Decennali
Del primo Decennale, che risale all’autunno del 1504, possediamo tre redazioni, testimoniate da un codice autografo (BSAF, C VI 27), da un manoscritto laurenziano (Laur. XLIV 41) e, infine, dalla stampa che ne fu fatta a Firenze nel febbraio 1506, per interessamento e a spese di Agostino Vespucci, collega di M. nella cancelleria. Il manoscritto laurenziano reca una lettera di dedica dell’operetta (in duplice versione, latina e volgare, datata 9 novembre) ad Alamanno Salviati. Scelta politicamente significativa: Salviati era infatti il più autorevole rappresentante del gruppo oligarchico e nel 1502 era stato attivo fautore dell’elezione di Piero Soderini a gonfaloniere a vita. Se dedicare a lui il Decennale era un modo per chiedere l’appoggio degli oligarchi fiorentini al progetto dell’Ordinanza, che proprio in quei mesi stava muovendo i primi passi, una decisione non neutra sarebbe stata perciò, un anno e mezzo dopo, nella stampa del 1506, quella di modificare la dedica, allargandola ora a tutti i fiorentini. Del resto, il passaggio tra la stesura del 1504 e la stampa – come indicano i testimoni – se non modificò la struttura complessiva del testo, introdusse nondimeno alcune variazioni e ripensamenti.
Il Segretario scopre, dunque, la sua vena di scrittore, con una cronaca in terzine sugli avvenimenti dal 1494 al 1504, quando la sua posizione all’interno della seconda cancelleria è ormai ben salda, in una stagione di riconosciuto impegno civile, non certo per l’evasione letteraria, ma per riconsiderare gli avvenimenti della storia cittadina nei quali si è formata la sua esperienza pubblica. Il primo Decennale è infatti non solo una serrata disamina di dieci anni di storia, ma soprattutto un tentativo di affiancare ai rapporti ufficiali di un funzionario di governo il messaggio più largamente accessibile di un poeta civile, in cui si conservano e si rafforzano le stesse scelte politiche che ispirano i primi scritti in prosa.
All’inizio dell’opera, dopo le tradizionali protasi e invocazione, M. entra direttamente nella materia, indicandoci la data e gli avvenimenti da cui prende le mosse, e allo stesso tempo fornendoci una chiave di lettura dell’opera. Nello spazio di quattro terzine si passa da un evento storico di portata universale come la nascita di Cristo, degnamente inserito in una vasta immagine astrologica, alla discesa di Carlo VIII, vista attraverso un’ottica nazionale che riprende le «italiche fatiche» dell’incipit:
Aveva il sol veloce sopra ’l dorso / di questo mondo ben termini mille / e quattrocen novanta quattro corso, / dal tempo che Iesù le nostre ville / vicitò prima e, col sangue che perse, / estinse le diaboliche faville; / quando in sé discordante Italia aperse / la via a’ galli, e quando esser calpesta / dalle genti barbariche sofferse (Decennale I, da qui in poi Dec. I, vv. 10-18).
Il punto fermo conclude quello che si può definire un secondo prologo e il quadro si restringe ancora. Da questo momento in poi la storia cittadina si pone chiaramente al centro del racconto: «E perché a seguitarle non fu presta / vostra città, chi ne tenea la briglia / assaggiò e colpi della lor tempesta» (vv. 19-21).
È subito chiaro, quindi, che il vero punto di partenza del poemetto non è la tragedia italiana dell’invasione dei ‘barbari’, ma lo sconvolgimento causato da tale invasione in Firenze, con la fine del dominio mediceo e il ritorno alla Repubblica popolare. L’abbandono della città da parte di Piero de’ Medici è una sospirata vittoria, che pure i fiorentini ottengono a duro prezzo:
Né possesti gioir, sendo cavati, / come dovevi, di sotto a quel basto / che sessanta anni vi avea gravati, / perché vedesti el vostro stato guasto, / vedesti la cittate in gran periglio / e de’ franzesi la superbia e ’l fasto (vv. 25-30).
Ma Firenze rimane «per mantener sua libertate unita» (v. 39), e in una successiva terzina si completa il quadro di queste prime vicende cittadine: «e dopo qualche disparer trovasti / nuovi ordini al governo, e furon tanti, / che il vostro stato popular fondasti» (vv. 70-72).
M. attribuisce un grande significato agli avvenimenti dai quali inizia la sua opera. Precisa è infatti la delimitazione dei «sessanta anni» del periodo signorile, che considera un intervallo da dimenticare, in cui un governo imposto dall’alto come un «basto» non è riuscito ad annullare le tradizioni repubblicane della città. Quindi lo Stato nato dai «nuovi ordini» è detto «vostro stato popular» per significare che esso e i suoi ordini appartengono alla città, anzi le spettano di diritto, come connotati inseparabili dal nome stesso di Firenze e dalla sua storia. L’abolizione dei Consigli medicei e l’avvento del Consiglio maggiore erano stati infatti nel 1494 gli unici sostanziali mutamenti nella costituzione fiorentina. Per il resto ci si era limitati a riorganizzare le vecchie istituzioni lasciate formalmente intatte dai Medici nell’intento di tornare alla purezza delle precedenti forme di governo. Molti ordinamenti che riprendono vigore nella nuova Repubblica, come le elezioni per sorteggio o le «pratiche» assembleari, fino all’esercito cittadino fortemente voluto dallo stesso M., risalgono infatti al periodo oligarchico e più latamente medievale della storia di Firenze.
Le Provvisioni della Repubblica di Firenze per istituire il magistrato de’ nove ufficiali dell’ordinanza e milizia fiorentina, dettate da M. e approvate dal Consiglio maggiore di Firenze il 6 dicembre 1506, sono dunque non solo il coronamento di un lungo impegno personale del Segretario, ma anche un ulteriore passo nella direzione e nello spirito della riforma del 1494. Negli anni di maturazione di questo progetto, la stesura e la pubblicazione del primo Decennale sono tappe fondamentali di un dialogo che M. ha già avviato con i suoi concittadini, in una continua ricerca di consenso: tra il 1504 e il 1506, egli aveva dedicato molte fatiche ai primi tentativi di arruolamento nel territorio dello Stato, dirigendone l’esecuzione e incitando i suoi corrispondenti a dare sempre maggiore spazio alla milizia. Ma allo scopo di raggiungere il maggior numero di cittadini e, se possibile, anche i primi oppositori della riforma, che già cominciano a manifestarsi, M. affida il suo messaggio a un’opera storica, ritenendo che le vicende anteriori al 1504 possano convincere tutti i fiorentini della necessità di un nuovo esercito. Il Decennale pone in effetti l’accento sui risultati meno positivi della politica estera dello Stato, pur senza mai offrire un giudizio esplicito su di essi. Alla fine un rapido sommario mostra una situazione internazionale ancora densa di pericoli, ma l’autore ha fiducia in un cambiamento: così l’incitamento a prendere le armi, che chiude l’opera, sembra sorgere spontaneo dalla partecipazione del poeta che ha narrato quegli stessi avvenimenti: «ma sarebbe il cammin facile e corto / se voi il tempio riaprissi a Marte» (Dec. I, vv. 549-50).
L’idea di affidare alla poesia la diffusione di un progetto politico si concretizza appunto alla fine del 1504, nella ricorrenza del decimo anniversario della cacciata dei Medici. Nei primissimi anni del Cinquecento la vita culturale fiorentina non è molto intensa. Il primo Decennale si inserisce in un vero e proprio vuoto letterario e si distingue fra le opere dei rimatori contemporanei che non riescono a rinnovare un clima culturale entrato in crisi già con la morte di Lorenzo e degli ultimi grandi umanisti. Alla ricchezza innovativa delle discussioni politiche si contrappone infatti, nella poesia di autori come Bernardo Giambullari, Girolamo Benivieni o Castellano Castellani, una generale ricerca di continuità con un mondo ormai dissolto, attraverso il ritorno ai temi e alle forme che erano stati propri dell’opera del Magnifico e della predicazione di Girolamo Savonarola. Con l’inizio dell’impegno civile, subito dopo il rogo del frate e il completo ripristino degli ordinamenti municipali, inizia invece per M. la ricerca di una nuova letteratura nella quale sia il rifiuto del formalismo cortigiano sia la scelta di una materia storica e divulgativa traggono ispirazione da un confronto con le più antiche espressioni della poesia fiorentina. Infatti l’opera che con più immediata evidenza sta alla base dei versi di M. è senza dubbio la Commedia dantesca: essa suggerisce non solo la forma metrica della terzina, ma anche i principali moduli narrativi e descrittivi, come le designazioni araldiche delle famiglie e delle città, fino a mostrare tutta la sua vitale presenza in ripetute citazioni testuali.
Ma quello proposto da M. non è un diretto ritorno a Dante, bensì il recupero di un particolare momento della poesia tre-quattrocentesca, fiorentina per nascita o per attrazione, precedente e per certi aspetti opposta alla cultura medicea. Il primo poeta fiorentino che usa il metro e lo stile di Dante ai fini di una cronaca storica è Antonio Pucci, che riduce nelle terzine del suo Centiloquio la Cronica di Giovanni Villani, dedicandosi a quest’opera quasi fino alla morte, avvenuta nel 1388. Le affinità di stile fra il Decennale e il Centiloquio, a causa del comune ascendente dantesco, sono notevoli. Molte immagini pucciane, come quella del «vincastro» che si abbatte su Firenze, o quella dei lucchesi che fuggono dalla città come «orse quando di dietro si sentir la caccia» (Centiloquio, LXVII 166, a cura di I. di San Luigi, 1772), anticipano lo stile machiavelliano; il modo di datare a tutte lettere gli avvenimenti secondo la storia religiosa, ripreso dalla Commedia e trasmesso al Decennale, ricorre quasi in ogni capitolo. Ma ciò che più accomuna le due opere è la dantesca concisione narrativa e la tendenza dei versi a conchiudersi in piccoli epigrammi, nonché, soprattutto, una generale intonazione canterina che usa continuamente la seconda persona, quasi rivolgendosi ad ascoltatori. È probabile infatti che con Pucci, approvatore e banditore del comune dal 1346 al 1366, abbia preso forma la tradizione degli «Araldi della Signoria».
Nel Decennale M. si rifà anche ad altre cronache trecentesche in terza rima, non prettamente fiorentine, ma sorrette dalla stessa imitazione dantesca e dalla stessa ispirazione municipale. Fra queste la Cronachetta di San Gimignano, composta nel 1355 da Matteo Ciaccheri, narra la storia della città toscana dal 1199 al 1354, negli anni in cui San Gimignano si regge a libero comune. Un’altra opera storica più vasta, la Cronica de’ fatti di Arezzo, scritta da ser Bartolomeo di ser Gorello negli ultimi anni del 14° sec., termina al 1384, inizio del dominio fiorentino su Arezzo. Anche in queste cronache, come nel Centiloquio, troviamo dunque quei sentimenti di orgoglio cittadino e quei legami della poesia storica con le libere strutture repubblicane che spingono M. a iniziare la sua opera dal 1494. La Cronica di ser Bartolomeo è molto vicina al Decennale anche stilisticamente; l’autore riprende infatti numerosi moduli narrativi della Commedia, fra i quali l’anafora di «costui», che Dante dedicava a Ottaviano Augusto (Paradiso VI 79-80) e che M. adotta per introdurre la figura di Alamanno Salviati (Dec. I, vv. 367-69). Un motivo che inserisce la Cronica e il Decennale nella stessa tradizione dantesca è la designazione araldica delle famiglie e delle città. Le due casate più potenti di Arezzo, gli Ubertini e i Pietramalesi, sono sempre indicate nell’opera di ser Bartolomeo attraverso i loro stemmi, stilizzati rispettivamente in un «lion rosso» e in una «petra» (Cronica, II 49-51, ed. a cura di G. Porta, 1990-1991). Per le città abbiamo le denominazioni simboliche che ritroviamo identiche nel Decennale: Firenze è «il Giglio», Milano «la Biscia», Perugia «il Grifone», Arezzo «il Cavallo».
Nel primo Quattrocento la tradizione delle cronache in terza rima si affievolisce: gli araldi e i poeti canterini di Firenze si occupano spesso di un singolo avvenimento, e mentre la composizione si restringe quasi sempre alle dimensioni del capitolo, il tono generale trapassa da quello di una semplice narrazionedei fatti a quello dell’invettiva o dell’encomio. È il caso, per es., del capitolo ternario “Antichi amanti della buona e bella”, composto nel 1427 da Niccolò da Uzzano a biasimo delle lotte interne del regime oligarchico. In seguito, durante il dominio del Magnifico, la poesia degli araldi diviene sempre più accomodante ed encomiastica, tanto che personaggi come Francesco Filarete e Giovambattista Dell’Ottonaio, con i quali questa tradizione sopravvive anche al tempo di M., sono ormai lontanissimi dall’impegno e dalla funzione dei primi poeti municipali.
M. rifiuta, dunque, i più recenti sviluppi della poesia civile e ripropone una letteratura di divulgazione storica a fini politici quale era nata dalle esperienze comunali di Firenze e delle città toscane: anche se i suoi versi non ripropongono i multiformi aspetti della poesia degli antichi araldi, il loro significato, nel costante rivolgersi a un ideale uditorio con il «voi», appare lo stesso: il poeta, impegnandosi nella realtà sociale, deve far partecipe il maggior numero possibile di cittadini dei problemi e delle vicende dello Stato. La forma della cronaca in terzine contribuisce ad assolvere tale compito, rivelandosi immediatamente, agli occhi dei lettori contemporanei, come la continuazione della letteratura premedicea e divenendo quindi essa stessa un messaggio politico di estrema efficacia.
Nel Decennale M. certo non ricerca l’esattezza storica, né pretende di esaurire tutta la materia che quei dieci anni potrebbero fornire, ma desidera solo comunicare ai fiorentini il suo pensiero politico. Diffonde così non tanto le sue convinzioni sul problema delle armi, quanto le speranze e le paure in cui tali convinzioni si sono maturate e sostenute. Il «voi» che per tutta l’opera si rivolge direttamente ai lettori è infatti la stessa formula di cui M. si è servito per anni nelle lettere ai magistrati dello Stato; ora, adottato per una cronaca in terzine, ricorda anche la passione e l’impegno civile di poeti come Pucci o Niccolò da Uzzano. Gli avvenimenti di maggiore rilievo sono quindi descritti nel Decennale con una partecipazione che li trasforma in esempi politici, e i cambiamenti del registro stilistico accompagnano e chiariscono il segno di volta in volta positivo o negativo di tali esempi. La volontà di indicare i modi da cui uno Stato e un esercito si devono allontanare crea infatti un largo campo d’azione per l’ironia: questa nasce spontanea quando la memoria ripercorre episodi dolorosi, come le sconfitte subite dai mercenari fiorentini, che sono narrate dal poeta attraverso efficaci contrasti fra il tono dei versi e il loro contenuto, oppure con periodi costruiti su procedimenti antifrastici che trovano alla fine l’eloquente smentita di una chiarificazione: «Lungo sarebbe narrar tutti e torti, / tutti l’inganni corsi in quello assedio / e tutti e cittadin per febbre morti» (Dec. I, vv. 223-25). L’inizio quasi da narrazione epica e l’ossessiva ripetizione di «tutti» non trovano riscontro nella realtà descritta dai versi, come impalcature che non hanno niente da sostenere: la battaglia si combatte con «torti» e «inganni», i cittadini muoiono «per febbre». L’ironia che ne risulta non è lontana da quella con cui nel Principe e nelle Istorie fiorentine M. getterà il ridicolo su altri soldati mercenari e su altre battaglie senza morti. D’altro canto, i versi che mostrano un esercito vittorioso sono sempre enfatici, come nel racconto della discesa dell’esercito francese in Italia nel 1494, che era stata una paurosa novità per gli italiani, abituati da decenni alle battaglie condotte dai loro mercenari; M. scrive nel ricordo di questa paura e cerca di suscitarla ancora ben viva nel suo pubblico:
Ma quei robusti e furiosi urtaro / con tal virtù l’italico drappello / che sopra ’l ventre suo oltre passaro; / di sangue il fiume pareva, a vedello, / ripien d’uomini e d’arme e di cavagli / caduti sotto al gallico coltello (Dec. I, vv. 85-90).
Qui i soldati non muoiono «per febbre», e il poeta insiste a lungo sui particolari più impressionanti del nuovo tipo di guerra che gli italiani avevano conosciuto a proprie spese: il «sangue» e poi la massa dei cadaveri e delle armi. Niente può opporsi a una forza militare che sembra ottenere la piena approvazione dello scrittore, al punto che questo è l’unico passo del Decennale in cui compare la parola virtù. In realtà siamo ancora di fronte a una «virtù» priva di solido fondamento perché priva di «ordini», come sarà detto nelle pagine del Principe e dei Discorsi dove negli eserciti francesi «è furore e non ordine», il che li rende migliori di quelli italiani, privi di ambedue le qualità, ma di gran lunga inferiori a quelli degli antichi Romani. Già nella rievocazione dello scontro di Fornovo nel Decennale la «virtù» dei francesi sta infatti tutta nel primo urto, e il ducato di Milano sarà poi conquistato in un solo impeto, ma tanta potenza non riuscirà infine ad abbattere le mura di Pisa:
E come furno coi pisani a fronte, / pien di confusion, di timor cinti, / non dimostrorno già lor forze pronte, / ma dipartirsi quasi rotti e tinti / di gran vergogna: e conobbesi il vero, / come i franzesi possono esser vinti. / Né fu caso a passarlo di leggero, / perché, se fece voi vili et abietti, / fu di quel regno il primo vitupero (Dec. I, vv. 274-82).
La spedizione dell’estate del 1500 era stata la più disastrosa per la Repubblica fiorentina: i lettori dell’operetta ne escono «vili et abietti», ma è importante soprattutto che i loro potenti alleati, quasi padroni d’Italia, siano ora «rotti e tinti / di gran vergogna», perché incapaci di portare a termine una guerra di logoramento. L’enjambement indugia sulla disfatta francese, e prepara il punto culminante del messaggio dell’orazione poetica che il poeta rivolge al suo pubblico: «i franzesi possono esser vinti». Nemmeno la forza militare dei re francesi è dunque una garanzia: è necessario pertanto rivolgersi al passato e «riaprire il tempio a Marte» (v. 550).
Totalmente volto a questo fine, il Decennale si sofferma solo raramente sulla politica interna di Firenze. E ciò non perché M. nel 1504 sia convinto, come gli umanisti che criticherà nelle Istorie fiorentine, che fare storia significhi solo descrivere guerre e battaglie, ma perché le discordie interne e le leggi che regolano lo Stato sono in gran parte inutili alla dimostrazione della sua tesi militare. Una delle caratteristiche più notevoli dell’operetta è così quella di registrare solamente le svolte decisive della politica interna, nel più completo disinteresse per le lotte che avevano accompagnato in quei dieci anni la nascita e lo sviluppo di importanti problemi costituzionali. Tale tendenza è già evidente nelle prime terzine sulla fondazione della Repubblica che, come abbiamo visto, si limitano a riassumere rapidamente, a posteriori, tutto il processo della rivolta del 1494; in seguito soltanto due passi riguardano fatti interni allo Stato di Firenze e sono dedicati ai due mutamenti di governo più rilevanti. Il primo è la fine di Savonarola, chiamato appunto in causa solo in occasione della sua morte e quindi nettamente separato dagli avvenimenti del 1494. Il secondo, più importante, è l’elezione di Piero Soderini, del settembre 1502. M. premette a questo episodio un lungo elogio di Alamanno Salviati, riprendendo il filo di un discorso iniziato con la dedica del 1504 testimoniata dal codice laurenziano:
Non sarie tanto aiuto a tempo stato / se non fussi la ’ndustria di colui / che allora governava il vostro stato; / forse che venavate in forza altrui, / perché quattro mortal ferite avevi / che tre ne fur sanate da costui: / Pistoia in parte ribellar vedevi, / e di confusion Firenze pregna, / e Pisa e Val di Chiana non tenevi. / Costui la scala a la supprema insegna / pose, su per la qual condotta fusse / se anima ci era di salirvi degna; / costui Pistoia in gran pace ridusse; / costui Arezzo e tutta Val di Chiana / sotto l’antico giogo ricondusse. / La quarta piaga non possé far sana / di questo corpo, perché nel guarillo / s’oppose il cielo a sì felice mana (Dec. I, vv. 355-72).
M. si riferisce al periodo di luglio e agosto del 1502, quando Salviati non «governava» come gonfaloniere lo Stato, anche se esercitava un ruolo di primo piano nella Signoria. L’esagerazione encomiastica non si limita all’attribuzione di una carica esercitata solo di fatto, ma domina tutto il passo, per cui Salviati diviene quasi un salvatore della patria, mentre l’anafora di «costui» lo isola dagli altri componenti il governo, come un antico dittatore romano. La sua opera risanatrice è riassunta dal poeta nelle ultime tre terzine, secondo una linea di valore decrescente: Salviati non può riconquistare Pisa, perché all’impresa si oppongono le circostanze («il cielo») avverse, ma può contribuire a risolvere le crisi di Pistoia e di Arezzo. Il passo contiene, per altro, una delle varianti più importanti delle diverse redazioni, significativa delle oscillazioni di atteggiamento in relazione ai destinatari: l’autografo (che non è, come si è visto, il codice dedicato a Salviati) reca infatti una lezione nei confronti di quest’ultimo non del tutto elogiativa («ad guarillo / volea più tempo et piu felice mana»).
Ben più pericolosa è la prima «piaga», la «confusione» che regna a Firenze, alla quale Salviati oppone per primo il progetto della riforma del settembre 1502, alzando «la scala alla suprema insegna», perché vi sia condotto a salire un cittadino capace e autorevole: Venuto adunque il giorno sì tranquillo / nel qual el popul vostro, fatto audace, / el portator creò del suo vessillo, / ne fur d’un Cerbio duo corna capace, / acciò che sopra la lor soda petra / potessi edificar la vostra pace; / e se alcun da tal ordine si arretra, / per alcuna cagion, esser potrebbe / di questo mondo non buon geometra (Dec. I, vv. 373-81).
Se Salviati è indicato con l’anafora dantesca di «costui», Soderini entra in scena per mezzo della sua immagine araldica, fra notazioni di tranquillità e di «pace»: tutto il significato polemico dell’episodio si trasferisce nell’ultima terzina, che diviene, anche per un inusitato passaggio da Firenze al «mondo», la piùpolitica di tutta l’opera. È quindi chiara la ragione della dedica del 1504 e dell’enfatico elogio: dopo avere imposto quasi da solo l’ascesa di Soderini, Salviati adesso «arretra» dal suo «ordine», contrario alla politica iniziata dal neogonfaloniere e soprattutto spaventato dalle prime proposte di riforma militare. Il principale esponente della parte ottimatizia teme che Soderini, con un esercito a disposizione, possa instaurare un potere tirannico, e M. tenta con la dedica e con l’encomio di riconquistarlo alla sua idea. Nel 1494, come il Decennale ricorda, di fronte all’invasione francese i fiorentini avevano mostrato «poco core o men consiglio» (v. 33); la Repubblica era partita veramente dal nulla, «per non ci essere né forze né prudenza», come M. si era espresso nelle sue Parole da dirle sopra la provvisione del danaio del 1503. Nel 1504 un primo passo è stato fatto, poiché da due anni Firenze «ha dato luogo alla prudenza» con l’elezione di Soderini; il Decennale può disinteressarsi dei problemi interni, ma ha il compito di incitare i fiorentini a proseguire nella loro opera, per «dare luogo alla forza». La «soda petra» è il fondamento sul quale è possibile ricostruire nella sua interezza l’antica potenza repubblicana, e né Salviati, né alcun altro cittadino deve «arretrare» da quest’«ordine».
I primi mesi del 1505 vedono il Segretario ancora in viaggio per brevi legazioni, e i suoi rapporti chiedono con sempre maggiore urgenza una svolta politica, tuttavia Soderini ha bisogno di un’altra sconfitta per decidersi. Il 6 settembre i soldati di Ercole Bentivoglio mostrano «tanta viltà e sì poco ordine» da rifiutarsi di assalire le mura di Pisa e all’inizio del nuovo anno M. viene finalmente incaricato di «cappar fanti».
Dal 6 al 26 febbraio il nuovo tecnico militare è a Firenze, prima di tornare alla sua missione, per presenziare a due avvenimenti che fanno parte di uno stesso disegno: la prima rassegna dei nuovi fanti e, pochi giorni dopo, la pubblicazione del Decennale. Con la sicurezza di un obiettivo raggiunto, l’opera si presenta ora al grande pubblico e l’autore può riproporre un testo non identico, ma neppure mutato nella sua struttura sostanziale; scompare però la dedica a Salviati, sostituita da una lettera dell’editore Vespucci ai fiorentini, «perché voi possiate in poco di ora discorrere cantando tutti quelli pericoli che in dieci anni piangendo avete corsi» (Opere, a cura di C. Vivanti, 1° vol., 1997, p. 93). Il largo successo del «compendio» nella sua nuova veste ufficiale è il premio di un’operazione perfettamente indovinata. Aver pubblicato il Decennale nel febbraio del 1506, con la dedica ai fiorentini, significa spiegare il valore e le funzioni di quella rassegna di soldati. Ma è solo sviluppando questo primo nucleo dell’esercito cittadino che a Firenze si potrà veramente «discorrere cantando» i pericoli corsi in passato, e se la stampa del Decennale riuscì a diffondere tale certezza, il suo contributo alla rapida approvazione della legge definitiva del 6 dicembre non fu indifferente.
Nel 1514 M. intraprende la stesura di una seconda cronaca che si presenta come una continuazione della prima. Questo non solo per lo sviluppo della narrazione storica che, come è indicato nei primi versi, riprende là dove si era arrestata, ma anche per il modello poetico, non dissimile da quello che aveva mostrato ai cittadini di Firenze il significato civile del primo Decennale. Non è cambiata infatti la forma della cronaca in terza rima, né sono meno evidenti i richiami allo stile narrativo di Dante e di tutti quei poeti, canterini o araldi ufficiali, che avevano tratto dalla Commedia gran parte dell’ispirazione. Ma i contatti tematici e formali con il primo Decennale si fermano qui: troppo diverse sono, nel 1514, la situazione di Firenze e quella personale di M., perché lo scrittore possa ancora diffondere in così largo uditorio un concreto messaggio politico. La seconda volta l’esperimento non riesce e l’operetta si interrompe dopo poco più di duecento versi. E sembra destinata a rimanere dimenticata, come indica l’esiguità dei testimoni, che si limitano a una copia manoscritta successiva alla morte di M. (e inclusa nel laurenziano che contiene il primo Decennale: Laur. XLIV 41) e all’edizione a stampa del 1549 (Firenze, Giunti).
Va ricordato che le prime opere di M. dopo la caduta del 1512 sono brevi testi per lo più poetici: il canto “Degli spiriti beati”, inneggiante alla creazione di un papa Medici, e i tre sonetti “A Giuliano”, dove M. si definisce «poeta», appartengono a un primo momento di incredulità, in cui l’ex Segretario, escluso dagli uffici e per breve tempo imprigionato, può ancora sperare in un governo che non alteri la sostanza dello Stato, provocando un semplice avvicendamento al vertice. Il Principe e il secondo Decennale (da qui in avanti Dec. II) – se ci è concesso tale accostamento – nascono da uno stato d’animo già diverso, quando M. non ha abbandonato la speranza di essere riammesso nella cancelleria, ma ha ormai compreso che il recente sconvolgimento è stato profondo, molto più di quello del 1434, e che di conseguenza i modi e le forme della sua attività di politico e di letterato dovranno cambiare.
Durante il periodo della Repubblica, M. aveva ricercato una visibilità da scrittore, in una città che aveva consentito alla sua tendenza verso una letteratura municipale di non trovarsi in contrasto con la volontà di essere un autore politico. Così nel primo Decennale un’innata capacità di analisi politica si sublimava nella forza evocativa della poesia, mentre i problemi di governo si adattavano alla facilità di divulgazione del mezzo letterario, per divenire così patrimonio di un’intera comunità. Tuttavia, una volta riaffermatosi il potere mediceo, la ricerca di una dimensione pubblica dell’opera letteraria prosegue e si esaurisce con il Principe, non certo con il secondo Decennale. Il Principe è infatti, certamente, anche un’opera pragmatica: gli avvenimenti del 1512 hanno conferito una bruciante attualità al problema dell’instaurarsi di uno Stato nuovo, e la dedica medicea mostra chiaramente come M. si presenti ancora nella sua veste abituale di consigliere. Sa che le sue parole non saranno ascoltate nelle piazze dal popolo fiorentino, memore delle antiche tradizioni poetiche, ma da un principe nel suo palazzo, dove i concetti politici potranno essere accolti solo se introdotti in un modello di trattato umanistico. Dopo il raggiungimento di tali certezze, confluite in un eccezionale momento creativo, e prima del rifiuto del dedicatario Lorenzo, che segna il fallimento pratico del Principe, la composizione del secondo Decennale attua un sorprendente ritorno alla cronaca in terzine, e si può spiegare solo pensando a una fede repubblicana ancora così forte da aspirare a un’espressione autonoma: mentre nel Principe tale fede si scontra con una realtà di così recente acquisizione, esasperando vertiginosamente il contrasto fra passato e presente, e fra teoria e pratica di cui vive tutta la produzione machiavelliana, nell’opera in versi uno dei due poli opposti viene per la prima volta a cadere, decretando per l’opera stessa il fallimento. Nel 1514 la cronaca in terzine non ha più ascoltatori, non solo perché M. ha perduto la sicurezza di una posizione che lo inseriva a buon diritto nella più stimata pubblicistica fiorentina, ma soprattutto perché i versi di un agile «compendio», indirizzati per loro natura a un pubblico popolare, non possono trattare i problemi di una repubblica decaduta, bisognosa dell’intervento risolutore di un capo svincolato da ogni ordinamento e di provvedimenti ben più vasti di una riforma militare. Di conseguenza la poesia storica, strumento di cui il Segretario si era servito per parlare a tutto un popolo, rimane fine a sé stessa o, tutt’al più, costituisce una fredda successione cronologica di avvenimenti. E in M., scrittore politico e politico scrittore, l’isolamento della forma da quelle che sono le sue motivazioni ideologiche non produce un affinamento stilistico ma, inevitabilmente, la crisi della forma stessa.
Come già si è detto, il secondo Decennale vuole essere un proseguimento del primo: M. ubbidisce al desiderio di portare a termine un disegno che aveva forse programmato già nel 1504 e che solo una verifica pratica dimostrerà inattuabile. Le prime terzine svolgono infatti la loro funzione introduttiva ripetendo lo stesso motivo iniziale del primo Decennale, cioè introdurre «mutazion di regni, imperi e stati» (Dec. II, v. 4) solo per vederle in un’ottica fiorentina: «Ma voi, volendo spegner questo foco, / vi preparaste bene e prestamente; / tal che ’l disegno suo non ebbe loco» (vv. 28-30). Ma l’orgoglio municipale, che si concretizzava nella difesa di un grande patrimonio civile, non ha più ragione di esistere, e la promessa di fare girare tutto il «mondo» intorno alle vicende di una piccola comunità non può essere mantenuta a lungo:
Dipoi, s’a mente ben tutto mi reco, / gisti contr’ai pisan con quella speme / che quella rotta avea recata seco. / Ma perché Pisa poco o nulla teme / non molto tempo il campo vi tenesti, / ch’ei fu principio d’assai tristo seme. / E se i danar et onor vi perdesti, / seguitando il parer universale, / al voler popular satisfacesti (vv. 46-54).
La battaglia perduta a Pisa nel settembre 1505, che aveva convinto Soderini a rinnovare l’esercito, non è neppure descritta; l’insegnamento di Pucci e degli antichi araldi, che mirava ad analizzare il passato solo in funzione del presente, e che M. aveva pienamente accolto nel primo Decennale, è adesso inutilizzabile, perché la restaurazione del 1512 ha scavato un abisso fra due momenti pur così vicini nella storia fiorentina. Si tratta ormai di una storia al passato remoto, dove la sconfitta più ingloriosa è un fatto di cronaca come altri, memorabile solo perché subita per ubbidire al «parer universale» e al «voler popular»: il concetto, chiasticamente ribadito, è evidentemente l’unico messaggio che M., alla ripresa del suo compito poetico, può indirizzare ai lettori. E la storia di Firenze, appena iniziata, si conclude nell’opera con questi versi, perché ogni ulteriore ricostruzione delle vicende di una Repubblica già così lontana, nascerebbe da una memoria non sorretta da alcun programma civile o militare. Per questo la città riappare solo dopo cento versi, e non ha quasi parte nelle sue stesse vicende, come se il poeta le avesse riprese unicamente per non tacere un avvenimento come la riconquista di Pisa, nel 1509. Qui per due volte una congiunzione introduce altri protagonisti, e la storia di Firenze prima diviene storia di re stranieri e poi storia della città sconfitta:
In questo, voi provedimenti assai / avevi fatti, perché verso Pisa / tenevi gli occhi volti sempre mai, / non possendo posar in nulla guisa, / se non l’avevi; e Fernando e Luigi / v’avien d’averla la via intercisa. [...] / Dunque, sendo rimasta Pisa sola, / subitamente quella circundasti, / non vi lasciando entrar se non chi vola; / e quattro mesi intorno ivi posasti / con gran disagi e con assai fatica, / e con assai dispendio l’affamasti. / E benché fussi ostinata inimica / pur da necessità constretta e vinta, / tornò piangendo alla catena antica (vv. 145-50, 157-65).
Della prima vittoria ottenuta dall’esercito cittadino, motivo di orgoglio per il Segretario, sono rimasti solo i «disagi», la «fatica», il «dispendio», mentre lo spostamento dell’obiettivo su Pisa non serve che a osservare una tragedia con gli occhi di chi l’ha vissuta. Intorno a questi due brani di storia municipale nel secondo Decennale il quadro si allarga e assume dimensioni italiane ed europee, non tanto perché la narrazione si muove dal ducato di Milano all’Inghilterra o alla Germania, quanto perché la visuale fiorentina, con cui pure M. e tutti i suoi concittadini avevano seguito questa storia nel suo stesso svolgersi, è totalmente dimenticata, e di conseguenza i principali avvenimenti italiani ed europei di quegli anni sono descritti con un distacco lontanissimo dalla partecipazione con cui era scritto il primo Decennale. Nel 1494 l’Italia era già divenuta il teatro della lotta di grandi potenze straniere, ma i fiorentini avevano compreso il vero significato dell’invasione di Carlo VIII solo quando erano usciti dal loro orgoglioso isolamento. Il M. del 1514 non può ancora fare propri mutamenti di metodo e di interpretazione, anche perché la sua non è una storia, né egli si ritiene in questo momento uno storico; è logico quindi che il secondo Decennale si interrompa, quando le vicende della Repubblica, che l’opera intendeva continuare a narrare, si dimostrano prive di interesse politico e non hanno perciò più nulla da insegnare ai contemporanei.
Costretto ad abbandonare un’ottica fiorentina storicamente errata e politicamente inutile, M. deve anche alterare una forma letteraria troppo legata all’interpretazione dei problemi cittadini e alla diffusione di un messaggio politico. La materia del secondo Decennale, priva di un centro organizzatore e di un significato generale, si svolge infatti per singoli episodi separati l’uno dall’altro, in una struttura narrativa frammentaria e discontinua. Ogni cambio di scena è una brusca svolta e ciò rende necessari versi di legamento in cui si ripetono continuamente i medesimi avverbi temporali, come «intanto» e «in questo», a sottolineare l’unico filo conduttore di una storia fine a sé stessa. Ma nel secondo Decennale si perde anche il colore delle immagini e delle metafore, tipiche dell’antica poesia storica: «mort’era Ercule, duca di Ferrara, / mort’era Federico, e di Castiglia / Elisabetta regina preclara» (vv. 58-60).
I luoghi della storia, lontani o estranei a Firenze, non possono fregiarsi delle designazioni araldiche nate da una tradizione poetica prettamente toscana, e nessuno dei personaggi che compaiono nell’opera ha avuto tanta consuetudine con i fiorentini da avere ricevuto da essi un soprannome, o un patronimico. Una volta scomparsa in tal modo la densità allusiva che in ogni verso del primo Decennale legava il poeta al suo ambiente e rendeva la sua voce familiare ai lettori, lo stesso appello del «voi» cade nel vuoto, come un’abitudine a cui è troppo difficile rinunciare. La necessità di legamenti temporali e l’abbandono delle sintesi metaforiche imprimono quindi all’esposizione un andamento discorsivo che finisce per togliere alla poesia storica le sue stesse caratteristiche fondamentali di rapidità e di concisione. L’incontro di M. con un eroe repubblicano, Antonio Giacomini, protagonista di un precedente episodio della guerra di Pisa, produce infatti cinque terzine che interrompono il racconto e portano in primo piano le considerazioni personali dell’autore; un breve accenno non è più sufficiente a esprimere tutto il significato di un avvenimento storico e il poeta si vede per questo costretto a tradire i suoi modelli letterari. Il rimpianto per un passato ormai concluso, suscitato questa volta dalle vicende di un singolo personaggio, provoca il ripetersi di concetti come «virtù» e «milizia», nella ridondanza delle rime interne, mentre una brusca variazione introduce nell’ultima terzina un implicito confronto fra la condizione di un condottiero decaduto e quella di un poeta «pel dolor divenuto smarrito» (v. 9), chiarendo il senso autobiografico di tutta la digressione:
che, giunto dalla Torre a San Vincente, / per la virtù del vostro Giacomino / fu prosternata e rotta la sua gente. / El qual, per sua virtù, pel suo destino, / in tanta gloria e tanta fama venne / quant’altro mai privato cittadino: / questo per la sua patria assai sostenne / e di vostra milizia il suo decoro / con gran iustizia gran tempo mantenne; / avaro dello onor, largo de l’oro, / e di tanta virtù visse capace, / che merita assai più ch’io non lo onoro; / et or negletto e vilipeso iace / in le sue case, pover, vecchio e cieco. / Tanto a Fortuna chi ben fa dispiace! (vv. 31-45).
Dal resoconto della battaglia di Agnadello nasce poi una seconda parentesi, in cui M. non si limita ad ampliare una descrizione, ma dimostra una vera e propria teoria politica. Qui lo sviluppo della narrazione è dunque del tutto dimenticato dall’autore, che si sofferma in un particolareggiato commento dei fatti, e non esita ad adottare, insieme al presente verbale, una scansione logica estranea agli stilemi abituali di una cronaca in versi, ma utile in questo caso a sostenere un ragionamento:
Tanto v’accieca la presente sete, / che grosso tienvi sopra gli occhi un velo / che le cose discosto non vedete. / Di quinci nasce che ’l voltar del cielo / da questo a quel i vostri stati volta, / più spesso che non muta el caldo e ’l gelo; / che se vostra prudenza fusse volta / a cognoscer il mal e rimediarve, / tanta potenza al ciel sarebbe tolta (vv. 184-92).
La sconfitta del 1512 ha decretato il fallimento dell’opera di un popolo, inducendo M. a idealizzare le funzioni di un principe; in questo senso i versi dedicati a Giacomini si possono considerare il primo residuo di una concezione eroica che produrrà più tardi le figure di Castruccio, nella Vita, o di Teodorico, nelle Istorie fiorentine. Ma per uno scrittore come M. la disgrazia e l’esilio hanno tolto ogni significato politico alla storia stessa, se analizzata nella continuità del suo sviluppo; ogni avvenimento si isola quindi dagli altri, assumendo le proporzioni di un esempio. L’operazione riesce nel Principe, dove l’indagine storica è subordinata allo studio di una teoria generale e indipendente, ma non nel secondo Decennale, che nasce come una continuazione del primo e si propone dunque di porre di nuovo sullo stesso piano la storia e la politica. Non potendo ordinare la successione cronologica secondo un unico tema conduttore e rifiutando d’altra parte i limiti di un vano autobiografismo, M. è dunque costretto a esplicitare il suo messaggio, fino a renderlo completamente estraneo all’opera stessa: la struttura della cronaca deve interrompersi, per lasciare spazio a un’elaborazione concettuale legata a un singolo episodio e a tecniche espressive di natura profondamente diversa. L’interruzione del secondo Decennale non rivela comunque solo la crisi di un’opera inattuale. Se il Principe è l’estremo ed eroico tentativo di salvare uno Stato cittadino destinato a scomparire, il secondo Decennale è il vero banco di prova di un’ideologia repubblicana che cerca ancora di sostenere un diretto impegno politico e finisce per mostrare allo stesso M. il fallimento di un’ottica municipale sulla storia contemporanea.
Bibliografia: Edizioni e commenti: N. Machiavelli, Opere letterarie, a cura di L. Blasucci, Milano 1964; N. Machiavelli, Il teatro e tutti gli scritti letterari, a cura di F. Gaeta, Milano 1965; N. Machiavelli, The first Decennale. A facsim. of the 1st ed. of feb ruary 1506, Cambridge (Mass.) 1969; N. Machiavelli, Opere letterarie, a cura di A. Borlenghi, Napoli 1970; N. Machiavelli, Opere letterarie, a cura di L. Blasucci, Torino 1989; N. Machiavelli, Decennali, a cura di A. Corsaro, in Id., Opere letterarie,2° vol., Scritti in poesia e in prosa, coord. di F. Bausi, a cura di A. Corsaro, P. Cosentino, E. Cutinelli-Rendina, F. Grazzini, N. Marcelli, Roma 2013, pp. 1-65, 469-95.
Per gli studi critici si vedano: L. Blasucci, Machiavelli novelliere e verseggiatore, «Cultura e scuola», 1970, 33-34, pp. 173-91; G. Sasso, Per alcuni versi del primo Decennale, «Cultura e scuola», 1970, 33-34, pp. 216-18, riedito con aggiunte in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 2° vol., Milano-Napoli 1988, pp. 165-95; C. Dionisotti, Machiavelli letterato, in Studies on Machiavelli, a cura di M.P. Gilmore, Firenze 1972, pp. 127-45, riedito in Id., Machiavellerie, Torino 1980, pp. 227-66; G. Barberi Squarotti, Storia ed etica in versi: il tono medio del Machiavelli, «Italianistica», 1974, 3, pp. 15-32; A. Matucci, Le terze rime di Machiavelli, «Atti e memorie dell’Accademia toscana di scienze e lettere La Colombaria», 1982, 47, pp. 92-182; A.M. Cabrini, Intorno al primo Decennale, «Rinascimento», 1993, 33 pp. 69-89; V. Bramanti, Comunicazioni e appunti: due note cinquecentesche, «Giornale storico della letteratura italiana», 1995, 172, pp. 593-98; M. Marietti, Dantismo machiavelliano, «Studi danteschi», 2011, 76, pp. 81-95.