Abstract
La nozione di Decentramento amministrativo non corrisponde ad un istituto giuridicamente univoco, ma piuttosto ad una tendenza organizzativa e funzionale che si realizza mediante una pluralità di strumenti giuridici, articolati in forme variegate, mutevoli a seconda del contesto sociale e storico. In questo senso, il decentramento non si riferisce soltanto ad un dato statico, ma coglie un fattore dinamico, fasi e processi di trasferimento di funzioni e apparati dal centro alla periferia. L’ordinamento italiano ha conosciuto varie fasi di questo tipo, particolarmente tra gli anni ’70 e ’90. Del resto, il decentramento è sancito espressamente tra i principi fondamentali della nostra Costituzione, nell’art. 5; dove, insieme a quelli di autonomia e di unità, compone la caratterizzazione territoriale della Repubblica.
Se, nella accezione comune, il termine “decentramento” fa riferimento genericamente ad un rapporto tra un “centro” e una “periferia” che non privilegi il primo, o ad ogni tipo di diffusione di poteri tra più centri decisionali o di dislocazione di elementi sul territorio, anche nel linguaggio giuridico e istituzionale i significati che ad esso si ricollegano sono tutt’altro che univoci. Il più delle volte, anzi, «non si ha un’idea chiara e precisa di ciò che si intende con la parola indicare» (Romano, S., Decentramento amministrativo, in Enc. Giur. It., IV, 1897, IV). Non diversamente, nello stesso periodo, in Francia uno dei più eminenti sostenitori della “décentralisation”, de Marcère, commentando le grandi leggi sul ruolo e sulle funzioni dei dipartimenti e dei comuni, approvate rispettivamente nel 1871 e nel 1884, nel rilevare che la parola rispondeva ad un sentimento fortemente diffuso, aggiungeva: «mais c’est un mot dont le sens n’est pas défini» (Regourd, S., De la décentralisation dans ses rapports avec la démocratie, in Revue du droit public, 1990, 962).
Trascorso ben più di un secolo da questi dubbi, sarebbe davvero improprio affermare che l’elasticità semantica del termine si sia risolta in un senso ben definito e comunemente accettato. Certo, a delimitare il concetto di “decentramento”, può valere l’aggettivo “amministrativo”, che tende ad escludere dalla nozione fenomeni quali il decentramento legislativo (proprio delle varie forme di Stato composto) o il decentramento finanziario, incentrando il tema sugli assetti e sul funzionamento delle amministrazioni; ma anche in questi termini, i profili, i contenuti, i rapporti cui si intende fare riferimento si presentano assai variegati.
Così, nella dottrina, il concetto tende a scindersi tra analisi dei rapporti interni ad un medesimo aggregato organizzativo e rapporti tra soggetti distinti e in posizione autonoma; si concentra, in concreto, su modalità di relazione interne agli apparati dello Stato o si estende alle connessioni con le autonomie territoriali; si presenta come mero strumento tecnico per favorire la funzionalità di apparati o coinvolge valori più ampi, anche di pluralismo democratico; può essere assunto come temperamento dei tradizionali assetti o può divenire un indice di sfaldamento di questi.
In effetti, i numerosi e autorevoli tentativi sviluppati a lungo per identificare il decentramento con un unico istituto, dai caratteri giuridicamente ben definiti e costanti, non sembrano aver conseguito risultati soddisfacenti, mentre si è affermata una concezione di decentramento amministrativo che si pone in stretta correlazione con le circostanze di tempo, di luogo e di contesto in cui opera, che assume dinamiche mutevoli secondo i cambiamenti della realtà sociale e che, dunque, non si configura come un preciso istituto giuridico, idoneo a ripartire le competenze ed a definire ruoli e rapporti, ma che semmai costituisce “un principio di tendenza” ricco di gradazioni, sfumature e qualificazioni diverse ed attuato mediante una pluralità di figure atipiche e strumenti eterogenei (cfr., anche per riferimenti, Roversi-Monaco, F., Profili giuridici del decentramento nell’organizzazione amministrativa, Padova, 1970, 9-15 passim).
Il concetto può articolarsi sulla base di diversi parametri, variamente utilizzati nella letteratura giuridica nei differenti contesti; parametri che sembrano far riferimento, in primo luogo, ai caratteri dei soggetti istituzionali destinatari del decentramento e, conseguentemente, al tipo di rapporto intercorrente tra essi e il soggetto centrale.
Così, ad esempio, Mortati ha tracciato una distinzione tra decentramento interno allo Stato-persona e decentramento nell’ambito dello Stato-comunità, a sua volta differenziabile a seconda che riguardi autonomie di carattere privato oppure quelle di indole pubblicistica, ricordando peraltro che l’uso comune differenzia piuttosto il decentramento che si attua nella stessa amministrazione diretta dello Stato da quello che consiste nel deferimento di compiti potenzialmente statali ad enti da esso distinti (Mortati, C., Istituzioni di diritto pubblico, IX ed., Padova, 1975, 47-48, 223).
Distinzioni di questo tipo, tuttavia, come rileva lo stesso Autore, rischiano di risultare troppo generiche e, in definitiva, scarsamente utili. Pare opportuno, dunque, fare riferimento ad ulteriori classificazioni operate dalla dottrina italiana, così come ad esperienze ed elaborazioni sviluppate altrove; quali, ad esempio quelle articolate dal Development Programme delle Nazioni Unite (UNDP) che, in un documento preparato in collaborazione con il Governo della Germania, considera la diffusione e la variabilità della pratica, così come l’assenza di una elaborazione teorica condivisa. Considerando, dunque, studi di vari autori – ma anche rapporti della Banca mondiale ed altre numerose fonti, di diversa natura e provenienza – il documento (Decentralization: a sampling of definitions, 1999), passa in rassegna una decina di possibili accezioni e configurazioni, in un quadro di generale favore nei confronti del decentramento, come fattore per contribuire alla buona governance, per accrescere le opportunità di partecipazione nelle decisioni economiche, sociali e politiche, per aumentare la responsabilità, la trasparenza e la legittimazione delle istituzioni, per perseguire obbiettivi prioritari come la riduzione della povertà, lo sviluppo dell’occupazione, le pari opportunità, il recupero ambientale. In base a presupposti e finalità di questo genere, è possibile distinguere le ipotesi e delineare una varietà di forme e categorie, estrapolate da un ambito certamente più vasto dell’ordinamento italiano, ma comunque applicabili a questo. In tal senso, sembra opportuno circoscrivere la panoramica alle ipotesi che concernono rapporti tra istituzioni pubbliche, lasciando ai margini forme di coinvolgimento di soggetti privati (con o senza scopo di lucro), che – pur prese in considerazione nella letteratura internazionale – sono invece generalmente considerate estranee al concetto nella dottrina italiana. Tenendo conto di prospettive e limiti di questo tipo, e pur utilizzando terminologie sempre oscillanti e opinabili, è possibile parlare di decentramento:
a) “autonomistico”, a favore di Regioni ed enti locali territoriali; di soggetti, cioè, dotati di autonomia nei confronti del soggetto centrale (Stato), esponenziali di una collettività insediata su un determinato territorio, con capacità di esprimere un proprio indirizzo politico-amministrativo. Su soggetti di questo tipo, il potere centrale non può esercitare controlli che eccedano la legittimità, essendo comunque essi a disporre di un “pouvoir de décision”, determinando i contenuti delle proprie scelte discrezionali. Si tratta di un’autonomia generalmente tutelata da disposizioni della Costituzione stessa; e, per gli Stati che vi hanno aderito, dalla Carta europea dell’autonomia locale (ratificata in Italia con la l. 30.12.1989, n. 439), che tende a riconoscere alle autonomie «una capacità effettiva per le collettività locali di regolare ed amministrare, nell’ambito della legge sotto la loro responsabilità ed a favore delle popolazioni, una parte importante di affari pubblici». In questa categoria possono essere collocate anche le forme di devolution, come freedom in making choices;
b) “funzionale”, concernente soggetti esponenziali di una comunità non territoriale, ma di settore, comunque dotati di una propria sfera di autonomia garantita, in relazione all’esercizio delle funzioni ad essi attribuite. È questo il caso delle università, degli istituti di ricerca e degli istituti scolastici; cui viene accostata talora – come è avvenuto in Italia – la posizione di soggetti espressi da organizzazioni produttive, quali le camere di commercio;
c) “per delega”, che può riferirsi anche a soggetti autonomi, ma al di fuori della loro competenza propria, comunque conferendo a questi soggetti la facoltà di esercitare la funzione delegata, assumendo la responsabilità dei relativi atti. Assimilabile a questa ipotesi è il conferimento dell’esercizio di funzioni in base a convenzione. Si tratta, comunque, di ipotesi in cui l’organo che esercita la funzione si trova in posizione di autonomia limitata, essendo soggetto a specifiche direttive e forme di controllo;
d) “per avvalimento”, nei casi in cui, pur potendosi rivolgere anche in questa ipotesi ad enti dotati di autonomia, la distribuzione della potestà non investe l’esercizio della funzione, con adozione dei relativi provvedimenti, ma semplicemente compiti istruttori o di esecuzione. A formule di questo tipo si ricollegava, nel testo originario, l’art. 118 Cost., laddove si prevedeva che la Regione esercitasse normalmente le sue funzioni amministrative anche avvalendosi degli uffici degli enti locali (cfr. Giannini, M.S., Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, 1981, 64-65, che qualifica come deconcentrazione queste forme di partecipazione di autorità locali o di uffici subordinati a procedimenti di autorità centrali). Da ultimo, poi, a forme di avvalimento tra enti territoriali fa riferimento la l. 7.8.2014, n. 56, art. 1, co. 89, a fini di esercizio delle funzioni provinciali;
e) “settoriale”, quando determinate funzioni, in luogo di essere esercitate direttamente da enti territoriali, vengono affidate preferibilmente ad enti o agenzie istituiti appositamente. I rapporti tra questi ultimi e l’ente territoriale possono essere assai vari, e il grado di responsabilità operativa affidato può essere variamente graduato. In questo senso, si possono configurare situazioni di decentramento “semi-autonomistico” che, pur senza essere assimilabile al grado di garanzie proprio degli enti autonomi, consente tuttavia un certo margine di capacità di gestione e di sfera di azione protetta da ingerenze altrui; oppure possono rilevarsi casi di decentramento “strumentale”, rivolto ad enti che, pur dotati di una propria organizzazione e di una propria personalità giuridica, sono collocati in un rapporto di strumentalità o dipendenza nei confronti del soggetto centrale, titolare di penetranti poteri di direttiva «al fine di indirizzarne e coordinarne l’azione in una più ampia visione degli interessi dello Stato» (Cons. St, VI, 19.10.1976, n. 348);
f) “burocratico”, o meramente amministrativo, tendente a configurarsi come modalità organizzativa interna, operando nell’ambito della medesima organizzazione del delegante, dotato di una propria serie di strutture periferiche. Strutture che possono avere una configurazione e una competenza di carattere generale (decentramento “prefettizio”), o settoriale (decentramento “ministeriale”); e che, nei confronti delle autorità centrali, si presentano talora soggette a vincoli gerarchici, talora svincolate. Nell’accezione più appropriata, comunque, può parlarsi di decentramento soltanto quando in capo all’organo decentrato si configura una responsabilità esclusiva, con piena capacità di emanare i relativi provvedimenti (cfr. Berti, G., Commento all’art. 5, inCommentario della Costituzione, Bologna, 1975, 283 ss.). In questa categoria possono inquadrarsi anche le attribuzioni svolte dal sindaco quale “agent de l’Etat” o “ufficiale di governo” – vale a dire quale organo dello Stato – nell’esercizio di funzioni di competenza statale (TUEL, art. 54); anche se in questa ipotesi non mancano elementi del tutto atipici, considerato che per l’espletamento di questi compiti si utilizzano dipendenti e risorse del Comune, su cui grava anche la relativa responsabilità (Cons. St., V, 13.8.2007, n. 4448). Per ricomprendere con maggiore chiarezza anche quest’ultima ipotesi, si preferisce talora qualificare questo decentramento come “organico”.
In definitiva, una considerazione precisa degli elementi che connotano le forme di decentramento porta, dunque, ad un’articolazione di paradigmi ben più ampia e variegata di quanto non emerga dalla tradizionale dicotomia tra il decentramento che si basa su autonomie territoriali e il decentramento che si avvale di organi periferici dello Stato: dicotomia fondamentale, anzitutto, nei Paesi a tradizione amministrativa di tipo francese, dove il secondo fenomeno viene indicato utilizzando il termine “déconcentration”, ben distinto – e talora considerato nettamente alternativo – rispetto a quello di “décentralisation”, espressione pressoché sovrapponibile a quelle di pouvoir local o di démocratie locale, e che presuppone un pluralisme institutionnel de l’appareil public. Ma, in definitiva, non meno radicale è la dicotomia nella concezione anglosassone, dove alla decentralization come devolution “largely political”, si contrappone una deconcentration “largely administrative”, nel cui ambito possono distinguersi una forma “intraorganizational” ed un’altra “interorganizational” (Power, J., Decentralization, in International Encyclopedia of Public Policy and Administration, 1998, II, 633). In base alle complessità accennate, dunque, “decentramento” e “deconcentrazione” possono essere più propriamente considerati limiti esterni di una gamma composta da un’ampia pluralità di situazioni e di sfumature intermedie.
Né mancano ulteriori variabili, che possono incidere sulle diverse tipologie sopra accennate. Ad esempio, in ciascuna di esse, possono distinguersi ipotesi di decentramento “simmetrico”, vale a dire rivolto in termini omogenei alla generalità delle istituzioni di un certo tipo, da ipotesi di decentramento “asimmetrico”, che concerne soltanto alcune istituzioni, specificamente individuate, oppure differenzia le funzioni demandate alla generalità rispetto a quelle conferite ad alcune.
Nei termini delineati, dunque, la concezione del decentramento si rivela assai complessa e variegata; probabilmente molto di più di quanto non si presenti l’antitetica nozione di accentramento. Con qualche semplificazione, si potrebbe forse affermare, parafrasando, che tutti gli Stati accentrati sono simili, ma ogni Stato decentrato è decentrato a modo suo.
Nell’ordinamento italiano, il decentramento è sancito espressamente al livello più elevato, comparendo tra i principi fondamentali della Costituzione, nell’art. 5; che si apre affermando l’unità e indivisibilità della Repubblica e, al tempo stesso, la vocazione autonomista di questa, che «riconosce e promuove le autonomie locali»; aggiungendo quindi immediatamente che essa «attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo» e che alle esigenze, appunto, dell’autonomia e del decentramento «adegua i principi ed i metodi della sua legislazione» (cfr. anche disp. trans. IX). Ed autonomia e decentramento dovevano – per usare le parole della relazione dell’on. Ruini al progetto di Costituzione, per un verso «portare il Governo alla porta degli amministrati» e, per l’altro, «porre gli amministrati nel governo di se medesimi». Il riferimento alle autonomie locali – affermava ancora Ruini – «ricollegandosi anche al decentramento degli organi veri e propri dello Stato, è una sintesi larghissima della esigenza decentratrice in generale» (Falzone, V.-Palermo, F.-Cosentino, F., a cura di, La Costituzione della Repubblica italiana illustrata con i lavori preparatori, Milano, 1976, 19, 35-36).
In questi termini, dunque, il principio del decentramento, insieme a quelli di autonomia e di unità, compone la caratterizzazione fondamentale della Repubblica, configurandosi non solo e non tanto come tecnica di organizzazione amministrativa, ma come «principio costituzionale del nostro Stato» (Esposito, C., La Costituzione italiana. Saggi, Padova, 1954, 83). Significativamente, in sede di coordinamento finale, l’articolo – originariamente collocato nella sede dedicata specificamente alle autonomie, il titolo V – venne spostato tra i principi fondamentali che ispirano l’intero impianto costituzionale, quale espressione di «un modo di essere della Repubblica, quasi la faccia interna della sovranità dello Stato» (Berti, G., Commento all’art. 5, cit., 277 ss.).
Legati nella medesima sede e nella medesima impostazione, i concetti di autonomia e di decentramento escludono entrambi quella fungibilità di competenze che è propria del rapporto gerarchico e suppongono il conferimento di ogni funzione, in via tendenzialmente esclusiva, ad un organo determinato: in questo senso, l’art. 5 esprime una concezione che si collega precisamente ai principi espressi dallo stesso art. 97 Cost. Eppure, essi rimangono ben distinti per aspetti essenziali: e, in definitiva, è il principio di autonomia ad esprimere la complessità dello Stato-comunità; ad opporsi non tanto e non soltanto all’accentramento quanto allo statalismo; a comportare la possibilità di intaccare a fondo il potere di indirizzo uniforme che compete allo Stato (cfr., anche per riferimenti, Roversi-Monaco, F., Profili giuridici, cit., 242 ss.; Id., Decentramento amministrativo, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2000).
Sotto diversa prospettiva, il concetto di decentramento può essere riferito non ad una statica considerazione, come assetto dei poteri e delle competenze tra centro e periferia, ma ad un fenomeno dinamico, uno “shift of power”, un processo di trasferimento di poteri e funzioni (e, dunque, dei relativi apparati, beni, mezzi) dal centro alla periferia. In altri termini, se la parola “decentramento” indica generalmente una formula organizzatoria di distribuzione della funzione decisionale tra diverse autorità, per traslato, «con essa si indica altresì il relativo accadimento diacronico» (Giannini, M.S., Istituzioni di diritto amministrativo, cit., 64-65)
In Italia, l’ordinamento ha conosciuto diverse fasi di decentramento, in questo senso: dapprima prevalentemente a favore di amministrazioni statali; quindi, nel periodo successivo alla istituzione delle Regioni ordinarie, nei confronti delle Regioni stesse e delle autonomie locali.
Così, al fine di attuare il principio di decentramento, nel 1953 una legge (l. 11.3.1953, n. 150, prorogata nell’anno successivo) conferì al Governo una delega volta a trasferire una serie di competenze dalle amministrazioni centrali ai rispettivi organi periferici, nonché ad attribuire agli enti locali funzioni all’epoca esercitate dallo Stato. L’attuazione della delega, effettuata negli anni 1954 e 1955, non senza resistenze e difficoltà, comportò il conferimento di alcune competenze – particolarmente in materia di trasporti – a Comuni e Province, e il trasferimento di altre ad organi periferici statali, abilitati ad adottare i relativi atti in via definitiva (senza, dunque, possibilità di ricorso agli organi centrali). Ulteriori, parziali funzioni furono decentrate negli anni seguenti, particolarmente dal Ministero della pubblica istruzione ai provveditori, agli studi e, quindi, ai rettori di università (cfr., anzitutto, l. n. 304/1961).
Dopo la regionalizzazione del 1970, il “primo” decentramento fu effettuato dai decreti delegati del 1972, basati non su una considerazione delle funzioni come stabilite dalla Costituzione, ma sulle attività esercitate in concreto dai Ministeri in ciascuna materia coinvolta, per di più trattenendo, nell’ambito di ciascuna di esse, una serie di compiti. Ne derivarono lacune e insoddisfazioni cui intese rimediare il “secondo” decentramento, avviato dalla l. n. 382/1975; attuata, in primo luogo, dal d.P.R. n. 616/1977 che, mentre tendeva ad ampliare le competenze demandate alle amministrazioni regionali, utilizzava in termini particolarmente ampi la disposizione costituzionale (art. 118, nella versione all’epoca vigente) che consentiva di attribuire direttamente agli enti locali le “funzioni amministrative di interesse esclusivamente locale”, sino a demandare ai Comuni il complesso delle competenze relative, in particolare, ai servizi sociali.
Il “terzo” decentramento, poi, si realizzò con il “federalismo amministrativo” degli anni ’97-99; che in un'unica concezione di “conferimento” di funzioni ricomprendeva fenomeni di “trasferimento, delega o attribuzione” (l. n. 59/1997, art. 1, co. 1, lett. e). Questo conferimento si estendeva a «tutte le funzioni e compiti amministrativi relativi alla cura degli interessi e alla promozione dello sviluppo delle rispettive comunità, nonché tutte le funzioni e i compiti amministrativi localizzabili nei rispettivi territori in atto esercitati da qualunque organo o amministrazione dello Stato, centrali o periferici, ovvero tramite enti o altri soggetti pubblici» (art. 1, co. 2). A questo fine, la legge indicava espressamente non i compiti da conferire, ma piuttosto quelli esclusi dai conferimenti (co. 3 e 4), in ogni caso riconoscendo a Regioni ed enti locali, secondo le rispettive competenze, potestà normativa in ordine alla «disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni e dei compiti amministrativi conferiti» (art. 2). Ad orientare questi conferimenti, del resto, erano principi fondamentali incisivi e in buona parte innovativi, quali: sussidiarietà, con «l’attribuzione della generalità dei compiti e delle funzioni amministrative ai Comuni, alle Province e alle Comunità montane, secondo le rispettive dimensioni territoriali, associative e organizzative, con l’esclusione delle sole funzioni incompatibili con le dimensioni medesime» (art. 4, co. 3, lett. a); cooperazione, tra Stato, Regioni ed enti locali (lett. d); responsabilità e unicità dell’amministrazione, con «conseguente attribuzione ad un unico soggetto dei compiti connessi, strumentali e complementari, e quello di identificabilità in capo ad un unico soggetto anche associativo della responsabilità di ciascun servizio o attività amministrativa» (lett. e); adeguatezza, in riferimento alla «idoneità organizzativa dell’amministrazione ricevente a garantire, anche in forma associata con altri enti, l’esercizio delle funzioni» (lett. g); differenziazione, con una «allocazione delle funzioni in considerazione delle diverse caratteristiche, anche associative, demografiche, territoriali e strutturali degli enti riceventi» (lett. h); copertura finanziaria, in relazione ai costi per l’esercizio delle funzioni conferite (lett. i); autonomia organizzativa e regolamentare e di responsabilità degli enti locali nell’esercizio delle funzioni e dei compiti conferiti (lett. l).
In questa direzione, dunque, i conferimenti degli anni ’90 tendevano ad una sostanziale rilettura dell’impianto del costituente del ’48, superando o reinterpretando i concetti, per un verso, di parallelismo tra funzioni legislative e amministrative delle Regioni e, per l’altro, di delega da queste agli enti locali e di attribuzione diretta ad essi di “funzioni di interesse esclusivamente locale” ad opera dello Stato.
Sulla base di questa evoluzione, la riforma del 2001 ha elevato a livello costituzionale le nuove concezioni nell’allocazione delle funzioni amministrative; prevedendo ora che esse, in via generale, sono attribuite ai Comuni, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.
La riforma costituzionale, dunque, in parte sancisce e consolida tendenze già affermate nella legislazione ordinaria, in parte apre nuove esigenze di ulteriori processi di decentramento. Ad avviare processi di questo tipo, in effetti, erano destinate le deleghe previste nelle disposizioni emanate «per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica» al nuovo quadro costituzionale adottate nel 2003. Tra ritardi e difficoltà nell’attuazione del titolo V, peraltro, le deleghe rimanevano inattuate, applicandosi dunque la regola secondo cui «le funzioni amministrative continuano ad essere esercitate secondo le attribuzioni stabilite dalle disposizioni vigenti» (l. 5.6.2003, n. 131, art. 7).
Nonostante le reiterate operazioni volte ad alleggerire il sovraccarico di funzioni che tradizionalmente gravano sullo Stato, il nostro sistema rimane tra i meno decentrati d’Europa; al punto che, sulla base di una serie di analisi documentate, è possibile rilevare come il trasferimento delle competenze sia stato in realtà modesto; come l’ipertrofia degli apparati centrali non sia venuta meno; come i flussi di spesa si siano spostati in direzione assai modesta verso le autonomie locali; come, in concreto, la spesa totale degli enti locali in rapporto al PIL sia passata dal 5.5% del 1990 al 4.9% del 2011; come il raffronto internazionale collochi l’Italia in posizioni ben distanti dai livelli che contrassegnano Paesi come Germania, Belgio o Spagna; come, in definitiva, sia possibile parlare di un “falso decentramento” (Fiorentino, L.-Saltari, L., Il falso decentramento italiano a dieci anni dalla riforma della Costituzione, Napoli, 2013).
A partire dal 2008, poi, la crisi economica sembra aver fomentato – certamente non soltanto in Italia – tendenze centralizzatrici, a fini di un più stringente controllo sull’utilizzo delle risorse. Da ultimo, comunque, la legge relativa a Città metropolitane, Province, Unioni e fusioni di Comuni (l. 7.4.2014, n. 56, art. 1, co. 89) prevede una redistribuzione delle funzioni provinciali (diverse da quelle qualificate come fondamentali), in attuazione dell’art. 118; sì che il legislatore (statale o regionale, a seconda delle materie) dovrà considerare in primo luogo la possibilità di attribuirle ai Comuni, anche associati, elevandole a livello superiore soltanto quando – in base appunto ai criteri di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione – il livello comunale si riveli inidoneo o inappropriato.
In questa evoluzione, il decentramento interno all’amministrazione statale ha svolto un ruolo marginale, rispetto ai conferimenti di funzioni a favore delle autonomie territoriali. Comunque, se a lungo le tendenze dominanti avevano portato ad una moltiplicazione delle strutture periferiche dei singoli ministeri, secondo dinamiche accentuatamente settoriali, negli ultimi decenni sembrano delinearsi, invece, orientamenti ad una convergenza secondo logiche trasversali e tendenzialmente generali. Così, nel contesto delle riforme della fine degli anni ’90, la Prefettura è stata trasformata in Ufficio territoriale del Governo (d.lgs. 30.7.1999, n. 300, modificato dal d.lgs. 21.1.2004, n. 29). Un ruolo specifico di rappresentante dello Stato nei confronti dell’insieme del sistema delle autonomie, poi, è stato assegnato al prefetto del capoluogo di Regione, anche in funzione di presidente della conferenza permanente cui partecipano i dirigenti delle strutture periferiche regionali dello Stato (l. 5.6.2003, n. 29, art. 10). Analoga conferenza, presieduta dal prefetto e composta dai responsabili delle corrispondenti articolazioni periferiche, è istituita anche a livello provinciale (d.P.R. 3.4.2006, n. 180).
Nella fase recente, l’amministrazione periferica statale è oggetto di una reiterata attenzione, da parte del legislatore, che ha inteso ridefinire il sistema rafforzando la rappresentanza dello Stato in capo alle prefetture-uffici territoriali del Governo (UTG), con un esercizio unitario dei servizi comuni, dalla gestione del personale al controllo di gestione, dall’economato ai sistemi informativi, dall’attività contrattuale alla manutenzione degli immobili. Il processo, peraltro, è tutt’altro che concluso: e se, sino ad ora, gli interventi non avevano messo in discussione l’articolazione territoriale dell’amministrazione periferica in oltre un centinaio di ambiti provinciali, la recente legge di delega per la riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche (l. 7.8.2015, n. 124, art. 8) tende ad una razionalizzazione della rete organizzativa anche attraverso la riduzione del numero. All’ampliamento delle dimensioni territoriali, corrisponde una revisione delle competenze; prevedendo, tra l’altro: una nuova configurazione dell’amministrazione periferica come ufficio territoriale “dello Stato”, punto di contatto unico con i cittadini; l’attribuzione al prefetto della responsabilità dell’erogazione dei servizi ai cittadini; la confluenza nello stesso ufficio territoriale di tutti gli uffici periferici delle amministrazioni civili dello Stato.
Art. 5 Cost; art. 1, l. 15.3.1997, n. 59; art. 1, co. 89, l. 7.4.2014, n. 56.
Barbera, A.-Bassanini, F., I nuovi poteri delle regioni e degli enti locali, Bologna, 1978; Balboni, E., Decentramento amministrativo, in Dig. pubbl., IV, Torino, 1989, 515; Berti, G., Commento all’art. 5, in Commentario della Costituzione, I, Bologna, 1975, 277; Bifulco, R., Commento all’art. 5, in Bifulco, R.-Celotto, A.-Olivetti, M., a cura di, Commentario alla Costituzione, Torino, 2006, 132; Calamo Specchia, M., Décentralisation, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2007; Cohen, J.M.-Peterson, S.B., Administrative Decentralization : Strategies for Developing Countries, June 1999; De Martin, G.C., Decentramento amministrativo, in Nss.D.I., Appendice, II, Torino, 1981, 996; Eisenmann, Ch., Centralisation et décentralisation, Paris, 1948; Esposito, C., Autonomie locali e decentramento amministrativo nell’art. 5 della Costituzione, in La costituzione italiana. Saggi, Padova, 1954, 67; Ferraris, L., Decentramento amministrativo, in Dig. pubbl., Aggiornamento, Torino, 2000, 182; Fesler, J.W., Centralization and Decentralization, in International Encyclopedia of the Social Sciences, II, 370; Fiorentino, L.-Saltari, L., Il falso decentramento italiano a dieci anni dalla riforma della Costituzione, Napoli, 2013; Flogaitis, S., La notion de décentralisation en France, en Allemagne et en Italie, Paris, 1979; Giannini, M.S., Il decentramento nel sistema amministrativo, in Problemi della pubblica amministrazione, Bologna, 1958, II, 155; Hauriou, M., Etude sur la décentralisation, Paris, 1892; Kochen, M.-Deutsch, K.W., Decentralization: Toward a Rational Theory, Cambridge, 1980; Luchaire, F.-Luchaire, Y., Décentralisation et Constitution, Paris, 2003; Power, J., Decentralization, in International Encyclopedia of Public Policy and Administration, 1998, II, 633; Regourd, S., De la décentralisation dans ses rapports avec la démocratie, in Revue du droit public, 1990, 961; Romano, S., Decentramento amministrativo, in Enc. giur. it., IV, 1897, anche in Scritti minori, II, Milano, 1950, 11; Roversi-Monaco, F., Profili giuridici del decentramento nell’organizzazione amministrativa, Padova, 1970 ; Roversi-Monaco, F., Decentramento amministrativo, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2000; UNDP-Government of Germany, Decentralization : a sampling of definitions, Working paper, October 1999; Vandelli, L., Il sistema delle autonomie locali, Bologna, 2013.