Decadenza
La nozione di decadenza è legata a una delle metafore più ricorrenti nella storia del pensiero umano, quella dell'organismo e del suo ciclo vitale. A essa si connette un modello concettuale, l'organicismo, che risale all'antichità classica e di cui si possono isolare tre elementi chiave: a) l'affermazione della necessaria relazione tra le parti dell''organismo'; b) il fatto che qualsiasi organismo è governato da alcune 'regole'; c) il fatto che il ciclo vitale di tutti gli organismi include la successione necessaria di nascita, crescita, decadenza e morte.Il legame della nozione di decadenza con il modello organicistico spiega come tale nozione trovi un uso più frequente e articolato soprattutto a partire dal XVIII secolo, cioè da quando il modello organicistico si presenta in maniera più compiuta nel pensiero filosofico-scientifico, anche se il termine 'decadenza' si trova già in dizionari del XV secolo (v. Freund, 1984, p. 7).
Nello schema suddetto l'elemento cruciale è il terzo, quello che presuppone l'esistenza di un ciclo vitale che va dalla nascita alla morte. Da esso discendono varie altre caratteristiche proprie del concetto di decadenza.
La prima e più importante è il riferimento a una situazione precedente in cui il fenomeno aveva una propria autonomia, una coerenza interna e, dunque, funzionava meglio rispetto a una situazione successiva in cui questi elementi non esistono più e vi è appunto decadenza. La seconda è che si tratta di un concetto che vuole analizzare il mutamento. Questo è fatto nella maniera più ovvia, cioè fissando le differenze tra un prima e un dopo, ma anche, di solito, guardando al mutamento graduale, o comunque non improvviso e netto. La terza è che, di conseguenza, il tempo, la storia, sono dimensioni costitutive del concetto. La quarta è che si possano - e debbano - individuare delle regole che stanno dietro il cambiamento dei fenomeni che si esaminano. Questo comporta, in quinto luogo, specie in connessione con il punto precedente, che si riesca a individuare anche un trend e giungere non solo a spiegazioni, ma anche a previsioni: è il caso in cui la decadenza è identificata con avvenimenti presenti. A questo uso 'ingenuo' si accompagna l'altro, già sostanzialmente evidenziato, in cui il concetto viene usato per analizzare fenomeni che hanno già compiuto per intero il loro ciclo e, dunque, appartengono al passato. In questo senso non è più un concetto 'ingenuo' con pretese previsionali, ma è una nozione usata per interpretare, talora normativamente, cioè in relazione ad alcuni valori non sempre esplicitati, certe epoche o macrofenomeni storici. Infine, il concetto non rinvia solo a relazioni temporali tra un prima e un dopo, come si è appena detto, ma anche a relazioni tra le 'parti' dell''organismo', che possono variare nel tempo ed essere esse stesse all'origine della decadenza. Le diverse caratteristiche del concetto fanno sì che esso sia più facilmente usato soprattutto da studiosi di storia oppure da chi vuole analizzare ampi periodi storici, ovvero il lungo periodo.Il concetto di decadenza è stato usato con diversi significati, ma sempre all'interno delle coordinate ovvero delle dimensioni appena indicate. Più esattamente, 'decadenza' è la graduale trasformazione in peggio di una precedente situazione valutata, invece, positivamente, all'interno di un fenomeno più ampio, visto nel lungo periodo. La valutazione negativa è determinata non solo dai valori a cui l'autore aderisce, ma più spesso da un riferimento sostanzialmente, ancora, organico-funzionale: dati certi caratteri principali del fenomeno analizzato, si vede il venir meno di tali aspetti in un momento successivo. Per chiarire meglio questo punto si può ricordare che per diversi autori l'ordine politico è l'aspetto centrale dei sistemi politici, cioè di un impero, di un regno dell'antichità o di una democrazia moderna. Il venir meno dell'ordine, soprattutto se graduale e nel lungo periodo, ha fatto spesso parlare molti di decadenza.
Oltre alla decadenza, anche altri tre termini sono stati usati con un significato spesso simile e con un simile ancoraggio organicistico, più o meno forte ed esplicito. Essi sono: declino, degenerazione, tramonto. Spesso, anzi, alcuni autori hanno usato il termine 'decadenza' interscambiabilmente con gli altri tre, senza fare differenze. Talvolta, addirittura, sono state traduzioni imprecise ad assimilare quei termini. In ogni caso, né rispetto alle spiegazioni principali e più significative, né riguardo all'individuazione del fenomeno, si possono fare distinzioni troppo precise tra i quattro termini.In questa sede, entro le linee appena esplicitate, si sceglie una visione più precisa, e di conseguenza relativamente ristretta, del concetto analizzato, in modo da giungere a un'analisi più significativa e pregnante di esso (e di quelli contigui). Il pericolo derivante dall'assunzione di un'accezione troppo ampia del concetto di decadenza, cioè di una categoria ricorrente nell'analisi storica e filosofica del passato, è che tale assunzione renderebbe necessario prendere in considerazione numerosi autori, anche minori. Questa analisi ulteriore non arricchirebbe la comprensione del concetto, ma, al contrario, contribuirebbe a diluirlo e a ridurne la significatività, magari disperdendolo nelle tematiche anche letterarie del 'declino della civiltà occidentale'.
Della decadenza, in senso ampio, è stata data prevalentemente una sola spiegazione e, in subordine, una seconda, talora combinata con la prima. La prima è interna: la decadenza, ovvero l'indebolirsi o il venir meno delle caratteristiche centrali di una precedente situazione giudicata positivamente, è il risultato del portare alle estreme conseguenze alcuni elementi presenti, ma in misura diversa, nella fase precedente. La seconda spiegazione è esterna: la decadenza è dovuta al sopravvenire di nuovi fattori che trasformano, contrastano o annullano aspetti centrali della situazione precedente dando inizio alla nuova fase. Soprattutto la prima spiegazione generale fa comprendere meglio la connessione tra decadenza e degenerazione. A essere più precisi, si potrebbe dire che la degenerazione di certi aspetti porta alla decadenza.
Significato più generale e spiegazioni prevalenti si arricchiscono, si precisano e acquistano maggiore rilevanza e interesse solo quando termine, significato (e spiegazioni) si collegano con un referente empirico preciso o con una classe di fenomeni. Questo avviene, in prima battuta, quando si aggiunge al sostantivo l'aggettivo o una specificazione: decadenza culturale o di una civiltà, decadenza di certi regimi politici, o dell'Impero romano, e così di seguito. Il passaggio a un'analisi empiricamente ancorata, propria della maggior parte degli autori che usano questo termine, si vede particolarmente bene quando si analizza la decadenza politica. Questa è l'accezione più ricorrente in cui il termine 'decadenza' è stato significativamente usato, al punto da potersi sostenere che decadenza tout court - ma anche, spesso, declino o tramonto - sia sostanzialmente la decadenza politica.
Nel suo senso più semplice ed empiricamente determinato, 'decadenza' è la trasformazione di un ordinamento politico in cui sopravvengano instabilità, disordine, incoerenza tra le istituzioni, per una delle ragioni sopra accennate. Se si pensa all'enorme suggestione che per secoli, ma soprattutto dall'umanesimo in poi, le vicende dell'antichità romana hanno esercitato sulla cultura occidentale, si può ben capire come mai il termine sia stato usato, prima di tutto e più significativamente, a proposito di quella civiltà - da cui proviene la civiltà occidentale - e, più specificamente, per indicare una situazione politico-istituzionale che aveva cominciato a trasformarsi con Augusto (Montesquieu) o con gli Antonini nel II secolo d.C. (Gibbon). I due autori appena citati sono quelli che, più di altri e complementarmente, danno un significato e una spiegazione rilevante e influente al concetto e al relativo fenomeno. Senza qui dimenticare che il declino dell'Impero romano era già stato oggetto di analisi e di riflessioni approfondite da parte di alcuni autori precedenti, e soprattutto di Machiavelli, che anticipa sia le ricorrenti spiegazioni interne ed esterne sia altri temi ripresi dagli studiosi che più si sono occupati della decadenza.
In questa sede non è necessario sottolineare le importanti connessioni esistenti in Montesquieu tra le Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence (1734) e l'Esprit des lois (1748). Né è rilevante ripercorrere criticamente l'analisi di questo autore, oltre tutto essendo le Considérations prive di fonti storiografiche precise e quindi spesso difficilmente confutabili. Interessa, invece, evidenziare sia lo scarso interesse di Montesquieu per una definizione rigorosa ed esplicita di decadenza sia, e soprattutto, l'ancoraggio organicistico nell'uso del concetto, che conferma quanto sopra sostenuto in proposito. Quanto al riferimento organicistico, quello di Montesquieu, evidenziato anche nell'Esprit des lois, sottolinea in special modo le relazioni tra le diverse parti dell'organismo e, in questo senso, il fatto che le leggi, il potere e gli altri elementi che compongono la società formano un insieme, appunto, organico. Meno esplicita, ma presente, è la convinzione dell'esistenza di un ciclo vitale: per Montesquieu le tre principali forme di governo, che devono avere sempre leggi 'in armonia' con i propri principî costitutivi, possono entrare in una fase di decadenza - ma Montesquieu non usa questo termine nell'Esprit - se vi è corruzione di quei principî (v. Montesquieu, 1748; tr. it., pp. 208 ss.).
In particolare, poi, nelle Considérations la decadenza è identificata con la lunga fase di disordini, difficoltà e problemi diversi di gestione dei territori dell'Impero che sorgono dopo il periodo augusteo. La parte più significativa del contributo riguarda la spiegazione di quella decadenza. Si tratta di una spiegazione prevalentemente interna: essa è, innanzitutto, il risultato della stessa 'grandezza' dell'Impero romano e, in questo senso, del portare oltre un certo limite istituzioni create per una realtà strutturalmente e funzionalmente più semplice e limitata. Più specificamente, le grandi e continue conquiste territoriali e l'esigenza di mantenerle trasformano il primo dei pilastri dell'Impero romano: l'esercito. Due sono i mutamenti principali che intervengono in questa struttura. Il primo riguarda la sua stessa composizione: gradualmente e a differenza dalle prime fasi, le truppe ausiliarie e barbariche diventano una componente più numerosa di quella romana (v. Montesquieu, 1734; tr. it., p. 156). Il secondo mutamento deriva dal fatto che i soldati che rimanevano nelle province conquistate si sentivano sempre meno cittadini romani e si legavano sempre più ai propri generali, i quali, a loro volta, acquistando una forza autonoma, cedevano alla tentazione del potere e non ubbidivano più al centro (ibid., pp. 80-81). Insomma, si aveva complessivamente quell'indebolimento delle gerarchie di comando che è all'origine di tante sollevazioni e proclamazioni di imperatori, di tanti disordini e lotte interne. Il senso di fondo del ragionamento di Montesquieu è che alla fine proprio l'ingrandirsi dell'esercito ne causa la trasformazione, cioè un mutamento di 'quantità' ne provoca uno di 'qualità'.
Il secondo aspetto, sottolineato maggiormente da Montesquieu, è la trasformazione della cittadinanza in seguito al suo allargamento. Anche qui è una trasformazione quantitativa che diventa qualitativa. Ma soprattutto è una comunità di valori omogenea e coerente che scompare con la cittadinanza allargata ai popoli italici: è la perdita di quell'unità e di quell'idem sentire su cui si erano fondate le fortune di Roma.
La spiegazione è arricchita, poi, dalla considerazione del venir meno di aspetti propri della cultura dei Romani, le virtù che avevano consentito loro di conquistare tutti i popoli. Quando tali virtù (prudenza, saggezza, costanza, amore per la gloria, attaccamento alla patria) vengono meno rimane l'arte militare. Quando anche questa scompare per effetto della corruzione e delle trasformazioni sopra descritte si ha una nuova ragione di decadenza.
Gli adattamenti, i provvedimenti presi per resistere alla decadenza hanno l'effetto opposto e la decadenza continua sino alla fine, senza che ci sia nulla da fare. In questa interpretazione, sostanzialmente interna, non vi è posto per quei due fattori nuovi che, invece, Voltaire (v., 1756) mette in primo piano per spiegare la caduta dell'Impero: il cristianesimo e le invasioni dei barbari. Quella di Voltaire è una spiegazione esterna e profondamente diversa.La disputa esce dall'ambito degli studi storico-filosofici per entrare in un disegno molto più ricco, preciso e, soprattutto, fondato su un rigoroso controllo delle antiche fonti storiografiche, con l'illuminista inglese Gibbon, la cui analisi della decadenza romana costituisce uno dei maggiori contributi storiografici dell'intero XVIII secolo.
Gibbon è uno storico di enorme erudizione e grande acume che lavora sulla sua storia dei Romani per quasi vent'anni. Il termine inglese da lui usato, tuttavia, non è 'decadenza', ma 'declino', anche se a esso viene attribuito lo stesso significato che aveva per Montesquieu il termine 'decadenza': il venir meno dell'ordine, della sicurezza, della libertà. La grande influenza di Montesquieu si manifesta anche in altri aspetti: l'ancoraggio organicistico è lo stesso, come identica è la fede nell'esistenza di regole generali che governano la storia (v. Gibbon, 1776; tr. it., p. 1382; v. Montesquieu, 1734; tr. it., pp. 156-157); inoltre, tutta la prima parte della sua History ricalca l'ossatura delle Considérations e, soprattutto, anche per Gibbon la spiegazione del declino-decadenza è prevalentemente interna. Come Montesquieu, Gibbon sostiene che la decadenza di Roma "fu il naturale e inevitabile effetto della sua smisurata grandezza. La prosperità maturò il germe della caduta, le cause della distruzione si moltiplicarono coll'estendersi delle conquiste e appena il tempo o il caso ne rimossero gli artificiali sostegni, quella mole cedette alla pressione del proprio peso" (v. Gibbon, 1776; tr. it., p. 1416). Gibbon non accetta, quindi, l'interpretazione di Voltaire del ruolo delle invasioni barbariche o del cristianesimo: in realtà non conta questa o quella invasione, ma tutte le invasioni che vengono quando la decadenza c'è già. Non è vero, poi, secondo la famosa espressione di Voltaire (v., 1756), che "il cristianesimo apriva il cielo, ma perdeva l'impero". È vero, piuttosto, che cristianesimo e invasioni barbariche affrettarono la decadenza.Il quadro proposto dal capolavoro di Gibbon è molto più complesso e articolato dell'analisi di Montesquieu. All'influenza di questi si aggiunge una visione più precisa, ricca e particolareggiata delle vicende romane. A differenza di Montesquieu, Gibbon fissa il momento della maturità dell'Impero all'epoca degli Antonini - anche se talvolta sembra risalire al periodo augusteo - per indicare come il mutamento, da quel periodo in poi, dia inizio alla decadenza. Gibbon, poi, complica ma rende anche più interessante la sua analisi affrontando problemi importanti, come le cause della diffusione del cristianesimo, o individuando nel pretorianesimo sia la manifestazione che un'ulteriore causa della decadenza. Non imputa al cristianesimo la decadenza, ma questo non gli impedisce tuttavia di procedere a un'analisi serrata e, in definitiva, molto critica della Chiesa e del cristianesimo stesso (su questo e altri punti si registra un avvicinamento alle posizioni di Voltaire).
Nella storiografia illuministica quindi, e soprattutto in due tra i maggiori storici del XVIII secolo, la nozione qui analizzata ha il significato di decadenza politica o istituzionale, ha un preciso e unico referente empirico (l'Impero romano) e spiegazioni interne. In altri autori di quegli anni, che non aderiscono né a una concezione organicistica né a una più specificamente ciclica, ma semmai sostengono una storiografia d'impostazione evoluzionistica o progressistica, come Voltaire (v., 1756), il termine 'decadenza' è usato ancora a proposito delle vicende dell'Impero romano. Tutto questo evidenzia un uso ricorrente del termine e conferma altresì l'unicità del referente empirico; ma evidenzia anche un'adozione quasi meccanica, inconsapevole della metafora, senza implicazioni di alcun genere.
Il concetto viene quasi dimenticato, invece, dalla storiografia romantica, o comunque non dà origine ad alcuna opera particolarmente significativa, malgrado la pubblicazione nel corso del XIX secolo di diverse storie universali, e la presenza costante del modello organicistico in seguito al grande sviluppo delle scienze biologiche. Questo dipende dal fatto che gran parte della storiografia romantica è centrata su modelli evolutivi, sul concetto di progresso o, come dice Croce, si sviluppa intorno al concetto di "svolgimento": "tutta la storia è ora concepita come svolgimento necessario [...]. Il concetto di svolgimento fu esteso all'antichità classica, e poi [...] alle civiltà orientali" (v. Croce, 1917, p. 257). Ma intendere la storia come "svolgimento" significa "concepirla come storia di valori ideali, i soli che si svolgano" (ibid., p. 259). Nell'età romantica non vi è spazio per decadenze, declini, tramonti o anche ritorni e cicli: "l'idea del circolo cedette innanzi all'idea del corso lineare, desunta dal cristianesimo, e del progresso" (ibid., p. 271). In modo ancora più preciso, P. Rossi ricorda i due principî dominanti di quella storiografia: il presupposto dell'unità dello sviluppo storico e quello della sua progressività (v. Rossi, 1956, p. 419). Dunque, non solo linearità, evoluzione continua, progresso, ma anche unità nella realizzazione di certi valori. Sarà con il positivismo che concezioni organicistiche e decadenza torneranno ad acquistare qualche rilievo, ad esempio nel lavoro di Taine (v., 1884), notevolmente influenzato - come egli stesso riconosce - da Gibbon.
I principî centrali della storiografia romantica vengono messi in discussione e respinti dallo storicismo tedesco tra la fine del XIX secolo e l'inizio del successivo. Ma la stessa storiografia romantica, pur dominante, aveva convissuto sia con posizioni più o meno accentuatamente organicistiche di cui si è detto sopra (che nella cultura tedesca trovano in Goethe una delle espressioni più evidenti), sia con spiegazioni razzistiche della decadenza, avanzate tra gli altri da Gobineau (v. Freund, 1984, pp. 142 ss.), sia con concezioni cicliche, di eterno ritorno, proprie di Nietzsche e collegate al suo 'nichilismo passivo' come segno di decadenza; sia, infine, con le reazioni aristocratiche alla politica di massa espresse da diversi altri autori. Sono queste le radici culturali da cui muove l'analisi di Spengler sull'inevitabile tramonto della civiltà occidentale. In questo senso Spengler è l'espressione della "involuzione romantica dello storicismo" tedesco (ibid., p. 418).
Come ogni pensatore rigorosamente organicista ("le civiltà sono organismi"), Spengler non deve spiegare le ragioni del declino della civiltà occidentale (v. Spengler, 1917; tr. it., pp. 40 ss. e passim). Come ognuna delle diverse civiltà umane, essa ha un proprio ciclo necessario che a un certo punto la porta alla decadenza e alla fine. Il problema è come dimostrare che la civiltà occidentale si trova proprio in questa fase di tramonto. Per Spengler ciò è molto chiaro: posta la differenza tra civiltà e civilizzazione (intendendo quest'ultima come una civiltà in declino), una differenza simile a quella tra "il corpo vivo di un'anima e la sua mummia" (p. 549), è possibile vedere che la fase contemporanea è una fase di civilizzazione da diversi segni presenti nell'arte, nella musica e nelle altre manifestazioni umane. Ma il declino si può constatare soprattutto nella "inversione di tutti i valori": "questo è il carattere più intimo di ogni civilizzazione [...]. Non si crea più, ci si limita a cambiare il senso di quello che esiste. In ciò sta l'aspetto negativo di tutte le epoche di tale tipo. Esse presuppongono come avvenuto l'atto propriamente creativo" (p. 548). Seguendo Nietzsche, Spengler sostiene che nel XIX secolo si ha "l'avvento del nichilismo": "esso si lega alla conclusione di ciascuno di questi possenti organismi" (p. 549). La profezia senza incertezze di Spengler è che come nel mondo antico questa fase di decadenza si ebbe nel periodo romano, nel mondo occidentale ciò avverrà "nel periodo dopo il duemila" (ibid.). Le stesse città abitate da una massa inorganica senza radici, la morale diventata problema, o l'irreligione "essenza di ogni civilizzazione" (p. 559) sono altri segni della decadenza inevitabile, così come "il buddhismo, lo stoicismo e il socialismo hanno, morfologicamente, uno stesso significato di fenomeni terminali" (p. 555). In questa sintesi di storia universale proposta da Spengler c'è davvero di tutto: epistemologia, filosofia, psicologia, sociologia, analisi politica, storia dell'arte e della musica, storia delle civiltà e dei popoli più diversi e lontani nello spazio e nel tempo. Ma soprattutto vi è, nella coscienza della crisi culturale del suo tempo, l'apocalittica e assoluta certezza del "tramonto" e della fine della civiltà occidentale.
L'influenza di Spengler sulla cultura tedesca prende altre vie di segno totalitario che in questa sede non è possibile seguire. Peraltro, Spengler non è che l'espressione più visibile e nota di un clima culturale diffuso al quale partecipano diversi altri autori, tedeschi e non. Numerosi, infatti, sono coloro che condividono, precisano, approfondiscono in modi anche diversificati soprattutto il tema del declino della civiltà occidentale (v. Freund, 1984, pp. 229 ss.), specie dopo la prima guerra mondiale e in collegamento con l'ingresso delle masse sulla scena politica. In questa prospettiva l'accostamento più interessante è quello a Toynbee. Si ritrovano in questo storico sia l'affresco universale dell'evoluzione delle diverse civiltà, sia il valore prioritario attribuito ai fattori culturali ovvero spirituali, sia il senso del declino ineluttabile della civiltà occidentale. Ma vi sono anche il rifiuto del linguaggio e della concezione organicistica, che pure sembra riaffacciarsi nella visione della società come un tutto coerente, e un certo grado di articolazione teorica dell'analisi storica. In estrema sintesi, per Toynbee tutte le civiltà hanno una fase di crescita e una di decadenza; questa è, poi, distinguibile in declino vero e proprio e disgregazione; l'incapacità di affrontare le sfide e la perdita di autodeterminazione sono le cause della decadenza; tale perdita è, a sua volta, il risultato di divisioni tra una minoranza dirigente e creatrice, che smette di essere tale, e una maggioranza distinguibile in un proletariato interno, che pur vivendo nella società non è in essa integrato, e un proletariato esterno, che vive al di fuori delle frontiere della civiltà considerata; con la disgregazione si giunge all'assimilazione e alla scomparsa dell'élite (v. Toynbee, Civilization..., 1947).
Qualche decennio prima di Spengler, o quasi contemporaneamente a lui, il concetto di decadenza e gli altri affini si riaffacciano in modo significativo, ma sostanzialmente marginale, in alcuni fondatori delle scienze sociali contemporanee: specialmente in Weber (v., 1896), Mosca (v., 1895) e Pareto (v., 1916). Al centro dell'attenzione di Weber è ancora l'antichità romana (e le ragioni della caduta dell'Impero) che, sotto l'influenza di Marx e a differenza degli altri studiosi, viene analizzata in termini di evoluzione economica (da un'economia monetaria a un'economia naturale fino alla creazione delle premesse dell'economia feudale) in connessione con la fine dell'espansione territoriale romana, con la minore disponibilità di lavoro servile e con il declino delle città.
Al di là di altre osservazioni sulla decadenza, è interessante notare l'uso che fa Mosca del concetto a proposito degli Stati burocratici. L'orizzonte empirico si è allargato notevolmente rispetto - ad esempio - agli illuministi, in quanto si richiama l'esperienza sia dell'antica Roma che dell'Egitto, della Russia e della Cina, pur senza giungere all'affresco totale della civiltà occidentale di Spengler. Il concetto è simile a quello usato da Montesquieu e Gibbon e così pure la sua spiegazione 'interna'. Per Mosca gli Stati burocratici decadono perché il loro principio organizzativo basilare viene portato alle estreme conseguenze: "Un tipo di ordinamento politico, che produce buoni risultati quando è applicato fino a un certo punto, sistematizzato e generalizzato riesce inattuabile e dannoso" (v. Mosca, 1982, p. 651). Ad esempio, se la burocratizzazione fosse estesa anche alla produzione e alla distribuzione della ricchezza, la decadenza politica sarebbe l'esito più scontato. Il dato più interessante dell'analisi di Mosca è il nuovo rilievo dato a diversi aspetti economici e sociali: non solo la produzione e la distribuzione della ricchezza, ma anche l'imposizione fiscale sulle classi produttrici e l'importanza del mantenimento degli incentivi al profitto, insieme agli effetti dell'emigrazione e della diminuzione della natalità. In realtà, il discorso di Mosca si riferisce esplicitamente agli Stati burocratici, ma implicitamente anche agli Stati a lui contemporanei.
In Pareto, invece, il concetto di decadenza si lega strettamente alla teoria della circolazione delle élites e del loro inevitabile destino nella società. Il referente empirico privilegiato è ancora il mondo antico e ritorna altresì la distinzione tra declino interno, come dissoluzione del dinamismo di quella élite, e declino esterno, come riduzione progressiva della sua influenza. Anche se Pareto ritiene che vi sia un declino della borghesia, indebolita dal pacifismo, dall'umanitarismo e dall'orrore per l'uso della forza, e sfidata dall'élite socialista, questa situazione da lui analizzata non deve essere inquadrata in alcuna teoria sul 'tramonto dell'Occidente', come sostengono invece Spengler e diversi altri autori negli stessi anni.
Mosca e Pareto, o anche Weber, non sono, però, i padri delle più recenti riproposizioni del concetto di decadenza nelle scienze sociali. Se qualche influenza si avverte nel modo in cui tale concetto viene ripreso, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, essa fa venire alla mente principalmente e ancora Montesquieu e Gibbon, cioè la storiografia illuministica, ma ormai nell'ambito di concezioni nelle quali il modello organicistico è diventato solo un'utile metafora. Per di più il ricorso a questo concetto non è molto frequente. Ad esempio, quando negli anni sessanta un importante sociologo come Eisenstadt (v., 1963) studia sistematicamente gli imperi burocratici (ad esempio la Persia durante la dinastia sassanide, l'Impero romano e quello bizantino, la Cina, l'India o anche i regimi assolutistici europei, l'Impero ispano-americano e diversi altri casi) la prospettiva di ricerca è ormai completamente diversa. In altre parole, trattando i casi sui quali si è più scritto in termini di decadenza, Eisenstadt si chiede innanzitutto quali siano le condizioni che consentono a quegli imperi di formarsi; che cosa permetta la loro continuazione e istituzionalizzazione; quali siano, infine, le condizioni dell'adattamento o del cambiamento. Si parla di 'caduta' nel sottotitolo del volume, ma poi il termine scompare per essere sostituito da 'cambiamento' o 'trasformazione'. Il termine 'declino' è usato una sola volta nell'intero volume a proposito dell'Impero ottomano e citando un altro autore. Le stesse spiegazioni del cambiamento sono non solo 'interne' ma anche 'esterne', come è ovvio quando ci si è svincolati da qualsiasi modello organicistico.
Esistono tuttavia alcuni - anche se pochi - esempi significativi del ricorso alla nozione di decadenza nelle scienze sociali del secondo dopoguerra, in riferimento a temi che hanno particolarmente impegnato gli studiosi negli ultimi quattro decenni. Per gli anni cinquanta si può ricordare l'uso che del concetto di declino fa Cipolla; per gli anni sessanta ci si deve riferire soprattutto a Huntington e al suo contributo sulla modernizzazione; per il decennio successivo, a Hirschman e alle risposte delle diverse organizzazioni di fronte alla prospettiva del declino; per gli anni ottanta infine, al declino in relazione ai limiti della crescita economica e alle difficoltà di governo delle attuali democrazie, quali sono analizzate da Olson.
Nella storia dell'economia uno dei fenomeni più interessanti da studiare è il declino dell'economia italiana nel Seicento: "Da paese sviluppato prevalentemente importatore di materie prime ed esportatore di manufatti e servizi l'Italia era diventata così un paese sottosviluppato prevalentemente importatore di manufatti e servizi ed esportatore di materie prime" (v. Cipolla, 1952; tr. it., p. 86). Per analizzare questo fenomeno, secondo Cipolla è indispensabile fare ricorso al concetto di declino, inteso semplicemente in senso empirico e quantitativo (con precise indicazioni sull'andamento della produzione, soprattutto nel settore tessile e nei grandi centri urbani), senso a cui però se ne aggiunge anche uno qualitativo in relazione ai risultati di quella trasformazione da paese sviluppato a paese arretrato. Il passo successivo, quello della spiegazione, consente d'individuare un insieme di ragioni per tale declino: dall'elevata pressione fiscale al controllo delle corporazioni sulla produzione, agli alti salari in un mercato del lavoro rigido. Le conseguenze del declino sono una serie di disinvestimenti, la maggiore rilevanza assunta dal settore agricolo, lo spostamento della produzione, specialmente tessile, in centri minori. Questa situazione è poi ulteriormente complicata dal sopravvenire di epidemie, che mantengono alti i salari, e dalla contrazione dei mercati esteri. Dunque, partendo dalla rilevazione del fenomeno, Cipolla giunge a disegnare un quadro articolato del declino, in cui spiegazioni interne e fattori esterni s'intrecciano in maniera esemplare per le successive analisi degli studiosi, in particolare degli economisti, che riprenderanno un concetto ormai sostanzialmente distante dall'iniziale metafora organicistica.
Con Huntington e gli anni sessanta lo scenario in cui si parla di decadenza muta radicalmente: dalla storia dell'economia si passa alla scienza politica, e più precisamente allo studio della modernizzazione e dello sviluppo politico. Questo tema è stato di grande importanza negli anni sessanta per l'incontro tra il fenomeno della decolonizzazione e l'indipendenza di numerosi paesi, e per l'interesse mostrato verso questi problemi dalla scienza politica americana. Notevolmente influenzato da Tocqueville a proposito dell'importanza delle associazioni intermedie, quali partiti e gruppi, Huntington (v., 1965 e 1968) propone una teoria dell'istituzionalizzazione e del ruolo dei partiti nelle società in via di modernizzazione, che è stata tra quelle che hanno esercitato la maggior influenza in quegli anni, e anche in quelli successivi. Un aspetto di tale teoria consiste appunto nell'analisi della decadenza politica cui vanno incontro i paesi in via di modernizzazione sotto l'impatto della mobilitazione sociale.
L'interesse dell'analisi di Huntington consiste, in primo luogo, nel rigore con cui definisce il fenomeno della 'decadenza': un fenomeno che riguarda le istituzioni politiche, caratterizzate da mancanza di autonomia e di coerenza. Essa è il principale risultato dei processi di modernizzazione e soprattutto di una mobilitazione sociale rapida e tumultuosa. Ha come conseguenza l'assenza di ordine, legge, autorità, consenso, cioè di tutte quelle condizioni che portano alla stabilità politica. In una situazione di decadenza le istituzioni politiche diventano deboli e le forze sociali forti. L'unico rimedio possibile consiste nella costruzione di nuove istituzioni forti e soprattutto di quella che si è rivelata la più importante fonte di legittimità: il partito, anche nelle forme del partito unico di stampo leninista. Questa è l'unica via per sfuggire alla decadenza politica e fondare ordine e stabilità.Come si vede, rispetto agli altri autori che hanno utilizzato la stessa nozione vi sono diversi aspetti da sottolineare. L'analisi non è incentrata sulla decadenza, ma sull'istituzionalizzazione e, più precisamente, sulle basi dell'ordine politico: in questo senso Huntington non si discosta da molti autori che hanno usato quel concetto. Del fenomeno propone un'analisi precisa e articolata in quanto a caratteristiche, spiegazioni, conseguenze, modi di superarlo. Infine, per evidenziare come nell'uso che egli fa del termine il relativo modello organicistico sia stato dimenticato, va sottolineato come la spiegazione di Huntington sia sostanzialmente 'esterna' rispetto al sistema politico, in quanto le cause della decadenza, nella sua analisi, vanno ricercate nella mobilitazione.
Con gli anni settanta si torna all'analisi dell'economia e con Hirschman si ha anche una delle concezioni più originali di 'decadenza-declino' - termini usati come equivalenti - fondata su una spiegazione 'interna' senza condizionamenti organicistici. Esaminando diversi tipi di organizzazione politica ed economica, Hirschman osserva che tutte queste organizzazioni sono continuamente esposte a un pericolo di decadenza o di declino. Con tale concetto s'intende la perdita graduale di razionalità, di efficienza e di energia nel produrre surplus. Per quanto perfettamente possa essere strutturata un'organizzazione, il pericolo della decadenza resta sempre incombente. Il problema consiste pertanto nell'analizzare i modi per opporsi al declino ovvero le risposte che a esso si possono dare. Queste sono principalmente due: la protesta o l'espressione della domanda (voice), che attiene alla realtà politica, e l'uscita (exit), che riguarda l'economia. I problemi centrali sono dati dalle condizioni, dalle caratteristiche e dalle possibili combinazioni tra le due risposte, considerando anche l'esistenza di una possibile lealtà verso le istituzioni (v. Hirschman, 1970). A parte il contributo di Hirschman, la nozione di declino è quella che continua a essere maggiormente usata in questo periodo, soprattutto nel senso più semplice di diminuzione di certi fenomeni quantitativamente misurati per diversi anni, come già aveva fatto Cipolla negli anni cinquanta. Per gli anni ottanta il lavoro di Olson (v., 1982) rimane quello di maggiore importanza. Anche questa, come quella di Hirschman, è un'opera che si colloca al crocevia tra economia, sociologia e scienza politica. Infatti, il quesito principale in essa sollevato concerne le spiegazioni complessive della crescita e del declino in campo economico dei paesi occidentali, soprattutto in questo secolo. Ma a questa domanda ne sono collegate altre due, che hanno ricevuto molta attenzione negli ultimi anni proprio da parte della scienza politica e della sociologia: le ragioni dell'ingovernabilità e quelle che rendono le strutture di classe più rigide ed esclusive. La spiegazione di Olson si concentra su variabili politico-sociali. In primo luogo, maggiore è il numero di individui o di imprese che beneficia di un bene collettivo, minore è la quota dei guadagni dell'azione a favore del gruppo: dunque l'incentivo a un'azione di gruppo è minore quando questo è grande (ibid.; tr. it., p. 54). Questa 'regola' ha diverse implicazioni. Principalmente: 1) non tutti i gruppi si organizzano in tutti i paesi (p. 63); 2) in società stabili organizzazione e accordi per l'azione collettiva tendono ad accumularsi nel tempo (p. 67); 3) "nell'insieme, le organizzazioni e le collusioni di interessi particolari riducono l'efficienza e il reddito aggregato delle società in cui operano, e fanno sì che la vita politica crei più divisioni" (p. 76); 4) le coalizioni a fini distributivi prendono decisioni più lentamente degli individui o delle imprese: tendono a essere sovraccariche a livello decisionale (p. 89); 5) tali coalizioni abbassano la capacità di adottare nuove tecnologie e di mutare la distribuzione delle risorse in condizioni diverse, riducendo così il tasso di crescita economica (p. 100); 6) l'aumentare di quelle coalizioni accresce la complessità della regolazione, il ruolo dello Stato e la complessità degli accordi, modificando al tempo stesso l'evoluzione sociale (p. 110). Pur con certe differenze tra paese e paese, così si spiega il declino economico delle attuali democrazie occidentali.
L'interesse, il rilievo e la potenziale influenza del contributo di Olson non risiedono solo nel fatto di essere un''opera-crocevia', che ha dunque un pubblico potenzialmente più ampio di altre opere più settoriali, ma vanno ricercati piuttosto nel rigore delle ipotesi in merito a un fenomeno quantitativamente ben misurabile e che riguarda tutti da vicino. Inoltre, anche per questo autore il modello organicistico è ormai scomparso e la stessa espressione usata (declino) è molto più debole come suggestione metaforica dell'altro termine, decadenza. Malgrado ciò, la spiegazione è sempre sostanzialmente 'interna': è la logica delle società stabili, è un certo sviluppo dei gruppi, sindacati compresi, sono alcune regole proprie della loro azione che spiegano quel declino. Infine, anche nel caso di Olson si può vedere il potenziale significato applicativo della sua spiegazione: fare qualcosa per indebolire la presenza dello Stato. Insomma, si torna alla 'ricetta' liberale della deregulation: il rimedio più ovvio in una società consensuale è che "si potrebbe semplicemente abrogare ogni legislazione o regolamentazione favorevole agli interessi particolari e nello stesso tempo applicare rigorose leggi anti-trust a ogni tipo di cartello o collusione" (ibid., p. 316).
Infine, nei decenni passati, in numerose analisi sociologiche con forti connotazioni normative, ma anche in certi dibattiti politici, si è spesso richiamata la 'decadenza morale dei nostri tempi', un'espressione usata di frequente anche da filosofi e moralisti del passato nel senso di 'corruzione dei costumi'. In realtà, la ripresa di tale espressione sembra riflettere, innanzitutto, le reazioni di ambienti cattolici o tradizionalisti di fronte ai processi di secolarizzazione culturale, soprattutto a partire dagli anni sessanta, e ai mutamenti di valori, consuetudini, comportamenti sociali, stili di vita, suggeriti da una società industrializzata, con alta produzione e utilizzo di beni di consumo, una società dove modelli e stili di vita sembrano suggeriti dall'esterno e, in particolare, dai mass media piuttosto che dall'interno, cioè da intime e autonome convinzioni etiche. Il riferimento alla 'decadenza morale' richiama e sottolinea, poi, la riprovazione per quella situazione e propone, talora esplicitamente, un recupero o un ritorno a valori cattolici, magari rinnovati, o a modelli di vita di un passato trasfigurato dal ricordo e dall'ideologia.
Dovrebbe risultare, da quanto sostenuto sin qui, che il concetto di decadenza ha un passato perspicuo. Affonda le sue radici nelle origini della cultura occidentale, provenendo dal modello organicistico. Quando tale modello si precisa, emerge anche quel concetto con ben maggiore chiarezza. Esso viene, quindi, proposto dalla grande storiografia illuministica con un preciso referente empirico, le sorti dell'Impero ovvero della civiltà romana. Per decenni la 'decadenza' è soltanto quella e il termine è usato soprattutto metaforicamente, senza le altre implicazioni del modello organicistico. Dopo un lungo periodo di sostanziale assenza, il concetto di decadenza ritorna in maniera più articolata quando la crisi della politica aristocratica si è consumata e le masse hanno fatto irruzione sulla scena politica. In altri termini, quando si vede una minaccia consistente all'ordine politico, cioè all'elemento principale di cui si vuole sottolineare l'assenza con la nozione di decadenza. Spengler è indubbiamente l'interprete migliore e più suggestivo di questi atteggiamenti culturali, che hanno anche valenze letterarie molto note e presenti nei primi decenni di questo secolo. Ma sono atteggiamenti culturali, talora anche assai confusi, che si collegano a progetti antidemocratici, quando non apertamente totalitari.
Così si può capire meglio come mai tale concetto, nel quale le implicazioni politiche si aggiungono al pregiudizio organicistico, sia stato così poco usato nelle scienze sociali, insieme ad altri simili. Lo stesso modo di studiare certe realtà storiche è mutato, ad esempio, con sociologi come Eisenstadt, ma anche con storici delle civiltà, che potrebbero essere i più disponibili a conservare il termine e le sue implicazioni. Ad esempio, Toynbee riconosce l'unicità della storia delle civiltà e cerca anche di sfuggire al modello organicistico e alle sue implicazioni cicliche (v. Toynbee, A study..., 1947).
Quando, poi, le nozioni di decadenza e di declino sono significativamente e proficuamente usate, come nel caso di Cipolla, Huntington, Hirschman e Olson, che hanno trattato alcuni dei problemi più rilevanti del secondo dopoguerra, la decadenza diventa soprattutto una metafora svincolata dai condizionamenti potenzialmente implicati dal modello organicistico, ma non dal riferimento all'importanza dell'ordine politico o ai danni dell'eccessiva organizzazione e legificazione.
Nell'insieme, tuttavia, per esprimere difficoltà di governo o di consenso o ancora tutti i problemi che sorgono dalla partecipazione delle masse alla politica o altri simili, nelle democrazie o nei regimi autoritari del dopoguerra, sono stati preferiti altri concetti e altre metafore. Sotto questo profilo un successo ben maggiore, pur con tutte le implicazioni formali e normative, ha avuto il concetto di crisi. Tale successo si spiega, soprattutto, in quanto il concetto di crisi non implica riferimenti né a un ciclo vitale, né alla fine del fenomeno analizzato; la tendenza prevalente di questi decenni, infatti, è stata quella di analizzare fenomeni caratterizzati da un mutamento incessante, ovvero da una serie di trasformazioni accompagnate da crisi e da riprese, ma non da fine o morte. (V. anche Crisi).
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