Decentramento produttivo
di Maurizio Zenezini
SOMMARIO: 1. Premessa. ▭ 2. Decentramento produttivo e rapporti tra imprese. ▭ 3. Teorie del decentramento produttivo e rapporti tra imprese: a) la spiegazione tecnologica; b) la spiegazione istituzionale; c) integrazione verticale, disintegrazione e rapporti di lavoro. ▭ 4. Integrazione verticale e decentramento produttivo: le tendenze di lungo periodo nelle economie industrializzate. ▭ Bibliografia.
1. Premessa.
Mediante il decentramento produttivo un'impresa trasferisce al di fuori dei propri stabilimenti alcune fasi del ciclo di produzione precedentemente integrate al suo interno. Il decentramento produttivo consiste quindi nell'assegnare il lavoro 'all'esterno' anziché 'far da sé'. Nel linguaggio aziendale tale fenomeno è descritto con riferimento all'alternativa tra l'opzione make, in cui l'impresa integra le diverse fasi di produzione, e l'opzione buy, in cui l'impresa si concentra su alcune attività fondamentali affidando le altre all'esterno. Dal punto di vista tecnico, il decentramento produttivo rappresenta una modalità di combinazione delle diverse attività richieste per la realizzazione del prodotto finale, attività che, in linea di principio, potrebbero essere interamente effettuate nell'impresa di origine. Dal punto di vista della struttura dell'industria, il decentramento produttivo, invece, è un insieme di rapporti tra imprese.
I rapporti di subfornitura, l'outsourcing, la subfornitura e la delocalizzazione territoriale costituiscono modalità particolari del decentramento produttivo.
Mediante accordi di outsourcing e di subfornitura, un'impresa committente acquisisce all'esterno un bene o un servizio, per lo più secondo date specificazioni tecniche (per una classificazione delle tipologie di outsourcing, v. Gargiulo e Mariotti, 1999). Limitate in passato ad alcune attività acquisibili all'esterno a costi minori, le pratiche odierne di outsourcing riguardano un'ampia gamma di servizi e di fasi del processo produttivo e comportano di frequente l'utilizzo temporaneo di lavoratori non direttamente assunti dall'impresa, bensì ingaggiati da società di intermediazione di manodopera. In tal modo, compiti precedentemente svolti da lavoratori impiegati in un'impresa manifatturiera vengono affidati a lavoratori formalmente a contratto in un'unità operante nel settore dei servizi (ma ancora sotto la supervisione dell'impresa utilizzatrice), cosicché l'outsourcing finisce per trasformare un rapporto di lavoro tra l'impresa e il lavoratore in uno scambio di servizi tra imprese.
La delocalizzazione è lo spostamento della produzione da imprese poste in un dato contesto territoriale ad altre diversamente localizzate. Tale processo può connotarsi come delocalizzazione di subfornitura, che implica una netta scomposizione delle fasi dei processi industriali, oppure come delocalizzazione di filiera, ossia come dislocazione di unità produttive interdipendenti dotate di elevati margini di autonomia decisionale, talvolta nella forma di joint ventures (v. Lorenzoni, 1997).
La delocalizzazione internazionale, poi, riguarda il trasferimento della produzione da imprese nazionali verso imprese attive in paesi stranieri. La globalizzazione delle imprese, cresciuta molto rapidamente negli ultimi due decenni, è spesso associata a processi di dispersione internazionale delle fasi di produzione (spettacolare per alcuni prodotti, come l'automobile e i computer), attraverso outsourcing e disintegrazione verticale (v. Grossman e Helpman, 2002). Persino la produzione della celebre macchina fotografica Leica si è fortemente frammentata: le lenti sono prodotte in Germania, le altre parti in Canada, Spagna e in alcuni paesi dell'Estremo Oriente. Il Rapporto Annuale del 1998 dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (World Trade Organization, WTO) forniva questa eloquente rappresentazione del processo produttivo dell'automobile statunitense: "Il 30° del valore dell'automobile finisce alla Corea del Sud per la fase di assemblaggio, il 17,5° al Giappone per i componenti e per le parti tecnologicamente avanzate, il 7,5° alla Germania per il design, il 4° a Taiwan e Singapore per parti minori, il 2,5° al Regno Unito per i servizi di promozione e marketing, l'1,5° all'Irlanda e alle Isole Barbados per il trattamento dei dati. Alla fine, questo significa che solo il 37° del valore di produzione è generato negli Stati Uniti" (v. WTO, 1998, p. 36). Solo relativamente di recente questi processi di 'frammentazione internazionale' delle fasi di produzione hanno cominciato a essere esaminati nel contesto delle teorie del commercio internazionale, che in passato erano per lo più concentrate sugli scambi di beni finali (v. Jones e Kierzkowski, 2001).
Anche in Italia si manifesta dal 1990 un'accentuata tendenza alla delocalizzazione internazionale delle imprese operanti nelle aree già tradizionalmente caratterizzate da un'ampia diffusione del decentramento produttivo (in particolare l'area del nord-est), soprattutto in direzione di alcuni paesi in transizione dell'Europa Orientale (v. Graziani, 2001).
2. Decentramento produttivo e rapporti tra imprese.
La riflessione teorica e la ricerca empirica sul decentramento produttivo insistono su due snodi centrali nell'economia industriale: il primo riguarda la dialettica tra integrazione verticale e rapporti tra imprese, il secondo la dialettica tra cooperazione e competizione tra imprese.
Si tratta di aspetti che la teoria neoclassica dell'impresa e delle forme di mercato ha generalmente affrontato con notevoli difficoltà. La teoria tradizionale, infatti, si focalizza sulla singola impresa operante nel mercato e tende a confinare la pluralità delle determinazioni che regolano i rapporti tra imprese entro lo schema delle relazioni di tipo collusivo in contesti non concorrenziali. Nell'analisi dei rapporti tra imprese l'accento è così fatto cadere sugli accordi realizzati in funzione dell'esercizio del potere di mercato, piuttosto che su quelle connessioni contrattuali o informali tra imprese prevalentemente motivate da considerazioni di efficienza economica, da vincoli e da opportunità tecniche o da fattori organizzativi e gestionali la cui rilevanza per una ridefinizione dei 'confini dell'impresa' - dopo le anticipazioni nei filoni innovativamente non ortodossi dell'economia industriale degli anni cinquanta del XX secolo (v. Andrews, 1952) - è stata da tempo riconosciuta e discussa in diversi contesti analitici (v. Dosi e Malerba, 1995; v. Mariti, 1980; v. Aoki, 1984; v. Langlois e Robertson, 1995; v. Holmstrom e Roberts, 1998; v. Pfaffmann, 2000). Il dibattito più recente sul decentramento produttivo ha messo in luce una quantità di tipologie di rapporti tra imprese che non possono essere ricondotti all'interno del tradizionale binomio concorrenza-collusione (v. Zanfei, 1995, pp. 213 ss.). Sono stati sottolineati, in particolare, i rapporti mediante i quali le imprese attivano risorse complementari, di tipo tecnico e gestionale, le interazioni che mettono in moto peculiari processi di apprendimento e di scambio di conoscenze, i rapporti che danno vita a strutture reticolari di imprese nelle quali le varie lavorazioni possono avvenire in modo coerente sia lungo l'intera filiera produttiva, sia in serie parallele.
In questa direzione, si è anche sottolineato come le specificità nazionali degli ordinamenti 'cooperativi' tra imprese rappresentino importanti chiavi di lettura delle differenze internazionali nell'organizzazione dei sistemi industriali (v. Caves, 1989, pp. 1227-1230). Si pensi, a questo proposito, all'importanza dei rapporti di subfornitura e alla diffusione delle piccole imprese nel capitalismo giapponese, che rappresentano rilevanti tratti distintivi rispetto al modello anglosassone di capitalismo, tradizionalmente più centrato sulle grandi corporations: intorno al 1990 l'occupazione delle imprese maggiori (oltre 500 addetti) rappresentava in Giappone circa un quinto della complessiva occupazione industriale, contro valori compresi tra il 45 e il 65° nella ex Germania Occidentale, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.
Anche nel dibattito italiano il tema del decentramento produttivo è stato generalmente affrontato nel contesto delle specificità dello sviluppo industriale del paese, nel quale hanno svolto e svolgono un ruolo molto importante le piccole e piccolissime imprese (v. Varaldo, 1979; v. Traù, 1999, La "questione ..., pp. 15 ss.). In Italia, intorno al 1990 la quota di occupazione manifatturiera nelle imprese con oltre 500 addetti era inferiore al 20°, mentre era pari a circa il 65° in quelle con meno di 100 addetti, contro quote comprese tra il 20 e il 30° in Germania, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Le piccole imprese, d'altra parte, presentano caratteristiche morfologiche diverse a seconda che si muovano in isolamento entro limitate nicchie di mercato o invece in contesti caratterizzati da forte densità di relazioni tra imprese. Quest'ultimo aspetto è tipico dei distretti industriali, cioè di quelle localizzazioni territoriali in cui sono presenti numerose piccole e medie imprese specializzate in particolari produzioni tra loro strettamente interdipendenti. Nei distretti il decentramento produttivo tende quindi a tradursi in un sistema di reti di imprese che danno vita ad articolati processi di divisione del lavoro nella produzione di particolari beni mediante rapporti di subfornitura, disintegrazione verticale e specializzazione (v. Brusco, 1989, pp. 243 ss.; v. Brusco e Paba, 1997; v. Becattini, 1998).
Com'è noto, lo sviluppo dei settori dell'industria leggera del made in Italy (tipicamente i settori della moda, del legno e mobilio, e taluni comparti meccanici) è stato caratterizzato dal diffuso ricorso al decentramento produttivo, mediante il quale si è dato vita a un accentuato frazionamento dei processi produttivi in cicli parziali svolti da imprese autonome fornitrici di prodotti finiti o semilavorati per le imprese terminali, presso le quali restano concentrati alcuni snodi cruciali della catena di valore (ad esempio progettazione, assemblaggio, finissaggio).
3. Teorie del decentramento produttivo e rapporti tra imprese.
Le teorie moderne dell'impresa come sequenza integrata di processi produttivi, di procedure organizzative e di meccanismi di coordinamento di diverse attività (beni fisici e beni intangibili) sottolineano il ruolo della proprietà e della gestione unitaria quali dispositivi in grado di fronteggiare le incertezze e gli imprevisti associati all'interazione tra i diversi segmenti del processo produttivo (v. Grossman e Hart, 1986). Se due o più attività sono soggette a un unico assetto proprietario, allora esse interagiscono entro i confini di un'impresa integrata; se le attività sono invece soggette a diversi assetti proprietari, allora le transazioni tra di esse hanno la natura di scambi di mercato. Pertanto, poiché il fenomeno del decentramento produttivo si concreta in una rete di rapporti tra imprese, è necessario spiegare i motivi che regolano il trade-off tra accorpamento dell'intera sequenza delle attività produttive e separazione dei segmenti del processo produttivo in unità tecnico-decisionali distinte. A tal fine si possono adottare tre diversi approcci concettuali, complementari piuttosto che alternativi: l'approccio tecnologico, l'impostazione istituzionale e l'analisi basata sulla natura dei rapporti di lavoro.
a) La spiegazione tecnologica.
Un'impresa è un'organizzazione che svolge una pluralità di attività: assunzione e addestramento di manodopera, acquisto e stoccaggio di materiali, progettazione e ricerca, trasformazione produttiva di input in prodotti vendibili, marketing e attività promozionali, concessione di crediti ai clienti o ai fornitori, gestione finanziaria. Nella grande impresa non vengono semplicemente duplicate singole attività, bensì vengono assunte funzioni addizionali mediante l'integrazione verticale di processi, fasi e servizi in via di principio acquisibili sul mercato. All'opposto, la piccola impresa è spesso caratterizzata da una minore densità di funzioni tecniche e organizzative, da assetti proprietari relativamente poco articolati e da un minore raggio d'azione. Le piccole imprese, quindi, sono spesso specializzate in particolari processi o sequenze del ciclo produttivo e, in virtù di questo, possono entrare a far parte della catena del valore delle imprese maggiori o di gruppi di imprese mediante varie tipologie di decentramento economico.
Anche se il decentramento economico non è semplicemente l'aspetto speculare dell'integrazione verticale, l'analisi dei motivi che spingono verso l'integrazione in imprese di elevata dimensione è in grado di gettare luce sulle cause del decentramento.
La principale motivazione di tipo tecnico-produttivo è connessa alle economie di scala, definite come la riduzione dei costi unitari conseguibile mediante elevati livelli di produzione. Il fondamento delle economie di scala associate ai livelli di produzione è fornito dalla tesi smithiana secondo cui la divisione del lavoro dipende dall'estensione del mercato: "Se il 'lavoro' è pensato come un insieme di compiti scomponibili, un'impresa che produca una unità deve avere un lavoratore che effettua tutti i compiti: se l'output raggiunge le due unità, essa può far sì che due operai effettuino metà dei compiti (non metà della produzione); raggiungendo tre unità di produzione, tre operai possono ciascuno portare avanti un terzo dei compiti e così via finché ciascun lavoratore effettua un sol compito. In tal modo, il limite alla divisione del lavoro è il numero delle unità prodotte e questo a sua volta dipende dall'estensione del mercato" (v. Mariti, 1979, p. 84). La decomponibilità dei processi produttivi (v. Tani, 1987) offre dunque la possibilità di realizzare le singole attività che conducono al prodotto mediante una molteplicità di strumenti tecnici, di abilità e - eventualmente - di modelli organizzativi. L'impresa, in particolare, vorrà quasi certamente trattenere al proprio interno quelle fasi 'critiche' che più direttamente incidono sulla qualità del prodotto e preferirà decentrare le fasi restanti a imprese specializzate nei diversi segmenti della filiera produttiva. La tab. I, che presenta alcuni dati sul decentramento nell'industria metalmeccanica italiana nel 1997, mostra quale ruolo possano giocare i fattori tecnologico-produttivi che sono all'origine del decentramento. Come si vede, le percentuali di produzione decentrata sono molto diverse nei vari settori: si va da percentuali inferiori al 10° in settori come la siderurgia e l'aeronautica, a percentuali superiori al 30° nei settori dei mezzi di trasporto e della navalmeccanica.
Il progresso tecnico rappresenta, in questo quadro, uno dei maggiori fattori in grado di spiegare il decentramento produttivo. Innovazioni che favoriscono il conseguimento di elevati livelli di produttività anche a piccole scale produttive, la possibilità di conseguire vantaggi di specializzazione in certi segmenti della filiera produttiva, l'innovazione nei materiali sono tutti elementi in grado di favorire il decentramento produttivo.
Negli anni ottanta del Novecento le nuove tecnologie informatiche e le loro applicazioni ai processi produttivi hanno incoraggiato i processi di decentramento produttivo permettendo di superare le strozzature della grande impresa di tipo fordista mediante processi di 'specializzazione flessibile' (v. Harvey, 1990, pp. 177-215). Le economie di scala - cruciali nella crescita delle dimensioni delle imprese fino agli anni settanta - sono state rese parzialmente obsolete dalla possibilità di produrre in modo relativamente efficiente anche piccoli lotti (si ritiene oggi che tre quarti dei componenti di base dell'industria meccanica possano essere prodotti a costi competitivi anche in quantità di cinquanta pezzi o meno).
b) La spiegazione istituzionale.
Negli approcci neo-istituzionalisti l'integrazione verticale è una strategia mediante la quale l'impresa tenta di eliminare i costi non necessari associati alle transazioni di mercato. Due unità produttive indipendenti, legate da rapporti di fornitura di beni o di servizi, possono unificarsi e diventare divisioni di un'unica impresa, evitando così il costo delle contrattazioni continue sui beni e servizi coinvolti nella catena di valore. Si tratta di costi reali, legati, ad esempio, a fattori di incertezza o di eccessiva variabilità nella disponibilità di particolari input, alla presenza di prezzi non concorrenziali per i beni e i servizi acquisiti all'esterno, di costi informativi legati, ad esempio, alla qualità dei beni scambiati e al grado di affidabilità dei fornitori. In questo quadro, l'integrazione a monte mira tipicamente a ridurre i costi connessi ai rischi e alle fluttuazioni nei mercati di approvvigionamento delle materie prime (si pensi alla fusione tra l'impresa chimica e l'impresa petrolifera), mentre l'integrazione a valle mira, tra l'altro, a trarre vantaggio da un più diretto controllo dei mercati di consumo, anche attraverso l'offerta di gamme complete di prodotti (si pensi al fabbricante di vestiario che acquisisce il controllo di una rete di vendita). Più in generale, l'integrazione verticale rappresenta la soluzione ottimale quando gli scambi di mercato non possono essere regolati con sufficiente precisione da contratti legali per l'impossibilità di prevedere tutte le circostanze in grado di influenzare le transazioni e per la difficoltà di monitorare ed eventualmente sanzionare i comportamenti degli agenti coinvolti. In base a questa concezione, inizialmente proposta da Ronald Coase (v., 1937), l'impresa rappresenta un sistema di relazioni produttive e organizzative di tipo gerarchico che sostituisce il meccanismo dei prezzi operante nel mercato. Secondo Coase, gli stadi successivi nei processi di produzione e distribuzione verranno integrati in una struttura gerarchica all'interno dell'impresa finché i costi organizzativi interni saranno inferiori ai costi di commercializzazione e di transazione nei mercati esterni.
Oliver Williamson (v., 1975) ha sviluppato l'argomento di Coase mostrando che l'aumento della dimensione dell'impresa, in quanto derivante da un crescente grado di integrazione verticale, permette di evitare i costi di utilizzazione del mercato, ma fa sorgere complessi problemi di gestione a causa della perdita di controllo che si determina lungo le catene decisionali gerarchiche in conseguenza di successivi meccanismi di delega 'a cascata' dei compiti operativi. La dimensione dell'impresa, pertanto, dipenderà dal bilanciamento tra la spinta verso lo sfruttamento delle economie di scala e l'obiettivo di minimizzare i costi di transazione nei mercati esterni e quelli di coordinamento associati all'organizzazione delle strutture gerarchiche interne.
Alla luce di queste linee analitiche, non è difficile, da un punto di vista generale, isolare i moventi dei processi di disintegrazione e di decentramento: potremo infatti concludere che saranno decentrati tra diverse imprese quegli stadi del ciclo produttivo ai quali corrisponde un eccesso dei costi di coordinamento interno rispetto ai costi di transazione, dati i costi di produzione; data invece la struttura dei costi di coordinamento e di transazione, il decentramento economico può essere reso vantaggioso da cambiamenti tecnologici che modifichino le scale minime efficienti o i rapporti di complementarità tra le diverse fasi del ciclo produttivo.
Soprattutto a partire dagli anni ottanta, in tutte le economie industriali, con intensità diversa, sono stati realizzati nuovi sistemi di coordinamento tra imprese, anche attraverso innovativi meccanismi di subappalto e di subfornitura, che hanno dato vita ad agglomerazioni produttive basate su un'ampia varietà di soluzioni contrattuali con forte capacità regolativa delle relazioni di mercato.
A questi sviluppi hanno concorso mutamenti tecnologici e fattori politico-istituzionali. La diffusione di avanzate tecnologie nel settore dell'informazione e della comunicazione è un fattore che ha favorito il decentramento produttivo, anche su scala internazionale, grazie alla possibilità di realizzare significative riduzioni nei costi di coordinamento e di delega tra unità produttive diverse (v. Mariotti, 1999, pp. 420 ss.). Un esempio notevole di spinta istituzionale verso il decentramento è offerto dalle riforme 'pro mercato' attuate nella Cina comunista a partire dal decennio 1980-1990, riforme che hanno determinato un ambiente più favorevole alla creazione di reti d'imprese e una conseguente tendenza verso la riduzione della tradizionale importanza delle grandi unità produttive (v. Murakami e altri, 1996).
L'impostazione dei costi di transazione nella linea Coase-Williamson suggerisce che l'integrazione verticale rappresenta un'alternativa efficiente alla pluralità di scambi di mercato che hanno luogo in relazione ai singoli prodotti intermedi o semilavorati. Gli studi sui rapporti di subfornitura nell'industria giapponese e sui distretti italiani, tuttavia, hanno rivelato la persistenza di rapporti di lungo termine tra fornitori indipendenti e imprese capofila nei quali coesistono elementi di mercato e di cooperazione che non si prestano a una rigida alternativa tra le opzioni make e buy, ma suggeriscono piuttosto una 'terza via' fra mercato e gerarchia, definita talvolta come 'appalto relazionale o obbligato' (v. Dore, 1992, p. 66). Si pensi, a questo proposito, ai contratti di subfornitura nelle imprese giapponesi che tendono a essere implicitamente rinnovati per più anni anche quando formalmente hanno durata annuale, introducendo in tal modo un clima di fiducia e di certezza che da un lato incoraggia i subfornitori a effettuare investimenti specifici, anche di particolare complessità e rilevanza, per meglio aderire agli standard del committente, e dall'altro induce le imprese maggiori a non abusare opportunisticamente del loro potere negoziale (v. Holmstrom e Roberts, 1998, pp. 80 ss.). Vari meccanismi di interdipendenza - quali, ad esempio, accordi finanziari, partecipazioni incrociate, collaborazioni manageriali non limitate allo scambio di beni materiali, ma estese a elementi intangibili (progettazione, know how) - concorrono poi a sostenere la stabilità delle relazioni cooperative di subfornitura (v. Hollingsworth, 1997, pp. 279 ss.). È importante precisare che questo tipo di decentramento non contingente, capace di generare reti di imprese inserite in ambienti sociali coesi (come nel caso dei distretti industriali italiani e come avviene talvolta nei settori industriali dei paesi in via di sviluppo), può concretarsi sia in rapporti gerarchici tra imprese (come nel caso giapponese), sia in relazioni tra imprese piccole su base 'paritaria' (come nei distretti italiani: v. Brusco e Paba, 1997). Dal confronto tra le tipologie delle relazioni di subfornitura esistenti in due grandi case automobilistiche, una statunitense, la General Motors, e una giapponese, la Nissan, emergono significative specificità (v. tab. II): l'impresa giapponese intrattiene rapporti con un numero molto minore di subfornitori rispetto all'impresa americana, tende a riassegnare i contratti agli stessi subfornitori in misura molto maggiore e non vi è quasi nessun caso di rottura anticipata dei contratti, mentre ciò si verifica in un'altissima percentuale di casi nella General Motors. In breve, nel caso giapponese la stabilità e l'intensità dei rapporti di subfornitura definiscono una sorta di 'fabbrica allargata', mentre nel caso americano i rapporti più instabili, più conflittuali e meno densi denotano un più netto confine tra impresa e subcontraenti.
c) Integrazione verticale, disintegrazione e rapporti di lavoro.
Il dibattito sui distretti industriali italiani e sul sistema giapponese di subfornitura ha insistito sugli aspetti progressivi del decentramento produttivo in quanto momento costitutivo della performance della rete di imprese, sottolineando che il decentramento potrebbe riflettere da un lato l'idea che i contratti d'opera offrano maggiori motivazioni al lavoro rispetto ai contratti di occupazione, e dall'altro l'idea che il 'capitalismo imprenditoriale' di tipo molecolare favorisca una maggiore prontezza decisionale rispetto al 'capitalismo manageriale' basato sulle grandi dimensioni d'impresa.
È tuttavia ben noto che il decentramento produttivo tende a rendere più fluide le transazioni nel mercato del lavoro, transazioni che, non di rado, assumono forme negative sotto il profilo della qualità dei rapporti di lavoro e dei livelli salariali. È inoltre accertato che il decentramento produttivo e i rapporti di fornitura in conto terzi offrono all'impresa maggiore l'opportunità di trasferire una parte dei rischi di mercato alle imprese subfornitrici, la cui minore dimensione è stata spesso presentata come un fattore di flessibilità, anche grazie al fatto che queste ultime riescono a eludere in tutto o in parte le regolamentazioni dei mercati del lavoro cui sono soggette le grandi imprese. In questo senso, non si apprezza pienamente la nozione di impresa come istituzione alternativa agli scambi contrattuali sul mercato dei prodotti se non se ne sottolineano le implicazioni per il mercato del lavoro.
Il processo di integrazione verticale, infatti, comporta che gli scambi sul mercato dei beni intermedi e dei semilavorati siano sostituiti dall'assunzione di lavoratori dipendenti il cui compito è produrre quegli stessi beni all'interno dell'impresa; di conseguenza, l'insieme dei contratti di lavoro tra il titolare dell'impresa e i dipendenti 'sostituisce' l'insieme dei rapporti di scambio di beni nel mercato. Ne deriva che se l'integrazione verticale comporta che il titolare dell'impresa controlli un notevole numero di contratti di lavoro, il decentramento economico è anche un processo di destrutturazione dei rapporti di lavoro.
In particolari contesti, perciò, il decentramento produttivo può agire come dispositivo di regolazione delle relazioni industriali. Si consideri ad esempio un imprenditore che fronteggi l'alternativa tra integrare due o più processi lavorativi o decentrarne alcuni. Nella soluzione integrata, egli dovrà prepararsi a condividere con i lavoratori il surplus di produzione secondo qualche procedura negoziale; nella soluzione decentrata, invece, questo dev'essere diviso tra l'imprenditore, i lavoratori e il subfornitore, e pertanto sarà ovviamente la soluzione preferita se a essa resta associato un più alto livello di surplus (in questo caso il decentramento permette prestazioni più efficienti nelle singole fasi separate, a condizione che sia possibile giungere a un accordo tra l'imprenditore e il suborfornitore circa la spartizione del surplus al netto dei salari). Il decentramento può tuttavia essere preferito dall'imprenditore cui spetta inizialmente la decisione anche nel caso in cui comporti una (inefficiente) riduzione del surplus globale, a condizione che il profitto del committente sia maggiore rispetto a quello offerto dalla soluzione integrata. Questo può avvenire, tra altre ragioni, o perché l'impresa subfornitrice riesce a pagare salari sufficientemente bassi, oppure perché il decentramento può erodere il potere contrattuale delle maestranze abbassando anche i salari pagati dall'impresa che attua il decentramento. In altri termini, anche se il decentramento obbliga l'imprenditore a cedere una parte del surplus al subfornitore, tuttavia tale sottrazione non riguarda solo il suo profitto, bensì anche il guadagno dei lavoratori. Nei paesi economicamente avanzati il crescente ricorso all'outsourcing riflette molto spesso l'orientamento delle imprese a concentrare il proprio impegno produttivo e finanziario sulle attività fondamentali (core business), facendo affidamento su fornitori esterni per quei beni e servizi ritenuti secondari e che possono essere acquisiti sul mercato a costi inferiori (si pensi, ad esempio, ai servizi di pulizia e manutenzione o al trattamento elettronico dei dati; v. Rees e Fielder, 1992; per il caso giapponese, v. Elger e Smith, 1994). È poi confermato che molte imprese - soprattutto, ma non solo, negli Stati Uniti (cfr. "The Economist", The ins and outs of outing, 31 agosto 1991, p. 62) - fanno ricorso all'outsourcing con l'obiettivo esplicito di ridurre l'influenza dei sindacati (talvolta attraverso la modificazione delle pratiche di lavoro e dei rapporti contrattuali: v. Benson e Ieronimo, 1996, p. 66). A questo riguardo, si è potuto mostrare che tali pratiche hanno effettivamente contribuito a uno schiacciamento della dinamica salariale nei paesi industrializzati, soprattutto in conseguenza dell'accentuata competizione fra i lavoratori meno qualificati (v. Feenstra e Hanson, 2001). Risultati analoghi ha prodotto il crescente utilizzo di forme di lavoro temporaneo e di rapporti lavorativi destrutturati, unitamente alla diffusione delle pratiche di outsourcing e di decentramento produttivo (v. Estevôo e Lach, 1999). È questo, com'è noto, un tratto sul quale avevano insistito, a partire dalla fine degli anni sessanta, i primi studi sul decentramento produttivo in Italia, che avevano proposto una interpretazione del decentramento come strategia contingente delle imprese maggiori volta a contrastare l'aumento dei costi del lavoro provocato dalle rivendicazioni salariali nella stagione degli scioperi 1968-1973, dando all'esterno il lavoro a imprese piccole meno sindacalizzate e con costi del lavoro più bassi (v. Brusco, 1989, pp. 59 ss.). Questo aspetto riacquista oggi rilievo nelle pratiche di outsourcing, soprattutto nella dimensione internazionale, dove i salari tendono a subire un progressivo schiacciamento a mano a mano che si scende nella catena della subfornitura. Ciò non significa, tuttavia, che il basso livello dei salari nei paesi destinatari delle fasi produttive delocalizzate sia la causa principale del decentramento. Innanzitutto, i costi del lavoro nei settori manifatturieri dei paesi in via di sviluppo rappresentano generalmente una frazione molto piccola dei costi totali (per l'industria tessile dell'India, v. i riferimenti in Cawthorne e Kitching, 2001, p. 460) e potrebbero essere quindi significativamente aumentati senza rilevanti conseguenze sul prezzo di offerta dei beni. In secondo luogo, i fattori di costo non spiegano perché, ad esempio, i circuiti dei calcolatori siano fabbricati a Taiwan e Singapore, mentre la produzione dei componenti delle automobili sia decentrata dai produttori europei e nordamericani a paesi come il Brasile o il Messico. Per capire questi aspetti, si deve rammentare che la frammentazione internazionale della produzione si basa in parte su differenziali di costo del lavoro, ma richiede poi un 'ambiente' capace di strutturare i singoli blocchi della produzione (sul ruolo del settore dei servizi nel coordinamento dei frammenti della produzione decentrata, v. Deardorff, 2001). Per comprendere la direzione dei processi di dispersione geografica della produzione occorre pertanto tenere presenti le caratteristiche sistemiche dei paesi coinvolti (qualità della forza lavoro, grado di sviluppo delle infrastrutture, considerazioni geopolitiche), piuttosto che la semplice dimensione dei vantaggi di costo.
4. Integrazione verticale e decentramento produttivo: le tendenze di lungo periodo nelle economie industrializzate.
Come ha mostrato il caso italiano, il fenomeno del decentramento produttivo nel settore industriale è strettamente associato sia a quello della diffusione delle piccole imprese, anche se ovviamente non si identifica con esso, sia a quello del grado di integrazione verticale. Livelli di integrazione verticale significativamente minori di quelli osservati nei maggiori paesi industrializzati a livello di sviluppo comparabile costituiscono infatti una specificità storica dell'economia italiana, caratterizzata da un ampio ricorso a modalità organizzative della produzione industriale basate su rapporti tra imprese (si è talvolta parlato di 'capitalismo imprenditoriale') piuttosto che sulla grande dimensione (cui ha storicamente corrisposto il modello del 'capitalismo manageriale'). L'andamento storico degli indicatori di integrazione verticale (e in alcuni casi di concentrazione industriale) e della diffusione relativa delle imprese di minori dimensioni può quindi fornire una traccia sintetica, 'in trasparenza', dei sottostanti processi di decentramento produttivo.
Pur tenendo presenti le specificità nazionali e la diversità dei punti di partenza dell'esperienza di sviluppo dopo la seconda guerra mondiale, gli studi sulle maggiori economie industriali sono per lo più concordi nel caratterizzare la fase di rapida crescita che va dagli anni cinquanta fino alla metà degli anni settanta del Novecento (da tempo definita come l''età dell'oro' fordista-keynesiana, durante la quale prevalevano le grandi imprese a ciclo continuo in un contesto di stabilità macroeconomica e di accentuato interventismo pubblico nell'economia) nei termini di una generale tendenza verso crescenti livelli di integrazione verticale e di concentrazione industriale, nonché verso una perdita di peso relativo delle imprese di minori dimensioni. Questa tendenza si inverte tra gli anni settanta e gli anni ottanta in tutti i maggiori paesi. Si tratta di un fenomeno generale, anche se l'intensità della svolta è diversa nelle singole esperienze nazionali (in Italia presenta tratti più accentuati: v. Traù, 1999, Il riemergere ..., pp. 82 ss.). Gli indici di integrazione verticale - spesso misurata dal rapporto valore aggiunto/fatturato, il cosiddetto 'indice di Adelman' (v. Adelman, 1955, pp. 284-285) - mostrano nelle imprese, soprattutto nelle maggiori, una chiara tendenza verso la disintegrazione, associata alla contrazione dei livelli occupazionali (downsizing), e verso un crescente ricorso all'acquisizione esterna di servizi e beni materiali. Intorno al 1997, l'indice di Adelman nella manifattura italiana era pari a circa il 27°, contro valori di poco inferiori al 40° nel biennio 1972-1974, ma una significativa riduzione si è verificata anche in Germania, Francia e Regno Unito (v. Arrighetti, 1999, pp. 124-132). Si tratta di un fenomeno generale che caratterizza la quasi totalità dei rami d'industria. In Giappone i rapporti di subfornitura rappresentano attualmente tra il 30 e il 40° dei costi delle imprese manifatturiere, contro il 20° del decennio 1960-1970.
L'outsourcing reso possibile dalla decomponibilità della produzione ha registrato un significativo incremento negli ultimi vent'anni nel quadro della delocalizzazione internazionale delle imprese. Secondo alcune stime, tra il 1972 e il 1990 questo tipo di outsourcing sarebbe raddoppiato negli Stati Uniti (v. Feenstra e Hanson, 1996, pp. 3-4).
L'importanza del decentramento di fase è stata recentemente sottolineata anche in riferimento al processo di internazionalizzazione delle imprese italiane. Si è stimato che nei comparti del made in Italy la frazione di produzione interna delocalizzata a imprese straniere dopo il 1990 potrebbe avere raggiunto il 15° (v. Schiattarella, 1999, p. 217).
Poiché il punto di svolta della tendenza storica nel processo di integrazione-disintegrazione si colloca negli anni settanta, è diventato quasi un luogo comune interpretare la turbolenza sperimentata dalle economie industriali in quel decennio (fine del sistema di Bretton Woods, crisi petrolifere, accentuazione dei processi di globalizzazione e di liberalizzazione dei flussi di capitale) come la causa principale della crisi delle grandi imprese. L'aumentata incertezza sistemica, il deciso rallentamento dei tassi di crescita macroeconomici, la competizione dei paesi emergenti sono tutti fattori che avrebbero fatto venire meno la convenienza economica della produzione di grande scala sulla quale le imprese maggiori avevano costruito le loro fortune. Oltre a questi fattori ha poi giocato a favore della disintegrazione dei processi produttivi una crescente disponibilità di modelli organizzativi in grado di 'tenere insieme' i diversi e autonomi elementi della catena del valore, dalle tradizionali forme di subfornitura fino alla 'fabbrica virtuale' (si pensi al caso di rinomati fabbricanti di capi di abbigliamento la cui dimensione produttiva si basa massicciamente sull'outsourcing, su una dotazione relativamente limitata di attività 'fisiche' di base e sulla capacità di funzionare come potenti dispositivi di marketing grazie al controllo del marchio).
Non vi è però pieno accordo tra gli studiosi sul significato e sulla portata della cesura che negli anni settanta si sarebbe determinata tra una forma fordista di sviluppo industriale, centrata sulla grande dimensione, e una fase post-fordista, tendenzialmente caratterizzata da un capitalismo a struttura molecolare. Molti elementi concorrono in effetti a rendere sfumati i confini tra le due fasi, implausibile la nozione di rottura epocale tra i due paradigmi di produzione, errata l'idea che l'organizzazione dei diversi capitalismi stia procedendo in un'unica direzione.
In primo luogo, il decentramento produttivo non è un fenomeno univoco. Accanto agli aspetti di innovazione sistemica della fase post-fordista (dall'elevata capacità delle reti di imprese piccole e flessibili di fronteggiare la turbolenza dei mercati, alla produzione basata su ampie gamme di prodotti personalizzati, all'utilizzo delle opportunità offerte dalle economie di localizzazione, anche di tipo distrettuale), il paradigma della specializzazione flessibile presenta tratti regressivi, che si manifestano in particolare nella stretta correlazione tra pratiche di decentramento-outsourcing e precarizzazione dei mercati del lavoro nei paesi industriali e nell'accentuazione della dimensione 'imprenditoriale' del modello di produzione post-fordista a scapito delle tutele del lavoro e della stabilità occupazionale compatibili con il modello 'manageriale' fordista-keynesiano (v. Pollert, 1991).
In secondo luogo, appare oggi in fase regressiva la tendenza verso la scomposizione della produzione che solo pochi anni fa sembrava inarrestabile, tanto da avere alimentato la retorica di un mondo progressivamente demassificato e decentralizzato, fondato su imprese sempre più piccole, agili e leggere. Il drammatico blocco della crescita dell'economia giapponese dopo il 1990 e il riemergere di problemi di ritardo tecnologico nel comparto delle piccole imprese italiane sono indizi di una possibile stanchezza del modello basato sulla frammentazione produttiva, mentre i numerosissimi casi di fusioni (talune di dimensione gigantesca) che hanno caratterizzato il decennio 1990-2000 e che si sono verificate, in Europa e negli Stati Uniti, tanto nei vecchi comparti manifatturieri, quanto nei nuovi settori legati all'economia dell'informazione e delle comunicazioni (nel 1998 vi sono state sette delle dieci maggiori fusioni della storia americana), puntano a una nuova centralità della grande dimensione nel contesto dei processi di internazionalizzazione delle economie industriali, anche in direzione di nuove forme di controllo monopolistico dei mercati (Big is beautiful again, era il titolo di un articolo apparso su "The Economist", 21 luglio 2001, pp. 52-54).
In breve, proprio la pluralità delle dimensioni coinvolte nelle pratiche di decentramento, la dialettica di frammentazione e accorpamento di fasi e di imprese e la conseguente indeterminatezza degli effetti netti sulle strutture industriali impedisce di individuare direzioni univoche nei processi storici di riorganizzazione produttiva delle odierne economie capitalistiche.
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