Debito pubblico e banca pubblica
Il primo debito pubblico, nella forma di prestito volontario o forzoso, è documentato a Genova e a Venezia verso la metà del 12° sec., per apparire poco più tardi a Firenze e in altre città italiane. Nei secoli successivi, i modelli e le dinamiche del debito si sono sviluppati seguendo percorsi diversi, con una differenza più marcata tra le città-Stato e le repubbliche, dove la vendita del debito coinvolgeva direttamente la popolazione, mentre nelle signorie e nelle monarchie i prestiti di Stato erano contrattati prevalentemente con i grandi gruppi bancari e mercantili (Pezzolo 2007, p. 16).
Nonostante le diversità, i sistemi italiani del debito possedevano, tuttavia, qualche elemento in comune. La corresponsione degli interessi veniva quasi sempre assegnata sul provento di dazi e gabelle, mentre le imposte dirette erano coinvolte in misura minore. Dopo i primi rimborsi, il consolidamento del debito si era reso dovunque inevitabile, per le continue spese di guerra e per l’incerto gettito delle imposte. La trasferibilità del debito tra privati, osteggiata all’inizio, veniva gradualmente consentita, sia pure con vincoli procedurali e qualche riserva morale, mentre nelle grandi città i banchieri gestivano una sorta di mercato secondario dei titoli, si trattasse di luoghi di monte, di compere o di imprestita. Inoltre, fino alla metà del Cinquecento i tassi di interesse si mantennero dovunque su livelli elevati, oscillando tra il 10% e il 15%. In seguito iniziarono a diminuire gradualmente, fino a raggiungere la soglia del 3% all’inizio del 18° secolo.
L’interesse corrisposto sui prestiti pubblici rientrava a pieno titolo nella più ampia dottrina sull’usura, che aveva già mostrato in proposito alcune caute aperture sin dai tempi di papa Innocenzo IV, soprattutto nel caso di prestiti accesi per l’utilità della Chiesa. San Bernardino da Siena riteneva lecita l’emissione del debito pubblico, se lo scopo era rivolto al bene comune (Todeschini 2005, p. 215). Lo stesso nome di monte doveva idealmente raffigurare i beni che si utilizzavano non per il profitto dei mercanti, ma per il benessere dei cittadini e per le opere di carità.
La dottrina trovò poi ulteriori conferme da parte di alcuni interventi pontifici, a partire dalla bolla di Niccolò V del 1452, che in relazione ai censi dichiarava l’ammissibilità delle rendite provenienti da fonti diverse dai beni immobili. Nel 1569, la bolla Cum onus di Pio V disciplinava il censo consegnativo, prescrivendo l’atto notarile e includendo tra le fonti considerate legittime per il pagamento degli interessi anche le rendite fiscali, a condizione che i cespiti fossero esattamente designati. In materia, la dottrina ufficiale della Chiesa era dunque definita rigidamente. Un manuale per confessori pubblicato nel 1603 prendeva in considerazione ogni possibile ipotesi, elencando minuziosamente tutte le forme conosciute di censo con le relative procedure ammesse dalla Chiesa (Alonzi 2011, pp. 60-61).
Tuttavia i dubbi sulla liceità dell’interesse tendevano a ripresentarsi, anche nel caso del debito pubblico. Nel 1578 il canonista Pierre Grégoire aveva espresso nel De republica la sua contrarietà al sistema dei Monti, affermando che funzionavano in deroga al diritto comune e alle norme canoniche. Sempre nella seconda metà del Cinquecento, con un giudizio altrettanto negativo, Scipione Ammirato osteggiava i prestiti pubblici e la struttura stessa dei Monti che dei prestiti erano intermediari e gestori. In termini più realistici, il domenicano senese Tommaso Buoninsegni nel De montibus et illorum iustitia tractatus del 1587 non si interrogava più sulla liceità dell’interesse sul debito pubblico, ma sull’opportunità di esprimere un giudizio su un’istituzione che lo stesso principe di Roma, il papa, aveva contribuito a diffondere (Santarelli 1991, p. 85).
In realtà, il debito pubblico pontificio era già stato lanciato nel 1526 da Clemente VII, proprio sul modello dei Monti fiorentini, con garanzie così solide da attirare l’interesse dei banchieri pur nella tempestosa vigilia del sacco di Roma. Tra la metà del Cinquecento e i primi del Seicento, il debito della Chiesa era cresciuto con ritmi sempre più intensi, fino a raggiungere un ammontare pari a venticinque volte le entrate di un bilancio annuale. Dopo la bancarotta spagnola, i capitali italiani, in particolare quelli fiorentini e genovesi, erano tornati alla ricerca di buoni investimenti, trovando ampia collocazione nel debito pubblico romano e napoletano. L’ambasciatore veneziano Francesco Molin riferiva al Senato della sua città nel 1606 che ai papi «colano denari quando vogliono per molte vie […] et sarà sempre vero quel detto che con servirsi della mano e delle penna ne haveranno sempre a sufficienza» (Le relazioni della corte di Roma lette al Senato dagli ambasciatori veneti nel secolo decimosettimo, s. III, Italia. Relazioni di Roma, a cura di N. Barozzi, G. Berchet, 1° vol., Venezia 1877, p. 63).
Di fronte a un fenomeno così evidente, i commenti dei dotti iniziarono a trascurare le regole dell’etica e del diritto, mettendo invece in luce gli effetti prodotti dal debito nell’economia del Paese. Teodoro Ameyden (o Amayden), giurista olandese trapiantato a Roma, denunciava nella Relazione della città e corte di Roma (1641) il rialzo nei prezzi di mercato dei titoli e il danno provocato all’economia nazionale dal trasferimento all’estero degli interessi non reinvestiti sul mercato locale. Una proposta anonima negli stessi anni veniva lanciata contro «la diabolica invenzione» del sistema dei Monti, i quali sfruttavano lo Stato «mantenendosi a nostre spese tutto il Genovesato, bona parte del Fiorentino e tante altre nationi» (cit. in Monaco 1974, p. 43).
Gian Donato Turbolo, con riferimento al Regno di Napoli, spiegava nel 1622 che l’offerta eccessiva dei titoli del debito pubblico in un sistema economico legato agli scambi commerciali con l’estero provocava un rialzo dei cambi, proponendo di conseguenza misure drastiche ma, realisticamente, irrealizzabili:
Certa cosa è che per far calare il cambio non vi è altro rimedio che l’estinzione del debito di questo regno, per la quale cesserebbe la causa della provvisione d’annue entrate per extra-regno; ma questo non si può fare, stante che vi manca l’effetto: quindi il rimedio è disperato (Discorsi e relazioni sulle monete del regno di Napoli, in Scrittori classici italiani di economia politica, a cura di P. Custodi, parte antica, t. 1, 1803, p. 255).
Il debito continuava a moltiplicarsi dovunque, trovando un freno solamente nell’ammontare degli interessi annuali che potevano essere corrisposti, mentre i teorici continuavano a discutere sulla liceità dell’interesse. Ancora a metà Settecento, dopo la nuova condanna dell’usura da parte di papa Benedetto XIV, le posizioni del domenicano Daniello Concina si contrapponevano duramente a quelle di Scipione Maffei, che nell’opera Dell’impiego del danaro (1744) aveva cercato di conciliare la morale cattolica e l’economia moderna (Vismara 2004, p. 342).
L’origine dei banchi pubblici, come testimonia l’esperienza precoce del banco genovese, è strettamente legata alla collocazione del debito pubblico, che aveva bisogno di espandersi verso un mercato del credito più vasto e capillare di quello offerto dai banchieri privati. Il Banco di San Giorgio rappresentava un modello esemplare nella gestione del debito pubblico, per affidabilità e capacità operativa. Era stato fondato nel 1408 per contrastare l’avidità dei banchieri e per avviare il risanamento del debito genovese, dopo la costosa guerra contro Venezia. Fin dall’inizio venne autorizzato a compiere le più svariate operazioni, dai pagamenti sui depositi della clientela, ai prestiti a privati e allo Stato. Per remunerare i titoli del debito poteva utilizzare i proventi delle entrate pubbliche, che venivano assegnate al banco quando lo Stato non era in grado di rimborsare prestiti alla scadenza. Il San Giorgio venne poi costretto a concludere la sua prima esperienza nel 1445, non per mancanza di capitali, ma per l’impossibilità di rispettare il corso legale delle ‘monete grosse’ (quelle fabbricate con oro o argento), troppo elevato rispetto a quello corrente, riuscendo però a rimborsare interamente i creditori e a lasciare un ricordo di efficienza e di buona amministrazione (Felloni 2008, pp. 144-46).
Quasi un secolo dopo, Niccolò Machiavelli, nel ripercorrere l’origine della banca pubblica genovese e dei suoi vasti possedimenti, esprimeva un’aperta ammirazione per l’efficienza del San Giorgio, ponendola in forte contrapposizione con le oscure trame del Comune genovese:
Da questo è nato che quelli cittadini hanno levato l’amore dal Comune, come cosa tiranneggiata, e postolo a San Giorgio come parte bene ed ugualmente amministrata. […] Esempio veramente raro […] vedere dentro ad un medesimo cerchio, intra i medesimi cittadini la libertà e la tirannide, la vita civile e la corrotta, la giustizia e la licenza (Istorie fiorentine, libro VIII, in Opere, 3° vol., 1820, pp. 56-57).
I maggiori banchi pubblici italiani presero l’avvio più tardi, a partire dalla riapertura del San Giorgio nel 1531, diffondendosi nelle capitali e nelle piazze più importanti, con la sola eccezione dello Stato piemontese. I banchi potevano sorgere dall’evoluzione di un Monte di Pietà già esistente, oppure venivano istituiti per affiancare le attività di un’opera pia, o per raccogliere i depositi privati e dirottarli nel debito pubblico. A Palermo la Tavola viene aperta nel 1553, a Venezia il primo banco pubblico nasce nel 1587, con il nome di Banco della Piazza di Rialto. Pochi anni dopo, nel 1593, è la volta del Banco di Sant’Ambrogio di Milano che, dopo soli quattro anni, inizia a prestare alla città e a stipulare contratti di cambio. A Roma, il Banco di Santo Spirito è fondato nel 1605 come ramo finanziario dell’omonima opera pia. A Napoli vengono aperti in successione ben otto banchi pubblici, il primo dei quali sorge dalla sezione speciale del Monte di Pietà, che si trasforma in banco nel 1539. Nel 1563 nasce il Monte dei Poveri, creato da alcuni avvocati per soccorrere gli indigenti. Altri banchi seguono negli anni successivi, germogliando spesso dalle attività di un’opera pia preesistente, fino al 1640, quando gli arrendatori della gabella della farina danno vita al Banco del Salvatore. Le licenze vicereali assegnavano infatti ai banchi, come attività principale, le compere delle annue entrate, nella forma di anticipazioni finanziarie dietro cessione d’imposta, sulla base della capitalizzazione delle rendite attese ai tassi di mercato. In cambio, i banchi ricevevano titoli rappresentativi di arrendamenti, di fiscali o adohe che potevano a loro volta costituire oggetto di ulteriori transazioni (Di Somma 1960, p. 8).
Nel tardo Cinquecento, i primi monetaristi, i pratici, i teorici, i mercanti, rivolsero l’attenzione al valore della moneta, condannando le svalutazioni del metallo fino e la pratica della tosatura. Si esprimevano in modo del tutto razionale, ormai libero dai condizionamenti della dogmatica e della politica. Sottolineando la responsabilità dello Stato nel garantire la bontà delle monete, Gasparo Scaruffi esortava nel 1582 il principe a sorvegliare attentamente il fino della moneta, se non voleva ricevere un danno dall’affitto delle gabelle
imperocché, siccome essi diceano voler affittare a ducati, scudi, o lire, potranno anche dire a libbre ed once di pur’oro e di argento di coppella coniati, ed in quelle sorta di monete figurate nelle tariffe e come loro più piacerà (Discorso sopra le monete e della vera proporzione tra l’oro e l’argento, in Scrittori classici, cit., parte antica, t. 2, 1804, p. 100).
Su posizioni simili, Bernardo Davanzati attribuiva nel 1588 alla circolazione monetaria un ruolo propulsore nell’economia pubblica, una forza che doveva circolare nel Paese per promuovere la produzione, sollevando temi innovativi rispetto alla visione mercantilistica che legava la ricchezza alla potenza e alla guerra: «Il danajo è il nerbo della guerra e della repubblica, dicon di gravi autori e di solenni, ma a me par egli più acconciamente detto il secondo sangue» (Lezione delle monete, in Scrittori classici, cit., parte antica, t. 2, 1804, pp. 36-37). Davanzati si soffermava poi a descrivere i fenomeni della tosatura e dello svilimento del fino, che avevano portato a visibili perdite di valore reale «tanto che in tutta Europa da 60 anni in quà questo tarlo ha roso oltr’al terzo di questo membro […]» (p. 39). Il colto mercante fiorentino giungeva al paradosso secondo cui il commercio avrebbe beneficiato dell’assenza di una moneta adulterata, dato che
sarebbe forse meglio far senza, e spender l’oro e l’ariento a peso e taglio, come ne’ primi tempi, e ancor oggi usano quei della Cina, i quali per arnesi in seno portano lor cesoje e saggiuolo, e non hanno a combatter che con la lega, la quale con la pratica e col paragone pur si conosce (p. 49).
Da parte sua, Fabrizio Biblia notava nel 1621 (Discorso sopra l’aggiustamento delle monete e cambi del Regno di Napoli) che la penuria di moneta buona era causata dalla cattiva qualità di quella circolante, e suggeriva di coniare nuova moneta con due cerchi per rendere visibile la pratica della tosatura. Anticipando i temi che sarebbero stati più tardi al centro del dibattito sulla moneta cartacea, Biblia riferiva che per gli spagnoli la causa dei guasti napoletani derivava dall’abitudine dei banchi pubblici di accordare ai loro depositanti un credito notevolmente superiore rispetto ai loro depositi.
Le riflessioni sulla moneta si stavano così indirizzando verso il sistema degli scambi e della produzione. Antonio Serra metteva a confronto, nel 1613, i traffici mercantili, la circolazione monetaria e i rapporti di cambio tra le varie monete a Napoli, Venezia e Genova per osservare che la vera ricchezza di un popolo non proveniva dai tesori metallici, ma da un saldo attivo della bilancia dei pagamenti.
Le condizioni della città di Venezia, come si è detto, tutte importano quasi esito, e all’incontro quelle di Napoli introito, per lo che quella povera e questa ricca dovrebbe essere di monete; niente di meno gli effetti sono contrarj, che quella ricca e questa è povera: bisogna dunque ritrovar la causa d’onde nasca questo contrario effetto (Breve trattato delle cause che possono far abbondare li regni d’oro e d’argento dove non sono miniere, in Scrittori classici, cit., parte antica, t. 1, 1803, p. 46).
Per Serra, l’impoverimento dell’economia napoletana derivava dalla massiccia presenza degli stranieri, che possedevano manifatture e rendite, con un provento che usciva dallo Stato senza alcuna contropartita. Egli suggeriva tra l’altro di coniare una nuova moneta d’argento con fino più basso per imprimere maggior sviluppo ai commerci, indirizzando allo stesso tempo un forte richiamo al buon governo del principe che aveva la responsabilità di promuovere le manifatture locali per evitare l’eccesso di importazioni. Al deficit della bilancia commerciale si aggiungeva la totale mancanza dei commerci di transito. Inoltre i pesanti pagamenti all’estero per gli interessi sugli investimenti degli stranieri nel debito napoletano provocavano il peggioramento della moneta locale (Rosselli 1995, p. 39).
Geminiano Montanari insisteva nel 1683 sulla stabilità dei sistemi monetari, denunciando il danno che il principe rendeva ai suoi sudditi e «a se stesso» battendo moneta bassa perché
mentre i suoi mercanti pagano con le monete migliori le mercanzie forastiere, resta in mano de’ sudditi la valuta de’ suddetti 20 milioni, ma in moneta inferiore, la quale valutata dippoi secondo l’intrinseca bontà non vale più di 15 milioni (Breve trattato del valore delle monete in tutti gli Stati, in Scrittori classici, cit., parte antica, t. 3, 1804, p. 322).
Le emissioni cartacee eccedenti i depositi in banco, generate dalla speculazione e dalla richiesta di prestiti da parte dei governi, ponevano sin dal primo Settecento interrogativi sempre più pressanti legati alla circolazione fiduciaria, alle conseguenze sui prezzi e di nuovo sui commerci. Destava inoltre allarme la capacità di un banco di garantire gli impegni verso la clientela, non solo in rapporto alla convertibilità del circolante emesso, ma anche nell’intermediazione del debito, dato che la responsabilità dei pagamenti e dei rimborsi ricadeva sui banchi pubblici. Napoli diveniva il punto di osservazione privilegiato della circolazione cartacea, visto che tutti i banchi emettevano fedi di credito, o cedole, che testimoniavano il valore del metallo in cassa, secondo una tradizione che risaliva al tardo Medioevo (De Rosa 1991, p. 501).
Carlo Antonio Broggia, riferendosi al periodo passato nella mercatura veneziana, lodava nel 1743 la tutela offerta dal banco garantito dal principe, che accettava di accollarsi interamente l’onere di eventuali malversazioni, in contrapposizione ai banchi semplici soggetti solamente al diritto comune che andavano in fallimento generando miseria. Citando un suo contemporaneo, il francese Jean-François Melon, Broggia sosteneva che il banco pubblico coperto dalla garanzia governativa costituiva invece l’intermediario ideale nel debito pubblico:
Perché invero non puol mettersi in dubbio, che al Credito Publico, originato dalla Garanzia del Banco, nella quale entra il richiamato Legislatore “debbano (come quì ben dice Melon) gli Stati che se ne servono la lor Sicurezza, e la loro Possanza. E che se questi eguagliansi con Napoli e Sicilia; troverassi che tali Paesi, quantunque Fertili e Ricchi per Natura; vivono tuttavia gli Abitanti per la maggior parte nella Miseria, per assai disettevole la Circolazion del Danaro” (Trattato de’ tributi, delle monete, e del governo politico della sanità, 1743, p. 404).
Il tema della circolazione monetaria, metallica e cartacea, veniva affrontato da Ferdinando Galiani dopo la crisi napoletana dei banchi privati e il fallimento del Banco dell’Annunziata nel 1702. Ricordando che il banco pubblico veneziano era sorto nel 1609 con lo scopo di offrire maggiori garanzie e che l’esempio era stato seguito da Amsterdam e Amburgo, nel 1749 Galiani notava che la creazione dei banchi aveva portato a un doppia circolazione, perché
per evitare le mutazioni della moneta e la varietà de’ prezzi, si è stabilito che il danaro si ricevesse secondo quella quantità di fino metallo ch’egli ha; donde è venuta varietà di prezzo fra la moneta del banco e la corrente, la quale disparità è detta Agio di banco (Della moneta, libro III, IV e V, in Scrittori classici, cit., parte moderna, t. 4, 1803, p. 210).
Si trattava tuttavia di una posizione ancora piuttosto teorica, perché a metà del Settecento iniziava ad allargarsi il divario tra la moneta cartacea circolante e il valore delle riserve metalliche dei banchi napoletani, che in qualche caso possedevano una copertura insignificante (Balletta 2008, pp. 160-76).
Una situazione meno drammatica, ma non priva di forti preoccupazioni per la crescita incontrollata del debito, si riscontrava a Milano. I capitali già investiti nei banchi pubblici stentavano a rientrare per l’eccessiva alienazione delle gabelle e per l’immobilizzo negli appalti di ogni genere, tanto che nel 1726 il San Carlo era stato costretto a imporre una riduzione forzata degli interessi di due punti sul nominale, a sua volta già tagliato del 40%. I protagonisti più illustri della stagione illuministica milanese, che si ritrovavano intorno a «Il Caffè», vagliavano opportunità e pericoli dei banchi e della circolazione emessa. La ‘grande dilapidazione’ del Sant’Ambrogio, che aveva portato gli interessi al 2%, secondo quanto Gian Rinaldo Carli affermava era iniziata già nel 1688 (Dell’origine e del commercio delle monete e dell’istituzione delle zecche d’Italia [1751] in Id., Delle opere del signor commendatore Don Gianrinaldo conte Carli, 1° vol., 1784, p. 206).
Pietro Verri, nelle Memorie storiche sulla economia pubblica dello stato di Milano (1768), ripercorrendo la storia del Sant’Ambrogio fin dalla fondazione accusava il banco di aver mancato alla pubblica fede fin dai primi momenti e di aver distolto gli investimenti dalle attività produttive:
Sino a quel tempo non avevano conosciuto i Milanesi altro mezzo di cavar rendite dal danaro, che impiegandolo nell’agricoltura o nel commercio, o imprestandolo a chi ve lo impiegasse; si aprì con quella occasione un comodo di rendere fruttifero il danaro senza il bisogno dell’industria, e così da ogni parte venne nelle sue cagioni attaccata la sorgente della pubblica felicità (in Scrittori classici, cit., parte moderna, t. 17, 1804, pp. 92-93).
Nelle Meditazioni sulla economia politica (1771), proprio a proposito della circolazione cartacea, Verri manteneva un atteggiamento razionale e propositivo, esprimendo in modo limpido la sua prospettiva di una teoria economica della società civile. Notava infatti con favore la diffusione delle cedole che circolavano su base fiduciaria e lodava il basso livello degli interessi pretesi dai banchi. I tassi modesti scoraggiavano l’eccessivo immobilizzo del capitale nel debito, finendo per rafforzare le attività produttive e il commercio. Il punto di forza era la fiducia, grazie alla quale era possibile innescare un circolo virtuoso tra investimenti, produzione e commercio, all’interno del quale il debito pubblico poteva giocare un ruolo propulsore:
Gli stati più vasti, che hanno un esteso commercio colle più remote nazioni, ricevono più bene che male dai debiti pubblici sintanto che l’opinione del popolo non giunga a diffidare; ma gli stati più ristretti e subalterni poco bene risentono dai banchi pubblici, e quel poco comodo viene largamente contrappesato dall’annua perdita che fa l’erario per il peso degl’interessi; laonde nel primo caso conviene rivolger le mire a perpetuare il debito nazionale, e nel secondo a saldarlo con mezzi più innocui che si può (in Scrittori classici, cit., parte moderna, t. 15, 1804, p. 153).
Nella seconda metà del Settecento cresceva ovunque la preoccupazione per le dimensioni del debito pubblico, che doveva essere estinto o ridotto, come del resto si tentava di fare in altri Paesi europei. Tracciando brevemente la genesi del debito pubblico napoletano, nel 1765 Antonio Genovesi ne coglieva in pieno la dinamica incomprimibile:
Consumando le guerre e la grandezza delle Corti assai maggior danaro […] si venne all’ultimo metodo, divenuto oggi alla moda, cioè di far debiti. I quali sul principio facevansi ipotecando i fondi: poiché questi non bastavano, si ipotecò la fede pubblica. E perché la pubblica fede de’ Sovrani sembra, com’è in fatti, dover essere infinita; questi secondi debiti andarono crescendo, e vanno ancora, senza fine: e così somministrano a’ Politici di certi difficili problemi a risolvere (Delle lezioni di commercio o sia di economia civile, 1° vol., 1765, pp. 330-31).
Genovesi tornava sulla metafora del tesoro ozioso «seppellito ne’ suoi forzieri», che non portava alcun beneficio alle manifatture. Toccando un tasto assai delicato, denunciava le somme che Napoli pagava annualmente alla Camera apostolica «per rispetto a’ benefici, alle liti, alle dispense, al sostenere i capi degli Ordini religiosi» (p. 342). Riteneva conforme a una sana amministrazione il ridurre al minimo i debiti contratti, attirando i capitali dall’estero alla ricerca di interessi più miti. Secondo lui era più conveniente contrarre nuovi prestiti per estinguerne altri più dannosi o urgenti, o per introdurre miglioramenti nella struttura economica del Paese. In ogni caso, le spese annuali non dovevano eccedere le entrate annuali: se il bilancio finiva in deficit, per motivi urgenti di difesa militare, piuttosto che accendere nuovo debito era meglio puntare sulle imposte indirette «sul consumo delle cose le più comuni, come del pane, dell’olio, del vino, del sale etc. che noi chiamiamo Gabelle» (p. 352).
Con toni simili, riferendosi all’alienazione di feudi e redditi nel territorio di Pontremoli in Lunigiana nel 1650, Carli nel 1751 ricordava la spirale al rialzo che ne era derivata:
La mala amministrazione delle rendite pubbliche ha indotto le comunità ad aggravarsi sommamente di debiti ed a sbilanciarsi in economia; e l’impotenza di questa comunità obbligò il principe all’alienazione del proprio patrimonio e così un male producendone uno peggiore dalla somma di essi ne venne la desolazione la miseria di tutto lo stato paventava l’aggravamento di tutta l’economia dello stato sommersa dai debiti, che portavano alla fine all’alienazione del patrimonio finendo per restare senza risorse (Dell’origine e del commercio, cit., p. 206).
Pietro Custodi temeva che il debito, con i banchi che lo amministravano, provocasse un danno simile, a causa del mancato impiego dei capitali nei settori produttivi, innescando un circolo vizioso: «la nazione si fa schiava del depositario delle sue sostanze la cui grazia divien per essa di una preziosa necessità da conservarsi a qualunque patto», dato che l’accumulo delle ricchezze favoriva la povertà (Dell’indole e de’ vizi delle società civili, 1794, cit. in Criscuolo 1987, p. 413).
In Italia rimbalzavano poi gli stessi timori sul debito che provenivano da oltralpe. Melon, nel suo Essai politique sur le commerce del 1734 aveva sostenuto il paradosso della neutralità del debito, fondato sull’idea che il denaro sottratto dallo Stato ai cittadini veniva in ogni caso speso nuovamente a loro favore. I prestiti non incidevano dunque sul sistema economico, sempre che venissero tutelate le esigenze delle manifatture. Era assai più severo il giudizio che David Hume pronunciava sul debito inglese, sia per l’ozio a cui induceva i proprietari dei capitali sia per il peso degli interessi: mettendo in guardia i politici da un possibile incremento della circolazione monetaria che si sarebbe scaricato inevitabilmente sui prezzi. Nella lotta per la riduzione del debito, sosteneva Hume con toni gravi, se l’Inghilterra non fosse stata capace di distruggere il debito, sarebbe stato il debito a distruggere l’Inghilterra (D. Hume, Political discourses, 1752, p. 135).
Tentativi e suggerimenti per la riduzione del debito non erano peraltro mancati in passato. Nel 1575 era circolato a Genova un progetto fantasioso di Giovanni Francesco Rivarola, che proponeva la chiusura del San Giorgio, quantificando l’entità del debito in circolazione e suggerendo il modo di estinguerlo con il ricorso a una nuova imposta. L’impresa era concretamente impossibile da realizzare per le difficoltà di riassorbire tutti i titoli in circolazione, ma il progetto sarebbe in ogni caso naufragato per la rilevanza del ruolo assistenziale che il San Giorgio aveva ormai assunto nella città «essendo i plebei avezzi a tirarne molto commodo, non potrebbono se non con molta turbazione sopportarne la perdita» (cit. in Savelli 1984, p. 321).
Di rimborsi comunque già si parlava nel Seicento. A Napoli, il primo tentativo di ricomprare un arrendamento risaliva al 1666. A Roma, l’estrazione a sorte dei luoghi di Monte per il rimborso al nominale veniva effettuata quasi una volta al mese, almeno fino al momento del consolidamento del 1687. A Napoli il primo concreto tentativo di rientro dal debito venne tentato da Carlo III nel 1751 con la Giunta delle ricompre, fondata per restituire allo Stato alcuni dei cespiti fiscali maggiori tra cui l’importante arrendamento del sale, ceduto nel 1694. A Firenze veniva tentato un esperimento di riduzione del debito simile a quello ideato dal deputato britannico Archibald Hutcheson che nel 1720 aveva proposto di estinguere l’intero debito pubblico nazionale, trasformandolo in debito privato a carico dei singoli proprietari agrari.
Nel 1788 Francesco Maria Gianni, consigliere di Stato e di finanze del granduca di Toscana Pietro Leopoldo, aveva disposto per decreto una sorta di compensazione tra debito e credito pubblico, a carico di ogni proprietario di beni immobili debitori di imposta titolare nello stesso tempo di quote del debito pubblico. Il progetto, con le due memorie difensive (Memoria istorica dello scioglimento del debito pubblico della Toscana, 1793, e Discorso sul debito pubblico, 1801) pubblicate da Gianni proprio nel periodo in cui venivano realizzati i piani di rientro dal debito di William Pitt il Giovane in Gran Bretagna e di Alexander Hamilton negli Stati Uniti, scaturiva comunque dalla consapevolezza che il debito pubblico rappresentava ormai un pericolo imminente, anche per le finanze del piccolo granducato toscano.
Accanto ai timori che consigliavano la riduzione o l’estinzione del debito, obiettivi quasi impossibili da raggiungere, non mancavano tuttavia valutazioni più incoraggianti, che tentavano perlomeno un’analisi comparativa dei costi e dei benefici. L’economia del Paese poteva trarre giovamento dalla manovra del debito, purché eseguita con accortezza. I temi della finanza pubblica iniziavano ad attirare maggiore attenzione, perché potevano contribuire al conseguimento di quegli obiettivi del bene comune e della ricerca della felicità pubblica, verso i quali era orientato il pensiero di molti autori italiani del Settecento (Barucci 2009, p. 25).
Nell’ambito della concezione di una società ancora affidata al buon governo del principe, Gianmaria Muti nei Ricordi politici ai principi cristiani (1716), invitava i principi a governare con giustizia, abbandonando gli eccessi e mantenendo le spese ben al di sotto delle entrate, aggiungendo poi un corollario di esortazioni. Il ricorso straordinario al debito doveva pesare solo sui cittadini più facoltosi: e anche in questo caso, se le spese militari si presentavano con un’urgenza ineludibile, non si dovevano trascurare gli obiettivi giovevoli che riguardavano le opere pubbliche, la salute dei cittadini e il sostegno finanziario alle personalità di spicco nella cultura e nella scienza.
I doveri del principe nel governo dell’economia erano tratteggiati con altrettanta chiarezza nel 1709 da Paolo Mattia Doria:
L’economia naturale del principe consiste nel togliere da’ suoi sudditi quello, che posson dare senza ridurli nè a quella ricchezza, che li corrompe, nè a quella povertà, che gli fa disperare: nel renderli abili al pagamento delle imposizioni col mezzo del buon governo, e con l’aumento de’ loro traffichi (La vita civile, 1729, p. 321).
Nel corso di un periodo particolarmente difficile per il Regno di Napoli, Galiani illustrava i vantaggi e gli svantaggi del debito, inoltrandosi sul terreno della politica economica. Il suo pensiero si ricollegava alla citata idea di fondo di Melon, a proposito delle spese che lo Stato sosteneva a favore dei cittadini e che in buona sostanza non rappresentavano altro che quanto i cittadini stessi avevano già dato allo Stato:
Essendo il principe quella persona che rappresenta tutti i sudditi suoi, i quali si può in certo modo dire che in lui vivano, operino e si sostengano, siccome è impossibile ch’ei sia debitore a se medesimo, così non può esser vero debitore de’ suoi sudditi stessi. Le ricchezze sue sono le contribuzioni esatte da’ cittadini ed in prò loro spese: dunque qualora ha speso il danaro prestatogli, già l’ha renduto (Della moneta, cit., p. 254).
I vantaggi del debito provenivano dalla possibile distribuzione della spesa sopra diversi esercizi, smorzandone così l’impatto immediato; dall’opportunità di garantire agli investitori un reddito più sicuro e fruttuoso di quello agrario; dalla possibilità offerta alle chiese e ai luoghi pii di investire nel debito assicurandosi una rendita certa che non richiedeva cure particolari. Ma i danni del debito pubblico, se non superavano, eguagliavano perlomeno i vantaggi. Il debito favoriva l’ozio, diminuiva il prezzo della terra convogliando i capitali verso altri impieghi e sottraeva ricchezza alla nazione. I guasti maggiori, secondo Galiani, provenivano tuttavia dalle spese di guerra, quando l’indebitamento cresceva sotto la pressione dell’urgenza:
Ma di tanti danni il gravissimo è quando lo stato contrae debiti dopo le sciagure di lunga e grave guerra. Trovandosi allora i sudditi esausti di danaro, gl’imprestiti sono fatti per la maggior parte da’ popoli confinanti, o al più da coloro che in mezzo alla universale miseria sono arricchiti (p. 257).
Nel caso pressoché inevitabile di un deficit di bilancio, se la situazione del Paese rendeva impraticabile il ricorso a nuove imposte, bisognava decidere se ricorrere alla svalutazione della moneta o all’emissione di ulteriori titoli del debito. Galiani si pronunciava in favore della prima soluzione nel caso in cui la crisi fosse ormai giunta alle sua fase finale, dato che una fiammata inflazionistica poteva arrecare alcuni benefici nel breve periodo; ma suggeriva di ricorrere al debito pubblico se la crisi si fosse protratta nel tempo. L’inflazione avrebbe comunque rappresentato una prospettiva da prendere in considerazione, nel caso si fosse deciso di alleviare il peso del debito (Cesarano 1995, pp. 111-13).
Ricordando lo stato rovinoso delle finanze in Francia ai tempi di Luigi XIV, nel 1780 Gaetano Filangieri, in Delle leggi politiche ed economiche (libro secondo della Scienza della legislazione), sottolineava particolarmente il tema dei capitali distolti dal debito dalle attività produttive:
Or tutte queste somme, che impiegate nell’agricoltura, nel commercio e nell’industria sarebbero la ricchezza della nazione, sono intieramente perdute per lo stato; […] sono anzi perniciose […], invece di fecondare le campagne, invece di eccitare il povero contadino al travaglio, restano sepolte in questi asili della mollezza, della profusione e della voluttà (in Scrittori classici, cit., parte moderna, t. 32, 1804, p. 379).
Tuttavia, per evitare di conservare un tesoro di Stato infruttuoso, egli suggeriva realisticamente di convogliare tutto il risparmio possibile nelle mani di coloro che erano in grado di utilizzarlo in modo produttivo, con l’esenzione dagli interessi passivi, a patto che i percettori si impegnassero a restituirlo prontamente all’occorrenza. Filangieri introduceva poi un elemento nuovo: senza contestare il diritto del governo a indebitarsi, rilevava per la prima volta che questo stava così «consumando anticipatamente le rendite dei suoi successori», mettendo in evidenza che la manovra del debito scaricava costi e benefici tra generazioni diverse.
Superato il periodo napoleonico, durante il quale il debito pubblico di molti territori italiani era stato ridotto d’autorità, il tema tornava nuovamente alla ribalta. L’abate Francesco Fuoco, scrivendo nel 1824 (sotto il nome di Giuseppe de Welz) La magia del credito svelata, esaltava il credito come motore dell’economia privata:
Il credito, che si può dire il creatore della potenza e della grandezza dei popoli più inciviliti […] il credito infine, che forma il più fermo sostegno, e la più inesauribile risorsa degli Stati, è presso che sconosciuto nel nostro paese. Era d’uopo dunque metterlo in pregio e in onore (1° vol., p. 24).
Ma debito privato e debito pubblico erano assimilabili, e il governo doveva mostrare nelle sue decisioni il buon senso di un padre di famiglia:
Uno stato deve parimenti stabilire una giusta bilancia tra le sue rendite e le sue spese, ma per i tempi ordinarii solamente. Se accade al padre di famiglia un avvenimento che l’obblighi ad una spesa straordinaria considerevolissima, egli ha due partiti a prendere; o deve vendere una porzione dei suoi beni, o contrarre un debito a prestito; forse il primo potrebb’essere preferibile al secondo. Lo Stato che si vede però improvvisamente obbligato a fare una spesa considerabilissima, può scegliere tra tre espedienti; cioè o vendere i beni, o mettere un’imposizione per la somma necessaria sopra i suoi abitanti, o infine prender questa a prestito. […] Sarà più vantaggioso per lo Stato, in caso di bisogno, ricorrere ad una imposizione, o pure prendere a prestito? (pp. 182-83).
Al di là dei toni enfatici, il merito di Fuoco era quello di non demonizzare il debito pubblico, ma di considerarlo come una risorsa, da utilizzare con attenzione sulla base degli obiettivi da raggiungere e delle alternative concretamente percorribili. Un messaggio che sarà poi ripreso e sviluppato dalla nuova generazione degli economisti che negli anni Trenta dell’Ottocento si andava raccogliendo intorno a «Il progresso» e alle altre riviste del tempo.
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