DE VECCHI, Cesare Maria
Nacque a Casale Monferrato (Alessandria) il 14 nov. 1884 da Luigi e da Teodolinda Buzzoni, in una famiglia di buona borghesia ligia alle tradizioni patriottiche e dinastiche. Il padre aveva esercitato la professione di notaio e dopo una notevole eredità si era dedicato all'agricoltura. A diciassette anni il D. aveva frequentato per pochi mesi l'Accademia navale di Livorno: non reggendo alla disciplina, si era iscritto a giurisprudenza, laureandosi nel 1906 all'università di Torino. Poco dopo (1907) si sposò con Onorina Buggino, figlia di un maggiore di artiglieria. Intanto faceva pratica legale, a Novara, nello studio dell'avvocato Zaccheo, sindaco di tendenze clerico-moderate e legale della curia vescovile. Esercitò quindi l'attività forense a Torino, dove si trasferì con la famiglia ed aprì uno studio in pieno centro.
Erano gli anni in cui, grazie ai suoi svaghi di integrato professionista benpensante (praticava lo sport, dipingeva e pubblicò una raccolta di versi intitolata Primavera) divenne segretario della Società promotrice di belle arti. Di questo periodo è anche una commedia in versi, Le Reginotte; inoltre prese una seconda laurea in lettere e filosofia.
Durante il periodo della neutralità italiana, divenne sottotenente di artiglieria. Alla guerra partecipò, in varie specialità fra cui bombardieri e arditi, fino al 1918, e ne uscì con alcune medaglie al valore e col grado di capitano.
Soprattutto si distinse, nell'ottobre del 1918, nella Val Cismon, zona del Grappa: con un piccolo nucleo di arditi - avendo abbandonato e lasciato indietro il suo reparto - contribuì allo sbandamento e sfondamento delle truppe avversarie, ormai sul piede della ritirata, combattendo corpo a corpo nelle ultime azioni belliche. Per questo episodio fu proposto per la medaglia d'oro; ma la pratica, nel dicembre 1922, quando era divenuto sottosegretario all'Assistenza militare e alle Pensioni, fu bloccata da A. Diaz, allora ministro della Guerra. Quasi a risarcirlo del mancato riconoscimento, Vittorio Emanuele III gli conferì il 3 luglio 1925 iltitolo non trasmissibile di conte di Val Cismon. Con l'ex combattente veniva premiato anche il fedele sostenitore della dinastia.
Il D. cominciò ad acquistare qualche notorietà politica aderendo nell'aprile 1919 al Fascio di combattimento. Nella sua ascesa politica conteranno i meriti di guerra e quelli di squadrista.
"Che io fossi cattolico militante e monarchico senza riserve, ha scritto in un libro di memorie postumo, Il quadrumviro scomodo..., non era un mistero, ma poteva sembrare invece senza spiegazione la mia partecipazione a un organismo politico che si professava anticlericale e antimonarchico". Nel fascio torinese, di cui fu presidente, introdusse una tendenza di destra (in contrasto con Mario Gioda, ex anarchico e corrispondente del Popolo d'Italia) e un tentativo di raccordo non sempre lineare con le destre economica e militare della regione, e per questo venne indicato, insieme con E. De Bono, ma con caratteri più marcati, fra i "fascisti conservatori" (J. De Grand). P. Gobetti annotava, nel 1923, come il D. non rappresentasse che "una generica tendenza verso il patriottismo e la monarchia e non godesse affatto l'incondizionata fiducia degli industriali per quanto egli tendesse a far valere la sua propaganda antisovversiva". Il Volpe rilevava la sua ascendenza o vocazione nazionalistica e sottolineò "la presenza, nei fasci, di Cesare De Vecchi, tutto vecchio Piemonte, tutto Monarchia, tutto "Re e Patria"".
Come piemontese fu, e si sentì, più fascista che mussoliniano. Nella crisi dell'ottobre 1922, questa sua tendenza venne particolarmente in chiaro, essendo radicata in una certa tradizione retorica e provinciale di taluni gruppi più spiccatamente patriottici del ceto medio; anche in seguito non abbandonò le sue posizioni, insistendo alquanto grezzamente e rudemente, come era nel suo carattere, su una sorta di fascismo regio e cattolico, ligio alle istituzioni dello Stato.
In un tentativo di spiegazione avuto con Mussolini nel 1919 si era sentito rispondere: "resta tranquillo nei Fasci e conserva pure le tue idee che nessuno toccherà e tanto meno cercherà di farti cambiare". Al primo congresso nazionale dell'organizzazione, tenuto a Firenze nell'ottobre, il D. cercò di controbilanciare la sinistra futurista e sindacalista e il medesimo atteggiamento tenne a Torino. Qui, alle elezioni del 16 novembre, essendo candidato del Blocco della Vittoria, a base combattentistica, raccolse 23.806 suffragi, una delle votazioni più alte in assoluto dei Fasci, ma non fu eletto. Dal dicembre 1919 fino a poco dopo il congresso di Milano del maggio 1920, che avviò una svolta a destra del movimento, il D. si tenne "in disparte" da ogni responsabilità direttiva, ma contemporaneamente tenne la presidenza degli ex combattenti. Riprese il suo posto in un difficile equilibrio fra i vari gruppi interni al fascio e nei confronti degli industriali torinesi, i quali avevano dato vita a organizzazioni di difesa più o meno autonome. La direzione del D. sul fascio cominciò a farsi sentire soprattutto dopo l'occupazione delle fabbriche.
Con intuizione forse più militare e sociale che politica, il D. aveva apprezzato la condotta di G. Giolitti nei confronti della massa degli operai occupanti; ma immediatamente dopo poté raccogliere i frutti di quella condotta e riuscì ad inserire il fascio riunificato nella complessa scacchiera degli interessi economici torinesi. Fra la Lega industriale e il fascio si registravano rapporti di condizionamento reciproco, non senza qualche scontro tattico, in quanto la prima non rinunciava a una difesa e rappresentanza politica indipendente, mentre il D. oscillava di volta in volta fra l'inserimento del fascio nel gioco, la pressione di piazza, e l'utilizzo di congrue sovvenzioni dagli industriali. A una relativa, ma organica convergenza fra le due parti si giunse intorno alla primavera del 1921, in concomitanza con le elezioni politiche anticipate convocate da Giolitti. Il punto di convergenza riguardava essenzialmente la "lotta antibolscevica". Il D. e la destra fascista torinese erano forse più vicini agli ambienti dinastico-militari della città-capitale dei Savoia e del Risorgimento, agli strati della piccola e media borghesia che covava la riscossa antiproletaria o alla Banca centrale del piccolo credito di Torino, che non a G. Agnelli e alla Fiat, con cui pur dovevano trattare. Ma l'acculturazione del fascismo in una città come Torino, sede di un originale movimento operaio d'avanguardia e di una illustre tradizione liberale, era un compito superiore alla tenacia del D. ed alla sua scarsa duttilità e vocazione politica.
Nell'ambito della campagna elettorale del 1921, la Lega industriale su uno stanziamento totale di 108.000 lire per "contributi ad associazioni" ne stanziò 21.000 per il fascio, mentre una somma analoga andò al sindacato fascista dei ferrovieri. Alle elezioni il successo del fascio torinese fu considerevole: conseguì due posti (come gli industriali, i nazionalisti e i liberali giolittiani), che andarono a Massimo Rocca e al D. (nelle amministrative del novembre 1920 la lista del Tricolore era riuscita ad eguagliare, anzi a superare di poco le Sinistre). Il D. riscosse in città la votazione più alta. I risultati elettorali sanzionarono così l'effettivo "connubio fra "resistenza" industriale, che aveva sperimentato i suoi modelli di intervento nelle fabbriche, e repressione fascista che alla piazza aveva guardato come sua prima palestra" (V. Castronovo).
La riuscita personale del D. era probabilmente connessa anche con le sue gesta squadristiche organizzate fuori città e su scala regionale, da Alessandria a Cuneo e alla Valle d'Aosta, per la promozione dei fasci. Nel corso di una spedizione a Casale Monferrato, che aveva dato luogo a una vera e propria "battaglia cittadina", era stato ferito abbastanza gravemente; e proprio per questo episodio fu decorato di medaglia di bronzo al valore civile, con motivazione del 27 ott. 1922.
In parallelo con i primi successi, in parte dovuti al mutamento del clima politico del paese, si venne accentuando o evidenziando, nel D., una forma di autoritarismo militaresco, le cui manifestazioni apparivano quasi sempre collegate alla rigidità con la quale veniva concependo i rapporti sociali e quindi la disciplina dei cittadini. Lo stesso movimento fascista era inteso, in primo luogo, in senso repressivo e restauratore. In accordo con le correnti nazionaliste e di destra, all'inizio della legislatura, il D. operò in modo di rimuovere e scalzare l'orientamento di Mussolini contrario alla partecipazione del gruppo parlamentare fascista alla seduta reale; ma contemporaneamente venne riaprendo a Torino il conflitto con Gioda e la "sinistra".
La collocazione del D. nel fascismo torinese - alla sommità di uno dei vertici del triangolo industriale e in posizione di cerniera con la tradizione sabauda - divenne relativamente più consistente con gli eventi del 1922. Su scala regionale, raccolse il frutto di un'opera organizzativa già molecolarmente avviata un po' in tutte le province subalpine. Prendendo a pretesto un sanguinoso incidente, nel luglio 1922, con operazioni squadristiche combinate riuscì nel corso di una settimana di fuoco a smantellare le posizioni che ancora resistevano nella provincia di Novara. Il D. era a capo di un Comitato segreto d'azione, composto di sei esponenti fascisti del luogo, e respinse ogni tentativo di mediazione o transizione. All'atto della "smobilitazione" delle squadre da lui comandate, si contavano una cinquantina di sedi di istituzioni popolari distrutte e quaranta amministrazioni comunali assaltate. L'impresa era stata funestata da 8 morti e 25 feriti di parte "antifascista" (più "un numero rilevante di bastonati, alcuni dei quali non lievi, che non ricorsero alla medicazione"), 3 morti e oltre 15 feriti di parte fascista (C. Bermani).
Membro del Comitato centrale (1920) e del gruppo parlamentare (1921), il capitano D. continuava ad acquistare influenza nel novero dei più noti esponenti del fascismo. Dopo il congresso di Roma nel novembre 1921, che vide la trasformazione del movimento in partito, tracciò la parte di "politica militare" del nuovo programma. Alla sua pressione e a quella di C. Ciano si deve, all'inizio del 1922, se Giovanni Amendola, già designato da L. Facta, non andò alla Guerra ma solo alle Colonie.
In questi frangenti il D. si comportò come un partigiano convinto dell'ordine costituito, fino ad arrogarsi una sorta di primato nel vigilare sulla condotta del movimento. Mussolini gli sembrava roso dal "tarlo della rivoluzione". La sua devozione istituzionale riguardava quasi soltanto i consacrati poteri regi. Il 9 nov. 1921 aveva concesso all'Ideanazionale un'intervista in cui, precorrendo i tempi e passando sopra le peculiarità del fascismo mussoliniano, aveva auspicato la "fusione di tutte le forze nazionali" e si era dichiarato tributario del "pensiero" nazionalista, contrapponendogli solo l'azione "trascinante" dei fasci. Ordinando la smobilitazione delle squadre dopo la "battaglia di Novara", le aveva chiamate "guardie d'Italia". Un atteggiamento di lealtà verso la dinastia e Vittorio Emanuele III tenne nelle giornate d'ottobre, in cui ascese definitivamente sulla scena nazionale come comprimario dei maggiori capi del fascismo. Nell'imminenza della crisi politica e del connesso disegno insurrezionale di Mussolini, il Comitato centrale dei fasci, riunito a Milano il 13 agosto, aveva nominato il D. con I. Balbo e De Bono nel comando generale della milizia. Balbo vi rappresentava le forze squadriste legate alla centrale politica milanese; il generale De Bono, ultimo arrivato, offriva la necessaria copertura e capacità operativa, derivata dall'esercito. Il D., in un certo senso, era fra gli altri un borghese vestito da soldato, un monarchico "savoiardo" che dopo l'esperienza delle trincee, nello scontro di classe vissuto a Torino, si era acconciato alla camicia nera.
Con De Bono aveva redatto, a metà settembre, nel ritiro di Torre Pellice, i nuovi regolamenti di disciplina delle squadre d'azione. Con lui aveva compiuto un approccio importante, a Bordighera, il 18 ottobre, presso la regina madre, per trasmettere al re un particolare atto distensivo in nome dei fasci (in altre parole la milizia non si sarebbe battuta contro l'esercito). Con Ciano avrebbe condotto nella capitale, al momento della mobilitazione fascista, quei maneggi politici che miravano a un ministero Salandra od Orlando, mettendo in secondo piano Mussolini. Rievocando le motivazioni della sua condotta, il D. le interpreta come una scelta fra due unici poli: "Il programma che avevo in testa era chiaro e di semplicità elementare; lotta a oltranza contro i rossi e devozione incondizionata alle istituzioni e in particolare al Re che era il solo e vero rappresentante della Nazione". Il 16 ottobre a una riunione con i capi militari del movimento, presente Michele Bianchi, Mussolini aveva proposto che l'azione venisse guidata da un quadrumvirato: al comando della milizia (Balbo, De Bono e il D.) si aggiungeva M. Bianchi, nella sua qualità di segretario del partito. Il D. di fronte alla decisione insurrezionale del capo si era mostrato ostile, accampando l'impreparazione di parte fascista. Temendo evidentemente lo scontro con le forze lealiste, si limitò a rivendicare un rinvio di almeno un mese, ma anche in questo fu battuto. Fra il 26 e il 27 ottobre, dopo l'adunata di Napoli, il quadrumvirato entrò comunque in funzione, ma il D. si diede a sostenere apertamente una soluzione semiparlamentare, imperniata sulla Destra tradizionale (intervista alla Gazzettadel popolo del 28 ottobre).
Indirettamente questa "politica", difforme dalla linea seguita da Mussolini-Bianchi e C. Rossi, da un lato contribuì a tenere costantemente informato il sovrano sulle mosse dei fascisti, dall'altro accelerò i tempi della candidatura Salandra e, involontariamente, del suo fallimento; e contribuì a tenere aperto un ulteriore non previsto canale fra la Corona e lo stato maggiore operativo delle colonne fasciste, favorendo alla fine la soluzione Mussolini, che il D. aveva mostrato di non gradire. Da qui ebbe origine un contrasto con Mussolini (scambio di lettere del 18 e 19 dicembre), che rimase nel sottofondo dei rapporti fra i due uomini durante il periodo della dittatura.
Il D. affrontò la fase immediatamente posteriore alla presa del potere amareggiato di non aver ricevuto la responsabilità del ministero della Guerra, e con un atteggiamento da miles gloriosus ("re di complemento", secondo Mussolini) che lo isolò dagli altri gerarchi e ras del regime. I fatti gravissimi che ebbero luogo a Torino il 18 dicembre, nella notte fra il 18 e il 19 e ancora nella giornata del 20 - la "strage di Torino" - lo misero ancor più allo scoperto nella fiera lotta di gruppi che l'avvento al potere aveva scatenato nel seno del fascismo. Le squadre di tendenza devecchiana (il cui capo morale e politico era e rimase nella capitale) seminarono la città di una ventina di morti, barbaramente uccisi, in gran parte esponenti o militanti comunisti, procedettero alla distruzione di numerosi locali "sovversivi", al ferimento e alla bastonatura di parecchi operai e persino a una fucilazione simulata dei redattori e responsabili amministrativi dell'Ordine nuovo. La posizione del D. ne uscì indebolita, in quanto una commissione di inchiesta Gasti-Giunta e un memoriale della corrente capeggiata da Gioda ne impugnarono le responsabilità. Fra le rappresaglie squadristiche posteriori all'andata al governo, quelle di Torino, anche se apparentemente innescate da un episodio di violenza privata, ebbero un carattere spiccatamente di massa e politico-terroristico, consentendo ai fascisti quella affermazione di forza, manu militari, che in quattro anni di lotte di strada era risultata impossibile a differenza di ogni altra città.
In quanto fiduciario della direzione del partito fascista per il Piemonte il D. aveva assunto nel fascio del capoluogo pieni poteri e dall'agosto funzionava un direttorio a lui subordinato, mentre Piero Brandimarte era al comando delle squadre. Nei giorni successivi all'eccidio il quadrumviro prese apertamente posizione: "...ieri è stato necessario reagire, e mi prendo personalmente, benché fossi assente in quelle giornate, tutte le responsabilità morali e politiche di quanto è successo...". L'ideologia devecchiana tende ora a riassumersi nel verbo "purificare", che ricorre frequentemente, nel quadro dei conflitti interni o esterni al movimento e al governo fascista, oscillando fra un'esigenza di autodifesa del ras locale e una contradditoria "seconda ondata" squadrista e antioperaia. Il Gran Consiglio risolse la vertenza di Torino con un compromesso: scioglimento del fascio e sua ricostituzione ad opera dello stesso De Vecchi.
Nel 1923 questi finì col trovarsi implicato in un urto pressoché continuo con Mussolini. Sollevava molti e diversi problemi, più di quanti non ne risolvesse al suo modesto ruolo di sottosegretario alla Assistenza militare e le Pensioni di guerra. Sintomatico fu il suo contrasto con A. Diaz a proposito dell'immissione degli squadristi nell'esercito, che veniva a disturbare i più razionali disegni delle forze armate e della stessa leadership del fascismo. Già una pubblicazione uscita subito dopo il 28 ottobre aveva scritto: "Mussolini ha giuocato un brutto tiro a quest'uomo vulcanico, impastato di arditismo: lo ha mandato ... alle Pensioni" (C. Giachetti). Appena poté, dopo averlo spostato dall'Assistenza militare alle Finanze (8 marzo-1º sett. 1923) sempre come sottosegretario, Mussolini lo propose come governatore in colonia; e fu la volta della Somalia, dove rimase fino al 1928.
A Mogadiscio il D. fu il primo responsabile coloniale che cercò di introdurre oltremare una nuova politica, in qualche modo ispirata al fascismo. La sua opera di governo, specie per i metodi adottati, è molto controversa. Tuttavia uno studioso britannico ha potuto osservare: "Nell'ottobre 1923, un anno dopo la marcia su Roma, De Vecchi arrivò a Mogadiscio e si mise subito al lavoro per riorganizzare, o meglio organizzare, un sistema, alquanto confuso, di due protettorati e di una semi-colonia. De Vecchi deve essere stato più intelligente e più abile di quanto si pensava poiché per la fine del suo mandato aveva raggiunto tutti i suoi obiettivi" (A. Mockler). Secondo gli studi più recenti, "In Somalia il quadrumviro De Vecchi, governatore negli anni 1923-28, portò i metodi terroristici dello squadrismo fascista e liquidò il regime della "indirect rule" con i sultanati di Obbia e dei Migiurtini. De Vecchi, con la sua arroganza, la sua retorica provinciale, l'angusta visione dei problemi, fu il peggior rappresentante del fascismo tronfio e gratuitamente feroce in colonia" (L. Goglia). Appena sbarcato, avviò il disarmo delle cabile indigene e una politica di epurazione del vecchio apparato burocratico. Obiettivi principali furono l'unificazione e centralizzazione dei poteri in una unica colonia. Venne così avviata la formazione di un nuovo corpo di truppe indigene (i "dubat") inizialmente come "bande di confine" in luogo delle bande di cabila (1924). Anche con tali forze, e con l'ausilio di rinforzi dall'Eritrea e di unità navali, venne intrapresa la "campagna dei Sultanati", che si protrasse dal 1º ott. 1925 al 28 febbr. 1927. Nel corso delle operazioni il governatore dovette registrare alcuni gravi insuccessi tattici, in particolare a Bargal, dove gli Italiani il 28 ott. 1925 furono colti di sorpresa dalla resistenza dei Migiurtini, e il villaggio fu dato alle fiamme e completamente distrutto (6 novembre). Un altro scacco fu registrato per contraccolpo nel sultanato di Obbia, con la ribellione di Omar Samantar; la zona El Bur fu ripresa a stento e il capo ribelle fu incalzato fin oltre i confini dell'Ogaden. Ma alla fine, rientrando dal Somaliland britannico, lo stesso sultano della Migiurtina faceva atto di sottomissione (ottobre 1927).
L'opera del D. in Africa coincise, in buona parte, con la "pacificazione" e l'assoggettamento delle popolazioni indigene, ma giunse a spostare la frontiera somala con l'Etiopia fino alla "linea dei punti d'acqua" e a ipotizzare, una volta disarmata e presidiata la Migiurtina, un aperto regolamento di conti con Addis Abeba ("problema unico e principale: il conflitto con la forza militare etiopica"). Il D. si pone anzi alle origini - sia pure indirettamente e di seconda mano - del programma e del mito della "Grande Somalia", alla cui formula accennava nella relazione del 1926 per l'esercizio finanziario del 1927-1928. Più precisamente: "L'idea della Grande Somalia, che è già stata del Mullah e che poi verrà perfezionata dal nazionalismo somalo negli anni Cinquanta, si afferma in funzione anti-etiopica, anche grazie a De Vecchi e ai suoi successori" (A. Del Boca). In particolare il governatore fascista mirava all'Ogaden, ma la sua condotta sollevava qualche preoccupazione nel governo metropolitano. Nell'ambito più proprio della colonizzazione il quadrumviro sviluppava fra Genale e Merca un precedente progetto, in parte affidato a un Gruppo pionieri fascisti di Torino; e ai coloni armati ricorreva per spegnere nel sangue un nucleo di resistenza a sud della capitale, delineatosi quando la rivolta migiurtina sembrava contagiare anche il Benadir (28 ott. 1926). Nella repressione - testimonia il D. - trovarono la morte "più di duecento rivoltosi. Tutti, d'ordine del Governatore, erano stati passati per le armi". Per la prima volta la colonia entrava nell'ambito monetario italiano, e la lira sostituì la rupia indiana. La rete stradale venne triplicata anche in funzione militare, si costruirono un centinaio di km di ferrovia e si dette mano a un piano regolatore per Mogadiscio. Nel complesso i territori della Somalia - che si ingrandirono per la cessione dell'Oltregiuba da parte degli Inglesi - vennero unificati in una unica giurisdizione amministrativa, suddivisa in sette regioni (decreto dell'11 sett. 1926).
Rientrò in Italia nel 1928, dopo la visita in colonia del principe Umberto (la sua sostituzione formale come governatore è del 5 giugno); il richiamo in patria non significò né riconoscimento né promozione, né cessò l'insofferenza di Mussolini verso di lui: il suo modo di gestire gli affari coloniali aveva sollevato non poche riserve.
Per alcuni mesi non fu che presidente della Cassa di risparmio di Torino. Pur nel "comando" in colonia, era venuto collezionando tutta una serie di cariche e onorificenze, che in prosieguo di tempo ne avrebbero fatto il gerarca più insignito di titoli. L'Albod'oro del fascismo, pubblicato nel 1937, ne offre un elenco completo. Oltre alle sei medaglie al valore e al titolo nobiliare conferitogli dal re, quando fu a Mogadiscio Mussolini acconsentì a nominarlo senatore (1923) e poi ministro di Stato (1928). Per le operazioni in Somalia ricevette la croce di cavaliere dell'Ordine militare di Savoia. Era già cavaliere di gran croce decorato del gran cordone della Corona d'Italia, il 18 nov. 1923, e gran cordone dell'Ordine coloniale della Stella d'Italia, il 3 apr. 1925; divenne gran cordone dei Ss. Maurizio e Lazzaro, il 24 giugno 1929, e gran croce magistrale del Sovrano Ordine di Malta (E. Savino). Secondo la testimonianza di un ex squadrista, il D. non era che "uno sbruffone, pieno di sé, che ha avuto un mucchio di titoli" (G. Carcano).
Non a caso il D. tornò in auge, per le sue aderenze e le sue pressioni, nel clima della conciliazione fra Stato e Chiesa. Il 5 maggio 1929 fu relatore della commissione presieduta da L. Federzoni per l'indirizzo di risposta al discorso della Corona. Era già stato prescelto da Mussolini come ambasciatore d'Italia presso il Vaticano, incarico a cui fu nominato ai primi di giugno e che tenne per oltre cinque anni, fino al gennaio 1935. Per la diplomazia italiana fu una prima esperienza, contrassegnata all'inizio dalla polemica di entrambe le parti sulla ratifica e il significato degli accordi lateranensi e, nel 1931, dal conflitto sull'Azione cattolica e l'educazione della gioventù. Il D. seguì e sostenne la linea tracciata dal governo; in questo periodo fu molto vicino a Mussolini e personalmente operò per il superamento dei contrasti.
Pur non avendo particolari doti diplomatiche, riuscì ad espletare la sua missione con una certa efficacia, soprattutto grazie alla sincerità delle sue convinzioni. D'altra parte operò per rivendicare il suo ruolo di tramite ufficiale fra il regime e la Chiesa e per dare scacco al nunzio F. Borgongini Duca, che accusava di "doppio gioco" nei confronti dell'Italia. Uno studioso ha scritto che all'ambasciatore italiano "nella sua scaltra bonarietà ed invadenza un po' semplicistica, molto piaceva far da tramite diretto tra Mussolini e il papa, escludendo altri normali intermediari" (A. Martini). Nel luglio-agosto 1931 - forse profittando di un periodo di vacanza del D. -toccò però a padre P. Tacchi Venturi, come fiduciario diretto del pontefice, e personalmente a Mussolini spianare la strada a un compromesso conclusivo. Nel giudizio di quest'ultimo, trattandosi di situazioni particolarmente scabrose, il D. non aveva fatto male. Nei momenti dello scontro più violento, con espressioni forse da squadrista, certo non troppo da diplomatico - a dire di F. Borgongini Duca - aveva ammonito la controparte che "ora si passava alle misure e non era escluso che vi sarebbero state delle legnate". Ma aveva anche individuato in un regolamento esplicativo dell'art. 43 del concordato l'unica via d'uscita. L'11 febbr. 1932, superando le ultime difficoltà, riuscì a organizzare la visita di un recalcitrante Mussolini a Pio XI. Gli anni successivi furono di bonaccia. Una volta lasciato il Vaticano il papa gli conferì il collare dell'Ordine dello Sperone d'oro.
Nella capitale era tornato a coltivare i rapporti con Balbo, De Bono e Costanzo Ciano, una specie di nuovo quadrumvirato. Anche i rapporti con Torino e con Agnelli erano rientrati nell'argine. Nel gennaio 1935 Mussolini chiamò il D. al governo, affidandogli l'Educazione nazionale, che così veniva ad essere tenuta, per la prima volta, da un esponente puro e semplice del fascismo, anzi di un certo fascismo integrista e personalmente animato da spiccate velleità culturali. In un governo ordinato per preparare l'impresa etiopica, in cui Mussolini cumulava i ministeri degli Esteri, degli Interni, delle Colonie e della Guerra, al D. veniva assegnato il compito di approfondire ed estendere il processo di "fascistizzazione" della scuola, che era ormai all'ordine del giorno del regime e del paese. Come segno dei tempi viene citato il fatto che nel ministero - riorientato nel senso della "educazione nazionale" già da cinque anni - funzionava un unico sottosegretariato, retto da Renato Ricci capo dell'Opera nazionale Balilla, che sovraintendeva all'educazione fisica e giovanile. Il D. si trovò stretto da una serie di ambiguità proprie delle spinte generiche e diffuse verso una penetrazione più profonda del fascismo nelle scuole, e ora specialmente nell'istruzione superiore e universitaria. Unico referente la continua, accelerata e confusa formazione di una società di massa. Mancavano tuttavia elaborazioni ed esperienze più precise. Per l'occasione il quadrumviro ripescò dal suo vecchio armamentario, e mutuò da ambienti affini l'idea o il mito della "bonifica", e si lanciò nell'avventura. "Fino a De Vecchi, nessun ministro della Pubblica Istruzione o dell'Educazione Nazionale aveva osato indossare la "camicia nera" alla Minerva. Il quadrumviro interruppe questa tradizione" (M. Ostenc). Le resistenze e critiche più significative, ma perdenti, gli vennero dalle correnti e aggregazioni idealistiche, che qualificarono la sua opera come una vera e propria "furia controriformatrice".
La formula della "bonifica della cultura" e della scuola, indubbiamente adeguata a uno stadio di transizione, accusava debolezze preesistenti e limiti oggettivi. Il D. accentrò la sua attenzione sul riordinamento amministrativo del dicastero, nel senso dell'accentramento delle funzioni, e della sottolineatura dell'"unità di comando" del ministro al vertice dell'intero edificio, secondo idee e tendenze connaturate a tutta la sua precedente condotta. In altre parole, la sua opera di governo e legislativa veniva a coincidere con una concezione e una prassi autoritarie. Ma si trattava di un autoritarismo fortemente personalizzato, intriso degli umori del gerarca, di spiriti il più delle volte partigiani e di un ineliminabile fondo di incultura. Per di più, poiché indubbi passi avanti erano stati compiuti in precedenza negli altri ordini di scuola, buona parte dell'impegno del D. si orientò proprio nel settore universitario, in cui era maggiormente sprovveduto o prevenuto. Uno dei primi provvedimenti del ministro consisté, nel 1935, nell'esautoramento del Consiglio superiore, divenuto un organismo di trentacinque persone più i membri di diritto (il segretario del Partito nazionale fascista [PNF], il presidente dell'Opera naz. Balilla, i presidenti delle Confederazioni fasciste, il direttore degli Italiani all'estero, ecc.), di fronte al quale le prerogative del ministro venivano completamente svincolate da ogni condizionamento. Il D. era uomo adattissimo a formulare dall'alto e a tavolino regolamenti, istruzioni e programmi capaci di imbrigliare quanto di autonomo potesse ancora esser rimasto nelle scuole, privilegiando il momento amministrativo e disciplinare. "I poteri e le funzioni inerenti al governo dell'insegnamento elementare - recitava il decreto del 26 sett. 1935 - spettano esclusivamente al ministro per l'Educazione Nazionale". Quanto alla prospettiva generale delle riforme poste in atto dal D., è stata generalmente rilevata la loro corrispondenza con il momento politico-sociale traversato nel 1935-36 dal regime fascista: militarizzazione del paese, stretta autarchica, euforia nazionalistica, impennata del carisma mussoliniano.
L'esperimento risultò particolarmente nefasto, e in parte inconcludente, nelle questioni di indirizzo culturale e nella scelta degli uomini preposti all'insegnamento; ma fu a suo modo efficace nell'isolare e neutralizzare gli intellettuali di origine prefascista. Il ministro e il vertice burocratico revisionarono i programmi delle scuole secondarie, aggiungendovi fra l'altro un pizzico di "cultura militare". Un altro punto acquisito dalla "bonifica" fu che le università persero l'autonomia che era stata loro riconosciuta dalla riforma Gentile. Appunto intorno all'università si svolse lo scontro decisivo e si venne esaurendo la sua lena, pur essendo sostenuto dai settori del regime tradizionalmente intransigenti o oltranzisti e da taluni giornali dei Gruppi universitari fascisti, il ministro si imbatté nelle proteste di ambienti dell'alta cultura che nonostante tutto conservavano un loro prestigio e qualche potere. Emblematico lo scontro con Gentile, che in una conferenza su La tradizione italiana dell'aprile 1936 criticò aulicamente il D., senza nominarlo, per il suo verbalismo retorico e per l'inquinamento della cultura nazionale. Il quadrumviro aveva reagito destituendo il suo predecessore dalla direzione della Scuola normale di Pisa, ma era intervenuto lo stesso Mussolini, facendogli rinviare l'applicazione del provvedimento.
Il governo D. alla Minerva non ebbe lunga vita. In pochi mesi - con metodi tra autoritari e tirannici o per via amministrativa - "aumentò il numero delle scuole statali, eliminò molte istituzioni private e ne portò alcune centinaia sotto il controllo dello Stato" (E Tannenbaum). Nel novembre 1936, anche per suo desiderio, fu sollevato dall'incarico, che passò a G. Bottai, il quale lo tenne per oltre sei anni, fino all'inizio del 1943.
Le critiche alla gestione D. erano venute non solo dagli ambienti più qualicati della cultura laica, ma dal seno del PNF, con A. Starace, e alla fine anche dall'ala la più estrema del regime, rappresentata da R. Farinacci. Al primo toccò segnare i limiti obiettivi del devecchismo al governo della scuola, vedendo nel partito e non nel ministero lo strumento principe della fascistizzazione. Una critica e un punto di vista che sono stati utilizzati anche nell'ambito storiografico: "La fascistizzazione della scuola ... chiuse con De Vecchi la sua fase dittatoriale ... Il problema posto da Starace era quello del totalitarismo fascista, che prospettava il trasferimento al PNF della formazione giovanile" (M. Ostenc). L'ultimo attacco da parte di Farinacci sul Regime fascista convinse il D. a optare, a quanto scrive nelle sue memorie, per il governatorato dell'Egeo. Nel frattempo era venuto sviluppando su un piano pubblico le sue ubbie e velleità culturali. Già nel 1933 era stato nominato presidente dell'Istituto per la storia del Risorgimento e quindi direttore dell'omonima Rassegna, e nel 1934 aveva cumulato la carica di commissario agli Archivi del Regno, mentre la facoltà di lettere e filosofia dell'università di Torino gli aveva conferito per acclamazione la libera docenza in storia del Risorgimento italiano. Nella primavera del 1934, essendo membro dell'Accademia d'Italia, celebrò in Campidoglio don Giovanni Bosco, appena santificato, alla presenza del cardinale M. Fossati di Torino e di Mussolini. Negli stessi anni e successivamente coltivò qualche ricerca di storia patria e si dette l'aria di difensore negli studi di una tradizione aulica e fascista. Lo farà in chiave tanto provinciale che Adolfo Ornodeo lo designerà ironicamente ai suoi corrispondenti (1940-41) come "sire della valle alpina" o "Sire feudale".
A Rodi il D. poté esercitare un potere sia civile sia militare (prima in Vaticano, poi all'Educazione nazionale gli si era affibbiato il nomignolo di "conte Sciabola"). Nominato governatore il 22 nov. 1936, contribuì ben presto a un significativo cambiamento politico nei confronti delle Comunità e delle popolazioni del Dodecanneso, tendendo a deprimere le sopravvissute autonomie (la precedente gestione era stata di carattere nazionalistico ma non troppo qualificata in senso fascista) e a porre sul piedistallo il dominio italiano.
Nelle amministrazioni locali impose il podestà di nomina governativa, nella giustizia soppresse i tribunali delle confessioni religiose, nelle scuole estese la penetrazione della lingua italiana e rafforzò i poteri di controllo. Respinse la tesi dell'autocefalia dei greco-ortodossi, sostenuta dal metropolita Apostolos e perseguì con determinazione il trasferimento dei beni comunitari di ortodossi, cattolici, musulmani ed ebrei ai Municipi o sotto una più stretta giurisdizione dello Stato. In tal modo portava alle estreme conseguenze una condotta che mirava a ridurre la sfera ecclesiale e religiosa alla mera funzione del culto. Un'altra direttrice del D. fu l'impulso, derivato dal clima mussoliniano degli anni Trenta e concorrente con le stesse realizzazioni della metropoli, a trasformare Rodi in un cantiere di opere pubbliche e a edificare con larghezza secondo un gusto ecletticamente restauratore, ispirato al retaggio dell'architettura veneta e latina nel Levante. In complesso si propose il compito di "avvicinare" il possedimento all'Italia e di "metropolizzare" gli usi e costumi delle popolazioni del posto.Nell'ottobre del 1938 Mussolini espresse su di lui un giudizio del tutto negativo: "Il De Vecchi ha sempre creato una massa di guai dovunque lo abbia messo. Non ha mai saputo far niente. Ora, a Rodi, va malissimo" (G. Ciano). In realtà non era riuscito né a disfarsene, né a correggerlo; da qui un caso estremo ma sintomatico dei rapporti di gerarchia e delle disfunzioni della tarda dittatura mussoliniana. Nel 1940 il D. era baldanzosamente schierato per l'intervento italiano nella guerra e pensava di poter cogliere i frutti dei suoi apprestamenti militari, ma presto entrò in rotta di collisione con l'Alto Comando. A guerra dichiarata, l'episodio più grave risultò ancora una volta dal temperamento oltranzista del quadrumviro e da un'interpretazione estensiva e incauta delle direttive ricevute. Il 15 ag. 1940 un sommergibile italiano agli ordini del governatore silurò l'incrociatore "Helli", vecchia nave ammiraglia di una flotta neutrale. Quando l'Italia aggredì la Grecia (28 ottobre), accampando gli attriti quotidiani con P. Badoglio, il D. ottenne di essere richiamato. Appena giunto a Roma ebbe un aspro colloquio con Mussolini e un'udienza fredda e deludente con il re. Per tutto il tempo della guerra visse nell'ombra; tuttavia nel luglio del 1942 sembrò attendersi dalle operazioni in Africa settentrionale un nuovo governatorato in Egitto (A. Pirelli). Da questa situazione uscì solo per partecipare alla fronda delle correnti antimussoliniane. Nel Gran Consiglio del 25 luglio 1943 intervenne fra i primi, di rincalzo a De Bono, criticando la condotta della guerra, la carenza dell'educazione nazionale della gioventù, la scelta dei capi delle forze armate. Votato l'ordine del giorno Grandi, dopo poche ore era già a colloquio col gen. P. Puntoni, al Quirinale.
In seguito allo sbarco alleato in Sicilia aveva ottenuto che gli fosse assegnata una unità costiera. Solo dopo il 25 luglio prese il comando della 215ª, divisione, che si stava schierando sulle coste della Toscana settentrionale, Elba inclusa, e che disponeva di alcuni reparti di marina. Il D. si istallò a Massa Marittima, mentre Piombino costituiva il cuore dell'intero dispositivo. Il 9 settembre, all'annunzio dell'armistizio, si accesero i primi scontri fra gli Italiani e alcuni mezzi da sbarco tedeschi, ma la "battaglia di Piombino", indipendentemente dal D., si svolse nella giornata e nella notte del 10, con il concorso della Concentrazione antifascista e delle maestranze dell'Ilva. "II temporeggiare indeciso delle autorità militari viene travolto dalla insurrezione operaia e cittadina"; si delinea così "il primo grande episodio della Resistenza italiana, in ordine cronologico e in ordine di rilevanza" (G. Francovich). Il tentativo di sbarco dei Tedeschi venne respinto con gravi perdite di mezzi e uomini (108 sono i germanici caduti nei combattimenti a terra, 200 i prigionieri, senza contare gli uomini affondati con le loro navi). Il capitano di corvetta Giorgio Bacherini aveva assunto il comando in collegamento con gli antifascisti. Il mattino seguente, sempre da Massa Marittima, in conformità con gli orientamenti dei comandi superiori, il D. dispose la cessazione dei combattimenti e il rilascio dei prigionieri. Si giunse così allo sbandamento dei militari. Il D. il 13 settembre, munito di un lasciapassare fornitogli dal maresciallo A. Kesselring (L. Romersa), risalì verso il Nord e riparò in Piemonte.
Dai primi di ottobre fino al termine della guerra e oltre, con l'aiuto dei familiari visse nascosto presso varie sedi dell'Ordine dei salesiani, prima nel Canavese, poi presso Ivrea, infine a Castelnuovo Don Bosco. A Torino il cardinale Fossati intercesse a suo favore presso le autorità della Repubblica sociale italiana (RSI). Nel gennaio del 1944 il tribunale straordinario speciale di Verona lo condannò a morte in contumacia, come firmatario dell'ordine del giorno Grandi. La clandestinità del D., frutto di una sagace e tenace protezione della Chiesa, si protrasse oltre il 25 aprile 1945. Sempre protetto dai salesiani, nel dicembre 1946 venne trasferito di nascosto a Roma, dove rimase, loro ospite, fino al 15 giugno 1947, quando poté imbarcarsi per l'Argentina con un passaporto del Paraguay. A Buenos Aires fu ancora ospite dell'istituto salesiano "Pio IX", viaggiò per il paese, incontrò Federzoni e Grandi. Fra l'ottobre e il novembre si tenne a Roma il processo contro di lui. L'ammiraglio P. Thaon de Revel, ex ministro del primo governo Mussolini, chiuse le testimonianze a suo favore sostenendo che durante la marcia su Roma si era mostrato "più italiano che fascista". La corte d'assise lo condannò a cinque anni di reclusione, interamente condonati. Il reato di attività squadristica era caduto per amnistia; il reato di insurrezione contro lo Stato fu l'unico riconosciuto, ma all'imputato vennero accordate le attenuanti per aver "combattuto contro i tedeschi". Nell'agosto del 1948 ebbe un primo attacco di emorragia cerebrale, da cui si riprese. Nel 1949 rientrò in Italia, ma il 31 dicembre fu colpito da un secondo attacco. Rimase inchiodato al letto, privo di parola, fino alla morte che lo colse a Roma il 23 giugno 1959.
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