Decadentismo
di Italo Pantani
La fortuna del D. come categoria critico-letteraria è un fenomeno soprattutto italiano, a fronte di una presenza assai modesta nel panorama storiografico delle altre letterature europee. In Francia, per es., il termine Décadence designa esclusivamente il movimento nato ed esauritosi nel ventennio finale del 19° sec., e ben distinto da quello dei Symbolistes, pur in parte da esso scaturito; nei Paesi anglosassoni Decadence suona come sinonimo di Aestheticism, di Fin de siècle, ed è spesso sostituito dalla formula The 1890s, gli anni in cui operarono O. Wilde e i suoi sodali; in Germania il D. è generalmente considerato, per la sua tecnica impressionistica, anello di congiunzione fra Naturalismo e Simbolismo; in Russia il Dekadentstvo costituì solo una tendenza della temperie innovatrice manifestatasi tra il 1890 e il 1917, e oggi nel suo complesso denominata Modernismo: lo stesso termine in uso per definire il rinnovamento verificatosi nel segno del Simbolismo, tra il 1896 e il 1914, nelle aree di lingua spagnola.
Rispetto a questa netta delimitazione del fenomeno in Europa, la critica italiana ha fatto del D. una categoria ambigua e in perpetua ridefinizione. Primo responsabile di tale specificità fu B. Croce, il quale, lungo decenni di opposizione a tutta la letteratura figlia degli "irrazionalismi contemporanei", giudicò come "decadenti" (restituendo al termine tutte le sue implicazioni "degenerative") esperienze letterarie tra loro anche molto lontane (da A. Fogazzaro al Futurismo), seppur accomunate dalla sfiducia nella capacità del pensiero di dominare la realtà (La letteratura della nuova Italia, 6 voll., 1914-1940). E poiché a decadere in quegli autori erano per Croce le premesse del cosiddetto romanticismo pratico, a lungo il D. non fu neppure distinto da quel Romanticismo di cui sembrava piuttosto estremizzare temi e ossessioni, come magistralmente illustrato da M. Praz in La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica (1930).
A distinguere la "decadenza del romanticismo" dal D. intervenne uno studio di W. Binni, La poetica del decadentismo italiano (1936), nel quale il giovane autore osserva che mentre la poetica "romantica vive di slanci, di affermazioni intense della personalità", quella decadente mira a un "approfondimento del mondo e dell'io fino alla scoperta di un regno metempirico e metaspirituale " (pp. 27-28); su tali basi, tuttavia, il D. risultava non più distinguibile dal Simbolismo, anzi dalla stessa modernità letteraria nei suoi tratti qualificanti. Indebolitasi così la sua originaria valenza storica, il termine Decadentismo andò assumendone una genericamente metaforica, equivalente a "moderna civiltà della crisi": uso fatto proprio da N. Bobbio, che identificò La filosofia del decadentismo (1944) con l'Esistenzialismo, e da F. Flora, secondo cui all'origine del D. doveva essere collocata la perdita di Dio di cui soffre l'uomo moderno, e che avrebbe prodotto "il misticismo laico, il titanismo o prometeismo ateo […], il satanismo, il faustismo, l'irrazionalismo che si rifugia nello stato di natura" (Il Decadentismo, in Questioni e correnti di storia letteraria, 1949, p. 761): caratteri riconoscibili in Europa da P. Verlaine a M. Heidegger, in Italia da G. D'Annunzio fino agli ermetici.
Quando poi di questa "civiltà della crisi" la critica marxista propose una lettura sociologica, il D. apparve espressione della "decadenza" della società borghese, di cui condivideva la "reazione spiritualistica nei confronti dell'ultima manifestazione progressiva del pensiero borghese dell'Ottocento, il positivismo, e del più avanzato tentativo di arte realistica, il verismo" (C. Salinari, Miti e coscienza del decadentismo italiano, 1960, p. 9). Tale fu in particolare la tesi di C. Salinari, il quale pose anche un netto discrimine tra scrittori guidati da "cattiva coscienza" nell'elaborazione di utopie mistificanti quali il "santo" (Fogazzaro), il "fanciullino" (G. Pascoli), o il "superuomo" (G. D'Annunzio), e quanti invece reagirono scandagliando con lucida consapevolezza l'alienazione dell'uomo moderno (I. Svevo e L. Pirandello). Altri critici marxisti applicarono con maggiore elasticità i principi dell'estetica lukácsiana, ma invariata rimase nei loro studi la delimitazione cronologica del D., dai decenni finali dell'Ottocento fino alle avanguardie: le prime a superare, con la loro vocazione rivoluzionaria, l'"acquiescenza" decadente.
Del resto, a interpretazioni ancora più comprensive ha successivamente condotto l'applicazione di categorie psicoanalitiche. Per E. Gioanola, per es., in tutte le scuole poetiche sorte tra il Simbolismo e l'Ermetismo è dato riconoscere i denominatori comuni della scoperta dell'inconscio come istinto e dell'identificazione di Io e Mondo: condizioni entro cui l'individualismo "diventa solitudine, smarrimento, contemplazione sgomenta del pullulare senza direzione delle pulsioni istintuali" (Il Decadentismo, 1972, pp. 14-15) mentre, in campo artistico, si determina uno "smarrimento delle coordinate logiche di tempo, spazio, causalità" (p. 34), con conseguente liquidazione del Naturalismo e nascita del Simbolismo. E confini ancora più ampi è giunto a stabilire G. Ladolfi, che nel D. vede "il momento storico in cui la civiltà occidentale assume la consapevolezza della crisi in cui si dibatte da parecchi secoli" (1995, p. 133), per l'incapacità di offrire una soluzione ai quesiti esistenziali. In realtà, se non si fosse informati sulla storia appena tracciata, risulterebbe arduo comprendere perché mai analisi così penetranti abbiano fatto ricorso, invece che alla categoria, per es., di modernità, a una formula come quella del D., nata per designare un episodio storico-culturale ben preciso, caratterizzato da queste, ma anche da assai più delimitanti peculiarità.
Non sorprende allora se a fronte di questo progressivo e arbitrario ampliamento della portata semantica del termine, nei suoi confronti si nutra oggi una diffusa diffidenza, tale da suggerire di sostituirlo con espressioni meno compromesse, come Estetismo o Simbolismo (Antonielli 1973; Grana 1986). Una seconda soluzione prevede, invece, di salvaguardare il D. italiano come categoria storiografica, riconducendola però al ben delimitato orizzonte cronologico compreso tra la pubblicazione della raccolta dannunziana Intermezzo di rime (1884) e quella del volume L'imperialismo artistico (1903) di M. Morasso, emblematico delle nuove tendenze celebrative, trionfalistiche e antidecadenti ormai imperanti (Giovannetti 1994, che riprende proposte di R. Luperini e G. Petronio). Nel D. italiano troverebbero così posto l'attività delle riviste Cronaca bizantina e Il Convito; l'estetismo di A. Conti e G. D'Annunzio; la narrativa di A. Fogazzaro e L. Gualdo, la poesia del primo G. Pascoli e di G.P. Lucini: tutte esperienze, beninteso, di cui è nota la partecipazione solo parziale alle tematiche decadenti, fatta salva un'area ben definita della scrittura dannunziana. Volendo dunque continuare a servirsi di questa etichetta, lo si dovrà fare alla luce di quanto M. Praz osservava su Pascoli, per il quale bisognerebbe pensare "a un decadentismo che con la poetica e la tematica del decadentismo di marca straniera (anglo-francese) ha ben poco in comune" (1975, p. 22).
Bibliografia
S. Antonielli, Decadentismo, in Dizionario critico della letteratura italiana, a cura di V. Branca, 2° vol., Torino 1973, 19862, ad vocem.
M. Praz, Decadentismo, in Encicopedia del Novecento, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2° vol., Roma 1975, ad vocem.
G. Grana, Il "decadentismo" costruzione metastorica, in G. Grana, Le avanguardie letterarie, 1° vol., Milano 1986, pp. 43-89.
P. Giovannetti, Decadentismo, Milano 1994; G. Ladolfi, Proposta di interpretazione del Decadentismo, in Otto/Novecento, 1995, 2, pp. 127-69.
Storia della letteratura italiana, 8° vol., Tra l'Otto e il Novecento, a cura di E. Malato, Roma 1999.