DECIMA
Nel periodo successivo alla conquista normanna del Mezzogiorno, quando l'assetto della Chiesa meridionale fu ristabilito e riorganizzato, i duchi e i conti normanni e poi i re di Sicilia concessero alle sedi vescovili e alle fondazioni monastiche locali, sia latine che greche, possedimenti immobiliari e diritti fiscali che furono loro riconfermati, salvo alcune eccezioni, anche in epoca sveva e angioina. In questo contesto, molti vescovati, monasteri e cappelle della corte reale ricevettero il diritto di riscuotere la decima parte delle rendite fiscali baronali e reali di alcune località e regioni, ovvero la decima statale. Ad esempio, nel 1106 l'arcivescovato di Taranto ottenne da Boemondo d'Antiochia la decima parte di tutte le rendite fiscali del capoluogo della diocesi, mentre il vescovato di Patti esercitò il diritto alla decima statale di Termini Imerese che Ruggero I, nel 1094, aveva concesso al monastero di S. Bartolomeo di Lipari (nel 1130 il vescovo dovette cedere la metà dell'importo di questa decima all'arcivescovo di Palermo). In epoca federiciana, fra i centoquarantacinque vescovati del Mezzogiorno, almeno centosette beneficiarono della decima statale, percepita generalmente nei centri diocesani e nei loro dintorni, ma spesso anche in tutte le località appartenenti a un determinato vescovato, mentre le cappelle di corte percepirono parte delle decime pagate in varie località di diverse diocesi.
Dopo la creazione del Regno di Sicilia (1130), la decima statale delle Chiese più spesso derivava dalle cosiddette baiulazioni, ovvero da un complesso di diritti fiscali di singole località che la Corona aveva affidato all'amministrazione di ufficiali detti baiuli o balivi (lat. baiulus; v.). In particolare la baiulazione includeva i diritti doganali, il diritto per l'utilizzo dei macelli, i censi della popolazione e dei demani reali e i diritti monetari percepiti dagli amministratori della giustizia. Oltre la decima della baiulazione, tradizionalmente le Chiese del Mezzogiorno possedevano diritti giudiziari e fiscali anche sulla comunità ebraica e sulle attività delle tintorie, generalmente di sua competenza (in epoca federiciana questa circostanza è documentata in una ventina di diocesi); inoltre, come privilegi speciali, alcune diocesi ricevettero decime dalle tonnare e dalle saline, mentre altre beneficiarono di diritti fiscali particolari: ad esempio, il vescovo di Chieti riceveva la decima degli introiti derivati dalla tassazione su ponti e porti di Aterno (Pescara), il vescovo di Acerra la decima sul pedaggio a Suessula e quello di Pozzuoli gli introiti demaniali imposti sul porto di Baia.
La redistribuzione dei redditi decimali all'interno dei vescovati talvolta generò conflitti fra le parti interessate, ovvero il vescovo o l'arcivescovo, il suo capitolo (e, nell'ambito di questo, i chierici e i canonici) e le fondazioni ecclesiastiche della diocesi. Ad esempio, nel 1193 l'arcivescovo di Taranto e il suo capitolo entrarono in contrasto per la decima reale della città, dividendola poi, all'inizio del XIII sec., in due parti uguali, l'una destinata al presule, l'altra al capitolo.
Il diritto delle Chiese alla decima statale non fu mai contestato e anche se la baiulazione fu, alla fine dell'epoca normanna, spesso concessa in affitto dalla Corona a privati, la riscossione di queste somme non sembra aver presentato difficoltà particolari.
Durante i primi decenni del suo regno, Federico II lasciò immutato il sistema di sostegno fiscale della Chiesa, cambiandone molti aspetti in seguito, fra il 1231 e il 1232, con l'attuazione di una serie di riforme nell'ambito dell'amministrazione economica del Regno di Sicilia. Nel Liber Augustalis (I, 7, De decimis prestandis) il sovrano confermò il diritto della Chiesa all'esazione della decima, avviando successivamente una serie di inchieste per verificare i diritti decimali delle singole diocesi. Queste inchieste o inquisizioni, che vennero periodicamente avviate sia in epoca sveva che in quella angioina (oggetto delle ricerche, solo in parte pubblicate, di Eduard Sthamer, di Norbert Kamp e di altri studiosi: cf., ad esempio, l'inquisizione eseguita ad Agrigento nel 1264, in Le più antiche carte, 1961, p. 179), potevano essere svolte in tutto il Regno o in una sua provincia (le "inchieste generali" di Sthamer) o in un determinato vescovato (le "inchieste speciali"). Nel 1231-1232 le inchieste condotte da funzionari della Corona, fra cui si distinsero il secreto Matteo Marclafaba (v.), Andrea Logoteta (v.), attivo in Puglia, e Angelo de Marra (v.), attivo nella Terra di Lavoro e in Principato, indussero a introdurre modifiche nel sistema della decima statale. Allo scopo di liberare il fisco dagli obblighi del passato, furono istituiti i cosiddetti nova statuta che, benché rispettassero i diritti dei vescovati sulla decima, sostituirono la tassa decimale con somme stabilite sulla base dei redditi percepiti negli anni precedenti.
Inoltre, in molti casi le Chiese persero i loro diritti esclusivi sulle tintorie e sulle attività svolte dalla comunità ebraica da cui ricavarono solamente una tassa annuale fissa.
Queste riforme sono da considerarsi strettamente legate alla modifica del ruolo dei baiuli, che persero molti dei loro incarichi, affidati a nuovi funzionari statali, quali fundicarii (v.), portolani (v. Magister portulanus) e procuratori del demanio reale: la decima della baiulazione perse dunque il suo significato precedente. Tuttavia, il vecchio sistema delle decime non fu completamente sostituito, ma rimase in vigore accanto al nuovo, cosicché alcuni vescovati ricevevano rendite sia con il 'diritto antico' che con il 'diritto nuovo'. Ad esempio, il vescovato di Bisceglie continuò a percepire la decima della baiulazione e della dogana in città, riscuotendo invece, per il macello locale, una somma prefissata. Come nota Norbert Kamp, la Corona introdusse i nova statuta per non dover ripartire con le chiese i possibili futuri incrementi di guadagno. Allo stesso tempo, l'applicazione dei nova statuta dipendeva dalle somme che il fisco poteva ricavarne: se i guadagni eventuali non erano giudicati bastevoli, rimaneva in vigore il sistema precedente.
Non possediamo dati sufficienti per valutare il peso della decima statale nell'economia delle diocesi del Mezzogiorno al tempo di Federico II. All'inizio dell'epoca angioina, per fare solo qualche esempio, l'arcivescovo di Acerenza e Matera ricevette fra 11 e 15 onze d'oro dalla decima reale, l'arcivescovo di Bari e Canosa ne ricavò più di 28, l'arcivescovo di Brindisi e Oria circa 30 e il vescovo di Bisceglie circa 5. Nei casi citati, i redditi decimali costituivano un'entrata equivalente a un terzo (Bisceglie, Brindisi) e un decimo (Acerenza) degli introiti della sede diocesana.
Nel XIII sec. il Regno di Sicilia era soggetto anche alla decima pontificia, ricavata dai redditi monetari degli enti ecclesiastici e destinata alle casse della Curia romana. La storia della sua introduzione e applicazione nel Mezzogiorno è ancora oggi poco nota a causa della tardiva apparizione nei documenti. I principali fondi archivistici del fisco pontificio, le Collectoriae (i resoconti dei collettori e subcollettori papali) e l'Introitus et Exitus dell'Archivio Segreto Vaticano (a cui si possono aggiungere le informazioni ricavate dai fondi Obligationes et Solutiones e Instrumenta Miscellanea), risalgono all'ultimo quarto del XIII secolo. La fiscalità pontificia, in gran parte una creazione del XII sec., fu, nel corso del secolo successivo, progressivamente estesa a quasi tutta la cristianità occidentale. Sappiamo che, a partire dall'età angioina, le decime furono regolarmente percepite anche nel Regno di Sicilia che costituì una collettoria papale, divisa in due parti, corrispondenti alla terraferma e all'isola.
L'esistenza della decima pontificia è quindi più difficile da provare durante il regno di Federico II e dei suoi figli. La questione fiscale esercitava una grande influenza sui rapporti fra la Chiesa romana e il sovrano vertendo, in particolare, su due aspetti: la gestione delle Chiese vacanti da parte degli ufficiali della Corona (baiuli), contestata dalla Sede Apostolica (cf. Historia diplomatica, IV, p. 140), e la riscossione da parte di essi di una quota dell'eredità dei prelati defunti. È poco probabile che l'amministrazione federiciana abbia incoraggiato l'esazione della decima pontificia nei territori del Regno, essendo ciò contrario ai propri interessi fiscali. Eppure abbiamo alcune notizie sulle collette papali condotte nel periodo compreso fra la pace di San Germano (1231) e la seconda scomunica di Federico II (1239): infatti, nel 1236, l'imperatore protestò vivacemente contro l'imposizione agli ecclesiastici del Regno di una tassa destinata a finanziare le crociate (ibid., V, pp. 464-466, 467-469); nel 1240 l'imperatore, già scomunicato, intimò ai Templari di non inviare più denaro al papa (ibid., p. 728). Tuttavia, non possiamo parlare della riscossione di decime papali vere e proprie nel Regno di Sicilia prima del 1265, anno dell'investitura di Carlo I d'Angiò, che segnò una svolta decisiva per questa problematica.
Le indicazioni che troviamo sulla decima papale del Mezzogiorno nella collezione delle Rationes Decimarum e nella monografia di Norbert Kamp sulla Chiesa meridionale (Kirche und Monarchie, 1973-1982) sono quindi tardive e non offrono informazioni esaurienti. Possiamo solo osservare che la Chiesa del Mezzogiorno era caratterizzata da un gran numero di sedi vescovili rispetto all'estensione del territorio e che molte sedi fruivano di redditi assai limitati. Esaminando il caso della Campania e studiando l'applicazione della decima fra il 1308 e il 1310, vediamo che i vescovati di Capri, Massa Lubrense e Montemarano versavano ciascuno una decima uguale o inferiore a un'onza d'oro, mentre le chiese arcivescovili di Napoli e di Salerno pagavano l'una più di 400 e l'altra più di 200 onze di decima.
Non possediamo dati sufficienti per un calcolo del reddito complessivo derivato dall'imposizione della decima da parte della Sede Apostolica nel Mezzogiorno: all'inizio del XIV sec. doveva trattarsi di una somma che si aggirava intorno alle 3.000-4.000 onze d'oro. Il denaro raccolto in vari vescovati era di origine diversa: spesso derivava dall'imposta fissata sugli introiti del vescovo e del suo capitolo, mentre talvolta, nel caso di sedi vescovili più piccole, gran parte della decima era pagata da monasteri locali. Così, nel 1310, più della metà della decima della diocesi di Ascoli Satriano veniva pagata dall'Ordine teutonico per i suoi possedimenti a Corneto, mentre, nella diocesi di Venosa, la maggior parte di essa veniva versata dal monastero della Ss. Trinità di Venosa.
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