Abstract
L’art. 32, l. n. 183/2010, segna un brusco mutamento nella linea di politica del diritto tradizionalmente seguita dal legislatore, in materia di decadenza.
La norma, infatti, modifica la disciplina dell’impugnazione del licenziamento e la estende a una molteplicità di fattispecie, al fine di imporre i lavoratori, pena la perdita dei diritti vantati, di accelerare i tempi della proposizione delle relative vertenze.
Tuttavia, lo scopo della disciplina, che dovrebbe essere quello di conferire certezze sull’assetto dei rapporti giuridici interessati, viene spesso contraddetto, in conseguenza dei molteplici dubbi interpretativi causati dalle carenze tecniche della disciplina medesima e delle norme che l’hanno successivamente modificata.
Nel diritto del lavoro il tema della decadenza, così come quello della prescrizione, è suscettibile di coinvolgere soprattutto la posizione del lavoratore, che nel rapporto assume normalmente la posizione del creditore; ma che, nel contempo, trova anche (almeno nelle ipotesi socialmente tipiche e sino a quando il rapporto stesso è in corso) le maggiori difficoltà nell’azionare i propri diritti.
Tale condizione – e con essa l’esigenza di assicurare effettività a interessi di rilevanza costituzionale – sembrano aver influito non poco sulle scelte del legislatore che, per decenni, ha di fatto limitato l’imposizione di termini decadenziali alle sole discipline delle rinunce e transazioni (art. 2113 c.c.) e del licenziamento (art. 6 l. 15.7.1966, n. 604).
Un ruolo del tutto marginale, invero, va riconosciuto ai pochi, ulteriori termini legali, che non sono suscettibili di determinare effetti sostanziali (art. 7, co. 6, st. lav.) o che regolano facoltà che il lavoratore ben raramente ha interesse a esercitare (art. 2112, co. 4, c.c.).
Poco numerosi sono anche i termini decadenziali introdotti dai contratti collettivi, che tuttavia non hanno mancato di dar vita ad un contenzioso, i cui esiti sono stati anch’essi influenzati dall’esigenza di conferire effettività ai diritti dei lavoratori.
Superato il risalente orientamento che, richiamandosi all’art. 2968 c.c., negava a priori la legittimità dell’imposizione di termini convenzionali, la giurisprudenza si è concentrata, soprattutto, sull’esigenza, richiamata dall’art. 2695 c.c., di non rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto.
L’orientamento prevalente si è così attestato nel ritenere congrua l’imposizione di un termine semestrale analogo a quello previsto dall’art. 2113 c.c.. Nel contempo – in dichiarato parallelismo con il meccanismo previsto da quella norma e, soprattutto, con gli arresti in materia di prescrizione dei crediti retributivi – la Cassazione ha spesso considerato illegittima la fissazione del dies a quo in costanza di rapporto, qualora questo non fosse assistito dal tutela “reale” contro i licenziamenti.
L’ampiezza del limite imposto dal suddetto orientamento potrebbe, peraltro, essere oggetto di riconsiderazione, qualora venissero recepiti i dubbi di quella parte della dottrina la quale, considerato il mix di tutela reale e obbligatoria contenuto nell’art. 18 st. lav., come riscritto dalla l. l. 28.6.2012 n. 92, ha ipotizzato che la prescrizione non possa decorrere più in costanza di rapporto, neppure nell’ambito di applicazione della norma statutaria. Tali dubbi, peraltro sono destinati, come noto, ad aumentare, se il cosiddetto contratto “a tutele crescenti”, introdotto dal d.lgs. 4.3.3015, n. 23, per il quale si prevede una tutela contro i licenziamenti illegittimi ulteriormente depotenziata.
La posizione defilata che, per molti anni, l’istituto della decadenza ha assunto nell’ambito della legislazione del lavoro è venuta meno con l’introduzione dell’art. 32, co. da 1 a 4, l. 4.11.2010 n. 183, il quale ha modificato la disciplina già dettata per l’impugnazione dei soli licenziamenti dall’art. 6, l. n. 604/1966, imponendo un doppio termine, rispettivamente per la proposizione dell’impugnazione stragiudiziale e l’avvio dell’azione giudiziale (ovvero della conciliazione e dell’arbitrato: cfr. infra, §§ 4 e 5), ed estendendo tale nuovo regime ad un ampio ventaglio di fattispecie, che coinvolgono fondamentali diritti del lavoratore: diritti che, qualora la decadenza si realizzi, per decorrenza anche di uno solo di tali termini, vengono irrimediabilmente pregiudicati.
La finalità dell’intervento appare essere non tanto, come asserito da molti, quella di deflazionare il contenzioso, quanto, piuttosto, quella di accelerarne i tempi, per contrastare il fenomeno delle “vertenze quiescenti”, che per molto tempo aveva consentito ai lavoratori di procrastinare, anche di anni, secondo i propri personali interessi, l’iniziativa giudiziaria.
Si consideri, al riguardo, che (pur scontando non poche incongruenze, derivanti dallo scarso livello tecnico sia del testo originario che delle successive modifiche) l’art. 32 della l. n. 183/2010 considera soprattutto fattispecie di controversa sussistenza del rapporto di lavoro in capo al convenuto. Tanto le impugnazioni dei licenziamenti coperti da tutela reale, quanto le azioni di nullità del termine e le controversie sull’imputazione del rapporto, comprese quelle collegate a trasferimenti d’azienda, sono infatti suscettibili, oltre che di imporre gravi oneri economici, spesso progressivamente crescenti con il prolungamento dei tempi del giudizio, anche di incidere sulla esatta definizione del livello occupazionale e, quindi, su questioni che direttamente chiamano in causa interessi fondamentali dell’impresa. Lo stesso può dirsi per il trasferimento del dipendente, la cui eventuale censura è comunque suscettibile di alterare gli equilibri interni dell’organizzazione.
La nuova disciplina, che impone al lavoratore di accelerare la proposizione della vertenza, appare dunque finalizzata soprattutto ad imporre la celere emersione di un contenzioso che, per molte delle fattispecie considerate, ed in particolare per il lavoro a termine e per le somministrazioni, aveva già raggiunto dimensioni notevoli, potenzialmente destabilizzanti, per intere realtà produttive.
La disciplina, dunque, non risponde propriamente ad un interesse pubblico (quale quello riferibile, in ipotesi, a norme volte a decongestionare i Tribunali), ma, piuttosto, all’interesse del sistema delle imprese ad una rapida soluzione di determinate e particolarmente delicate tipologie di contenzioso: un interesse, quindi, “di parte” (per questo, in sede processuale, la decadenza rimane oggetto di eccezione in senso stretto), ma comunque riferibile all’art. 41 Cost.
Pur dovendo dare atto, quindi, che le nuove norme esprimono una mutata sensibilità del legislatore in tema di bilanciamento tra diritti del lavoratore e interessi dell’impresa, non sembrano condivisibili i giudizi di chi, commentando il provvedimento già prima della sua approvazione, lo aveva considerato «un colpo letale alla maggior parte dei diritti del lavoratore». In fondo, sia con l’art. 32 che con le successive modifiche, il legislatore ha lasciato all’interessato un periodo per organizzare la difesa in giudizio che, per essere sempre superiore a 6 mesi, può considerarsi congruo. Né va sottovalutato il fatto che un eccessivo ritardo nella promozione della vertenza può considerarsi significativo del difetto di un effettivo stato di bisogno del lavoratore.
In linea di principio, quindi, sembra di poter affermare che la disciplina realizza un equilibrato bilanciamento tra gli interessi in gioco.
La stessa Corte costituzionale, pur chiamata ad occuparsi di un profilo particolare (era stata censurata soltanto la disparità di trattamento che l’art. 32 ha posto, nella disciplina transitoria, tra i contratti a termine e le altre fattispecie previste: cfr. infra, § 3.2), e pur assumendo, per questo, che oggetto del giudizio erano «in via esclusiva le modalità con le quali il legislatore ha disciplinato la previsione del termine di decadenza (…) e non anche la stessa previsione di detto termine o la congruità del medesimo», ha comunque riconosciuto che «la ratio di tale disciplina si rinviene in una pluralità di esigenze» meritevoli di tutela (C. cost., 4.6.2014 n. 155).
Fermo quanto sopra, non si può, però, ignorare come il bilanciamento del quale si è detto spesso finisca, in concreto, per essere alterato a causa delle criticità derivanti dalle carenze tecniche delle norme in esame, che di fatto hanno generato, paradossalmente, destabilizzanti incertezze in ordine ai tempi e alle modalità con le quali i termini effettivamente operano.
Secondo l’opinione largamente prevalente il vecchio art. 6, l. n. 604/1966, si applicava ai soli recessi “interni” al sistema della stessa l. n. 604/1966: rimanevano pertanto escluse le fattispecie assoggettate a discipline particolari, quali quelle dei licenziamenti intimati a lavoratori in prova o a dirigenti (Il licenziamento del dirigente privato); o posti in essere in violazione delle norme a tutela delle lavoratrici madri e che contraggono matrimonio; o quelli intimati in violazione dell’art. 2112 c.c. e delle discipline del comporto.
L’art. 32, co. 2, l. n. 183/2010, estende l’applicazione della nuova disciplina «anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento», e dunque anche alle fattispecie “esterne” alla disciplina della l. n. 604/1966 e sue modifiche.
L’ampiezza dell’estensione dipende però dal significato che si attribuisce al termine “invalidità”.
Se esso viene considerato come sinonimo del più ampio concetto di illegittimità, la nuova disciplina risulta applicabile all’impugnazione di qualsiasi licenziamento.
Se, invece, si attribuisce al termine invalidità il significato suo proprio, si deve affermare che la norma opera solo quando il vizio sia suscettibile di determinare la demolizione del negozio e dei suoi effetti solutori: e cioè quando si possa invocare una tutela “reale”, con diritto alla reintegrazione, o si possa, quantomeno, affermare una nullità di diritto comune del recesso.
Se si accoglie tale seconda interpretazione la disciplina risulta piuttosto articolata.
In tal caso, infatti, i licenziamenti che, in base ai criteri individuati dalla giurisprudenza ante novella, possono considerarsi “interni” alla disciplina della l. n. 604/1966, rimangono comunque assoggettati all’onere di impugnazione, indipendentemente dal tipo di tutela – reale o obbligatoria – invocabile.
L’estensione degli oneri di impugnazione alle fattispecie “esterne” al sistema della l. n. 604/1966, prevista dall’art. 32, co. 2, invece, può dirsi applicabile solo qualora risulti invocabile la reintegra; mentre rimangono escluse le fattispecie di recesso che, pur illegittimo, sia valido, come quella del licenziamento immotivato del dirigente o del licenziamento intimato in corso di prova, nel quale si lamenti violazione dell’obbligo di correttezza, consistente nel non aver consentito la prova stessa con modalità adeguate.
Tale seconda interpretazione consente anche di attribuire un preciso significato all’art. 1, co. 46, l. n. 92/2012, che ha modificato il regime sanzionatorio previsto dall’art. 5, co. 3, l. 23.7.1991, n. 223 per i licenziamenti collettivi – fattispecie “esterna”, rispetto al sistema della l. n. 604/1966 – introducendo ipotesi di tutela obbligatoria.
La norma, nel rinviare espressamente all’art. 6 l. n. 604/1966 «e successive modificazioni», conferma che, indipendentemente dal tipo di tutela invocabile, le impugnazioni di tali recessi sono sempre e comunque assoggettate alle decadenze: tale indicazione sarebbe invece inutile, qualora si aderisse alla prima delle due tesi indicate, che annacqua la nozione di invalidità contenuta nell’art. 32, co. 2, l. n. 183/2010, perché introdurrebbe una disposizione semplicemente ripetitiva di tale norma.
Sempre seguendo tale interpretazione, potrebbe ritenersi anche una significativa limitazione della disciplina della decadenza, con riferimento al contratto a tutele crescenti, per il quale, come già detto, il d.lgs. n. 23/2015, ha drasticamente ridotto l’area di applicazione della tutela reale. Si tratta, tuttavia, di questione che merita approfondimento, anche in relazione a quanto disposto dalla legge delega 10.12.2014 n. 183, che chiedeva al legislatore di prevedere «termini certi per l’impugnazione del licenziamento» (art. 1, co. 7, lett. c).
È diffusa l’opinione per la quale, come già nel vigore della precedente disciplina, le decadenze non opererebbero per il licenziamento orale.
A tale conclusione, però, sembra opporsi il citato art. 32, co. 2: un simile recesso, invero è (non inesistente, come talora afferma la giurisprudenza, ma) nullo per mancanza di forma scritta ad substantiam, e dunque invalido; appare dunque corretto applicare le nuove decadenze anche a tale fattispecie.
Infine, l’art. 32, co. 3, lett. a) della l. n. 183/2010 dichiara, sia nel testo originario che in quello novellato nel 2012, che gli oneri imposti dall’art. 6, l. n. 604/1966, si applicano anche «ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro».
La disposizione, in realtà, semplicemente conferma il principio generale per il quale la disciplina applicabile si determina sempre in base alla effettiva natura del rapporto, e pertanto non sembra introdurre alcun effettivo elemento di novità.
Quella dei contratti a termine costituisce l’area di intervento per la quale l’interesse del legislatore a far emergere il contenzioso “quiescente” (e depotenziarne gli effetti: cfr. quanto disposto dal quinto comma dello stesso art. 32, l. n. 183/2010, in ordine alle limitate conseguenze della conversione a tempo indeterminato del rapporto) si manifesta con maggior evidenza.
L’art. 1, co. 11, l. n. 92/2012, ha spostato nella lett. a)la disposizione in origine contenuta nella lett. d), co. 3, art. 32, riferita «all'azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli artt. 1, 2 e 4, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e successive modificazioni».
Il riferimento è, dunque, alla pretesa del lavoratore di far accertare l’illegittimità del termine e, di conseguenza, la sussistenza di un rapporto a tempo indeterminato.
Tuttavia, l’ambito di applicazione della disposizione è controverso.
Secondo parte della dottrina, il legislatore si sarebbe riferito ai soli casi di violazione dei richiamati artt. 1, 2 e 4 del d.lgs. n. 368/2001, escludendo le ipotesi sanzionate dagli artt. 3 e 5 dello stesso decreto.
In realtà, una simile differenziazione sembra ingiustificata.
Appare dunque preferibile ritenere che il richiamo ai suddetti articoli si riferisca non già ai motivi di nullità, ma piuttosto ai contratti stipulati ai sensi di tali norme: con la conseguenza che, per questi, l’impugnazione tempestiva deve ritenersi imposta per tutte le ipotesi di invalidità della clausola appositiva del termine: ipotesi, peraltro, oggi profondamente modificate, per effetto della nuova disciplina introdotta dal d.l. 20.3.2014, n. 34, conv. dalla l. 16.5.2014, n. 78.
In realtà, sembra di dover ritenere che, sia prima che dopo l’emanazione del d.l. n. 34/2014, l’art. 32, co. 3, lett. a), l. n. 183/2010, selezioni le tipologie di vizio assoggettate agli oneri di impugnazione, mediante l’espresso riferimento ai soli casi di «nullità» della clausola appositiva del termine.
Di conseguenza, sembrano doversi ritenere sottratte a tali oneri le fattispecie nelle quali non si faccia valere una nullità in senso tecnico di detta clausola, come ad esempio avviene in ipotesi di protrazione de facto del rapporto oltre il periodo di tolleranza previsto dall’art. 4, co. 1 e 2 del d.lgs. n. 368/2001: in tal caso, infatti, il rapporto si trasforma a tempo indeterminato non perché il termine sia nullo, ma perché viene superato.
Dubbi sull’applicazione della decadenza devono, in proposito, sollevarsi anche per l’impugnazione dei contratti a tempo determinato nel settore pubblico, per i quali l’art. 36, d.lgs. 30.3.2001 n. 165, vieta la stabilizzazione del rapporto, prevedendo la diversa sanzione del risarcimento danni (sanzione compatibile con il diritto comunitario, se non rende eccessivamente difficile l’esercizio del diritto: C. giust., 12.12.2013, C-50/13, Rocco Papalia c. Comune di Aosta).
Tale disciplina, infatti, impedisce di considerare la clausola appositiva del termine come tecnicamente “nulla” (lo stesso art. 36, co. 5-quater, sanziona di nullità l’intero contratto, e non, quindi, la clausola suddetta, come invece accade per il lavoro privato).
In realtà, l’estensione delle discipline della decadenza alle controversie in materia di contratto a termine viene limitata dal citato art. 32, co. 3, lett. a) anche sotto altro profilo: dall’espresso riferimento ai soli contratti stipulati ai sensi del d.lgs. n. 368/2001, del quale si è detto, si deduce infatti l’esclusione di tutte le controversie che abbiano ad oggetto contratti a tempo determinato regolati da discipline diverse da quelle poste dallo stesso d.lgs. n. 368/2001, ivi compresi quelli esclusi ai sensi del suo art. 10.
Alla stessa soluzione deve giungersi per i contratti già «in corso di esecuzione» alla data di entrata in vigore della l. n. 183/2010, il cui assoggettamento agli oneri di impugnazione è stato espressamente previsto dal co. 4, lett. a) dello stesso articolo.
Appare, invece, ben più ampia la previsione contenuta nella successiva lett. b) dello stesso co. 4, che applica il novellato art. 6, l. n. 604/1966, «ai contratti di lavoro a termine, stipulati anche in applicazione di disposizioni di legge previgenti al decreto legislativo 6 settembre 2001 n. 368, e già conclusi alla data di entrata in vigore» della medesima l. n. 183/2010, «con decorrenza dalla medesima data di entrata in vigore».
In questo caso, infatti, la limitazione ai contratti stipulati ai sensi del suddetto decreto viene meno. Di conseguenza, sembra di poter affermare che tutti i contratti il cui termine sia scaduto prima dell’entrata in vigore della l. n. 183/2010 (ma sulla esatta individuazione di tale data v. infra, § 6), e dei quali si voglia far valere la nullità del termine stesso, sono stati assoggettati all’onere di impugnazione, indipendentemente dalla disciplina che li ha regolati.
Tale applicazione “retroattiva” della nuova disciplina delle decadenza alle fattispecie già perfezionatesi prima della sua entrata in vigore è stata espressamente prevista per i soli contratti a termine: tale scelta – che, al di là delle incongruenze evidenziate dalle singole disposizioni, appare confermare quanto sopra osservato, in ordine alla volontà del legislatore di intervenire nella maniera più incisiva sul contenzioso in materia – è stata avallata dalla Corte costituzionale, che, con la citata sentenza n. 151/2014, l’ha reputata frutto di legittima discrezionalità.
L’art. 32, co. 3, lett. c), l. n. 183/2012, assoggetta agli oneri di impugnazione anche il trasferimento del lavoratore, disposto ai sensi dell’art. 2103 c.c.
Neppure in questo caso l’eventuale comunicazione in forma orale del provvedimento datoriale (che la legge neppure assoggetta ad oneri di forma) sembra essere di ostacolo all’operatività della decadenza.
Va, piuttosto, segnalato come, in questo caso, la decorrenza del termine in costanza di rapporto possa, di fatto, introdurre eccessivi ostacoli all’esercizio del diritto del dipendente (v. infra, § 4.2).
L’art. 32, co. 4, lett. c), l. n. 183/2010, impone l’applicazione del novellato art. 6, l. n. 604/1966, anche all’ipotesi di «cessione di contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell’art. 2112 del codice civile».
L’imprecisione della terminologia usata è evidente: l’art. 2112 c.c., infatti, non prevede una cessione del contratto (art. 1406 c.c.), ma una ben diversa fattispecie di trasferimento ex lege della titolarità del rapporto, sul lato del datore di lavoro.
La disciplina sembra comunque operare non solo quando il lavoratore contesti la legittimità di tale trasferimento, invocando la permanenza del proprio rapporto in capo al cedente, ma anche nell’ipotesi inversa, nella quale l’interessato vanti il diritto, negatogli, a proseguire il rapporto presso il cessionario: in entrambi i casi, invero, si discute dell’imputazione del rapporto in capo all’uno o all’altro datore di lavoro, e quindi assume eguale rilievo la finalità, perseguita dal legislatore, di far emergere celermente un contenzioso suscettibile di incidere sulla consistenza occupazionale del plesso aziendale.
Il co. 4, lett. d), art. 32, l. n. 183/2010, completa le fattispecie che interessano il lavoro subordinato, assoggettando al regime delle decadenze anche «ogni altro caso in cui, compresa l’ipotesi prevista dall’art. 27 del decreto legislativo 10 settembre 2003 n. 276, si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a soggetto diverso dal titolare del contratto». Le ipotesi regolate sono varie: si va dalla somministrazione fraudolenta a quella irregolare, dagli appalti illegittimi alla violazione delle norme sul distacco, sino ai fenomeni interpositori che possono realizzarsi nell’ambito dei gruppi di imprese e ai casi nei quali si rivendichi la cosiddetta contitolarità dei rapporti.
In tutti questi casi, la decadenza è suscettibile di pregiudicare la rivendicazione non solo dei diritti maturati nei confronti dell’utilizzatore, per effetto delle prestazioni svolte (ad esempio per differenze retributive), ma anche (e soprattutto) la “stabilizzazione” a tempo indeterminato del rapporto presso l’utilizzatore stesso.
Non sembra, invece, di poter condividere la tesi che include nella previsione anche le pretese derivanti dalla successione nell’assegnazione di appalti: in tali casi, invero, il lavoratore non contesta l’imputazione di un rapporto già eseguito in capo ad un soggetto diverso da colui che l’ha assunto, ma semplicemente chiede di passare alle dipendenze dell’appaltatore subentrante. Pertanto, se alla fattispecie si accompagna un trasferimento d’azienda, la decadenza si applica ai sensi del co. 3, lett. c), dello stesso art. 32; altrimenti tale applicabilità sembra da escludere.
L’art. 32, co. 3, lett. b), l. n. 183/2010 estende infine il regime delle decadenze all’impugnazione del «recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità a progetto».
La norma si riferisce a tutti i rapporti qualificabili ai sensi dell’art. 409, n. 3, c.p.c., e quindi anche le residue ipotesi nelle quali l’art. 61 d.lgs. 10.9.2003, n. 276 e successive modifiche consentono di instaurare collaborazioni “classiche” a tempo indeterminato, ai contratti di agenzia connotati da personalità delle prestazioni, ai rapporti con professionisti, anche iscritti ad albi, che abbiano le caratteristiche previste dalla norma.
Non sembra fondata la tesi che postula, ai fini dell’operatività dei termini, la necessità di una comunicazione scritta, sia perché, come già visto, neppure per il licenziamento l’oralità costituisce ormai ostacolo all’applicazione della disciplina, sia perché, comunque, i rapporti dei quali si discute non condividono neppure le discipline degli oneri formali dettate per il recesso dal rapporto di lavoro subordinato.
In realtà, tali discipline non sono neppure suscettibili di determinare quelle turbative ai livelli occupazionali dell’impresa, delle quali si è detto, con riferimento alla ratio riferibile alle altre fattispecie considerate dalla l. n. 183/2010: la disposizione, quindi, sembra rispondere solo a una generica volontà del legislatore di assimilare la disciplina dei collaboratori a quella dei dipendenti, indipendentemente dagli effetti che, in concreto, possano discendere dall’impugnazione del relativo recesso.
Il novellato art. 6 l. n. 604/1966 innanzitutto ripropone, per applicarlo a tutte le fattispecie delle quali si è detto, il termine di 60 giorni per l’impugnazione stragiudiziale, già previsto dal vecchio testo.
Tale termine è stato portato a 120 giorni per la sola impugnazione dei contratti a termine cessati «a decorrere dal 1° gennaio 2013» (art. 32, co. 3, lett. a), riformulato dall’art. 1, l. n. 92/2012).
Come già nel vigore della precedente disciplina, l’impugnazione – necessariamente scritta – non richiede formule sacramentali: sarà infatti sufficiente che l’atto faccia conoscere la volontà del lavoratore e, soprattutto, identifichi chiaramente l’oggetto dell’impugnazione (recesso, contratto a termine, somministrazione o altro).
Qualora invio e ricezione dell’atto non siano contestuali, in applicazione del principio della scissione degli effetti rispettivamente in capo all’autore e al destinatario (Cass., S.U., 14.4.2010 n. 8830), la tempestività dell’impugnazione va valutata facendo riferimento alla data di invio.
Gli effetti che, invece, l’impugnazione realizza nei confronti del datore di lavoro decorrono dalla data di ricezione, dalla quale, pertanto, decorre il «termine di 15 giorni dalla comunicazione (…) dell’impugnazione», entro il quale il datore medesimo può revocare il licenziamento ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 18 st. lav., novellato dalla l. n. 92/2012.
La data di decorrenza del termine in esame va individuata in modo diverso, a seconda della fattispecie interessata.
In tutte le ipotesi nelle quali si discuta di un recesso, essa coincide con quella di ricezione del provvedimento da parte dell’interessato.
Non rileva, dunque, la data di effettiva cessazione del rapporto, che può risultare anche successiva, per effetto del preavviso.
Per ciò che attiene, in particolare, al licenziamento, non sembra avere più rilievo neppure il riferimento – ancora contenuto nel testo dell’art. 6, co. 1, l. n. 604/1966 – alla data della eventuale comunicazione differita dei motivi, effettuata su richiesta del lavoratore: tale ipotesi, infatti, non si realizza più da quando l’art. 1, co. 37, l. n. 92/2012, ha riscritto l’art. 2 della l. n. 604/1966, sancendo l’obbligo di motivare il licenziamento contestualmente alla sua intimazione.
Per l’impugnazione dei contratti a termine occorre distinguere.
Per quelli già cessati prima della data di entrata in vigore della l. n. 183/2010, il co. 4, lett. b) dell’art. 32 ha fatto riferimento alla data stessa (ma v. quanto osservato infra, § 6, in ordine agli effetti del cd. decreto milleproroghe).
Per gli altri contratti, il legislatore ha utilizzato espressioni diverse.
Il testo originario del co. 3, lett. d) e quello del co. 4, lett. a) (quest’ultimo ormai privo di pratico rilievo giacché riferito ai contratti in corso alla data di entrata in vigore della legge) hanno fatto riferimento alla «scadenza» del «termine».
La nuova lett. a) dello stesso co. 3 dell’art. 32, invece, fa oggi riferimento alla data di «cessazione del (…) contratto».
Sembra di poter ritenere che, con tale espressione, il legislatore abbia inteso riferirsi alla data di cessazione effettiva del rapporto contrattuale: conseguentemente, quando questo si sia protratto oltre il termine originariamente fissato (in virtù non solo di proroga ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. n. 368/2001, ma anche per mera prosecuzione, ex art. 5, co. 1, del decreto stesso) il dies a quo dovrà intendersi corrispondentemente spostato.
Come già accennato, è assai discutibile la scelta del legislatore di far decorrere il termine per l’impugnazione del trasferimento del dipendente dalla «data di ricezione della comunicazione» del relativo provvedimento (sia essa scritta o orale: v. supra, § 3.3).
Il dipendente, invero, non può assumere, con piena consapevolezza, le decisioni relative all’esercizio del diritto, se non quando conosce tutti gli elementi della fattispecie. Il meccanismo previsto dal legislatore, pertanto, appare suscettibile di pregiudicare l’effettività del diritto stesso, poiché, nella maggior parte dei casi, la concreta sussistenza delle «comprovate esigenze» alla quale l’art. 2103 c.c. subordina la legittimità del licenziamento può essere verificata solo dopo aver effettivamente esaminato le modalità con le quali il lavoratore viene concretamente inserito nel nuovo contesto organizzativo.
L’avvio immediato del termine di 60 giorni, dunque, impone un lasso di tempo troppo breve, spesso insufficiente perché il lavoratore possa consapevolmente decidere se convenga impugnare.
Addirittura, se il provvedimento viene comunicato con congruo preavviso, il termine può spirare prima che l’interessato abbia preso servizio presso la nuova sede.
Non sembra, pertanto, azzardato dubitare della costituzionalità della norma.
A ciò si aggiunga che, secondo parte della dottrina, che richiama gli arresti della giurisprudenza costituzionale in materia di prescrizione dei crediti retributivi, il solo fatto della decorrenza del termine in costanza di rapporto sarebbe già sufficiente a ritenere la sussistenza di un ostacolo eccessivo all’esercizio del diritto.
Per il trasferimento d’azienda, l’art. 32, co. 4, lett. c) fa testuale riferimento alla «data del trasferimento» stesso, trascurando così di considerare che tale fattispecie si realizza mediante atti (vendite, affitti, etc.) ai quali il lavoratore rimane estraneo.
La dottrina ha in effetti segnalato i profili di incostituzionalità che inficerebbero la disposizione, qualora questa venisse intesa in senso strettamente letterale, ed ha quindi ritenuto che il termine può decorrere solo se e a partire da quando il trasferimento è conosciuto (o almeno conoscibile) dall’interessato.
Le modalità con le quali detta conoscenza può realizzarsi possono essere molteplici.
Si può affermare che il termine decorre dalla data del trasferimento, qualora questa sia preannunciata, nel corso della procedura sindacale ex art. 47 l. 29.12.1990, n. 428.
In mancanza di detta procedura, il lavoratore potrà avere comunque effettiva notizia del trasferimento con qualsiasi mezzo, e quindi non solo con una comunicazione scritta che glielo comunica direttamente, ma anche, ad esempio, con la semplice ricezione della busta paga intestata al nuovo datore di lavoro.
Non sembra, invece, poter attribuire rilevanza alle risultanze del registro delle imprese, perché altrimenti si finirebbe per addossare ad ogni dipendente l’onere di un costante controllo.
Quanto all’individuazione del destinatario dell’impugnativa, non sembra condivisibile la tesi che reputa valido l’invio effettuato, indifferentemente, al cedente o al cessionario: l’impugnazione, infatti, va inviata al legittimato passivo nella controversia che, di volta in volta, viene preannunciata (v. supra, § 3.4).
Se, dunque, il lavoratore contesta la legittimità del suo trasferimento presso il cessionario, il necessario destinatario dell’atto è il cedente, alle cui dipendenze egli pretende di continuare il rapporto; se, invece, il dipendente vuol far valere gli effetti dell’art. 2112 c.c., l’impugnazione andrà inviata al cessionario.
La legge tace sulla data di decorrenza del termine, nei casi in cui si reclami l’accertamento o la costituzione di un rapporto in capo a soggetto diverso dal titolare del contratto.
La lacuna va colmata, individuando il dies a quo nel momento in cui la fattispecie sostanziale di riferimento si è completamente perfezionata, e dunque nella data di cessazione del rapporto; o più precisamente nella data di cessazione della prestazione presso l’utilizzatore, che, in quanto soggetto che si pretende di qualificare come datore di lavoro effettivo, è anche l’unico soggetto legittimato alla ricezione dell’impugnazione.
Nella pratica, tuttavia, può essere difficile individuare tale momento: a fronte di fattispecie nelle quali la cessazione è formalizzata (es. somministrazione a tempo determinato), ve ne sono altre ben più sfuggenti, come quella dell’appalto, nella quale la cessazione della prestazione in favore dell’appaltante normalmente si realizza in via di mero fatto.
La vera novità introdotta dalla novella del 2010 sta nell’aver imposto, con il riformulato secondo comma dell’art. 6, l. n. 604/1966, un termine ulteriore e «successivo» a quello per l’impugnazione stragiudiziale – originariamente fissato dalla l. n. 183/2010 in 270 giorni – entro il quale bisogna promuovere l’impugnazione giudiziale o, in alternativa, il tentativo di conciliazione o l’arbitrato.
In difetto, la norma dispone che «l’impugnazione è inefficace» e dunque il lavoratore decade dai vantati diritti, esattamente come sarebbe accaduto in caso di mancato rispetto del termine precedente.
L’art. 1, co. 38, l. n. 92/2012, ha portato detto termine a 180 giorni.
L’interpretazione che riferisce tale intervento alla sola impugnazione dei licenziamenti non convince: la norma, infatti, incide in via definitiva sul testo dell’art. 6, al quale, a loro volta, fanno riferimento anche tutte le altre fattispecie.
Né, a sostegno di tale interpretazione restrittiva, sembra potersi invocare il co. 39 dello stesso art. 1 l. n. 92/2010, ai sensi del quale il nuovo e più breve termine «si applica in relazione ai licenziamenti intimati dopo la data di entrata in vigore» di quella legge, e cioè dal 18.7.2012.
L’espresso riferimento ai licenziamenti, in questo caso, ha infatti la funzione di definire l’ambito di applicazione del nuovo termine con riferimento non al tipo di fattispecie, bensì alla sua collocazione temporale. Il legislatore, cioè, prende espressamente posizione per i licenziamenti, indicando che la data di intimazione (rectius di ricezione) costituisce il criterio determinante per stabilire quando, per tali provvedimenti, il nuovo termine entra in vigore.
Per le altre fattispecie, sulle quali la legge tace, dovrà dunque farsi riferimento alla disciplina generale dettata dall’art. 252 disp. att. c.c., il quale dispone che, quando viene introdotto un «un termine più breve di quello stabilito dalle leggi anteriori, il nuovo termine si applica anche all'esercizio dei diritti sorti anteriormente (…) purché, a norma della legge precedente, non rimanga a decorrere un termine minore».
Infine, per i contratti a termine cessati a partire dal 1° gennaio 2013, l’art. 32, co. 3, lett. a), l. n. 183/2010, riscritto dalla l. n. 92/2012, dopo aver previsto, come già ricordato (v. supra, § 4.1), l’elevazione a 120 giorni del termine per l’impugnazione stragiudiziale, ha altresì statuito che «il termine di cui al primo periodo del secondo comma [e cioè, appunto, quello per l’impugnazione giudiziale] è fissato in 180 giorni».
Se è esatto affermare che il vecchio termine di 270 è stato superato per tutte le fattispecie, tale norma sembra semplicemente confermare detta modifica; fermo restando che, ad oggi, la vertenza sul contratto a termine può essere proposta e organizzata in un periodo complessivamente più ampio (120 + 180 giorni) di quello concesso per le altre fattispecie (60 + 180 giorni).
Come si è detto, il termine del quale si discute può essere interrotto, impedendo la decadenza, innanzitutto promuovendo il giudizio: in questo caso, l’art. 6, co. 2, l. n. 604/1966 impone di provvedere, entro il 180° giorno, al deposito del ricorso. Non v’è, dunque, decadenza, qualora la sola notifica sia intervenuta in data successiva.
In alternativa al ricorso giudiziale, il lavoratore può promuovere il tentativo di conciliazione ovvero l’arbitrato.
In questo caso, l’atto da compiere – testualmente individuato dal legislatore nella «richiesta» di tali procedure – va di volta in volta identificato in base alle discipline regolatrici di tali istituti, poste dalla legge o dai contratti collettivi.
In particolare, per ciò che attiene al tentativo di conciliazione ex art. 410 c.p.c., va fatto riferimento all’invio della richiesta, effettuato con le modalità previste dai co. 5 e ss. di detto articolo.
Il secondo comma dello stesso art. 410 c.p.c. dispone che detta procedura «sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i 20 giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza».
Tale disposizione, di carattere generale, non sembra applicabile alle fattispecie previste dall’art. 32, l. n. 183/2010, per le quali bisogna invece far riferimento alla disciplina speciale contenuta nello stesso novellato art. 6 l. n. 604/1966.
Lo stesso secondo comma di tale articolo, invero, prevede un terzo termine di decadenza di 60 giorni, entro il quale va depositato il ricorso giudiziario, in tutti i casi in cui «la conciliazione o l’arbitrato [già tempestivamente] richiesti siano rifiutati o non sia stato raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento».
La disposizione non sembra, in realtà, considerare tutti gli esiti che possono derivare dalla promozione delle suddette procedure, ed in particolare non sembra prevedere né l’ipotesi in cui il tentativo di conciliazione sia stato accettato, ma alla fine le parti non abbiano trovato un accordo, né quella dell’arbitrato tempestivamente promosso dal lavoratore ma non sfociato in un lodo.
In tali casi, il termine di decadenza per la proposizione del giudizio non sembra, pertanto, poter effettivamente operare.
La data di entrata in vigore delle discipline delle quali si è sin qui detto originariamente coincideva con quella dell’intera l. n. 183/2010, e cioè con la data del 24.11.2010.
È, tuttavia, intervenuto l’art. 2, co. 54, d.l. 29.12.2010 n. 225, cosiddetto “milleproroghe”, che – introdotto dalla l. di conversione 27.2.2011, n. 10 e, quindi, entrato in vigore il 27 febbraio 2011 – ha inserito nell’art. 32, l. 183/2010, il co. 1-bis, il quale ha testualmente disposto che «In sede di prima applicazione, le disposizioni di cui all’art. 6, primo comma, della l. 15 luglio 1966 n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, relative al termine di sessanta giorni per l'impugnazione del licenziamento, acquistano efficacia a decorrere dal 31 dicembre 2011».
La norma ha generato numerosi dubbi interpretativi e un cospicuo contenzioso, che si è sviluppato soprattutto attorno a due fondamentali questioni.
In particolare, si è discusso se del suddetto co. 1-bis beneficino tutte o solo alcune delle numerose fattispecie (impugnazioni di licenziamenti, contenziosi su trasferimenti, contestazioni di contratti e termine e altre tipologie di contratti atipici etc.) sottoposte ai regime delle decadenze dall’art. 32, l. n. 183/2010.
Con riferimento alle fattispecie interessate, ci si è poi chiesti se il differimento di efficacia disposto dal co. 1-bis incida solo sul termine previsto per l’impugnazione stragiudiziale, o anche su quello successivo, imposto per l’avvio del giudizio.
Sulla questione è recentemente intervenuta Cass., 23.4.2014, n. 9203, che ha ritenuto determinante, al fine di risolvere dette problematiche, approfondire il significato del sintagma «prima applicazione», contenuto in apertura della citata disposizione.
La Corte, invero, ha rilevato che la “novità” introdotta dal novellato art. 6, l. n. 604/1966 va colta non solo nell’estensione dell’onere di impugnazione stragiudiziale a una molteplicità di fattispecie, ma anche nel fatto che tale impugnazione a sua volta richiede di essere seguita dal ricorso giudiziale (o dalla richiesta di conciliazione o di arbitrato), «sicché il primo e il secondo comma del novellato» art. 6 «vengono a costituire, integrandosi tra loro, una disciplina unitaria, articolata (…) nella previsione di due successivi e tra loro connessi termini di decadenza».
Secondo la Corte, la struttura unitaria di tale meccanismo costituisce dunque un elemento di novità, nei confronti di tutte le fattispecie considerate dalla l. n. 183/2010.
Tale rilievo porta il Supremo Collegio a concludere sia che il differimento previsto dal citato co. 1-bis riguarda non solo il termine per l’impugnazione stragiudiziale, ma anche quello per l’impugnazione giudiziale, sia che esso è applicabile a tutte le fattispecie previste dall’art. 32, l. n. 183/2010.
La decisione ha incontrato critiche, in quanto ha omesso di affrontare tutti gli argomenti rilevanti ai fini della soluzione delle suddette problematiche (la Corte, ad esempio, ha del tutto trascurato di affrontare il problema del rilievo del tenore letterale della norma, nella parte in cui essa espressamente si riferisce ai soli licenziamenti).
Tuttavia, l’orientamento è stato ribadito anche da Cass., 7.7.2014 n. 15434 e, quindi, esso appare, allo stato, suscettibile di consolidarsi.
Art. 2113 cc; artt. 2964-2969 c.c.; art. 6 l. 15.7.1966, n. 604; art. 7 l. 20.5.1970, n. 300; art. 32, l. 4.11.2010, n. 183; art. 2 d.l. 29.12.2010, n. 225, conv. dalla l. 27.2.2011, n. 10; art. 1 l. 28.6.2012; art. 1 l. 10.12.2014, n. 183.
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