Antonio De Viti de Marco
Antonio De Viti de Marco è un grande economista italiano, fondatore della teoria pura della finanza pubblica e ispiratore della public choice. Con Maffeo Pantaleoni, Vilfredo Pareto, Enrico Barone e Ugo Mazzola è protagonista di una delle epoche d’oro del pensiero economico italiano, in cui la teoria marginalista viene affinata e applicata a nuovi ambiti. Deputato radicale di orientamento liberaldemocratico, è leader del movimento antiprotezionista; imprenditore vinicolo meridionale, lotta per l’attuazione di riforme che consentano al Mezzogiorno agricolo di svilupparsi in un regime di libertà commerciale.
Antonio De Viti de Marco nasce a Lecce il 30 settembre 1858 da una famiglia aristocratica di Casamassella (frazione di Uggiano la Chiesa, provincia di Lecce). Trascorre gli anni dell’adolescenza (dal 1868) nel collegio Giuseppe Palmieri del capoluogo salentino manifestando una profonda insofferenza per la condizione di convittore; questo periodo è anche segnato nel 1875 dal dolore per la perdita della madre con la quale condivideva la passione per la cultura, la storia e la politica.
Nel 1877 si trasferisce a Roma con i due fratelli, Girolamo e Cesare, per frequentare la facoltà di Giurisprudenza. Lì conduce una vita austera, dedita sia allo studio universitario, sia a una formazione culturale di più ampio respiro comprendente lezioni di lingue, musica, arte. Tra i docenti il più ammirato è Angelo Messedaglia, per l’ultimo anno professore di statistica in quell’Ateneo; l’economia politica, insegnata da Francesco Protonotari, è argomento di frequenti ‘conferenze’ che egli tiene all’interno del corso, secondo l’uso allora in voga di fare presentare pubblicamente agli studenti più brillanti relazioni sui temi studiati. La materia suscita in effetti il suo interesse, tanto da diventare oggetto di studio extrauniversitario che egli effettua con il compagno e amico fraterno Pantaleoni, attraverso l’assimilazione delle teorie di John Elliott Cairnes e di William Stanley Jevons. Laureatosi nel 1881, inizia la pratica legale presso un avvocato, ma presto l’abbandona in seguito al conseguimento della libera docenza all’Università di Napoli. Nel 1883 ottiene la nomina nell’Università di Camerino, poi dal dicembre 1885 si trasferisce a Macerata, nel 1886 a Pavia, e infine dal 1887 insegna scienza delle finanze all’Università La Sapienza di Roma. Dal 1885, anno della pubblicazione del suo primo libro (Moneta e prezzi) affianca al suo lavoro accademico l’amministrazione del patrimonio familiare costituito dalle estese proprietà ereditate dopo la morte del padre e del fratello maggiore, avvenute in quello stesso anno.
Nel 1890 acquista insieme a Pantaleoni, Mazzola e, più tardi, Pareto, il «Giornale degli economisti», che dirige fino al 1912; grazie alla loro gestione esso diventa uno dei canali per lo sviluppo e per la diffusione, anche a livello internazionale, della teoria marginalista, il nuovo paradigma teorico che si afferma in quegli anni: sul «Giornale degli economisti» scrivono infatti, in italiano, economisti della statura di Francis Y. Edgeworth. Tale giornale diventa anche, e forse soprattutto, una tribuna di commento politico per affermare e tradurre in pratica la dottrina liberista e liberoscambista: da quelle pagine infatti De Viti esprime acuti commenti alle notizie economiche e dure critiche all’operato dei governi; in particolare, nella Cronaca politica mensile, che scrive dal 1897 al 1899, egli interpreta la crisi italiana di fine secolo come inevitabile conseguenza dello statalismo e ne denuncia sistematicamente i costi. Dal 1892 al 1899 dirige con Pantaleoni l’Associazione economica liberale, strettamente legata al «Giornale degli economisti», fondata per combattere da un lato i vincoli legislativi alla libertà economica, dall’altro l’aumento progressivo di spese pubbliche, debito e imposte.
Sposa nel 1895 Harriet Lathrop Dunham di New York, che partecipa attivamente alla vita intellettuale e politica del marito; i loro tre figli – James, Etta e Lucia – non proseguiranno la discendenza. Grazie all’influenza della moglie, De Viti assumerà in Parlamento una posizione favorevole al divorzio e al voto delle donne. Il contatto diretto con la cultura anglosassone rafforza inoltre il suo orientamento politico democratico e liberale, e il modello inglese sarà per lui anche la fonte di ispirazione per le riforme doganale e tributaria alle quali, come vedremo, dedicherà il suo impegno costante. In seguito allo scandalo della Banca Romana del 1892, che egli stesso con Pantaleoni e altri contribuisce a portare alla luce, De Viti intraprende un’innovativa ricerca sulla banca e sul credito, pubblicando nel 1898 un contributo (La funzione della banca) che verrà poi ampliato e ripubblicato in volume nel 1934.
Dopo questi anni di impegno politico indiretto, nel 1901 viene eletto deputato del collegio di Gallipoli (Lecce): aderisce al partito radicale al cui interno assume una posizione dialettica, poi nel 1917 se ne dissocia. Nel 1904 fonda la Lega antiprotezionista, esperienza che ripeterà nel 1914, con lo scopo di raccogliere tutte le forze parlamentari contrarie alla politica doganale di Giovanni Giolitti, incluse quelle socialiste. Militante combattivo, persegue l’idea di costituire in Italia un movimento liberaldemocratico di stampo anglosassone, promotore della libertà economica coniugata con la giustizia sociale.
Ereditata in questo periodo una tenuta nella provincia di Brindisi, ne assume con passione la conduzione: immunizza i vigneti dalla filossera attraverso il loro innesto su viti americane, introduce moderni macchinari agricoli, inventa nuove tecniche di raffreddamento del mosto, trasformando un’infruttuosa proprietà terriera in un’azienda vinicola d’avanguardia.
Dal 1911 scrive assiduamente sull’«Unità» di Gaetano Salvemini, nuovo strumento della campagna antiprotezionista, e dal 1916 al 1918 ne condivide la direzione. In questi anni collabora anche regolarmente con «Il Popolo», settimanale democratico pubblicato nel suo collegio elettorale di Gallipoli. Favorevole all’intervento dell’Italia nella Grande guerra, che egli interpreta come una guerra europea delle democrazie liberali contro gli Stati autoritari, promuove la Lega italo-britannica volta a favorire i contatti all’interno dell’Intesa; le sue idee su questi temi sono raccolte in La guerra europea (1918). L’interventismo democratico e antinazionalista di De Viti si rafforza nel 1917 con l’ingresso degli Stati Uniti nel conflitto mondiale deciso dal presidente americano Woodrow Wilson, le cui posizioni e il cui programma sono per lui fonte di ispirazione.
La sua vita si svolge quindi tra Roma e il Salento come docente, studioso, deputato, pubblicista, leader del movimento antiprotezionista, viticultore e amministratore delle sue proprietà. Nel 1921 non si ripresenta alle elezioni politiche dichiarando che la censura posta da Giolitti alla candidatura del suo alleato repubblicano Antonio Vallone gli impedisce di bilanciare da solo il peso politico della conservatrice borghesia fondiaria leccese; pone così fine alla sua attività parlamentare. Rinuncia anche al suo impegno politico in senso più ampio, come pure alle sue attività pubblicistiche, deluso dal fallimento del suo progetto di fondare in Italia un partito liberaldemocratico.
In questi anni egli assiste con amarezza alla resa dell’Italia alla dittatura, sintesi di tutto ciò che aveva sempre combattuto: ne è rassegnata testimonianza l’introduzione del 1929 alla raccolta dei sui scritti politici (Un trentennio di lotte politiche). Negli anni Venti si dedica alla revisione del suo manuale di scienza delle finanze, trasformando in un vero e proprio libro di testo (Principi di economia finanziaria) le dispense litografate delle lezioni che anno dopo anno aveva dettato ai suoi studenti. Nel 1931 rinuncia alla cattedra per non effettuare il giuramento di fedeltà al fascismo imposto ai professori universitari: con una lettera motiva la sua scelta sostenendo che tale giuramento sarebbe in contraddizione con i convincimenti politici da lui sempre professati; per lo stesso motivo nel 1934 si dimette dall’Accademia dei Lincei.
Gli ultimi vent’anni della sua vita sono un periodo di cupo ritiro, intervallati dalla riedizione di alcuni suoi precedenti lavori e, nella misura del possibile, da contatti con quegli ‘allievi’ che per elezione lo consideravano loro maestro: Luigi Einaudi, Gaetano Salvemini, e il più giovane Ernesto Rossi. Muore a Roma il 1° dicembre 1943.
Come si è detto, dal 1887 fino al 1922 De Viti de Marco si impegna in strenue battaglie contro il protezionismo. La convinzione che lo muove, solidamente radicata nella teoria economica, è che il libero scambio consente di accrescere la ricchezza complessiva grazie alla specializzazione, sia internazionale sia interna. Nel caso italiano, infatti, a causa della conformazione geografica del territorio, De Viti individua una vocazione prevalentemente industriale nel Nord, mentre riconosce al Sud un vantaggio comparato nella produzione agricola. Sulla base di questa convinzione egli afferma che in Italia il protezionismo produce effetti diversi sulle diverse regioni del Paese; da ciò la sua drastica critica alle misure protezioniste, a partire dalla richiesta di abolizione della tariffa doganale del 1887.
Secondo De Viti la semplice azione della concorrenza internazionale consentirebbe agli imprenditori agricoli sia di importare dall’estero macchinari e beni intermedi a prezzi più convenienti rispetto a quelli interni, sia di esportare i propri prodotti ad acquirenti stranieri disposti a pagare prezzi più elevati. Solo così l’investimento agricolo diventa redditizio e i capitali vengono attratti da questo settore, favorendo la crescita economica del Mezzogiorno. Al fine di realizzare in concreto tale politica, De Viti si batte tenacemente anche perché la rete di trasporti terrestri e marittimi, che include le regioni meridionali, sia sviluppata, efficiente ed economica. Egli individua, inoltre, altre due ragioni per le quali il dazio sul grano svantaggia le regioni del Sud: una riguarda il fatto che queste ultime sono prevalentemente importatrici di grano, l’altra che esso favorisce il latifondo riducendo la flessibilità degli investimenti agricoli nel dirigersi verso le colture più moderne; è per questo che i latifondisti del Sud sono tanto protezionisti quanto gli industriali del Nord.
Il meridionalismo di De Viti de Marco dunque altro non è che l’ambito principale di applicazione di una più generale dottrina liberoscambista: la sua difesa degli interessi del Mezzogiorno discende direttamente dalla dimostrazione ‘scientifica’ dei gravi danni che il protezionismo arreca alla ricchezza nazionale. Va collocata in quest’ottica anche la posizione radicalmente critica assunta da De Viti nei confronti della politica alternativa per lo sviluppo del Sud proposta in questi stessi anni da altri economisti, primo tra i quali Francesco Saverio Nitti, basata sulle concessioni statali, sui provvedimenti speciali, sugli interventi straordinari di Stato, sui lavori pubblici. Egli vede in tale scelta sia una sottrazione di capitali a impieghi maggiormente remunerativi, sia una fonte di spese che necessitano nuove imposte, sia una «politica del tozzo di pane» usata dal governo per tacitare e dominare politicamente il Mezzogiorno; inoltre, profeticamente sostiene che essa è dannosa anche perché alimenta la corruzione locale. Le sue idee su questi temi sono raccolte in Per il Mezzogiorno e per la libertà commerciale (1905).
Oltre al libero scambio De Viti de Marco auspica per lo sviluppo del Mezzogiorno anche una radicale riforma tributaria volta a riequilibrare, attraverso sgravi d’imposta, il sistema fiscale; a suo avviso infatti, sotto l’apparenza di una legislazione uniforme per tutto il territorio nazionale, le imposte pesano molto più gravemente sulle regioni meridionali. Gli esempi che egli porta sono innumerevoli: l’imposta sui fabbricati non tiene nella giusta considerazione le differenze delle condizioni edilizie tra il Sud e il Nord del Paese, e finisce per gravare maggiormente sulle popolazioni meridionali; i dazi di consumo, a causa delle diverse abitudini delle rispettive popolazioni, vengono pagati meno nel Nord che nel Sud. Anche dal lato della spesa il Mezzogiorno è svantaggiato: il finanziamento pubblico dell’istruzione, i sussidi per la costruzione di ferrovie, i rimborsi per i costi delle bonifiche avvantaggiano sempre il Nord che li utilizza maggiormente, pur essendo finanziati dai contribuenti dell’Italia intera nella stessa misura. De Viti invoca dunque uguale trattamento tributario nella sostanza, ottenuto attraverso sgravi fiscali per le regioni meridionali, e anche maggiore autonomia e responsabilità delle amministrazioni locali da realizzare attraverso il decentramento.
Abbiamo accennato al lavoro di De Viti de Marco sulla moneta (1885) e a quello sulla banca (1898 e 1934); possiamo qui ricordare anche un suo notevole scritto di storia del pensiero economico del 1890 (Le teorie economiche di Antonio Serra). Tuttavia, sul piano scientifico, il contributo fondamentale al quale De Viti deve la sua fama, anche internazionale, è nell’ambito della scienza delle finanze.
Dal suo corso tenuto a Pavia nel 1886-87 nasce nel 1888 il libro con il quale egli fonda la teoria pura della finanza pubblica, da lui definita economia finanziaria (Il carattere teorico dell’economia finanziaria). L’elaborazione di De Viti è indipendente e metodologicamente diversa da quella dell’austriaco Emil Sax che in un libro del 1887 applica anch’egli le leggi della teoria economica ai fenomeni finanziari. Come si è detto, dopo il libro del 1888 De Viti de Marco prosegue la lunga stesura del suo manuale di economia finanziaria, dapprima sotto forma di dispense litografate, per passare poi a una prima versione a stampa del 1923 in tiratura limitata, e infine alla pubblicazione vera e propria del 1928. Il suo trattato viene poi ripubblicato con integrazioni e modifiche fino al 1939, mentre l’ultima ristampa, postuma, è del 1953.
Sin dalle dispense del 1886-87, concentrando la sua indagine sulle sole funzioni economiche dello Stato, De Viti delinea una contrapposizione tra due tipi ideali di organizzazione statuale, lo Stato monopolista e lo Stato cooperativo. Utilizzando un metodo logico-storico De Viti spiega che nell’Ancien régime la classe dominante era distinta dalla classe dominata, il diritto conferiva alla prima il monopolio delle decisioni su entrate e spese pubbliche e gli interessi delle due classi erano in conflitto. Poi, a partire dalla Rivoluzione francese, si è affermata una concezione dello Stato opposta alla precedente, dalla quale è nato lo Stato moderno, lo Stato democratico, in cui la possibilità di votare e l’alternanza al potere degli eletti hanno estinto giuridicamente il conflitto tra le due classi, generando identità fra governanti e governati. La realizzazione concreta di questa identità richiede per De Viti la massima partecipazione dei cittadini alle decisioni pubbliche, per questo egli è a favore del suffragio universale. Grazie alla coincidenza di interessi tra governanti e governati, lo Stato democratico viene assimilato da De Viti a una cooperativa in cui i soci sono sia produttori sia consumatori di servizi pubblici.
Le due forme ideali di Stato, quindi, corrispondono ai due modelli ideali di mercato che la teoria economica del suo tempo impiega per determinare prezzi e quantità di equilibrio, vale a dire il monopolio (Stato assoluto che detiene interamente il potere) e la concorrenza (Stato democratico nel quale si compete per avvicendarsi al potere). Tale apparato teorico consente a De Viti di collocare, per la prima volta in una struttura organica, tutti i temi della scienza delle finanze, fino a quel momento costituita da un «miscuglio di precetti pratici, di divagazioni filosofiche e politiche, di commenti di testi di legge, di applicazioni approssimative di definizioni e leggi economiche», come scrive Einaudi nella prefazione all’edizione del 1934 del manuale di De Viti (p. 16). Nel suo trattato, le varie forme di tassazione – entrate patrimoniali, tasse, tariffe, imposte dirette, imposte indirette – sono logicamente concatenate e trovano tutte posto all’interno di quest’unico apparato teorico.
Per es., per elaborare la teoria dell’imposta De Viti spiega che nello Stato assoluto le spese pubbliche vengono decise a esclusivo arbitrio del sovrano e il loro finanziamento avviene attraverso concessioni da parte dei privati alle quali non corrisponde alcuna controprestazione.
Lo Stato democratico invece, nel quale attraverso le elezioni è possibile controllare l’operato dei governanti che decidono le spese, è per De Viti assimilabile a un’impresa che offre beni e servizi pubblici. A fronte di tale offerta vi è una domanda che proviene dai cittadini-contribuenti, i quali in cambio del bene o del servizio pubblico prodotto dallo Stato pagano un prezzo; questo prezzo è appunto l’imposta. Quindi lo Stato è visto da De Viti come il produttore di beni e servizi pubblici diretti alla soddisfazione dei bisogni collettivi, che egli definisce come i bisogni che emergono dalla convivenza degli individui nella società e dalla coesistenza di interessi contrastanti; l’economia finanziaria per De Viti è dunque la scienza che studia l’offerta e la domanda di beni e servizi pubblici.
Egli afferma che, sebbene tutti i cittadini ne siano fruitori, non è possibile conoscere la domanda individuale di tali beni e servizi; pertanto propone come indicatore del loro grado di utilizzazione il reddito prodotto: secondo De Viti più reddito si produce, più si domandano beni e servizi pubblici. In questo sistema, dunque, alla base dell’imposizione vi è il reddito prodotto; ciò differisce dallo Stato assoluto nel quale il finanziamento delle spese era basato sulla finanza patrimoniale. L’imposta, che come si è detto è il prezzo dei beni o servizi pubblici, ne ripartisce perciò il costo tra i cittadini-contribuenti. De Viti preferisce l’imposta proporzionale, con l’argomento che se il consumo di beni pubblici è proporzionale al reddito, allora anche il loro costo va ripartito in proporzione al reddito. Tuttavia egli osserva che per le imposte, come per tutti i beni prodotti in regime di monopolio, è possibile non limitarsi alla fissazione di un prezzo unico (quindi di un’aliquota costante), ma far pagare prezzi differenziati a diversi utilizzatori del bene o del servizio. Pertanto, egli accetta anche l’imposizione progressiva, purché realizzata non attraverso un maggiore aggravio per i redditi più elevati, ma grazie a sgravi fiscali per i meno abbienti.
De Viti dichiara quindi che la teoria economica non fornisce basi teoriche sufficienti a orientare la scelta tra proporzionalità e progressività delle imposte: tale scelta è per lui il risultato della lotta politica, e infatti nel suo libro vi è un capitolo dedicato alla teoria politica dell’imposta.
Il contributo di De Viti rappresenta un’importante innovazione anche per quanto riguarda l’analisi degli effetti economici dell’imposta, per il fatto di considerarli congiuntamente a quelli dell’impiego del prelievo. Per es., se l’imposta serve a finanziare un input intermedio (come la manutenzione di una strada), non basta per De Viti considerare l’aumento del costo di produzione dovuto all’imposta pagata dai produttori dei beni che usano quell’input, bisogna anche valutare la riduzione dei costi (di trasporto) che essi realizzano grazie al servizio pubblico finanziato con quell’imposta. Inoltre, egli fa notare che il primo effetto dell’imposta è una variazione della domanda sia del produttore il cui reddito è diminuito a causa dell’imposta, sia dello Stato che spende il gettito; solo in un secondo momento le offerte dei beni si adeguano alle nuove domande. Quanto alla finanza straordinaria, che De Viti vuole in ogni caso ridotta al minimo, egli esamina le possibili forme di prelievo necessarie per coprirne le spese: confrontando gli effetti di un’imposta una tantum sui patrimoni con quelli dell’emissione di debito pubblico, egli sostiene che le conseguenze delle due fonti alternative di entrate pubbliche sono sostanzialmente analoghe, sia per la generazione presente sia per quelle future.
De Viti de Marco raggiunse un’ampia fama internazionale già nel corso della sua vita: ne sono testimonianza i frequenti contatti con economisti stranieri, tra i quali Frank W. Taussig, Edwin R.A. Seligman, Oscar Morgenstern, come pure le varie recensioni ricevute – anche per lavori pubblicati esclusivamente in italiano – e infine le numerose traduzioni dei suoi libri. I Principi di economia finanziaria di De Viti furono infatti tradotti in tedesco (1932), in spagnolo (1934) e in inglese (1936). L’edizione tedesca ricevette tra le altre una recensione estremamente positiva da parte di Frederic Benham, mentre la traduzione in inglese fu recensita molto criticamente da Henry C. Simons. La sua importanza è oggi pienamente riconosciuta a livello internazionale, specialmente come ispiratore della teoria delle scelte pubbliche (public choice), a partire dal suo stesso fondatore James M. Buchanan, premio Nobel dell’economia nel 1986; quest’ultimo cita infatti i Principi di De Viti già nel 1949 a proposito del problema, centrale in questo filone di pensiero, di elaborare un modello per descrivere l’attività dello Stato attraverso gli strumenti della teoria economica. Oltre a ciò, l’approccio della public choice si riconosce anche nel realismo politico di De Viti per il quale lo Stato democratico, contrapposto allo Stato assoluto, rappresenta in verità soltanto una costruzione ideale, dal momento che nei governi realmente operanti prevale sempre l’interesse della classe al potere.
Anche Duncan Black, economista scozzese fondatore della teoria delle scelte sociali, riconduce il suo teorema dell’elettore mediano all’idea di De Viti de Marco contenuta nella sua già citata teoria politica dell’imposta secondo cui la scelta tra sistema proporzionale e progressivo emerge come risultato dell’alleanza tra classi sociali, dato il sistema elettorale vigente.
A. De Viti de Marco, uomo civile (1948) è il titolo di un libro di Ernesto Rossi, che lo giudica «uno dei pochissimi […] che abbia veramente impersonato quei valori che sono l’espressione suprema della nostra civiltà», dove civiltà significa
raffinamento della coscienza morale, tolleranza verso tutte le eresie, ricerca disinteressata del vero, sforzo continuo per creare le condizioni che consentano una sempre più completa espressione della personalità umana (p. 15).
Molti altri hanno elogiato le qualità morali di De Viti de Marco, la sua attitudine a porre la cultura e l’impegno intellettuale al servizio dell’interesse collettivo. Qui si vuole, per concludere, porre invece in luce il fatto che tutte le dimensioni della sua esistenza costituiscono un sistema ordinato. Con lo stesso metodo seguito per edificare l’organismo dell’economia finanziaria, nel quale ogni parte si lega logicamente alle altre, così De Viti de Marco elabora un programma politico versatile e di intransigente coerenza, nel quale ogni parte ha il suo posto necessario. Per lui la teoria economica è sempre il fondamento: essa deve essere meditata, a prova di attacchi, di critiche e di dubbi; su questo solido terreno teorico egli radica sia l’attività di imprenditore agricolo meridionale, sia l’impegno civile che egli traduce nella lotta per le riforme. Intorno a questo suo articolato e robusto sistema De Viti de Marco coagula le forze vivaci e incisive di un gruppo liberaldemocratico che tuttavia «non riuscì ad essere partito» (Einaudi 1931).
Moneta e prezzi, Città di Castello 1885.
Il carattere teorico dell’economia finanziaria, Roma 1888.
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Saggi di economia e finanza, Città di Castello 1898.
Per il Mezzogiorno e per la libertà commerciale, Milano-Palermo-Napoli 1905.
La guerra Europea, Roma 1918.
I primi principi di economia finanziaria, Roma 1928.
Un trentennio di lotte politiche (1894-1922), Roma 1929.
Principi di economia finanziaria, Torino 1934.
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L. Einaudi, Prefazione a A. De Viti De Marco, Principi di economia finanziaria, Torino 1934.
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