alla sua inesauribile curiosità, alla sua non comune attitudine verso la sperimentazione e soprattutto alla sua eccezionale abilità come disegnatore, Leonardo, pur non essendo né un artigliere né un fonditore, produsse la documentazione più ricca e completa sulla rivoluzione tecnologica di cui furono oggetto le armi da fuoco durante quel periodo. Nei suoi manoscritti, realizzati tra gli anni Novanta del 15° sec. e il primo decennio del secolo successivo, troviamo la descrizione dei «nuovi cannoni francesi» e di tre diversi metodi per la produzione di artiglierie (Bernardoni 2013, pp. 26-35).
Una delle tecniche più antiche per la produzione di armi da fuoco è quella che prevedeva l’uso di verghe rettilinee e cerchiature di ferro assemblate insieme nella fucina, in modo da formare una struttura tubolare; uno dei reperti più celebri di bombarda medievale costruita con questa tecnica è la cosiddetta Mons Meg, realizzata nel 1449 nella città di Mons (allora nel ducato di Borgogna e oggi in Belgio), che aveva una bocca di 48 cm di diametro e poteva sparare proiettili di pietra del peso di 150 chilogrammi.
In alcuni disegni del Codice Atlantico troviamo i progetti per una trafilatrice e per una calandra (sulla cui effettiva costruzione non abbiamo nessuna informazione), concepite per automatizzare e migliorare la qualità delle verghe di ferro destinate alla produzione di cannoni. La trafilatrice (descritta nei ff. 10r e 11r) doveva essere dotata di un motore idraulico e, attraverso ingranaggi e viti senza fine, doveva sincronizzare l’avanzamento della doga con la rotazione di un disco eccentrico, il quale aumentava progressivamente la pressione sul ferro in modo da ottenere il profilo longitudinale della doga a sezione decrescente e da avere, quindi, uno spessore maggiore all’altezza della camera di esplosione. La calandra, invece (f. 41r a, b, c, d), permetteva di piegare la doga lungo il profilo trasversale, in maniera tale da formare una struttura tubolare unendo insieme quattro verghe lungo il profilo longitudinale. Il motivo che spinse Leonardo a ideare macchine utensili per questo tipo di lavorazione consisteva nell’estrema difficoltà di realizzare alla fucina verghe di ferro che avessero uno spessore e un profilo omogeneo; un difetto, questo, che portava i cannoni ad avere problemi di tenuta e a essere soggetti a fratture. Alla fine del Quattrocento, questa tecnologia era ormai in disuso nelle artiglierie di grandi dimensioni, e in seguito sarebbe stata utilizzata soltanto per la produzione di armi da braccio.
Lo sviluppo delle tecniche di fusione permise di superare questi problemi, ma inizialmente, nonostante la già citata testimonianza di Filarete sulla presenza di una bombarda di ferro colato nel castello Sforzesco a metà del Quattrocento, la produzione dei cannoni in ghisa non si sviluppò prima della metà del 16° sec., quando in Inghilterra si riuscì a fondere cannoni di ferro resistenti all’esplosione della polvere da sparo (Cipolla 1965, trad. it. 19992, p. 28). Ben diverso è il caso del bronzo che, alla fine del 15° sec., benché, come detto, avesse un costo tre o quattro volte superiore a quello del ferro, e quindi abbastanza proibitivo, offriva però qualità meccaniche superiori e poteva essere lavorato con una tecnica fusoria già consolidata nella produzione di campane.
Gli studi di Leonardo sulla produzione delle artiglierie illustrano le fasi essenziali della tecnica di fusione di una spingarda e di una bombarda componibile.
Per quanto riguarda la produzione della spingarda, siamo in possesso di un solo disegno (Codice Atlantico, f. 167r; si veda anche Bernardoni 2013, p. 26), sufficiente, tuttavia, per comprendere che si tratta di un processo di fusione diretta. Leonardo rappresenta tre fasi relative alla costruzione del modello: avvolgimento di una corda intorno a un asse montato su un rudimentale tornio parallelo a manovella, applicazione e tornitura della terra con una sagoma calibrata e, infine, realizzazione della ‘falsa artiglieria’ con un impasto di cera e grasso direttamente sulla terra, tornendola e modellandola fino a ottenere il profilo e lo spessore desiderati. I passi successivi, non descritti nel disegno, consistono prima nella costruzione della forma esterna, poi nella costruzione dell’armatura in ferro di consolidamento, e infine nell’allestimento della fonderia.
Il secondo metodo è di tipo indiretto, e nella procedura ricorda il secondo metodo descritto da Biringuccio per la costruzione della forma di fusione per le campane. Leonardo dedicò molti studi a questa tecnica, che alla fine del Quattrocento doveva essere quella più diffusa tra i fonditori italiani.
I disegni di Leonardo costituiscono anche in questo caso l’unica fonte in nostro possesso che consenta di visualizzare l’intero processo di costruzione della forma di fusione. Nel Codice Trivulziano (Milano, Biblioteca Trivulziana, ms. 2162) e soprattutto in alcuni fogli del Codice Atlantico (ff. 46r, 53r) possiamo seguire l’insieme delle fasi per la costruzione della ‘tromba’ (la canna) e della ‘coda’ (la culatta) del cannone. In entrambi i casi si procede costruendo il modello, la forma esterna e il nucleo di fusione, che vengono poi assemblati all’interno della fossa, la quale, com’è illustrato in un disegno del Codice Trivulziano (f. 16v), poteva essere allestita per contenere anche più di un’artiglieria. Una volta riempita la fossa di fusione, si procedeva costruendo il canale che dal forno portava il bronzo alla materozza sovrastante la forma di fusione; della materozza possediamo un disegno dettagliato nel f. 53r del Codice Atlantico.
Sembra che gli studi di Leonardo sulla fusione delle artiglierie si siano esauriti negli anni Novanta del Quattrocento, quando i suoi interessi si orientarono progressivamente verso temi di filosofia naturale. Tuttavia, per rispondere a committenze e richieste specifiche, egli continuò a occuparsi anche di tecnologia, e non mancò di registrare le innovazioni introdotte dai francesi nelle armi da fuoco. In due fogli del Codice Atlantico risalenti al 1513 (62r, 63r), egli realizzò un vero e proprio rilievo dimensionale di una serie di pezzi; questi disegni, oltre a specificare i singoli tipi di artiglieria, rappresentano una delle testimonianze più antiche sui tentativi di classificazione e razionalizzazione dei pezzi di artiglieria (cannoni, colubrine, falconi). Un problema, questo, che riguarderà tutti gli arsenali e gli eserciti europei almeno fino alla metà del 16° sec., e che sarà sottolineato anche nel De la pirotechnia, in cui (ff. 78v-80v) viene proposta una classificazione sostanzialmente analoga a quella di Leonardo.
Se gli studi di Leonardo sui cannoni costituiscono, come detto, la testimonianza più completa per comprendere i processi produttivi delle armi da fuoco sviluppati durante il Quattrocento, la descrizione più approfondita delle tecniche di produzione delle artiglierie di nuova concezione è certamente quella di Biringuccio, il quale riuscì a compendiare la sua variegata esperienza professionale (come ingegnere minerario, fonditore e capitano di artiglieria) nel De la pirotechnia, un’opera che tra Cinquecento e Seicento godette di un successo editoriale di dimensione europea e divenne un caposaldo della letteratura sulle tecniche di fusione.
Biringuccio descrive essenzialmente un unico processo produttivo che ricalca quello presentato anche da Leonardo, ma modificato in maniera tale da riuscire a realizzare l’intero cannone in un’unica fusione. La costruzione di una forma di fusione del genere, che integrasse cioè la ‘tromba’ e la ‘coda’ del cannone, poneva il problema di come riuscire a mantenere in asse il nucleo con la forma esterna, la quale ora non aveva più il foro passante che consentiva di centrare e sostenere il nucleo alle due estremità. Nel caso di artiglierie di grandi dimensioni, come le doppie colubrine, il foro poteva raggiungere anche una profondità di 6 m, e rendeva il montaggio in asse del nucleo un’operazione molto delicata. Questo problema, come riporta Biringuccio, fu risolto con l’inserimento di un supporto in bronzo all’altezza della giunzione della tromba con la coda; con la fusione, tale supporto veniva inglobato all’interno del getto. Biringuccio dedica molto spazio alla descrizione del montaggio della forma, perché un difetto di coassialità nel nucleo avrebbe pregiudicato il corretto funzionamento del cannone.
Dopo la colata, realizzata a gravità con la forma interrata di fronte al forno, e dopo la rimozione della forma di fusione, il cannone veniva alesato. Questa operazione, che serviva a pulire e regolarizzare la superficie interna del cannone, era eseguita per mezzo di grandi macchine utensili alimentate con motori che potevano essere a leva, calcatori o idraulici. Le rappresentazioni di questi impianti, le più antiche delle quali risalgono alla fine del Quattrocento – un disegno di un impianto che lavora in verticale lo si trova nel f. 16r di un’opera del 1496, il Büch der stryt und buochssen di Philipp Mönch (Heidelberg Universitätsbibliothek, cod. Palatinus Germanicorum 126) –, presentano macchine con l’utensile montato in verticale, che penetrano il pezzo dall’alto o dal basso, a seconda di com’era montato il cannone. A Biringuccio si deve invece la prima descrizione di un’alesatrice orizzontale con motore calcatorio che, nella versione più evoluta, poteva mettere in rotazione anche due utensili contemporaneamente per consentire lavorazioni di tipo seriale (Bernardoni 2008, pp. 8-15).
Monumenti equestri e colossi di bronzo
Nello sviluppo delle tecniche di fusione avvenuto alla fine del Quattrocento, ebbe un ruolo importante la realizzazione di monumenti equestri in bronzo. I monumenti quattrocenteschi di questo tipo furono i primi realizzati dopo quelli antichi (come il Marco Aurelio a Roma, del 176) o altomedievali (come il cosiddetto Regisole a Pavia, di epoca incerta). Durante il Quattrocento ne vennero fusi solo tre: quello dedicato a Niccolò III d’Este a Ferrara (distrutto nel 1796), fuso nel 1451 da Ippolito Bindelli su modello di Niccolò Baroncelli (m. nel 1453); quello dedicato a Erasmo da Narni, detto il Gattamelata a Padova, fuso nel 1453 da Antonio Conti su modello di Donatello; quello dedicato a Bartolomeo Colleoni a Venezia, fuso nel 1492 da Alessandro Leopardi (1465-1522) su modello di Verrocchio. La fusione di questi monumenti fu portata a termine con il metodo tradizionale a cera persa, realizzando il gruppo scultoreo in più sezioni, assemblate successivamente nel momento dell’installazione. Sarà Leonardo, incaricato di fondere il citato monumento equestre a Francesco Sforza, a fornire la prima testimonianza sull’impiego del metodo di fusione indiretta. Benché la fusione di questo monumento non sia mai stata eseguita, Leonardo ha lasciato un quaderno e alcuni disegni nei quali sono riportati gli studi e gli appunti presi durante la costruzione del modello e della forma di fusione.
Il monumento Sforza fu commissionato dal duca di Milano Ludovico I Sforza, detto il Moro, in una data che, come detto, è incerta, ma comunque collocabile tra il 1482 (o 1485) e il 1489 (Documenti e memorie […], 1919, doc. 36). Inizialmente, il gruppo scultoreo era stato concepito a dimensioni naturali e con il cavallo rampante, ma in seguito, dopo una radicale revisione del progetto, fu triplicato nelle dimensioni, con il cavallo non più impennato, ma al passo (disegni di Leonardo, Windsor castle, Royal library, ff. 12357r, 12358r, 12349r-v). Fin dal primo progetto, com’è testimoniato dall’unico foglio di carattere tecnico che ci è pervenuto (Windsor castle, Royal library, f. 12349r-v), Leonardo aveva sviluppato una tecnica che gli avrebbe dovuto consentire la fusione del monumento in un’unica colata. Si trattava di un metodo di fusione indiretto che, con le modifiche imposte da ogni singolo caso, rimarrà essenzialmente lo stesso sia per il secondo progetto del monumento Sforza sia per il progetto successivo, anch’esso mai realizzato, destinato al maresciallo Gian Giacomo Trivulzio. Per gestire l’ingente quantitativo di bronzo necessario alla fusione del monumento, Leonardo aveva previsto la costruzione di una fonderia a forni multipli.
Il ripensamento del progetto, avvenuto tra il 1489 e il 1490, portò l’altezza del cavallo a 7,2 m, costringendo Leonardo ad adeguare il processo alle nuove dimensioni che, per le masse in gioco, rendevano estremamente difficile la movimentazione della forma di fusione. Prendendo ispirazione dalla tecnologia per fondere le artiglierie, Leonardo mise a punto un metodo di fusione basato su una tecnica di calco del modello a tasselli; questi, dopo essere stati impiegati per la costruzione del nucleo, dovevano venire assemblati e impiegati come forma esterna.
Con i tasselli di calco opportunamente sagomati lungo il profilo, dovevano essere assemblate delle macrosezioni della forma esterna (gambe, testa, corpo in due valve e coda), poi montate in maniera definitiva intorno al nucleo e consolidate con un’armatura di filo di ferro (Codice di Madrid II, Madrid, Biblioteca nacional de España, ms. 8936, f. 157r; Windsor castle, Royal library, f. 12348r). Una volta montati i canali di gettata e quelli per lo sfiato dei gas, la forma doveva essere interrata, e si era pronti, quindi, per realizzare la colata, che Leonardo pensava di gestire aprendo i forni in successione, in modo da controllare il progressivo riempimento della forma. Egli aveva previsto di fondere il cavallo in verticale con la forma capovolta, in modo da utilizzare le zampe come camini per l’estromissione dei gas. Tuttavia, probabilmente durante lo scavo della fossa di fusione, si rese conto che, a causa del livello della falda freatica del territorio milanese, quando la forma fosse stata interrata sarebbe rimasta sommersa nell’acqua, il che avrebbe pregiudicato negativamente l’esito stesso della colata. Per questo motivo prese in considerazione una strategia operativa alternativa, che prevedeva di realizzare la fusione con la forma collocata nella fossa in orizzontale. Purtroppo, com’è noto, non riuscì a realizzare la fusione. Con la discesa in Italia delle truppe francesi nel 1494, i lavori di fusione del cavallo furono interrotti, e furono definitivamente abbandonati nel 1499 quando, com’è ricordato in una nota di Sabba da Castiglione, durante la presa di Milano i balestrieri francesi distrussero il modello in argilla del cavallo.
Il lavoro progettuale sviluppato per il monumento Sforza non andò però perduto, e qualche anno più tardi, probabilmente intorno al 1508, troviamo Leonardo impegnato nel progetto di un altro monumento equestre, quello per Trivulzio. Anche quest’opera non fu mai realizzata, ma è significativo notare come l’unico foglio di Leonardo relativo alla tecnica di fusione (Windsor castle, Royal library, f. 12347r) costituisca un consolidamento delle fasi operative ideate per il progetto del monumento Sforza, con una variante relativa all’impianto di fonderia che, viste le dimensioni al naturale di questo monumento, prevedeva l’impiego di un solo forno.
Dopo l’abbandono anche di questo progetto, sembra che il metodo di Leonardo abbia avuto un seguito in Francia, dove, per fondere il cavallo destinato al monumento equestre al re Francesco I, lo scultore fiorentino Giovan Francesco Rustici (1474-1554) adottò il metodo di fusione elaborato e sviluppato per il monumento Sforza.
Come riportato da Giorgio Vasari (1511-1574), Leonardo e Rustici si erano frequentati proprio mentre il secondo stava lavorando all’imponente gruppo scultoreo La predica del Battista al levita e al fariseo (1506-1511) per il battistero di S. Giovanni a Firenze. Inoltre, sempre secondo Vasari, Rustici aveva imparato da Leonardo molte cose, in particolare a fare cavalli in argilla e cera a tutto tondo o in rilievo. Vasari ricorda anche la vicenda della fusione del cavallo del monumento a Francesco I, precisando che Rustici aveva preparato il modello e i calchi, a conferma, quindi, del fatto che stava usando un metodo di fusione indiretto (Le vite de’ più eccellenti architettori, pittori et scultori italiani da Cimabue insino a’ tempi nostri, 1550, in Le opere di Giorgio Vasari con nuove annotazioni e commenti di Gaetano Milanesi, 5° vol., 1981, p. 601). È presumibile che Rustici avesse appreso da Leonardo la tecnica di fusione ideata per il monumento Sforza e che, per questo motivo, avesse ricevuto l’incarico dal re Francesco I. Tuttavia neanche Rustici riuscì a ultimare il monumento e, dopo la morte del re, il cavallo da lui fuso fu donato al duca Anne di Montmorency (1492-1567) e in seguito fu utilizzato per erigere il monumento per il figlio di questi, il duca Enrico I di Montmorency (1534-1614). In una lettera del 3 marzo 1607 dello scultore Pierre Biard il Vecchio (1559-1609), relativa al restauro del cavallo di Rustici (Chantilly, Musée Condé, Papiers de Condé, serie L, t. LXV; vedi anche Bernardoni 2011, pp. 79-82), emergono alcuni elementi di simmetria molto forti con il progetto del cavallo Sforza. Il cavallo di Rustici, che aveva dimensioni doppie rispetto al naturale, mostrava la stessa andatura del cavallo Sforza, e come questo si sosteneva su due sole zampe di bronzo solido, prive di armatura interna e fuse insieme alla base, la quale fungeva da elemento statico imprescindibile per la stabilità del monumento.
Durante il 16o sec. furono portate a termine altre due esperienze significative di monumenti equestri: la prima da Daniele da Volterra (1509-1566), che nel 1560 fuse il cavallo (poi distrutto nel 1793) per il monumento equestre al re di Francia Enrico II, disegnato da Michelangelo e mai completato; la seconda da Giovanni di Giulio Alberghetti, che nel 1592 fuse il monumento equestre a Cosimo I de’ Medici, disegnato da Giambologna.
Le fonti relative alla tecnica di fusione utilizzata per questi due monumenti non ci consentono di ricostruire le fasi del processo di costruzione della forma come nel caso del cavallo Sforza, né consentono di chiarire se il metodo di fusione ideato da Leonardo abbia potuto in qualche modo averne influenzato l’esecuzione. Del cavallo di Volterra è sopravvissuto il preventivo, dal quale apprendiamo innanzitutto che le dimensioni dovevano essere «assai superiori» a quelle del cavallo del monumento romano all’imperatore Marco Aurelio, e poi che il cavallo doveva essere realizzato in un’unica fusione, probabilmente con il metodo tradizionale a cera persa. Volterra parla infatti di costruire un cavallo di terra su una struttura di ferro, e da una nota di acquisto apprendiamo che egli aveva fatto acquistare anche della cera, del gesso, del carbone e della legna, necessari per «formare il sopradicto cavallo» (Firenze, Archivio di Stato, Carte strozziane, serie V, 1, n. 31, cit. in Bostrom 1995). L’acquisto del gesso potrebbe far pensare alla realizzazione del calco ma, visto che nel preventivo non si fa nessun riferimento ai costi necessari per tale operazione, è probabile che questo materiale venisse impiegato come rivestimento esterno della forma di fusione, operazione indicata anche da Leonardo per la forma del cavallo Sforza e per quella del monumento a Trivulzio (Codice di Madrid II, Madrid, Biblioteca nacional de España, f. 141v; Windsor castle, Royal library, f. 12347v).
Per il monumento a Cosimo I, sappiamo che Giambologna aveva realizzato il modello in scala reale e che le forme, cioè i calchi, erano state conservate per un possibile riuso (Gaye 1839-40, 3° vol., p. 519); è presumibile, quindi, che Alberghetti abbia proceduto alla fusione del cavallo con un processo di tipo indiretto.
Altre due esperienze molto importanti, che documentano la fusione di due imponenti colossi di bronzo sulla cui esecuzione abbiamo la testimonianza diretta degli autori, sono quella, ricostruibile attraverso il carteggio di Michelangelo (Il carteggio di Michelangelo, a cura di G. Poggi, P. Barocchi, R. Ristori, 1° vol., 1965), relativa alla fusione della statua Giulio II benedicente, effettuata a Bologna nel 1507 dal fiorentino Bernardino di Antonio, e quella relativa alla fusione della statua Perseo di Cellini, effettuata a Firenze dallo stesso Cellini a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta.
Dalla descrizione di Vasari, apprendiamo che il Giulio II misurava circa 3 m di altezza. Grazie alle lettere che Michelangelo scambiò con il fratello Buonarroto, siamo in grado di seguire le fasi del processo di fusione, portato a termine in circa un anno. Emblematiche sono le lettere scritte tra il luglio e l’agosto del 1507, nelle quali si racconta dell’iniziale fallimento della fusione, causato dal raffreddamento del bronzo nella fornace, che aveva comportato la demolizione e la ricostruzione del forno prima di poter riprendere la colata. Impresa, quest’ultima, che avvenne tra il 1° e il 10 luglio, quando, ben nove giorni dopo il primo tentativo, maestro Bernardino terminò la colata versando il bronzo mancante nella forma. Non abbiamo informazioni sulla tecnica di formatura, ma è presumibile che il metodo fosse di tipo indiretto, e questo in virtù del fatto che nella lettera di Michelangelo del 1° luglio, in cui si parla del fallimento della colata, si accenna alla possibilità di dover fondere nuovamente la statua, il che induce a pensare che esistessero i calchi del modello necessari per approntare nuovamente la forma di fusione. Le lettere scritte nei concitati giorni della fusione trasmettono l’ansia vissuta da Michelangelo durante l’attesa della sformatura del getto, che si trasformò in una moderata soddisfazione quando egli si rese conto della sostanziale riuscita della fusione, che avrebbe richiesto, però, alcuni mesi di lavoro per la finitura: dal mese di luglio, questa si protrasse infatti fino al febbraio del 1508, quando la statua fu installata nella facciata della chiesa di S. Petronio a Bologna (Il carteggio…, cit., pp. 20-56). Com’è noto, quando i Bentivoglio, nel 1511, s’impossessarono nuovamente della città distrussero la statua, che venne inviata all’arsenale di Ferrara dove Alfonso I d’Este (1476-1534), il ‘duca artigliere’, ne riutilizzò il bronzo per fondere una colubrina che, vista la provenienza della lega, fu denominata Giulia (Locatelli 1985, p. 38).
Diversa la sorte del Perseo, ancora oggi collocato nella Loggia dei Lanzi in piazza della Signoria a Firenze. Le soluzioni adottate per la fusione e le difficoltà incontrate nel realizzarla sono raccontate ampiamente da Cellini sia nell’autobiografia (Vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze, scritta tra il 1558 e il 1566, ma pubblicata per la prima volta solo nel 1728) sia nel Trattato sulla scultura (pubblicato nel 1568, insieme al Trattato sull’oreficeria, con il titolo Due trattati: uno intorno alle otto principali arti dell’oreficeria: l’altro in materia dell’arte della scultura […]). Dal Trattato sulla scultura apprendiamo che, durante l’elaborazione del modello, egli prese in considerazione l’idea di fondere la statua mediante il metodo indiretto, ma che poi, trovando questa tecnica troppo laboriosa, optò per il metodo tradizionale, quello a cera persa diretto. Il racconto della fusione ruota intorno agli imprevisti occorsi alla fornace che, durante la colata, si fessurò pericolosamente, causando il raffreddamento del bronzo. Cellini, in maniera molto enfatica, racconta che la solidificazione della lega dipese dall’incompetenza dei suoi aiutanti e che il disastro fu evitato grazie al suo intervento provvidenziale. Egli, infatti, fece alimentare il forno con nuova legna e sciolse nel bagno di fusione piatti e vasellame di peltro i quali, abbassando il punto di fusione, permisero alla lega di recuperare la fluidità necessaria per terminare la colata (Trattato della scultura, in La vita. I trattati. I discorsi, introduzione e note di P. Scarpellini, 1967, 1987, pp. 534-36).
Le opere di Cellini, insieme al De la pirotechnia e all’introduzione alle tecniche artistiche posta da Vasari all’inizio di Le vite, costituiscono una delle principali fonti per le tecniche di fusione cinquecentesche. Nel Trattato sulla scultura, oltre alle vicende relative alla fusione del Perseo, sono molto interessanti i ricordi sulle esperienze fusorie di Fontainebleau, realizzate su committenza di Francesco I, e in particolare il metodo per fondere i Colossi (p. 553), che ripropone essenzialmente la tecnica del calco a tasselli e un sistema di moltiplicazione e proiezione delle dimensioni simili a quelli che troviamo anche in Leonardo.
Se escludiamo La vita, che contiene anche informazioni importanti sulle tecniche di lavorazione dei metalli, ma che venne scritta con finalità diverse da quelle pedagogiche e comunicative proprie dei compendi per addetti ai lavori, il capolavoro di Cellini è certamente il citato Trattato sull’oreficeria, che costituisce la fonte più dettagliata sulle tecniche orafe del Cinquecento, descritte direttamente da uno dei principali artisti dell’epoca. L’opera passa in rassegna le tecniche di lavorazione e decorazione a niello, a smalto e a filo, nonché le tecniche di saldatura, intaglio e montaggio delle pietre dure che vengono tutte descritte ricordando l’esecuzione di lavori celebri di Cellini, come la famosa saliera oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna, della cui realizzazione vengono raccontati alcuni particolari (Trattato dell’oreficeria, in La vita…, cit., pp. 479-80).
Nascita della letteratura chimico-metallurgica
Lo sviluppo delle tecniche metallurgiche e minerarie dipese in primo luogo dal consolidamento di pratiche analitiche e di affinamento che erano nate durante il Medioevo nel contesto dei laboratori alchemico-metallurgici. Le sperimentazioni degli alchimisti, finalizzate alla trasmutazione dei metalli vili in oro e alla produzione dell’elisir, svolsero un ruolo importante nello sviluppo delle arti dei metalli. Se da un lato, infatti, il dibattito sull’alchimia si radicalizzò intorno a problemi di carattere epistemologico (quaestio de alchimia), sul piano della ricerca empirica furono sviluppati specifici apparati (come i forni, gli alambicchi per la distillazione ecc.) e tecniche per affinare e saggiare la qualità dei metalli.
Le città dei distretti minerari dell’Europa centrale (come Schwaz e Innsbruck in Tirolo o Chemnitz in Sassonia) erano centri vitali di scambio culturale perché vi si incrociavano le esperienze di medici, artigiani, alchimisti, imprenditori e funzionari tecnici come i bergmeinster, che avevano un ruolo centrale nella gestione delle miniere e delle attività metallurgiche. Proprio a un bergmeinster, Ulrich Rülein di Calw (latinizzato in Calbus Fribergius, 1465-1523), è attribuito Ein nutzlich bergbuchleyn (meglio noto come Bergbüchlein), il primo trattato dedicato alla geologia mineraria, pubblicato per la prima volta nel 1505. Nel 1520 fu stampato il Probierbüchlein, il primo libretto (di autore anonimo) dedicato al saggio dei metalli (se ne veda la trad. inglese in Bergwerk- und Probierbüchlein, 1949). Nello stesso periodo uscirono i cosiddetti Kunstbüchlein, tra i quali il primo manuale di siderurgia, Von Sthael und Eysen. Si trattava di opere scritte in tedesco che ebbero un notevole successo tra gli addetti ai lavori e furono ristampate varie volte durante la prima metà del 16° secolo. In questa nascente corrente letteraria si inseriscono anche le opere del medico naturalista tedesco Georg Bauer, meglio noto con il nome latinizzato di Giorgio Agricola (1494-1555), il quale nel 1530, con il dialogo in latino sui minerali Bermannus, iniziò una serie di pubblicazioni di mineralogia e geologia che culminò nel 1556 con il De re metallica, un trattato in latino sull’arte dei metalli, poi tradotto in tedesco e in italiano (Opera di Giorgio Agricola de l’arte de metalli, 1563). Il De re metallica ebbe diffusione e influenza anche in ambienti culturali diversi dai cantieri minerari e rimase la principale opera di riferimento per gli studi di metallurgia fino al 18° secolo.
Sulla scia del successo editoriale di questa tradizione letteraria, al termine della sua carriera professionale Biringuccio cercò di compendiare le sue conoscenze e le sue esperienze in un trattato, il più volte citato De la pirotechnia, che fu stampato postumo a Venezia nel 1540 per iniziativa dell’editore Curtio Troiano Navò. L’opera costituisce un passaggio fondamentale nella storia della metallurgia e più in generale della chimica, e può essere vista come vero e proprio atto fondativo di una nuova disciplina, nella quale vengono riunite tutte le arti che si occupano di manipolazione della materia per mezzo del fuoco (da qui il suo titolo). L’aspetto più importante di questo tentativo, che differenzia l’opera di Biringuccio dalla tradizione precedente di ricettari e pratiche metallurgiche, consiste principalmente nel considerare le arti del fuoco all’interno di una teoria generale della materia nella quale i metalli vengono presentati sia dal punto di vista naturalistico sia da quello tecnologico. La pubblicazione del De la pirotechnia assume quindi una forte valenza epistemologica, sia perché il pensiero e l’esperienza di un tecnico in merito a questioni filosofico-scientifiche trovano per la prima volta ampia circolazione in un’opera a stampa, sia perché in essa si propone una visione della conoscenza che prende le distanze dalla tradizione alchimistica e dall’approccio speculativo alla natura proprio della tradizione filosofica scolastica, per proporre un’idea di conoscenza fondata sulla prospettiva epistemologica degli addetti ai lavori, i quali, almeno in parte, nella prima metà del Cinquecento non erano più semplici operatori, ma costituivano una categoria culturale e sociale autonoma.
Teoria dei metalli e chimica del fuoco nel De la pirotechnia
L’opera si compone di dieci libri: i primi due costituiscono la parte naturalistica, dedicata ai minerali e ai metalli, mentre i rimanenti otto sono dedicati alle varie arti del fuoco, in modo particolare agli strumenti e alle tecniche per le fusioni in bronzo.
La classificazione dei minerali delineata da Biringuccio ripropone essenzialmente quella presentata da Alberto Magno nel 13° sec. con il suo De mineralibus, che divide il regno minerale in minerali, mezzi minerali e metalli. Classificazione che riflette l’incertezza delle conoscenze minerali e metallurgiche del periodo rinascimentale. La categoria dei mezzi minerali, infatti, era stata introdotta per classificare quelle sostanze che apparentemente mostravano proprietà caratteristiche sia dei metalli sia delle pietre e rifletteva, inoltre, un’idea mineralogica di tipo embriologico, sviluppata nell’ambito della tradizione alchemica, per la quale i metalli erano visti come il risultato finale di un lungo processo di metallificazione che avveniva nelle viscere della Terra. Il carattere ibrido della categoria dei mezzi minerali permetteva di trovare una collocazione anche a sostanze ‘equivoche’ come il vetro e il mercurio. Il vetro era, infatti, una sostanza artificiale (non presente in natura) che mostrava alcune proprietà dei metalli, come la fusibilità e la lavorabilità a caldo, ma anche la trasparenza delle pietre preziose e la fragilità di quelle comuni. Il mercurio, invece, aveva tutte le caratteristiche del metallo tranne la solidità, e per questo motivo era considerato una sostanza in via di metallificazione che, nella gerarchia minerale, si trovava immediatamente al di sotto del metallo più ‘umile’, generalmente identificato con il piombo o con lo stagno (Bernardoni 2011, pp. 111-14).
I metalli, invece, erano considerati sostanze omogenee, create dalla natura in particolari condizioni chimico-fisiche che favorivano la mistione dei quattro elementi e la loro disposizione in forma corpuscolare. Biringuccio aderiva a una visione del mondo minerale di carattere embriologico, prendendo, però, le distanze dalle tradizioni alchemiche e filosofiche a partire dalle quali questa spiegazione si era affermata. Per l’ingegnere senese, i metalli crescono nelle viscere della Terra attraverso un processo di maturazione che si manifesta con la progressiva organizzazione dei corpuscoli elementari attraverso una serie di gradi. Tutte le sostanze minerali e metalliche che si formano in questo processo sono definite dalla propria forma sostanziale; questa, però, per Biringuccio non dev’essere intesa nel tradizionale significato di essenza, ma nel senso di struttura e di ordine geometrico, riferito al numero e alla modalità di organizzazione delle particelle elementari che costituiscono la sostanza in questione. Un’idea di forma sostanziale che era nata, nel contesto dell’aristotelismo padovano, dalle opere del filosofo Agostino Nifo (1469/70-1539/46; Bernardoni 2011, pp. 77-78).
Per Biringuccio, ogni sostanza minerale è il risultato di una complessione fisica nella quale gli elementi costituenti la sostanza metallica si dispongono in un preciso ordine che ne determina l’essenza e il grado di imperfezione rispetto all’oro, il quale costituisce il vertice delle sostanze minerali, essendo il metallo con l’organizzazione particellare interna più equilibrata.
Biringuccio non perviene a nessuna definizione generale di metallo, ma da una lettura della sua opera emerge chiaramente l’idea che queste sostanze naturali esistono sotto forma di particelle, a loro volta costituite dai quattro elementi naturali (terra, acqua, aria, fuoco), i quali vengono quindi ad assumere una dimensione subparticellare, organizzata in una determinata struttura. La descrizione dell’oro data da Biringuccio chiarisce più di ogni altra cosa la sua concezione di metallo:
Ve dico che le sue originali e proprie materie, altro non sonno che sustantie elementali con equali quantità e qualità, l’una all’altra proportionate, e suttilisimamente purificate; per il che congionte insieme, essendo di fortie pari, ne nasce una amicabile e perfettissima mistione. Et inde appresso la fermentaione e decotione, et al fin si fan fisse e permanenti e di tale unione congionte che quasi sonno inseparabili; tal che da la virtù del cielo, o dal tempo, oppur dall’ordine della sapientissima natura, o da tutti insieme, si converteno tal sostantie in questo corpo metallicho chiamato oro (De la pirotechnia, cit., f. 1r).
Tra i metalli, l’oro è l’unico con una struttura corpuscolare bilanciata, cioè determinata dai medesimi gradi di quantità e qualità, e per questo resta inalterabile quando sottoposto a manipolazioni metallurgiche. Ogni altro metallo trova la sua specificità in un determinato grado di squilibrio della struttura subparticellare: un eccesso o un difetto di queste subparticelle elementari determina uno squilibrio nella struttura, che provoca a sua volta alterazioni sensibili, come l’ossidazione e la tendenza a legarsi con altre sostanze. La definizione dell’oro elaborata nel De la pirotechnia è il risultato di alcune osservazioni di carattere tecnologico, come l’inalterabilità della lucentezza dell’oro e la sua capacità di resistere al trattamento di calcinazione. La causa di questa stabilità chimico-fisica è attribuita da Biringuccio all’estrema compattezza della struttura corpuscolare, determinata dalle ridotte dimensioni delle particelle elementari, che impedisce al fuoco di penetrare all’interno dell’oro per alterarne i legami.
La figura di Biringuccio viene a rivestire un ruolo chiave nella storia della metallurgia e della scienza chimica in generale, perché la sua concezione di metallo può essere vista come il punto di convergenza delle varie tradizioni medievali e rinascimentali che avevano affrontato il problema dei metalli e delle loro trasformazioni: le concezioni organicistiche di matrice alchemica, che consideravano i metalli alla stregua di organismi biologici; la mineralogia di Alberto Magno, che cercava di conciliare le tradizioni aristotelica, platonica e alchemica; il corpuscolarismo presentato nella Summa perfectionis magisterii (1300 ca.) dello Pseudo-Geber e sviluppato anche nella tradizione dei tecnici; infine, il nuovo concetto di forma sostanziale introdotto da Nifo nella tradizione aristotelica padovana, che considerava l’essenza dei metalli come ordine e struttura delle subparticelle interne (Bernardoni 2011, pp. 71-114).
Il De la pirotechnia è però, in primo luogo, un trattato tecnico, ed è nelle tecniche di lavorazione dei metalli che dobbiamo cercare i suoi principali contributi alla storia della metallurgia. Una sezione importante dell’opera è, infatti, quella dedicata alle tecniche di fusione, verso le quali essa mostra un approccio che potremmo definire di carattere industriale. L’intero libro settimo è dedicato agli impianti per la fusione, e benché questi fossero apparati ormai consolidati e diffusi a livello europeo, la trattazione di Biringuccio è la prima che affronta queste tecnologie in maniera sistematica, descrivendo per ogni modello i materiali, la tecnica costruttiva e le modalità d’uso. Se escludiamo il forno a muffola per le operazioni di saggiatura, che troviamo descritto anche nel Probierbüchlein (cfr. Bergwerk- und Probierbüchlein, cit., pp. 94-96), il De la pirotechnia è la prima opera a stampa nella quale gli apparati chimico-metallurgici, come forni e alambicchi, vengono esposti con finalità pedagogico-divulgative. Particolarmente interessante è il capitolo sulle soffierie metallurgiche, nel quale vengono descritti cinque cinematismi ad azionamento manuale (quattro a leva e uno azionato da ruota calcatoria) e due modelli con motore idraulico, uno con dispositivo di trasformazione del moto a camme e l’altro a manovella, integrabili per formare postazioni di lavoro multiple.
Arti del fuoco e letteratura sui metalli tra 16° e 17° secolo
Il De la pirotechnia ebbe una notevole influenza sull’editoria italiana, aprendo una tradizione di pubblicazioni di carattere tecnico-pratico dedicate alle arti chimiche che si sviluppò principalmente in Veneto, ma che ebbe il suo culmine con la pubblicazione di Dell’arte vetraria di Antonio Neri, avvenuta a Firenze nel 1612.
Prima della fine del 16° sec., il De la pirotechnia fu oggetto di quattro edizioni italiane (1540, 1550 e due nel 1559) e due francesi (1572 e 1576). Sembra, inoltre, che sia stata realizzata una traduzione latina a Colonia nel 1658, della quale non abbiamo però nessuna informazione se non un riferimento bibliografico nel trattato Le anciens minéralogistes du royaume de France (1799) di Nicolas Gobet.
Tra il 16° e il 17° sec., il De la pirotechnia fu oggetto di numerosi riferimenti da parte di importanti autori della tradizione sia filosofico-scientifica sia tecnica, come Agricola, Cipriano Piccolpasso, Benedetto Varchi, Girolamo Cardano, Pietro Andrea Mattioli, Ferrante Imperato e Robert Hooke (Bernardoni 2011, pp. XV-XVII).
Nel 1678 uscì a Bologna la Pratica minerale del marchese Marco Antonio della Fratta e Montalbano, nella quale, cercando di emulare il De re metallica, l’autore compendiò le conoscenze acquisite nella sua lunga carriera di ingegnere minerario, maturata anche nei cantieri polacchi, moldavi, ungheresi e croati. L’opera offre una trattazione generale sulle pratiche minerarie e metallurgiche in uso alla metà del 17° sec.; elemento degno di nota, vi si descrive (p. 46) un dispositivo meccanico per il drenaggio delle acque dalle gallerie minerarie che l’autore dichiara essere di sua invenzione, ma che sviluppa un principio di funzionamento già illustrato nel De re metallica. Si tratta di un’imponente macchina, costituita da ben otto viti di Archimede montate su due livelli e azionate da un’unica giostra di animali posta in alto. Della Fratta si sbilancia anche (p. 121) in un giudizio negativo su Biringuccio, accusandolo di usare nella sua opera fonti di seconda mano e di mettere insieme conoscenza pratica e conoscenza speculativa non verificata. Sebbene sintetico e sbrigativo, questo giudizio sull’opera di Biringuccio costituisce una testimonianza importante su come, a quasi un secolo e mezzo dalla sua pubblicazione, il De la pirotechnia venisse ancora consultato non solo come manuale sulle tecniche di metallurgia, ma anche come trattato di mineralogia; l’attualità dell’opera è confermata da una sua riedizione uscita a Bologna proprio in quello stesso 1678 in cui veniva pubblicata la Pratica minerale.
Degno di nota è anche il lavoro di Michele Mercati (1541-1593), medico e dal 1571 custode a Roma del cosiddetto orto vaticano dei semplici (Simpliciarius Pontificius Vaticanus). Oltre a raccogliere una notevole collezione di minerali, fu autore di un trattato sui metalli (scritto negli anni Settanta e Ottanta del Cinquecento, ma pubblicato solo nel 1717-1719, con il titolo di Metallotheca Vaticana: opus posthumum), che nelle sue intenzioni doveva rappresentare la risposta italiana al De re metallica. L’opera intendeva essere il catalogo della metalloteca di Mercati, ma rimase incompiuta perché poté dare conto soltanto di nove dei diciannove armadi in cui erano contenuti i campioni di minerali. Ogni specie era descritta riportandone le proprietà fisiche, l’impiego e il luogo di provenienza. Mercati fa riferimento ai principali autori classici e moderni, ma rimane sostanzialmente fedele alla tradizione aristotelica, che considerava i minerali frutto di un processo di condensazione delle fumosità attive nelle viscere terrestri e riteneva che i fossili fossero delle pietre. La Metallotheca si ricorda oggi principalmente per il grosso sforzo classificatorio fatto dall’autore (Andreatta 2009).
Un’altra tradizione letteraria importante per la storia dell’uso e della lavorazione dei metalli, anch’essa sviluppatasi a partire dal 16° sec., è quella dei trattati militari, molti dei quali, specialmente per quanto riguarda la produzione e l’uso delle artiglierie, subirono l’influenza del De la pirotechnia, che godette di particolare fortuna anche in questo contesto culturale, sia nel 16° sec. sia in quello successivo. Un primo esempio di questa influenza si ha nel trattato Della architettura militare dell’ingegnere militare Francesco de Marchi (1504-1576) pubblicato postumo nel 1599. De Marchi aveva partecipato alla difesa di Firenze durante l’assedio imperiale del 1530, e probabilmente conobbe di persona Biringuccio quando questi era impegnato nella fusione di pezzi di artiglieria per la Repubblica. Di sicuro ne conosceva il trattato, dal quale attinse molte informazioni sulle tecniche di fusione per le artiglierie.
Interessanti simmetrie emergono anche in tre trattati sulle artiglierie scritti nel primo trentennio del 17° sec., due in spagnolo e uno in inglese: la Encyclopaedia de fundicion de artilleria y su platica manual di Diego de Prado y Tovar (o Tobar), scritta nel 1603 ma rimasta inedita, il Discurso […] en que trata de la artilleria, y de todo lo necessario à ella di Cristóbal Lechuga, edito a Milano nel 1611, e il Gunner shewing the whole practice of artillery di Robert Norton, edito a Londra nel 1628.
Il tema delle artiglierie è ampiamente trattato anche ne L’artiglieria di Pietro Sardi, pubblicato a Venezia nel 1621. L’autore offre un’accurata descrizione di tutti i pezzi di artiglieria allora conosciuti, riportando per ognuno i criteri di dimensionamento. Ampio spazio dedica anche al problema della fusione, ma, dopo un’introduzione generale sulla natura dei vari metalli e sulle leghe da impiegare nella colata, omette ogni riferimento alla tecnica di fusione, per passare a parlare direttamente dei problemi che possono essere provocati nei pezzi di artiglieria dai difetti di fusione (pp. 46-50). L’omissione di una descrizione della tecnica di fusione è molto curiosa perché, se da un lato possiamo pensare a un atteggiamento di tipo ‘protezionistico’, dall’altro resta vero che nelle sue linee generali la tecnologia di fusione delle artiglierie era ormai ampiamente standardizzata e diffusa a livello europeo sin dagli inizi del 16° sec., e da circa un secolo circolava anche attraverso opere a stampa.
Il Cinquecento costituisce l’apice della tradizione artistico-ingegneristica italiana che, prendendo in prestito le parole di Cellini, riferite a quella Firenze degli inizi del secolo che vide all’opera contemporaneamente Leonardo e Michelangelo, può essere definita la «scuola del mondo» (Vita di Benvenuto […], in La vita…, cit., p. 19). Il secolo successivo, pur essendo anch’esso importantissimo per i progressi che ci furono nelle scienze fisiche e naturali in genere, vide il progressivo spostamento verso il Nord Europa del centro di sviluppo dell’ingegneria e della tecnologia in genere, un progresso che nel 18° sec. portò alla prima rivoluzione industriale, nella quale la metallurgia e l’industria siderurgica giocarono un ruolo centrale. Una rivoluzione che ebbe le sue conseguenze anche in Italia, benché la nostra penisola non svolgesse più oramai il ruolo di Paese trainante nello sviluppo tecnologico.
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